Scuola di demografia e statistica
Parlare di una scuola di demografia e statistica individuandone genesi ed evoluzione nel periodo tra l’unificazione italiana e la metà del secolo successivo significa richiamare non soltanto il dibattito culturale e scientifico, nonché lo sviluppo accademico delle due discipline, ma anche analizzare l’evoluzione amministrativa del nuovo Stato unitario e il dibattito politico-ideologico che si sviluppa soprattutto con l’aprirsi del nuovo secolo. Nel corso dei quasi cento anni intercorsi tra l’unificazione italiana e la metà del Novecento, la ricostruzione dell’evoluzione della statistica ufficiale, che permette alle discipline quantitative di diventare parte degli strumenti di governo istituzionale e di organizzazione amministrativa del nuovo Regno, dà conto in maniera egregia dello sviluppo del pensiero politico e dell’analisi economica.
Negli ultimi centocinquant’anni, l’analisi economica, demografica e sociale si è dovuta progressivamente attrezzare per cogliere e studiare i cambiamenti veramente radicali degli eventi e dei comportamenti. Tali cambiamenti, relativi sia ai mutamenti del contesto, sia alle pratiche di vita, sia alle evoluzioni qualitative di rappresentazione culturale, hanno imposto un allargamento dei campi d’indagine disciplinari (e delle modalità di osservazione e di analisi) per adeguare le ricostruzioni e le letture empiriche alla complessità dei fenomeni. Lo sviluppo della statistica e più in generale delle metodologie di analisi quantitative, la nascita e l’affermarsi di nuove teorie demografiche, economiche e sociali e lo sviluppo di discipline sostantive affini di cui l’interpretazione socioeconomica tende a valersi, richiamano la necessità di progettazione e acquisizione delle statistiche sulla popolazione e sui macro e microfenomeni in cui essa è coinvolta, che continuamente cercano di rispondere alle nuove esigenze di interpretazione.
Se si guarda all’evoluzione della statistica nel Paese, si comprende come la statistica, la ‘statistica demografica’ e poi la statistica economica coincidano per lunghi periodi con lo sviluppo della statistica ufficiale, e abbiano avuto in alcuni momenti una posizione di grande importanza, a partire dal riconoscimento ottocentesco dell’aritmetica politica quale metodo per il buon governo della cosa pubblica. L’applicazione del metodo quantitativo basato sulla raccolta dei dati aggregati per conoscere i numeri e le strutture della popolazione e dei suoi comportamenti porta, lungo il Novecento, a un progressivo processo di autonomia tra la demografia, la statistica economica, l’economia e la statistica tout court e, dopo la forte integrazione e concordanza tra statistica, statistica pubblica e demografia tra gli anni Venti e Trenta, si assiste a un progressivo distacco degli ambiti, che sarà con il tempo sempre più marcato (De Sandre, Favero 2003).
L’assetto unitario del Regno appena formato spingeva a valorizzare l’‘aritmetica politica’ come descrizione della popolazione nella sua dinamica essenziale e delle sue risorse, finalizzata principalmente a obiettivi di amministrazione dello Stato.
Le opere degli aritmetici politici che si erano affermate in Europa avevano già avuto una profonda influenza anche sul dibattito politico e culturale italiano. La traduzione a cura di Roberto Gaeta e Gregorio Fontana dell’opera più conosciuta di Abraham de Moivre (La dottrina degli azzardi applicata ai problemi della probabilità della vita, alle pensioni vitalizie, reversioni, tontine ecc., 1776) aveva non poco contribuito alla diffusione delle teorie e dei primi metodi quantitativi applicati ai dati empirici sviluppati dagli aritmetici politici nord europei. La costruzione delle prime tavole di mortalità applicabili a problemi e tematiche nel campo delle assicurazioni a opera dei primi scienziati dell’Europa settentrionale si era diffusa anche nella penisola; altrettanto conosciuto risultava inoltre l’approccio chiaro che John Graunt (1662) sottolinea per gli studi di popolazione.
La misura statistica dei fenomeni demografici attraverso dati aggregati è quindi avvertita anche in Italia come elemento essenziale per conoscere le risorse e su cui basare una politica di promozione dello sviluppo economico (Da osservazione sperimentale a spiegazione razionale, 1989).
Ciò nonostante, i primi quarant’anni dell’Ottocento si caratterizzano come un periodo di stasi per gli studi statistici e demografici soprattutto per l’abbandono in molti ambiti nazionali di una raccolta sistematica dei dati di popolazione e anche a causa del riacuirsi della diffidenza sulla pubblicazione di notizie di ambito demografico. Vi sono numerose eccezioni a questo stato di fatto, come quelle di alcuni studi, che restano però isolati, a opera di personalità di spicco tra le quali è d’obbligo ricordare Melchiorre Gioia in Lombardia, Luca de Samuele Cagnazzi a Napoli, Attilio Zuccagni Orlandini a Firenze.
