Scuola di economia agraria
L’evoluzione dal 1850 al 1950 della Scuola di economia agraria va analizzata da una duplice prospettiva. In primo luogo, considerando come, sul piano generale, l’economia agraria si sia collocata all’interno del percorso di sviluppo della teoria economica, e abbia progressivamente guadagnato la propria autonomia disciplinare. In secondo luogo, seguendo la specifica esperienza storica italiana che, nel corso dell’Ottocento, ha accompagnato il nascere della disciplina stessa all’interno delle istituzioni della formazione scientifica agronomica avviate in alcune regioni dell’Italia preunitaria e poi fiorite ovunque nel Paese.
Sulla base di quest’esperienza, dall’inizio del Novecento ha preso slancio uno sviluppo autonomo della disciplina che è stato distintamente segnato dalle differenti tradizioni culturali della civiltà rurale, dalle varie forme contrattuali esistenti in agricoltura, dai numerosi problemi legati alla natura del territorio, dalle tante storie delle istituzioni locali e, non ultimo, dalle sensibilità ideali e politiche degli studiosi affermatisi in vari luoghi e momenti. Questi aspetti hanno definito i caratteri identitari della Scuola italiana di economia agraria, ma hanno anche allontanato nel tempo il suo incontro compiuto con la teoria economica generale, che si avvierà solo a partire dalla metà del Novecento.
L’economia agraria si può definire come la branca della scienza economica che ha per oggetto l’analisi del ruolo sociale e produttivo svolto dal settore agricolo e dalle sue componenti nel processo di formazione e distribuzione della ricchezza nelle diverse fasi dello sviluppo. Come disciplina essa ha tardato a prendere corpo e identità, anche se l’analisi dell’agricoltura ha rivestito un ruolo prevalente nelle prime fasi dell’evoluzione del pensiero economico e ha costituito un riferimento fondamentale per definire le leggi generali dell’economia.
Quando, nel 18° sec., la scienza economica è entrata per la prima volta nell’era delle scuole e dei sistemi, la corrente di pensiero che si è affermata in Francia con il nome di fisiocrazia ha assunto l’analisi del processo di produzione dell’agricoltura come fondamento della propria teoria economica generale (Roll 1938; trad. it. 1962, p. 150). Nella concezione dei fisiocrati, il campo d’indagine privilegiato per la comprensione del funzionamento del sistema economico era rappresentato dalla terra, in quanto risorsa dotata di un potere produttivo originario appropriabile da parte dell’uomo, e dai vari aspetti economici e sociali inerenti alla sfera produttiva agricola.
In particolare, François Quesnais, pubblicando nel 1758 il suo Tableau économique, ha rappresentato nella forma semplificata di tabella a doppia entrata l’intero processo di produzione e circolazione della ricchezza. Un processo basato sull’esistenza di tre classi sociali (proprietari terrieri, agricoltori affittuari, artigiani mercanti e altre professioni) e su due assunti. Il primo prevedeva che la terra, intesa come capitale produttivo nella sua forma materiale piuttosto che di valore, fosse considerata come la sola fonte originaria di ricchezza e, il secondo, che gli agricoltori fossero il motore unico della produzione del surplus (produit net) attraverso il quale si era in grado di garantire la riproduzione e lo sviluppo del meccanismo economico complessivo. L’agricoltura, di conseguenza, concepita come il solo settore ‘produttivo’ in quanto capace di produrre eccedenza, con il suo modo naturale di produzione e con le classi sociali che a essa facevano riferimento (agricoltori e proprietari), costituiva il settore fondante dell’economia e l’oggetto principale su cui concentrare l’attenzione dell’analisi economica.
Se con il pensiero fisiocratico la terra come categoria analitica e l’agricoltura come attività primaria, avevano informato in modo prevalente le basi della teoria economica, la loro importanza si è andata, invece, progressivamente attenuando nelle formulazioni degli economisti classici, prima, e nel pensiero marxista, dopo, fino a scomparire del tutto nel contesto degli sviluppi teoretici dell’economia marginalista e neoclassica. La progressiva sistemazione teorica della legge della produzione e della distribuzione si è fondata sull’analisi dei tre fattori produttivi per definizione: terra, lavoro e capitale, adottando il necessario processo di astrazione e prescindendo da qualsiasi riferimento a una specifica componente settoriale dell’economia.
