SCROVEGNI
– Resa celebre dalla fortuna letteraria di Rinaldo di Ugolino Scrovegni (collocato da Dante nel settimo cerchio tra gli usurai, Inferno, XVII, 64-75) e di suo figlio Enrico (Padova 1266 circa - Venezia 1336) committente di Giotto, questa casata padovana ha in realtà origini relativamente antiche.
Tali origini si ricollegano (cfr. Collodo, 1990) alla famiglia de Saurellis, documentata già nel XII secolo, con una base patrimoniale-fondiaria a est di Padova, fino a Chioggia (dogado di Venezia).
Tra le terre possedute, una, denominata «peta de Scrufa» diede prima il soprannome poi, tra gli anni Venti e Trenta del Duecento, il cognome di Scrovegni alla famiglia e lo stemma con la scrofa.
Nel 1146 i Saurelli abitano a Padova in strada Maggiore, nei pressi del duomo. Un Belloto, campsor, figlio del dominus Ugolino Saurelli, risulta prestatore a due vescovi padovani nel 1228-30, e fu uno dei garanti, nel 1235, di un trattato di pace tra Padova e Venezia. La famiglia godeva dunque di notevole rilievo assai prima della nascita di Rinaldo di Ugolino Scrovegni: ebbe stretti legami con il mondo ecclesiastico locale, godette di prestigio politico, si arricchì con il prestito ed ebbe rapporti con Venezia. È dunque destituita di fondamento l’opinione secondo la quale gli Scrovegni due-trecenteschi sarebbero stati protagonisti di un’affermazione sociale recente, così come il conseguente corollario a proposito dell’erezione della cappella affrescata da Giotto (cfr. infra), cui Enrico sarebbe stato obbligato in sconto dei propri peccati e per salvare l’anima del padre dannato, sepolto comunque in duomo senza che nessuno si opponesse.
Quanto alle celeberrime testimonianze letterarie e storiografiche del primo Trecento, è noto che nella narrazione della Commedia Dante incontrò Rinaldo Scrovegni, identificato dalla scrofa sullo stemma dipinto sopra la tasca dei contanti appesa al collo, in compagnia di due altri padovani suoi parenti (Vitaliano Dente e un membro della famiglia Linguadivacca) e degli esponenti di tre famiglie fiorentine (Gianfigliazzi, Ubriachi e Becchi); i versi dell’Inferno furono scritti ben dopo le consacrazioni (1303, 1305) della chiesa eretta da Enrico, come ha osservato Chiara Frugoni. L’opinione sull’origine recente e socialmente bassa fu sostenuta già nel terzo decennio del Trecento da Giovanni da Nono, feroce critico degli Scrovegni, nell’opera De generatione aliquorum civium urbis Padue tam nobilium quam ignobilium.
Nella prima testimonianza scritta a oggi conosciuta, Rinaldo si trova a Venezia nel 1249 come testimone (citato senza titolo di distinzione sociale) al rogito del testamento di Iacoba a Vado (o da Vo’), figlia del fu dominus Ruggero, membro di una già potente famiglia, assassinato durante la dominazione in Padova di Ezzelino III da Romano (signore dal 1237). Quanto alla sua attività di prestatore, la prima attestazione è un reclamo di credito del 1261. Rinaldo seguì le orme degli antenati Saurelli, facendo parte dell’entourage vescovile sia come esattore delle decime, sia come destinatario di investiture feudali (anche di castelli) come quelle dei vescovi di Padova negli anni 1268, 1283 e 1288. Egli seguì la prassi dell’acquisizione di diritti su ampie estensioni di terra, ottenute da creditori verosimilmente in pagamento di prestiti in sofferenza; il medesimo modus operandi fu applicato anche dai figli, che presto ottennero il titolo di milites.