Dopo l’unificazione si rivitalizza l’attività di raccolta di dati quantitativi e soprattutto l’organizzazione preposta a tale scopo: il Regio decreto 9 ottobre 1861, nr. 294 sancisce la nascita della Direzione della statistica generale all’interno del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio. La Direzione è coadiuvata da una Giunta consultiva di statistica con compiti di indirizzo e di analisi dell’attività statistica. Lo stesso Cavour, già membro della Commissione superiore di statistica, istituita a Torino nel 1836, è particolarmente sensibile alla struttura centrale e periferica da conferire all’organo della statistica ufficiale.
Questo approccio squisitamente empirico fa sì che l’interesse per le rilevazioni demografiche, per la misura dei fatti economici, e più in generale per i fenomeni statisticamente rilevabili, si mescoli con il dibattito sull’organizzazione politica e amministrativa dello Stato, a cui prende parte un gran numero di studiosi dell’Ottocento.
Inizia in questo periodo il momento di massima identificazione tra l’organizzazione anche amministrativa della statistica ufficiale e lo sviluppo degli studi statistici e del dibattito scientifico sul metodo statistico e sull’affermazione della statistica come disciplina scientifica.
La Direzione della statistica generale, istituita nel 1861 dal ministro Filippo Cordova presso il MAIC (Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio) è il primo frutto dello spirito del tempo e ha il compito di dirigere i lavori per tutto il territorio italiano, realizzando il principio che è «nell’indole del servizio statistico il concentramento più assoluto nella direzione dei lavori» (ISTAT 1961, p. 34; Lombardo 1994). La prima e più coinvolgente operazione del nuovo ufficio è proprio quella dell’organizzazione del primo censimento della popolazione (istituito con Regio decreto dell’8 settembre 1861) indetto per il 31 dicembre del 1861.
Il lavoro per dare organicità e centralità statale alla rilevazione dei dati statistici, tra cui quelli relativi allo stato e al movimento della popolazione, è, fin dal 1862, sotto l’egida del medico milanese Pietro Maestri. Egli seppe mettere a frutto le competenze statistiche preesistenti all’unificazione nelle varie sedi, cercando di comprenderle all’interno del nuovo organismo centrale che stava nascendo, nonostante le interazioni alterne, non sempre di collaborazione e di aiuto economico e organizzativo, con l’iniziativa dei politici che si susseguirono (Urbano Rattazzi, Gioacchino Pepoli, Marco Minghetti e Francesco Crispi). Maestri dà grande rilievo alle indagini sulla popolazione aprendo un indirizzo che sarà seguito anche dai suoi successori, e sotto la sua guida si organizza anche il secondo censimento demografico del 1871, che avrà rilevante importanza per alcuni motivi squisitamente di pertinenza demografica: riconoscimento del principio dei censimenti decennali; acquisizione di valore legale per lo Stato e la sua amministrazione degli ammontari comunali e provinciali di popolazione accertati dal Censimento; avvio dei registri comunali di popolazione con base di partenza quella del nuovo censimento e pubblicazione dei riassunti annuali; avvio della contabilizzazione degli italiani all’estero (D’Autilia, Melis 2000).
Con l’incarico della Direzione Generale della Statistica a Luigi Bodio (1873) che apre l’ultimo trentennio dell’Ottocento, trovò felice soluzione il problema di un coordinamento centralizzato della rilevazione dei dati statistici da parte di tutti i Ministeri, affidato alla Giunta di statistica, cui prendono parte sia rappresentanti ministeriali sia studiosi di statistica. La guida di Bodio fa acquisire alla Direzione una maggiore autonomia, visibile nella messe rilevantissima di pubblicazioni dell’Istituto, possibili anche grazie alle pressioni dei componenti non politici della Giunta e del Consiglio superiore di statistica (CSS, nato nel 1882) in seno alla Direzione (Angelo Messedaglia, Paolo Mantegazza, Francesco Ferrara).
Già nel corso dell’Ottocento la demografia in Europa era nata come alternativa scientifica alla statistica amministrativa, strumento neutro di descrizione della realtà. Achille Guillard propone il nome per la disciplina nel 1855, Louis-Adolphe Bertillon continua con l’idea che la demografia è studio della popolazione fondato sulla scoperta delle cause dei fenomeni per l’utilizzo a fini di politiche sociali (Lombardo 1994). Nel 1878 si tiene anche il primo Congresso internazionale di demografia (CID) che cade in un momento di stasi nei Congressi internazionali di statistica già attivi da metà del secolo. Gran parte degli studiosi che partecipano a questi incontri internazionali rivestono anche diversi ruoli di funzionari amministrativi negli Stati da cui provengono. I contrasti tra organizzazione amministrativa e sviluppo scientifico si acuiscono e nel 1876, all’ultimo congresso di Budapest, la proposta di Bertillon sulla necessità di riformare le statistiche ufficiali perché rispondessero anche a scopi scientifici della scienza della popolazione fu seguita da molti: Wilhelm Lexis e Bodio tra gli altri. Nel 1882 la nascita dell’ISI (International Statistical Institute) riunisce tutte le discipline statistiche, includendo la demografia.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento vedono anche gli sviluppi della statistica matematica sulle teorie della correlazione e della regressione per opera di Francis Galton, Francis Edgeworth e Karl Pearson, che in un primo momento non trovano adeguata risonanza nell’ambito del dibattito scientifico e verranno discusse nell’ISI solo all’inizio del Novecento. Oramai a questa data anche gli oggetti di interesse e le teorie sociopolitiche sono cambiate e sempre maggiore enfasi si registra verso l’eugenetica e la biometria. Sono i problemi sulla degenerazione della razza, gli intenti riformistici di carattere igienista e il calo delle nascite a catalizzare l’interesse in ambito internazionale.
