cirenaica, scuola
Denominazione con la quale viene indicato un indirizzo filosofico greco di derivazione socratica e sofistica, i cui membri sono detti cirenaici. Tale denominazione deriva dalla patria di colui che, secondo una tradizione per lo più rifiutata dagli storici recenti, viene considerato come il suo fondatore: Aristippo di Cirene. Ad Aristippo (morto attorno al 355 a.C.) successe la figlia Arete e a questa suo figlio, Aristippo il Giovane, detto il Metrodidatta, al quale la critica più recente tende a ricondurre la dottrina edonistica così come viene presentata dalle fonti antiche. Alla prima generazione di c. vengono tradizionalmente ascritti Antipatro e Parebate, dei quali non si conosce molto più che il nome; tra gli esponenti del più maturo indirizzo cireanico vanno ricordati Egesia, detto «il consigliere del suicidio» e autore di un trattato Sul suicidio mediante il digiuno; Anniceri, noto per la finezza delle dottrine morali e Teodoro l’ateo, celebre nell’antichità per il suo proverbiale ateismo. Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 85), ricorda come questi avessero dato origine a tre diversi orientamenti all’interno della scuola, pur senza fondare – come alcune fonti antiche e diversi studiosi moderni sostengono – una scuola filosofica autonoma. La scuola c. fu attiva fino almeno al 3° sec. a.C., data oltre la quale non si hanno più notizie di questo indirizzo filosofico, probabilmente oscurato dall’affermarsi della scuola epicurea, con la quale i c. furono in polemici rapporti nel tentativo di distinguere il significato del concetto di piacere propugnato da ciascuno. Come per le altre scuole di derivazione socratica, l’interesse centrale della scuola c. è eminentemente etico, ma costruito su un fondamento gnoseologico ben definito, che sembra metterne in luce anche le ascendenze sofistiche. L’uomo può conoscere soltanto le proprie affezioni, originate dai mutamenti che si determinano attraverso l’esperienza del mondo esterno tanto nel corpo che nell’anima. Unico criterio di verità è dunque la sensazione, che è anche il solo criterio dell’azione, la sola regola di condotta. La sensazione è, in ultima analisi, movimento; se questo movimento è lieve e dolce, genera piacere; se è rude e violento, dà origine al dolore. Il piacere è il fine ultimo della vita dell’uomo che, al pari degli altri animali, vi tende naturalmente, fuggendo con determinazione il suo contrario, il dolore. In aperto contrasto con le posizioni epicuree, il fine delle attività umane non è «il piacere in riposo» (ἡδονὴ καταστηματική), derivante dall’assenza di dolore, ma «il piacere in movimento» (ἡδονὴ ἐν κεινήσει), il piacere presente, che si esaurisce nella sensazione, e come tale è sempre particolare e circostanziato (μονόχρονος). Ogni piacere, in quanto tale, è bene; non esiste una reale differenza tra piaceri buoni e cattivi ma soltanto tra piaceri più o meno intensi. La virtù coincide con una condizione permanente di dominio di sé in cui si alternano momenti di piacere e di dolore. L’etica c. – e qui sta uno dei maggiori punti di contatto con la scuola cinica – si risolve dunque nella sostanziale svalutazione di ogni realtà (legge, famiglia, Stato, religione) che superi il puro interesse individuale e che non assuma quei valori come relativi, cioè potenzialmente utili nella ricerca individuale del piacere.