Le ricerche di Silvana Collodo hanno individuato due tipologie di credito adottate da Rinaldo Scrovegni: il prestito a privati, che come si è accennato spesso rimborsarono in terre, e quelli ‘di pubblica utilità’, come il grosso prestito del 1284 accordato a Gherardo da Camino, da poco signore di Treviso, o quelli concessi al Comune di Vicenza, allora sotto la ‘custodia’ (o meglio, il dispotico governo) del Comune di Padova. Non è irrilevante tuttavia osservare che, negli atti di prestito di Rinaldo (e di Guglielmo Dente) del 1284, con grande oculatezza ci si metteva al riparo contro eventuali accuse di usura con formule per cui il sovrappiù al capitale (sors) non risultava come interesse ma come ‘pena’, pur espressa in un 10-15-20% annuo, dovuta per l’incapacità di ripagare l’enorme debito all’impensabile scadenza di un solo mese.
Secondo Giovanni da Nono, Rinaldo ammassò, attraverso l’usura e l’accumulo di terreni e feudi d’origine vescovile, un patrimonio stimabile a mezzo milione di lire, mentre il nipote, Pietro di Belloto, vantava un patrimonio da 100.000 lire. Rinaldo di Ugolino Scrovegni morì tra l’8 novembre 1287, data del suo ultimo mutuo conosciuto al Comune di Vicenza, e il 17 ottobre 1289, data della quietanza del medesimo mutuo, stesa a nome di Manfredo, filius olim domini Raynaldi Scrovegni.
Rinaldo ebbe probabilmente un figlio naturale (poi riconosciuto) di nome Gutifredo, nato attorno al 1263 e mandato a Vicenza nel 1283 con la procura del padre a gestire un grosso prestito della famiglia al Comune; secondo Giovanni da Nono il patrimonio di Gutifredo era stimato poco meno di quello di Pietro di Belloto (cfr. supra). Dei nove figli legittimi sopravvissuti di Rinaldo e di sua moglie Capellina, figlia di Enrico Malacapella, conte di Vicenza, tre erano maschi; Enrico, ultimo di tre, ebbe il nome del nonno materno. Dal primo atto, del 1287 (quietanza, su incarico di Rinaldo, di un prestito al Comune di Vicenza), che nominava Enrico, si deve dedurre che nacque almeno nel 1266. I fratelli Belloto (il primogenito) e Manfredo furono entrambi prestatori.
Belloto, che premorì al padre, ebbe due figli, Agnola e Pietro. Pietro diventò giudice nel 1286 e si dedicò con grande successo al prestito; morì entro il 1310. Gli fu risparmiato di assistere nel 1320 all’assassinio dei figli Gaboardo e Rinaldo II, favorevoli a Cangrande Della Scala nelle lotte per il potere interno alla città di Padova. Manfredo, anch’egli giudice, fu eletto podestà di Vicenza nel 1292. Diede la figlia Bartolomea in sposa a Marsilio da Carrara ed ereditò la casa di famiglia in strada Maggiore e le operazioni finanziarie del padre, morendo nel 1297.
Le sei sorelle di Enrico furono tutte, tranne Costanza di cui non è noto il matrimonio, date in sposa a famiglie di rango, specie padovane: Alessandrina (?) sposò Frassalasta Capodivacca, uno dei garanti del prestito fatto a Gherardo da Camino nel 1284; Adeleta, Albertino Papafava da Carrara; Alice, Forzatè Forzatè; Leonora, Giacomo Patario; Beatrice, Vitaliano di Guglielmo di Alberto Dente-Lemizzi, morto nel 1311 (il prestatore ricordato da Dante tra gli usurai padovani).
Vero capo della famiglia fu Enrico, uomo politico, proprietario terriero, prestatore di denaro, benefattore, mecenate. Sposò in prime nozze una figlia – di cui non conosciamo il nome – di Bonifacio da Carrara, e sorella di Ubertino da Carrara, da cui ebbe due figlie: Capellina, che portò il nome della nonna paterna, e Agnese. Dopo la morte della prima moglie in data e circostanze sconosciute, Enrico sposò in seconde nozze, verosimilmente entro il 1310, Iacobina, figlia del marchese Francesco di Obizzo d’Este e di Orsina Orsini. Da Iacobina Enrico ebbe almeno altre tre figlie: Orsina, chiamata come la nonna materna, Giovanna e Caterina, e successivamente due figli. Riuscì a collocare tutte le cinque figlie, della prima e della seconda moglie, in famiglie di alto rango.