Alla chiusura del 19° sec. la demografia, come parte importante della statistica, è annoverata tra i nuovi saperi non istituzionalizzati ma con forti connotazioni politico-sociali e con un discreto bagaglio di formalizzazione matematica.
Sono la Direzione e il Consiglio superiore di statistica che raccolgono il dibattito scientifico nazionale e internazionale. Gli Annali di statistica sono testimoni degli elementi fondamentali di questo dibattito, sia relativamente agli aspetti più strettamente amministrativo-organizzativi legati alla statistica amministrativa, sia ai resoconti dei principali convegni internazionali. Tra il 1878 e il 1898 videro la luce 139 volumi. Spiccano tra gli altri gli studi di Luigi Perozzo sulla classificazione della popolazione italiana per età, sulle curve della statura dei coscritti, sulla mortalità; il lavoro di Giulio Salvatore Del Vecchio sui matrimoni tra consanguinei e i loro effetti; gli studi di Luigi Rameri sulla popolazione dei compartimenti; le statistiche sulle cause di morte dal 1882 e la grande inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei comuni del Regno (inchiesta Jacini del 1886) dalla quale scaturì una vivida fotografia non solo delle condizioni di sottosviluppo delle grandi masse contadine ma anche una chiara analisi delle differenze di strutture normative e valoriali presenti nei differenti territori che guidano sia i comportamenti nuziali sia quelli riproduttivi pretransizionali.
L’inizio del Novecento vede svilupparsi l’interesse sui problemi legati alle popolazioni e il percorso verso una maggiore autonomia della scienza demografica dalla statistica. La questione demografica, in effetti, diventa preponderante e sostituisce già negli anni Ottanta e Novanta altri temi sociali ed economici su riviste quali «Riforma sociale» di Francesco Saverio Nitti e il «Giornale degli economisti».
I testi di demografia pubblicati da Rodolfo Benini (Principii di demografia, 1901) e da Napoleone Colajanni (Manuale di demografia, 1904) furono i primi nel loro genere in Italia, facendo seguito al volume di Messedaglia del 1886 (Statistica). In Principii di demografia, Benini stabilisce l’ambito definitorio della disciplina demografica, identificando i due corpi della teoria qualitativa (demos, la composizione socioattitudinale e i gruppi che formano la coesione) e quantitativa della popolazione (Dall’Aglio 1966). Coesione e continuità «sono appunto i fatti salienti delle società umane, intorno ai quali si esercita con diverso intento l’indagine dei sociologi e dei demografi» (R. Benini, Principii di demografia, cit., p. 13).
Il trattato costituisce la sintesi di tutta una serie di lavori pubblicati nel corso degli anni precedenti da Benini su temi demografici, nei quali allo studio quantitativo della popolazione vengono affiancate analisi qualitative che cercano di misurare, mediante indici di attrazione, le caratteristiche fisiche e mentali che potevano aumentare o diminuire la coesione sociale.
Sia Benini sia Colajanni affrontano il problema della popolazione nel quadro concettuale malthusiano, in una reinterpretazione «ottimistica» della teoria che individuava nella progressiva estensione capillare dei metodi di controllo delle nascite, da alcune ristrette élites alla maggioranza della popolazione, l’elemento che avrebbe favorito un rallentamento della crescita demografica.
Il dibattito sul declino della popolazione legato al calo delle nascite, già percepibile in diversi Paesi quali Francia e Inghilterra, comincia a permeare anche l’ambiente politico e accademico italiano. Il Novecento segna un marcato interesse per i problemi della maternità e dell’infanzia, cui fanno seguito i primi timori nazionalisti legati al depopolamento, fenomeno già ampiamente dibattuto a livello internazionale.