Nella diversità delle concezioni teoriche e filosofico-politiche che hanno caratterizzato e contrapposto i filoni più importanti del pensiero economico, anche quando si sono assunte come riferimento la terra, l’agricoltura o le classi agricole, l’obiettivo dell’economia come scienza ha teso ad affermare un principio di validità universale, capace di abbracciare l’intera realtà economica e di spiegare le motivazioni delle scelte di consumo e di investimento. Non v’era, quindi, traccia del nascere di una disciplina distinta in termini di economia dell’agricoltura. È stato il processo di divisione del lavoro interno alle economie, avviato dalla rivoluzione industriale, a definire uno spazio economico specifico dei diversi settori produttivi, spingendo l’agricoltura a organizzarsi per accrescere la produttività della terra e del lavoro e per assumere un ruolo socialmente ed economicamente funzionale allo sviluppo dell’intero sistema.
La specificità dell’agricoltura e la prolungata condizione di emarginazione che il settore ha registrato come conseguenza del rapporto antagonistico con l’industria o la città nel corso dello sviluppo sono venute alla luce con la crisi agraria scoppiata negli ultimi decenni dell’Ottocento. «La crisi agraria è stata per oltre venticinque anni una presenza reale nella storia europea» (Villari 1979, p. 32), accompagnata da un rischioso aumento delle tensioni politiche e sociali diffuse nell’intero continente.
Non è un caso che l’insieme delle problematiche politiche, sociali ed economiche maturate a questo riguardo si sia condensato, da un lato, nel corpo di riflessioni teoriche e politiche che hanno dato luogo al dibattito sulla Questione agraria – intesa come uno dei problemi di fondo delle trasformazioni economiche e sociali in atto – e, dall’altro, nell’avvio in numerosi Paesi europei, e non solo, di indagini conoscitive sullo stato delle relative agricolture. In una visione storico-evolutiva, si può sostenere che entrambi i filoni, per aspetti certamente diversi, hanno concorso a creare le condizioni per la definizione del corpo disciplinare dell’economia agraria.
In riferimento al tema della Questione agraria va innanzi tutto considerato che
in realtà le condizioni oggettive e l’humus perché il problema venisse affrontato erano venuti progressivamente maturando […] dopo che, in seguito alla crisi economica del 1873, la crisi agraria si era venuta in tutti i paesi sempre più acutizzando […]. Gli anni tra il 1873 ed il 1890 vedono la questione agraria al centro degli interessi e delle preoccupazioni di tutti (G. Procacci, Introduzione a K. Kautsky, La questione agraria [1899], 1971, p. XLIII).
In risposta ai problemi posti dalla depressione agricola di fine secolo, intorno e dopo il 1870 furono promosse da vari governi europei numerose inchieste.
In Francia nel 1865-66 partì un’inchiesta sulla crisi della piccola e media proprietà agraria che costituiva il cuore dell’agricoltura di quel Paese. In Inghilterra, tra il 1879 e il 1882, un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei conduttori dei fondi e dei lavoratori, sul funzionamento delle leggi, sull’istruzione agraria e sulle statistiche del commercio internazionale fu la dimostrazione di quanto la prima economia industriale fosse consapevole dei problemi posti dall’agricoltura in una delicata fase dello sviluppo del Paese. Nello stesso periodo, in Germania come negli Stati Uniti partirono indagini statistiche e censuarie per approfondire la comprensione della situazione del settore. Ed è, infine, di questo stesso periodo l’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola condotta da Stefano Jacini in Italia, su cui si ritornerà in seguito.
Queste indagini contribuirono efficacemente a far crescere nelle economie di recente industrializzazione la consapevolezza del ruolo rilevante che ancora assolveva il mondo agricolo nello sviluppo del sistema economico. Esse furono anche il terreno di conoscenza su cui si esercitarono vari studiosi del settore agricolo per affinare gli strumenti analitici e operativi più adeguati e vicini alla composita realtà agricola, e dettero certamente forza e legittimazione alle varie energie intellettuali impegnate a dar corpo teorico identitario e sistematicità disciplinare all’economia dell’agricoltura.