Capellina contrasse un primo matrimonio con Guido da Lozzo, padovano, che l’avrebbe ripudiata, e poi con Vinciguerra Sambonifacio, morto in guerra contro Cangrande Della Scala nel 1317 (nel 1334 è esecutrice testamentaria, con la sorellastra Caterina, di Leonora, sorella di Enrico). Orsina sposò prima Bertoluccio di Porcia, poi Gianfurlano Della Torre, della già potente famiglia milanese (vescovo di Padova fu a lungo Pagano Della Torre, 1302-19, prima che passasse al patriarcato di Aquileia). Giovanna venne data in matrimonio, tra il 1332 e il 1336 – seconda di tre mogli – a Marco di Giovanni Corner, futuro doge (1365-68), con cui ebbe tre figli. Caterina, come la sorella maggiore, sposò un friulano, Nicolò da Porcia; da vedova abitò a Venezia (era ancora viva nel 1382).
I due figli maschi di Enrico e Iacobina, Bartolomeo (morto il 1352) e Ugolino (morto il 1404), avevano meno di vent’anni nel 1336, quando Enrico dettò, poco prima di morire, il suo testamento. Ma è l’esperienza biografica di Enrico, tra l’inizio del secolo a Padova e l’esilio a Venezia (prima volontario, poi coatto) che merita una ricostruzione puntuale.
Il primo decennio del Trecento fu segnato per Enrico da una serie di successi. Nel 1301 egli fu insignito della cittadinanza nobiliare onoraria di Venezia, tamquam civis nacione; fu dilectus filius e familiaris noster (Frugoni, 2008, p. 36) di Benedetto XI (così viene appellato nei documenti papali), godette del consenso cittadino per la chiesa all’Arena, consacrata nel 1303 e nel 1305 (cfr. infra). Nel 1307 fece parte della missione diplomatica presso Azzone VIII d’Este a Ferrara e, nel gennaio 1311, della rappresentanza padovana per l’incoronazione a Milano di Enrico VII di Lussemburgo a re d’Italia. Pochi mesi dopo egli fu il primo oratore padovano a intervenire a un incontro regionale della Parte guelfa che doveva, a parole, sostenere i vani desideri di riscossa contro il governo veneziano di Baiamonte Tiepolo (promotore, l’anno precedente, della nota fallita cospirazione).
In questo momento felice dell’esperienza biografica del giovane (allora trentenne) Enrico Scrovegni si inserisce la straordinaria vicenda della chiesa di S. Maria della Carità, nota come S. Maria all’Arena e successivamente come cappella Scrovegni.
Nel 1300, Enrico aveva acquistato dai Dalesmanini l’intero terreno dell’Arena di Padova (l’antico teatro romano) dove sorgeva un vasto complesso di immobili. Fra il 6 febbraio 1300 e il 29 aprile 1302 chiese al vescovo Ottobono Razzi il permesso di edificare una «piccola chiesa», inaugurata il 25 marzo del 1303, festa dell’Annunciazione; non era aperta al pubblico, ma il 1° marzo 1304 Enrico ottenne dall’amico papa Benedetto XI un’indulgenza plenaria di un anno e quaranta giorni, assai gradita ai concittadini, che l’avrebbero lucrata se – confessati e pentiti – avessero visitato la chiesa durante le feste mariane. Nel 1307 per l’espletamento del culto Enrico installò un preposito che si prendesse cura della sua famiglia, del seguito e di tutti gli abitanti entro il circuito dell’Arena. Il pontefice indicò la chiesa come S. Maria della Carità, un titolo abbastanza raro, scelto probabilmente dal committente, che nonostante il suo profilo sociale voleva ricordare una virtù di cui si pretendeva dotato. Facendo un uso caritatevole delle ricchezze accumulate Enrico le rimetteva in circolo, offrendo ai padovani il modo di abbreviare le pene del purgatorio nonché la gioia di ammirare le opere degli artisti allora più famosi: le sculture di Giovanni Pisano e gli splendidi affreschi di Giotto (ai quali si riferisce Francesco da Barberino, che era a Padova fra il 1304 e il 1308, nei Documenti d’Amore).