Le tematiche emergenti in tema di sostegno alla crescita demografica, che legano sostanzialmente la demografia a temi forti di analisi sociale, vengono sviluppate soprattutto in chiave neonazionalista; il dibattito interdisciplinare prende sempre più spesso connotati di tipo ideologico pro e contro le pratiche neomalthusiane che iniziano a diffondersi soprattutto in ambiente urbano (Ipsen 1997; Treves 2002). Questi riferimenti sono già presenti in un lavoro di Giorgio Mortara del 1911, L’incubo dello spopolamento in Italia, in cui egli attribuisce la riduzione della natalità al fenomeno della limitazione volontaria delle nascite, soprattutto diffuso in ambito cittadino. Secondo Mortara la missione di chi ha a cuore la nazione è quella di educare la popolazione sulla necessità collettiva di mantenere la crescita demografica.
A questo ampliarsi del dibattito in campo politico-ideologico non fa seguito una forte capacità dell’apparato statistico ufficiale nello sforzo organizzativo per cogliere i nuovi mutamenti, almeno fino alla nascita dell’ISTAT nel 1926 (Leti 2003). L’inizio del Novecento vede una vera e propria dispersione di energie e funzioni della struttura statistica nazionale. I tentativi di riforma del sistema statistico, nonostante gli sforzi dei ministri Luigi Luzzatti e Nitti, furono interrotti per la Prima guerra mondiale ed ebbero scarsi risultati nel dopoguerra. Solo nell’imminenza del censimento del 1911, il governo riformista di Giovanni Giolitti realizza una ristrutturazione delle funzioni: il nuovo direttore è Giovanni Montemartini, interessante figura di studioso che mescola i caratteri del funzionario statale e dell’economista marginalista (Di Majo 2004). Montemarini indica nuove strade conoscitive che superano le statistiche classiche e prefigurano anche inchieste sul campo, insieme a nuove linee organizzative centrali e periferiche. Di credo socialista ed esperto di teoria della finanza pubblica, di lunga militanza civile, è attento al mercato, alle forze in gioco, al loro movimento: è stato definito un ‘socialista di ispirazione liberale’, che «compone – e non semplicemente giustappone – le motivazioni sociali del suo impegno con solide basi analitiche improntate al mercato e al conflitto» (Favero, Trivellato 2000, p. 6).
Posto a capo del neo istituito Ufficio del lavoro, presso il MAIC e poi, dal 1911, della Direzione generale della statistica, egli segna una netta discontinuità con l’esperienza precedente.
Con la sua scomparsa prematura nel 1913, e con lo scoppio della Prima guerra mondiale, anche il disegno di una statistica italiana con forti interessi in tema di mercato del lavoro progressivamente si spegne. Il ruolo di preminenza della statistica ufficiale verrà riesumato solo con la nascita dell’ISTAT nel 1926 e con la presidenza di Corrado Gini nel Comitato superiore di statistica (ISTAT 2000).
Tra le due guerre l’evoluzione della statistica e della demografia segue articolazioni proprie che irrobustiscono il processo di autonomia delle due discipline, seppure ancora indubbiamente legate.
La riflessione sulle specificità della disciplina statistica era già contenuta per l’Italia nei Principii di statistica metodologica, pubblicato da Benini nel 1906 nella «Biblioteca dell’economista». In essi si sottolinea come la teoria della probabilità sia l’elemento fondamentale del metodo statistico, basata su una concezione probabilistica delle regolarità e delle relazioni individuate dalla statistica (Favero 2008). L’opera di sistematizzazione attuata con la pubblicazione dei Principii e i contributi fondamentali allo sviluppo della statistica matematica pubblicati in questa fase valsero a Benini un notevole prestigio a livello sia nazionale sia internazionale.
Qualunque siano le filosofie politiche che guidano il formarsi e l’espandersi degli Stati nazionali, il clima culturale europeo del primo Novecento, come ben argomenta Marco Revelli (2001), poggia su una matrice comune che sottolinea il primato della società sull’individuo. Le letture sono comuni sia alla demografia sia alla statistica sul fronte delle evoluzioni delle teorie scientifiche e delle ricadute dei risultati delle analisi in termini di policy. Risulta sicuramente condivisa l’esigenza di sviluppare la statistica ufficiale vista come strumento efficace per l’organizzazione e l’intervento degli Stati.
Nascono, come già accennato, le prime preoccupazioni eugenetiche che si esprimono in ambito statistico con i lavori di Francis Galton e di Karl Pearson. A queste si unisce il rafforzamento della politica verso teorie popolazioniste.
L’ipotesi di individuazione di leggi di sviluppo naturali e universali di derivazione quasi spenceriana, dimostrabili attraverso verifica empirica su dati osservazionali, è presente in molti dei lavori del primo ventennio novecentesco. Si reinseriscono in questo filone i ben noti principi di popolazione di Thomas Robert Malthus. La discussione che ne deriva riguarda le eventuali implicazioni normative che contrappongono i fautori del controllo (scuola statunitense e nord europea) e dell’autoregolazione demografica a quelli dell’optimum di popolazione, sia relativamente alla densità sia alla struttura, e che teorizzano la necessità di alta fecondità per frenarne il declino (gli italiani Livio Livi e Corrado Gini). Risulta prevalente nella ricerca scientifica la strategia che, basata sull’osservazione, è finalizzata all’individuazione delle regolarità, dell’uomo medio, escludendo quella che oggi chiameremmo eterogeneità. L’obiettivo ultimo è la comune aspirazione al miglioramento della società intesa come collettivo. Anche per la popolazione, quindi, risulta giustificata l’analisi che mira a modellare la crescita, determinandone l’ammontare, la struttura e la dinamica prevedibile in senso ottimale.