È in questo contesto che, alla fine dell’Ottocento, si è posto il problema della sistemazione teorica dell’economia agraria come diramazione dal corpo della scienza economica al cui interno, con Alfred Marshall e con gli economisti neoclassici, l’analisi delle condizioni di efficienza a livello micro e macro aveva prevalso sui temi dell’accumulazione e distribuzione. In questo periodo
i processi di modernizzazione e intensificazione dell’attività agricola da un lato generarono una domanda di analisi di carattere operativo rivolta all’efficiente gestione dell’azienda agraria, dall’altro sollevarono interrogativi circa il ruolo da affidare all’intervento dello Stato nel generare assetti istituzionali e contesti infrastrutturali idonei a stimolare l’iniziativa privata in agricoltura (De Benedictis 2009, p. 33).
E come risposta si è assistito a una diversificazione tematica delle scienze agronomiche, all’interno delle quali un’attenzione crescente venne rivolta agli aspetti economici della gestione delle aziende agrarie e, successivamente, alla politica agraria e alla macroeconomia settoriale.
Su questo sfondo l’evoluzione in Italia della Scuola di economia agraria nel corso dell’Ottocento è stata per lungo tempo organica a quella che ha interessato le istituzioni della formazione scientifica agronomica. Queste hanno costituito il crogiolo al cui interno si è costruito un fecondo connubio tra conoscenze tecniche e analisi socioeconomica del settore agricolo (con forte prevalenza iniziale della prima componente), sul quale si è radicata la disciplina nelle sue forme iniziali che solo più tardi si evolveranno in termini di economia applicata all’agricoltura. Questo connubio ha segnato non solo la nascita, ma ha accompagnato a lungo, e con varie implicazioni, il percorso di formazione della Scuola italiana di economia agraria e l’esercizio accademico e operativo della disciplina. È molto significativo che nel Nuovo dizionario universale e ragionato di agricoltura del 1835, nello specificare i vari significati della voce Agronomo, si sosteneva che essa «si prende ancora per indicare gli scrittori sull’economia rurale e sull’economia politica» (Fumian, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, 1991).
Negli anni tra la fine della prima e tutta la seconda metà dell’Ottocento sono state numerose, e diffuse nelle varie regioni italiane, le proposte innovative per la costituzione di Scuole agrarie. La costituzione di queste scuole si collegava ad analoghe tendenze presenti in Europa e rappresentava un tentativo di risposta dell’agricoltura ai problemi produttivi e organizzativi, oltre che sociali, con i quali doveva confrontarsi il settore. Per sviluppare modernamente l’attività agricola si rendeva necessario superare i limiti del tradizionale sapere agrario, diffondere le conoscenze botaniche e biologiche, intraprendere la strada dell’innovazione tecnica e organizzativa, utilizzare le acquisizioni della meccanica, accrescere la produttività delle coltivazioni, guardare con grande attenzione ai problemi della contabilità e del mercato, conoscere le caratteristiche specifiche della pluralità dei sistemi agrari diffusi sul territorio. Le iniziative che partirono in questa direzione interessarono tutto il territorio italiano.
Lea D’Antone in un bel saggio (L’intelligenza dell’agricoltura, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, 1991) così inizia a descriverne l’evoluzione:
[...] un affascinante cammino verso gli specialismi e verso la caratterizzazione professionalizzante delle istituzioni della formazione scientifica; un cammino che propose anche agli intellettuali dell’agricoltura, sia il livello europeo di circolazione delle conoscenze, sia l’appassionante risvolto politico dell’attività culturale […]. In un’Italia ancora politicamente divisa ed economicamente non industrializzata, l’impegno intellettuale per l’ammodernamento dell’agricoltura divenne […] veicolo per la costruzione di un’identitànazionale e trasformò la proposta di un’agricoltura nazionale formulata dai più noti agronomi del tempo in uno degli elementi fondanti quella originaria identità. Rilevante anche il carattere europeo della proposta, dovendo l’agricoltura nazionale nascere non tanto dalla pur utile ricognizione e messa a punto delle varie pratiche agronomiche e dei sistemi agricoli locali, quanto e soprattutto dalle molte dinamiche che avevano caratterizzato per secoli l’agricoltura di sussistenza (p. 393).