Con la bolla di Benedetto XI la cappella da luogo di preghiera familiare e privato si trasformò in chiesa aperta al pubblico. L’indulgenza attirava folle di visitatori che trovavano pieno appoggio emotivo nel ciclo affrescato, il più esteso nell’Italia medievale dedicato alla Vergine. La chiesa, ricorderà lo Scrovegni nell’atto di dotazione della chiesa del 1317, era stata «costruita a spese proprie», «ad onore e vantaggio della città e del Comune di Padova e a suffragio dell’anima sua e dei suoi predecessori» (Frugoni, 2008, p. 81).
I frati eremitani dell’attigua chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo, che si sentivano minacciati nella cura d’anime, il 9 gennaio del 1305 rivolsero un energico reclamo al nuovo vescovo Pagano Della Torre per la trasformazione edilizia e di destinazione d’uso dell’edificio, portato a termine dal «nobile e potente cavaliere ‘dominus’ Enrico Scrovegni, magnifico cittadino di Padova». Ottennero soltanto l’abbattimento di un grande campanile e il riassetto dell’arco trionfale. Le modifiche permisero però una nuova consacrazione, il 25 marzo 1305, per la quale Enrico ottenne dal Maggior Consiglio di Venezia che gli fossero accordati «de pannis sancti Marci», probabilmente le preziose tovaglie che ricoprivano l’altare maggiore di S. Marco (ibid., rispettivamente pp. 40, 48). Dal 1306 la festa dell’Annunciazione con relativa processione e sacra rappresentazione divenne una festa annuale patrocinata dal Comune che terminava davanti a S. Maria della Carità.
Lo Scrovegni si fece rappresentare con grande evidenza al centro del Giudizio universale affrescato sulla controfacciata, collocandosi risolutamente fra gli eletti, mentre offre alla Vergine fra due santi il modellino della sua chiesa – un’iconografia propria dei papi e dei sovrani –. Il modellino era sostenuto anche da un canonico regolare di s. Agostino per ricordare che Enrico manteneva una piccola comunità religiosa. Da vivo lo Scrovegni commissionò la statua ora nella sacrestia, che lo ritrae in piedi con le mani giunte, molto rassomigliante al ritratto affrescato, con la scritta in termini profani e autocelebrativi: «Propria figura domini Enrici Scrovegni militis de l’Arena». S’ignora l’originaria ubicazione, forse in una nicchia esterna del lato nord della cappella di fronte al palazzo dello stesso Enrico. Lo Scrovegni è presente una terza volta nell’abside della chiesa, disteso sul suo letto funebre (la statua è certo posteriore alla morte), come prescrisse nel complicatissimo testamento del 12 marzo 1336 (cfr. infra). All’amata chiesa dell’Arena dedicò nell’occasione lasciti perché continuasse a essere officiata, curata e abbellita, mentre del tutto marginale è la parte dedicata ai guadagni illeciti con restituzioni più velleitarie che reali. In realtà Enrico, nel testamento, fondava le dettagliate elargizioni e i lasciti sul nulla, perché legati alla più che problematica restituzione del patrimonio padovano e vicentino che Marsilio da Carrara gli aveva per intero sottratto dal 1328. Va dunque cancellata l’immagine di Enrico peccatore pentito, committente di S. Maria della Carità per espiare il peccato di usura suo e del padre, sostituita da quella, nell’intenzione del committente, di pio benefattore e generoso mecenate.