Si rinuncia, in sostanza e molto spesso, a modelli deduttivi per privilegiare analisi empiriche della dinamica delle componenti (per es., in demografia, di fecondità e sopravvivenza). Il dibattito scientifico si accresce e vi partecipano studiosi quali Arthur Lyon Bowley, George Udney Yule, Raymond Pearl, Ronald Fisher. Contemporaneamente, in Italia Bruno de Finetti e Gini presentano le previsioni della popolazione italiana dimostrando una conoscenza approfondita delle più moderne tecniche e dei metodi in discussione (Calcoli sullo sviluppo futuro della popolazione italiana, 1931).
L’aspetto più interessante è comunque il dibattito relativo alle implicazioni non solo politiche ricavabili dall’indagine demografica e statistica, ma anche la necessità di derivazione di teorie normative. Le politiche di popolazione diventano quindi un risultato necessario delle teorie di popolazione (De Sandre, Favero 2003).
Il governo fascista in Italia diventa il più accanito sostenitore di una visione pronatalista e popolazionista che ha come fondamentali obiettivi l’aumento della popolazione (obiettivo dichiarato di portare da 40 a 60 milioni il numero di italiani entro la metà del secolo), la limitazione delle emigrazioni verso Paesi esteri e dell’urbanizzazione, il popolamento delle aree bonificate e delle colonie italiane in Africa. Per raggiungere questi obiettivi vengono varate politiche sempre più mirate alla questione demografica. Il Regio decreto 21 agosto 1937 nr. 1542 è il più organico tentativo di intervenire sulle nascite, dato che per il Gran consiglio del fascismo «il problema demografico, essendo il problema della vita e della sua continuazione, è in realtà il problema dei problemi» (cit. in Volpi 1989, pp. 111-12).
A questo dibattito culturale e politico partecipano statistici di grande rilievo: studiosi conosciuti e grandi organizzatori (Trivellato 2004) come Gini, Livi, Benini, Marcello Boldrini e Mortara. Con il loro apporto demografia e statistica conoscono una grande espansione sia dal punto di vista accademico e di cattedre universitarie – sebbene con denominazione unica di statistica – sia in termini di nascita di istituzioni, riviste, centri studi. Vedono la luce in questo periodo comitati e associazioni scientifiche, dotati di consistenti finanziamenti pubblici, che contribuiscono al dibattito sulle teorie di popolazione. Tra i più attivi il Comitato italiano per lo studio della popolazione (Cisp), nato nel 1928, e il Comitato consultivo per lo studio della popolazione (Ccsp) sorto nel 1937 sotto la guida, rispettivamente, di Gini e Livi. Questi comitati si occupano di teoria ciclica delle popolazioni, di fecondità differenziale per classi sociali, di fondamento biologico del comportamento fecondo, di optimum di popolazione, di legami tra demografia e assetto socioeconomico.
Gini e Livi sono convinti assertori del principio che la demografia non solo deve considerare l’analisi delle implicazioni politiche delle dinamiche, ma che a questo deve legarsi la promozione di un migliore ordinamento e funzionamento della società, perseguito attraverso la definizione e il supporto di processi di intervento operativo. Mortara e Boldrini, al contrario, privilegiando l’approccio osservazionale, considerano le politiche come un ambito extra-scientifico, a cui si può aderire ma indipendentemente dalla disciplina.
Nel 1940 Gini si schiera apertamente per una visione di attuazione autoritaria di una politica demografica populazionista e pronatalista. Questa attenzione interventista non manca in Livi (Nozioni di statistica e di politica demografica, 1938), che in alcuni interventi sottolinea la coerenza di una «politica integrale» della popolazione, tesa al suo «rinnovamento spirituale», alla salvaguardia e alla promozione delle sue proprie caratteristiche naturali. Secondo De Sandre, Livi sembra seguire nei suoi approcci una «sequenza forte tra politica demografica perseguita dallo Stato e orientamenti degli studiosi che si interessano di politica demografica» (De Sandre, Favero 2003, p. 32).
I nessi tra accademia, amministrazione e ISTAT si rinsaldano. Il sistema statistico nazionale viene riorganizzato portando alla nascita nel 1926 dell’Istituto centrale di statistica (ISTAT). Con un bilancio annuo iniziale di 2 milioni di lire e con Corrado Gini alla direzione del Css (la Direzione dell’ISTAT fu istituita solo nel 1929), l’ISTAT si avviava a essere, quantomeno nelle intenzioni dei suoi fondatori, «lo strumento per l’azione di governo nel presente e nell’avvenire» (cit. in Ipsen 1997) e non a caso viene posto alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, centralizzando tutti i servizi.