Carlo Cattaneo e Cosimo Ridolfi (1794-1865) rappresentano i due riferimenti principali per il ruolo originario e assolutamente propulsivo a questo riguardo e per aver preparato le condizioni per le prime espressioni sistematiche di economia agraria.
Cattaneo ha svolto i suoi studi sull’agricoltura lombarda sul finire della prima metà dell’Ottocento e ha avuto una parte rilevante nel dissodare il terreno a favore del crescere degli studi economici e sociali sull’agricoltura. È noto che Luigi Einaudi nei suoi studi di economia ha dedicato un’attenzione non trascurabile ai problemi dell’agricoltura pubblicando, tra l’altro, nel 1939 una raccolta di scritti di Cattaneo dal titolo Saggi di economia rurale.
Manlio Rossi-Doria, che recensì quel prezioso volumetto, riferendosi agli otto saggi di Cattaneo così si esprimeva:
Sebbene egli abbia preferito la forma frammentaria e occasionale del saggio, il suo pensiero teorico ha la compiutezza e sicurezza della scienza ed egli resta uno dei più acuti e vivi economisti agrari di ogni tempo (Note di economia e politica agraria, 1949).
Vi è sicuramente un tratto di esagerazione nel giudizio finale di Rossi-Doria, ma egli, allora giovane economista agrario costretto per ragioni politiche a scrivere nell’anonimato, impegnato a riflettere sul futuro dell’agricoltura, vedeva negli scritti di Cattaneo le tracce che egli stesso aveva seguito nella propria formazione e la direzione da intraprendere per il dopo, quando diverrà uno dei massimi rappresentanti della Scuola agraria italiana. Rossi-Doria, come Einaudi, era colpito dalle intuizioni di Cattaneo.
Cattaneo insisteva perché si desse vita a un grande istituto agrario, entrava nel merito delle opere di bonifica in atto nel territorio lombardo, poneva il problema della costruzione e dell’uso del catasto, affrontava i problemi demografici attraverso un impiego meticoloso delle statistiche, sentiva l’esigenza di un’analisi comparata con le agricolture di altri Paesi, come l’Inghilterra e l’Irlanda. Ma soprattutto, con Cattaneo, partendo dalla Lombardia, emergeva la consapevolezza delle specificità delle diverse agricolture che si esercitavano nello spazio composito della geografia italiana. E questo costituirà uno dei tratti più rilevanti della Scuola italiana.
A Ridolfi, d’altro lato, si deve l’istituzione della prima Scuola agraria italiana in Toscana nel 1834. L’iniziativa ebbe un carattere straordinariamente innovativo, ponendosi l’obiettivo di formare figure da impegnare nel rinnovamento dell’agricoltura toscana con il profilo di tecnici e direttori d’azienda in grado di conoscere, oltre le pratiche agronomiche, le esigenze del circuito economico e del mercato dei fattori e dei prodotti. La Scuola svolgeva la sua attività fidando sulla dotazione di un podere modello e di un altro dedicato a sperimentazioni applicative, oltre che di un organo di stampa come «Il giornale agrario toscano»; accolse diverse decine di giovani opportunamente selezionati dai proprietari locali e si distinse anche per la collocazione operativa guadagnata da gran parte dei partecipanti all’attività formativa. L’azione di Ridolfi da esperienza privata di insegnamento, dopo dieci anni, si trasformò in forma pubblica di istruzione a livello superiore, con la fondazione in Pisa del primo Istituto agrario italiano di carattere universitario (1843): un vero salto di qualità, che giocò nell’Italia del tempo una funzione di modello e un importante punto di riferimento (Pazzagli 2008).
Per opera di Ridolfi l’Istituto divenne un centro straordinario di elaborazione sulla riforma dell’agricoltura sotto vari aspetti, e l’insegnamento, precorrendo i tempi, vi assunse un carattere universitario con l’attivazione di cattedre nelle varie discipline. Fu sempre Ridolfi che, chiamato ad altre cariche, volle suo successore a Pisa Pietro Cuppari (1816-1870). Di Cuppari si conoscono le Lezioni di economia rurale date privatamente a Pisa nel 1854 e raccolte a cura degli uditori delle medesime. Ma egli è soprattutto l’autore del primo manuale per lo studio dell’economia dell’azienda agraria con cui ha introdotto i criteri del calcolo economico nella gestione aziendale. Nel manuale di Cuppari, del 1870,
l’azienda agraria era proposta come moderno sistema di relazioni, interne ed esterne, da attivare in tutti gli elementi e nei tempi più utili alla produzione di reddito, esattamente nel modo che avrebbe trattandosi di una comune macchina dell’industria manifatturiera (D’Antone, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, cit., p. 397).