Ben sei episodi del ciclo affrescato sono dedicati ai genitori di Maria, Gioacchino e Anna, mai nominati dai Vangeli, le cui storie sono raccontate solo dai Vangeli apocrifi, divulgati dalla Legenda aurea del domenicano Iacopo da Varazze (composta intorno alla fine degli anni Settanta del Duecento). Il vecchio Gioacchino era stato cacciato dal Tempio perché sterile, segno, nell’Antico Testamento, di una vita nel peccato. Umiliato, si era rifugiato fra i pastori, ma dopo alcuni mesi venne a sapere da un angelo della prossima nascita di Maria. Il Signore aveva premiato l’uso generoso delle ricchezze di Gioacchino, dispensate ai poveri e alle esigenze del tempio: un’allusione al lodevole comportamento del committente. In tutto il ciclo dedicato alla vita di Cristo è omesso qualsiasi riferimento al denaro gestito in funzione negativa per impedire paragoni con le attività di Enrico. Nella Cacciata dei mercanti dal Tempio mancano i cambiavalute così come le monete sparpagliate a terra dall’ira di Cristo. Nel Giudizio universale Giuda impiccato è senza borsa, posto fra i simoniaci. All’altezza degli occhi del visitatore sfilano sulle due pareti laterali i Vizi e le Virtù a confronto, personaggi simbolici accompagnati da componimenti in latino ritmico, largamente recuperati quanto a leggibilità da un recente studio: Stultitia-Prudentia, Incostantia-Fortitudo, Ira-Tenperantia, Iniustitia-Iusticia, Infidelitas-Fides, Invidia-Karitas e Desperatio-Spes. Avaritia è stata sostituita da un’insolita Invidia come controparte della Carità, generosa nel donare e «disprezzatrice delle ricchezze terrene». Iustitia e Iniustitia sono l’unica coppia completata da un riquadro che illustra i rispettivi effetti, benefici e malefici, nella vita dei cittadini: un esplicito segnale dell’importanza di questa Virtù e del suo Vizio corrispondente. Iustitia e Iniustitia rappresentano una proposta sottotraccia tesa a magnificare le doti del committente, schierato evidentemente con Iustitia, per suscitare il consenso dei cittadini verso un uomo di potere, che forse sperava di diventare uomo al potere (il grifagno personaggio di Iniustitia, identificato dalla scritta come «il tiranno», sembra alludere a Ezzelino da Romano).
Nel secondo decennio del Trecento, Enrico tentò di mediare un accordo tra i Carraresi e Cangrande; nel 1318, durante una sua missione a Verona, fu saccheggiato ‘a scopo intimidatorio’ il suo palazzo in centro città, poi requisito da Ulrich von Waldsee, vicario di Federico d’Austria, come base operativa delle forze tedesche in Padova. Enrico recepì l’avvertimento e si preparò una via d’uscita dalle feroci lotte di parte padovane: appena sei giorni dopo l’elezione di Giacomo da Carrara come capitaneus e dominus di Padova (25 luglio 1318), si procurò un porto d’armi annuale a Venezia per sé, un socius e due pueri (poi rinnovato per due volte) e forse si trasferì immediatamente con la famiglia. Nel 1320 Rinaldo II, nipote di Enrico, tornò in città per riconciliarsi con la pars carrarese, ma venne ugualmente e platealmente assassinato in piazza da Rizzardo (detto Tartaro) da Lendinara, sostenitore dei Carraresi; Gaboardo, fratello di Rinaldo II, fu ucciso poco dopo mentre cavalcava verso Verona con le forze di Cangrande.