All’interno del rinnovato ente, la «statistica demografica» va a occupare una posizione di primo piano. Uno dei compiti principali dell’ISTAT diventa, infatti, quello di misurare, attraverso la produzione di dati demografici, l’efficacia delle politiche di popolazione e di indicare le aree su cui concentrare gli sforzi di miglioramento.
Il periodo tra le due guerre è sicuramente fiorente per le discipline demografiche e statistiche, a partire dalla riforma Gentile del 1923. Parallelamente alla nascita della nuova struttura governativa, si assiste alla creazione di nuove Scuole di statistica a livello universitario. Grazie all’opera di Gini, nel 1927 nascono nelle Università di Padova e Roma le Scuole di statistica. Nel 1934 esce il primo numero della rivista «Genus» e nel 1935 vede la luce nella capitale, ancora a opera di Gini, la prima facoltà di Scienze statistiche demografiche ed attuariali. Nel 1938 nasce la Società italiana di demografia e statistica, e nel 1939 è la volta della Società italiana di statistica.
Proprio per l’importanza assunta dalle discipline quantitative, numerose sono le schiere degli allievi che in questi anni crescono in ambito accademico. Due i nomi che, a titolo esemplificativo, possono essere citati, quelli di Paolo Fortunati (1906-1980) e di Nora Federici (1910-2001), tutti comunque occupati in tematiche di rilevanza anche per l’ambito politico: la dinamica demografica, la natalità, l’emigrazione, la differenziazione sociale e territoriale.
Viene istituito l’Ufficio demografico centrale del Ministero degli Interni, dal 1938 Direzione per la demografia e la razza (Demorazza) che gestirà il censimento degli ebrei del 1938 cui l’ISTAT fornirà solo supporto esterno.
In generale, senza addentrarci all’interno delle motivazioni e delle giustificazioni delle scelte, possiamo affermare che mai come nel periodo fascista l’influenza degli interessi della classe politica sulla produzione scientifica in ambito demografico è così forte. I progressi nella ricerca seguono principalmente il filone impostato dalla visione populazionista e natalista del governo: escono ricerche sulle famiglie numerose, sui comuni in decremento demografico per zone agrarie e gli «Annali» raccolgono spesso anche la documentazione dell’azione normativa e amministrativa promossa dal governo per l’incremento demografico (De Sandre, Favero 2003, p. 33). Particolare importanza viene data alle migrazioni verso le colonie africane e alla colonizzazione interna nonché all’effetto negativo delle migrazioni sulla fecondità. Uno dei compiti iniziali dell’Istat era stato quello di istituire e migliorare le statistiche coloniali. Inoltre, il censimento del 1931 enumerò sia la popolazione indigena sia quella europea delle colonie italiane in Africa (Ipsen 1997, p. 284).
Le migrazioni verso gli altri Paesi e i movimenti migratori interni, soprattutto nella direttrice campagna-città, pur risultando fenomeni ben più importanti in termini numerici, vennero invece progressivamente abbandonati fino a sparire completamente dal dibattito scientifico.
Tuttavia, pur in presenza di un approccio quasi dogmatico nel quale vengono universalmente accettati i vantaggi di una popolazione numerosa e in crescita, e quindi di stampo profondamente pronatalista, il periodo fascista si tradusse in miglioramento significativo della qualità delle statistiche ufficiali italiane, proprio grazie all’interesse da parte del governo, che si sostanziò anche in un aumento dei finanziamenti (Ipsen 1997). Dal 1927 iniziarono diverse serie di pubblicazioni mensili tra cui, nel luglio 1928, il «Notiziario demografico»; ripresero le pubblicazioni dei volumi sulle statistiche del movimento della popolazione e quelli sulle cause di morte fermi al 1923; venne varata una riforma promossa dall’Istituto di statistica che stabiliva una successione periodica dei censimenti generali demografici ed economici; fu realizzata, nel quadro del censimento del 1931, un’indagine sulla fecondità delle donne italiane coniugate. Lo sviluppo del sistema centralizzato delle statistiche subì un inevitabile arresto nel 1939 a seguito dello scoppio del secondo conflitto mondiale con il quale ebbe termine anche quell’autarchia culturale in cui in parte la scienza italiana si era incanalata.
Dopo la fine del conflitto mondiale, la ricostituzione dell’ISTAT funziona nuovamente da propulsore per lo sviluppo delle discipline statistiche. L’interesse verso il ricostituito Istituto si dirige prevalentemente al settore statistico-economico. Alla Direzione generale dell’Istituto di statistica viene nominato Benedetto Barberi che vi rimase fino al 1962. Nel periodo di ricostruzione postbellica sotto la guida di Barberi, che incentra la sua azione nella «ricostruzione innovativa», l’Istat esce dai ripiegamenti autarchici del quindicennio precedente e si apre al dibattito internazionale e ai paradigmi scientifici dominanti di origine mitteleuropea e anglosassone. Il riferimento è alla teoria keynesiana in economia e ai lavori di Jerzy Neyman e Fisher in statistica.
Di particolare rilievo nel lavoro di Barberi furono il suo impegno e la sua azione per dotare l’Italia di statistiche concernenti i conti economici nazionali, ai cui metodi di calcolo offrì il proprio contributo di ricercatore con suoi lavori pubblicati su riviste quali «L’Economia italiana», «L’Industria», «Rivista italiana di economia demografia e statistica», «Statistica».
L’applicazione dei metodi campionari alle rilevazioni demografiche, sociali e agrarie costituì un altro settore di ricerca che gli fornì l’occasione per approfondire l’analisi teorica. Questa innovazione anche nel campo delle statistiche industriali, finanziarie e del lavoro non era affatto una scelta scontata per l’ISTAT, e per l’intera statistica italiana nell’immediato dopoguerra. Va ricordata infatti la marcata preferenza già sancita dalle scelte di Bodio verso le indagini esaustive e contro i primi tentativi di indagini campionarie sviluppate nel nord Europa; atteggiamento rafforzato in seguito dagli statistici italiani (Favero, Trivellato 2000, p. 84).
A ciò si aggiunga la critica aperta che già dal 1939 Gini aveva dichiarato nei confronti delle procedure di inferenza statistica proposte da Fisher: un dibattito scientifico di alto profilo ma che allontana la scuola italiana dalla cultura statistica anglosassone, rallentando il percorso successivo dello sviluppo della disciplina. In ogni caso, dagli anni Cinquanta la spinta propulsiva inizia e l’innovazione delle tecniche è legata sicuramente alla ripresa di intensi contatti internazionali, che consigliano di cercare di tenere il passo con le innovazioni proposte dagli uffici statistici delle Nazioni Unite e delle prime istituzioni europee (CECA e CEE) e messe in atto dai Paesi più avanzati.
Sul lato più strettamente demografico, come notava Louis Henry a metà degli anni Sessanta (1966), la demografia ha una particolarità che condivide solo con l’economia: l’osservazione dei fenomeni che costituiscono oggetto dei suoi studi le viene garantita da organismi amministrativi, dagli Istituti nazionali o, comunque, dai servizi ufficiali di statistica. Dalla nascita dei servizi di statistica fino agli anni Cinquanta l’analisi trasversale, o per periodo, è stata pressoché la sola a essere praticata (De Sandre, Santini 1987).
Negli anni Cinquanta e Sessanta vengono rafforzate le statistiche di fonte amministrativa, costruiti i conti economici nazionali e avviate due grandi indagini campionarie: l’indagine sulle forze lavoro (realizzata per la prima volta nel 1952 nelle province della Sicilia e nelle province di Milano, Pisa e Napoli, e divenuta a cadenza trimestrale a partire dal 1957) e sui bilanci delle famiglie, che verrà seguita, a partire dal 1968, dall’indagine sui consumi delle famiglie (Bonarini 2006). Si tratta di strategie di ricerca che rispondono alle pressioni fatte dalle Commissioni di inchiesta parlamentare sulla miseria e sulla disoccupazione in Italia le quali, attraverso un’indagine effettuata negli anni 1951-52, hanno messo in luce la condizione di estrema povertà della popolazione italiana e il forte divario tra Nord e Sud (Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-1952). Materiali della Commissione parlamentare, 1978). Quest’indagine, che aveva finalità puramente conoscitive e non fu seguita da politiche di intervento, segna il ritorno del Parlamento a una tradizione di fine Ottocento di inchieste svolte dal potere legislativo sulle realtà economiche e sociali del nostro Paese, sulla falsariga dell’inchiesta Jacini sull’agricoltura.
È opportuno sottolineare a tal proposito che il dibattito che si sviluppa intorno alla presunta connivenza tra studiosi di popolazione e politici nel ventennio fascista, e l’ipotesi di assoggettamento dell’autonomia scientifica alle finalità ideologiche del regime, rappresentano una pesante eredità per la comunità dei demografi e degli statistici negli anni del secondo dopoguerra. L’impotenza per una spiegazione chiara del recente passato spinge a un utilizzo puramente descrittivo della demografia e dell’indagine sociale, riducendo al minimo i tentativi di interpretazione della realtà ed eliminando qualunque forma di legame con l’azione politica.
Qual che sia il motivo, sensi di colpa o interesse crescente verso il boom economico, con conseguente espansione dei consumi privati, la priorità accordata ai temi economici rispetto a quelli demografici ha come inevitabile conseguenza l’impianto di un ordinamento statistico inadeguato a seguire le trasformazioni sociali per quanto i mutamenti in atto siano numerosi e necessitino di maggiori dati empirici per essere analizzati e compresi. Basti pensare all’incremento della nuzialità e della fecondità e alla ripresa dei flussi di emigrati all’estero per quanto riguarda l’immediato dopoguerra, al baby boom, alla grande migrazione dal Sud verso il triangolo industriale e Roma e al fenomeno dell’urbanizzazione negli anni a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta.