In pratica, da allora Enrico rimase a Venezia, tranne un brevissimo ritorno a Padova nel 1323 e ancora nel 1328, quando sperò per un istante di poter rientrare in Padova conquistata dagli Scaligeri, e governata da Marsilio da Carrara; ma in quella circostanza Marsilio cercò di ottenere da lui ingenti somme in contanti in teoria dovute alla moglie Bartolomea, provenienti dall’eredità del fratello di Enrico, Manfredo. In questa seconda occasione Enrico fuggì nottetempo e questa volta per sempre, dando l’occasione a Marsilio di sequestrare il patrimonio dello Scrovegni, con l’eccezione dell’Arena. In quegli anni, tra il 1325 e il 1328, si susseguirono a Padova omicidi, soprusi e violenze contro uomini e donne del clan Scrovegni da parte dei Carraresi e dei soldati tedeschi che presidiavano la città, ed Enrico dovette accogliere a Venezia la figlia Capellina e la nipote Pera, nonché il nipote ex sorore Marsilietto Papafava, che erano stati costretti a fuggire. Né la situazione si modificò con la conquista di Padova da parte di Cangrande I (1328); il signore veronese e Marsilio da Carrara obbligarono due donne Scrovegni a matrimoni con i figli di due dei propri scagnozzi. L’ultima offesa contro Enrico e la sua famiglia allargata potrebbe essere stato il presunto uxoricidio perpetrato nel 1333, sembra per avvelenamento, da parte di Marsilio da Carrara (che mirava a un altro matrimonio politicamente più utile), della moglie Bartolomea, figlia di Manfredo e nipote di Enrico.
Nonostante i sequestri dei beni da parte di Marsilio da Carrara, Enrico dovette portare a Venezia molto denaro contante perché continuò a fare il prestatore, in grande stile, prima in case prese in affitto, poi in un palazzo proprio; seguendo le orme del padre, operava infatti anche come perno di un’azienda familiare, in quanto i parenti – in primis le sorelle, i nipoti, e la sua stessa moglie – gli consegnavano capitali da investire. A Padova, quando era capofamiglia, aveva sicuramente una sua statio o fenoris tabula nel palazzo in strada Maggiore, anche dopo il trasloco della famiglia all’Arena. A Venezia, continuò a percepire anche gli introiti in natura delle terre infeudate (ad esempio il feudo di Selvazzano, investito ininterrottamente dai vescovi di Vicenza ai suoi antenati – a partire da Rinaldo che lo ebbe prima del 1271 da Bartolomeo da Breganze – sino a lui, che ne ottenne tramite procuratore l’investitura nel 1335, l’anno precedente alla morte).
Nella città lagunare, che conosceva ben prima dell’esilio (basti ricordare il privilegio di cittadinanza del 1301), Enrico risiedette prima nella parrocchia di S. Lio nel 1322, poi in quella di S. Marina (se ne ha testimonianza nel 1327, quando prestò 50 lire di grossi nella forma di una colleganza locale ai notabili Nicolò e Marco Arian). Poi abitò a San Giovanni Novo, (probabilmente vi risiedeva nel 1333-34, quando acquistò dai Viaro una possessio in San Maurizio, tra i canali di San Maurizio e Santa Maria Zubenigo, dove poi costruì il proprio palazzo, forse ricostruendo un edificio preesistente). Ivi ospitò la statio di una famiglia di notai, i Caresini originari di Cremona (padre e due figli, di cui il più noto è il futuro cronista, cancelliere e, dopo la guerra di Chioggia, neopatrizio Raffaino Caresini), che furono i notai di fiducia di tutta la famiglia Scrovegni allargata, sia a Venezia sia a Padova. Dal Liber rationum (una piccola vacchetta-memoriale degli affari economici di Enrico negli ultimi anni, redatta da Raffaino) si apprende ad esempio che anche Leonora sorella di Enrico e la figlia attraverso due preti della cappella dell’Arena mandarono a Enrico somme di denaro da investire in merci; per gli ultimi due-tre anni della sua vita il Liber attesta venticinque atti di prestito (molti a patrizi veneziani di rango); al momento della morte nel novembre del 1336 Enrico vantava crediti in prestiti per quasi 17.000 ducati. I più importanti erano nella forma – considerata lecita – della ‘colleganza locale’, in cui il debitore prometteva di pagare qualche interesse al meglio delle sue capacità nel far fruttare la somma avuta, per una media intorno all’8%. Due clienti sarebbero diventati dogi, Marino Falier e Marco di Giovanni Corner (cfr. supra).
Immigrato di rango, Enrico era iscritto all’estimo dei prestiti forzosi per una cifra altissima, che deve averlo posto tra i primi contribuenti della Serenissima. Teneva poi somme relativamente piccole in deposito presso la Camera del frumento, una specie di banco di Stato, per sé e per i parenti, al 4% di interesse. Poco prima di morire concesse un prestito straordinario di 400 ducati, che versò in contanti all’incaricato del Comune nella sua casa di San Maurizio.