Questi anni risultano anche di totale ripensamento dei metodi demografici: inizia a imporsi l’approccio longitudinale rispetto a quello classico trasversale per riprodurre a livello macro delle modalità di manifestazione dei fenomeni coerenti con quanto avviene a livello micro. Ci sono già palesi segni di evoluzione nei metodi di analisi demografica che si sforzano di reintrodurre l’aspetto globale dei fenomeni: si considerano come base degli studi le generazioni, si fa riferimento ai cicli di vita, si è affacciata l’idea di una demografia della famiglia (Santini 1999).
L’aprirsi degli anni Sessanta, un decennio caratterizzato da indiscutibili cambiamenti culturali, primi tra tutti l’emancipazione dei costumi e la presa di coscienza del loro ruolo e dei loro diritti da parte delle donne, innescherà profondi mutamenti in ambito sia demografico sia economico e sociale. Contemporaneamente, lo sviluppo delle tecnologie informatiche renderà possibili gestioni di basi di dati e sviluppo di metodi quantitativi di analisi statistica che segneranno l’avvio di una nuova fase nel processo di descrizione e interpretazione dei processi sociali ed economici. La statistica, le statistiche applicate e la demografia seguono oramai percorsi autonomi pur riconoscendosi tutte nell’alveo delle discipline quantitative.
La creazione dell’informazione statistica non è mai un processo neutro. Come sostengono William Alonso e Paul Starr (The politics of numbers, 1987), le statistiche ufficiali non rappresentano semplicemente uno specchio della realtà, ma ipotesi e teorie intorno alla natura della società, agli interessi sociali, economici e politici. Attraverso i cento anni della storia del nostro Paese qui ripercorsi, il ruolo attribuito all’informazione statistica rimane a lungo incentrato sui bisogni dell’amministrazione e funzionale all’azione di governo. Questo aspetto, particolarmente evidente nel ventennio fascista, rimane tuttavia valido anche in altri periodi della storia d’Italia come nel periodo postunitario e, per certi versi, anche nel secondo dopoguerra.
J. Graunt, Natural and political observation made upon the bills of mortality, London 1662 (trad. it. Firenze 1987).
A. de Moivre, La dottrina degli azzardi applicata ai problemi della probabilità della vita, alle pensioni vitalizie, reversioni, tontine ecc., di Abramo Moivre, trasposta dall’idioma inglese; arricchita di note ed aggiunte e presa per argomentodi pubblica Esercitazione Matematica tenuta nell’aula della Regia Università di Pavia dal padre Don Roberto Gaeta, monaco cistercense, sotto l’assistenza del padre Don Gregorio Fontana delle scuole pie. Regio professore delle Matematiche superiori nella medesima Università, appresso Giuseppe Galeazzi Regio Stampatore, Milano 1776.
A. Messedaglia, Statistica. Lezioni dettate nella Regia Università di Roma nell’a.s. 1885-86 raccolte da alcuni studenti, Roma 1886.
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Tra le pubblicazioni dell’ISTAT si vedano:
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ISTAT, Statistica ufficiale e storia d’Italia. Gli Annali di Statistica dal 1871 al 1997, «Annali di statistica», 2000, 21.
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Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-1952). Materiali della Commissione parlamentare, a cura di P. Braghin, Torino 1978.
P. De Sandre, A. Santini, Appunti per una nuova Demografia istituzionale e per l’individuazione di un processo formativo nell’area demografica, in Demografia. Scienza, insegnamento, professione, a cura di E. Sonnino et al., Milano 1987.
The politics of numbers, ed. W. Alonso, P. Starr, New York 1987.
R. Volpi, Storia della popolazione dall’Unità a oggi, Firenze 1989.
Da osservazione sperimentale a spiegazione razionale, a cura di C.A. Corsini, Firenze 1989.
E. Lombardo, Evoluzione diacronica della demografia, in Demografia, a cura di M. Livi Bacci, G.C. Blangiardo, A. Golini, Torino 1994, pp. 27-61.
C. Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Bologna 1997.
A. Santini, Quadri concettuali per l’analisi demografica, in F.C. Billari, F. Bonaguidi, A. Rosina, S. Salvini, A. Santini, Quadri concettuali per la ricerca in demografia: quattro saggi, Firenze 1999, pp. 4-29.
M.L. D’Autilia, G. Melis, L’amministrazione della statistica ufficiale, in Statistica ufficiale e storia d’Italia: gli “Annali di Statistica” dal 1871 al 1997, a cura di P. Geretto, «Annali di statistica», 2000, 6, pp. 297-355.
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