Enrico Scrovegni dettò il suo ultimo testamento a Venezia (Murano) il 12 marzo 1336, sano di mente e di corpo; morì cinque mesi dopo, il 20 agosto 1336. La vedova Iacobina e i procuratori di San Marco funsero come tutori dei figli Bartolomeo e Ugolino ed esecutori testamentari, così come fungeranno anche i figli, raggiunta l’età di vent’anni, continuando gli investimenti del defunto e rinnovando gran parte dei mutui correnti.
Con l’ascesa al potere di Francesco I da Carrara come cosignore di Padova nel 1350, la famiglia Scrovegni tornò a risiedere in città dopo trent’anni di esilio. È nel palazzo dell’Arena che Bartolomeo, figlio di Enrico, fece rogare il suo testamento (dal Caresini, 1351); ivi morì (novembre 1351) e fu sepolto nella chiesa di famiglia. Nel palazzo testò anche (e morì poco dopo, nell’agosto 1365, in età avanzata) sua madre Iacobina, extensis marchionissa e cittadina di Venezia; rogò Giovanni Caresini, e furono esecutori testamentari i procuratori di San Marco, il figlio ed erede Ugolino e Marco Corner (che poco dopo fu eletto doge).
Ugolino, principale esponente della generazione Scrovegni successiva a Enrico, aveva sposato «madonna Luca» dei Rossi di Parma. Fu più volte podestà di Belluno per Francesco il Vecchio da Carrara, ma nel 1388 coi figli (e con la figlia Maddalena: v. la voce in questo Dizionario) si schierò coi Visconti, che conquistarono Padova. Banditi (con altri sostenitori viscontei) nel 1390 al momento della restaurazione della signoria carrarese e successivamente perdonati di malavoglia (1392), gli Scrovegni riottennero il loro patrimonio (confiscato nel 1390) solo alla morte di Ugolino (1404), alla vigilia della conquista di Padova da parte di Venezia. Questa generazione Scrovegni trasferì poi il suo risentimento contro i nuovi dominatori veneziani: Giacomo Scrovegni, prestatore, come da tradizione, figlio di Enrico II di Ugolino, capeggiò una congiura per consegnare Padova a Filippo Maria Visconti, scoperta nell’agosto 1439 dal Consiglio dei dieci, che immediatamente rafforzò la guarnigione di Padova e ordinò l’arresto di sospetti congiurati.
Giacomo riparò a Ferrara giusto in tempo, ma il Consiglio dei dieci fece arrestare e trasferire a Venezia svariati sospettati. I condannati, dopo tortura, vennero banditi, a partire da Paolo Dotti, genero del capo della congiura, che si vide confiscare tutti i beni, a Padova e a Venezia. Il palazzo e la cappella dell’Arena di Padova – punto focale del prestigio familiare degli Scrovegni, voluta e amata da Enrico di Rinaldo ai primi del Trecento – furono venduti dai Dieci, in un primo momento ai Capodilista (padovani), che li rivendettero poi al cardinale Ludovico Trevisan; da costui, passarono ai Foscari. Gli ultimi proprietari furono i nobili Gradenigo, che nel 1827 distrussero il palazzo; nel 1829 iniziarono ad abbattere anche la chiesa, fermati dal Comune di Padova che l’acquistò dopo un’estenuante trattativa durata dal 1817 al 1880.
Si estinse così questa ricca e importante famiglia padovana e, per quasi due decenni, veneziana; il ramo di Giacomo finì in Francia, mentre gli altri rami, a partire dal vecchio zio di Giacomo, Pietro di Ugolino, non ebbero eredi maschi.
Fonti e Bibl.: Fonti e bibliografia completa in C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, Torino 2008 (con albero genealogico e con edizione, traduzione e commento del testamento di Enrico Scrovegni a cura di A. Bartoli Langeli e un saggio di R. Luisi).
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