Due visioni integrate e complementari, quelle di Cattaneo e Ridolfi. Da un lato, vi è Cattaneo con la capacità di portare i problemi del settore in una dimensione macroeconomica, con l’attenzione al funzionamento generale dell’economia agricola, ai necessari interventi di politica economica agraria, e alla strumentazione necessaria ad attivare gli investimenti pubblici e privati conseguenti. Dall’altro, Ridolfi, più attento ai problemi tecnici e agronomici, agli aspetti microaziendali ma, allo stesso tempo, fautore di un salto di qualità, di dimensione e di articolazione della formazione necessaria per affrontare a livello aziendale il problema dell’ammodernamento dello sviluppo agricolo. Nelle esperienze di Cattaneo e Ridolfi, in sostanza, si ritrovano gli elementi di base su cui successivamente si svilupperà e si articolerà la disciplina dell’economia agraria in Italia.
Il percorso per arrivare al distacco della disciplina dell’economia agraria dal tronco comune delle discipline tecnico-agronomiche non è stato breve. Sulle storie e sulle impostazioni diverse che hanno caratterizzato le varie istituzioni scientifico-agronomiche, così come sulle affascinanti e straordinarie figure impegnate al loro interno nella formazione della cultura e delle competenze tecniche necessarie a sostenere lo sviluppo dell’agricoltura pre e postunitaria, esiste un’ampia letteratura.
Qui è necessario sottolineare come l’esperienza e le idee sostenute da Ridolfi e Cattaneo si siano diffuse e affermate facendo germogliare tante altre iniziative analoghe in varie regioni italiane: in Piemonte, Lombardia, nel Veneto e in Friuli, in Emilia, in Umbria, nelle Marche e, nel Mezzogiorno, a Napoli e a Palermo. Se si collegano queste iniziative all’attività svolta dall’Accademia dei Georgofili e dalla sezione agricola dell’Associazione degli scienziati, si ha il senso di un movimento vasto e profondo che, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, oltre a produrre una maggiore sensibilità ai problemi del rinnovamento dell’agricoltura, ha fatto crescere un’élite tecnica o una significativa categoria di intellettuali dell’agricoltura (come li ha definiti Lea D’Antone) dal cui ambito nasceranno le prime figure di economisti dell’agricoltura che daranno impulso a un distinto percorso disciplinare.
È importante seguire le date. Nel 1870 si istituisce la Scuola superiore di agricoltura di Milano; nel 1872 si aggiunge Portici; nel 1896 Perugia; Pisa era attiva dal 1843: insieme costituiranno i quattro fondamentali punti di riferimento del sistema nazionale della formazione superiore negli studi agrari. Alla fine dell’Ottocento, cioè, si era costituito il vertice del sistema di istruzione e formazione in agricoltura, con un largo spazio per l’economia agraria. Questo, insieme al diffondersi delle attività di indagine sull’agricoltura, diede la spinta definitiva alla precisazione della figura dell’economista agrario nell’esperienza italiana.
Oltre le scuole di agronomia, un altro terreno di coltura per la definizione della disciplina dell’economia agraria e una palestra formativa per gli studiosi è rappresentato dalle iniziative di indagine sul settore agricolo.
Già nel 1839 la sezione di agronomia e tecnologia dei Congressi degli scienziati aveva promosso una prima inchiesta sull’agricoltura italiana, motivandola con la sentita esigenza di disporre di un’analisi unitaria sull’agricoltura degli Stati italiani. L’inchiesta fu impostata attraverso la predisposizione di schede per acquisire informazioni sulle condizioni tecniche e agronomiche, sullo stato della proprietà, sulla struttura fondiaria, sul valore della terra, sulla produzione e la sua commercializzazione. I risultati furono frammentari e non riuscirono a costituire un corpo organico di risposte, ma le risultanze, anche se inferiori alle aspettative, per i casi regionali più compiuti vennero pubblicizzate e discusse fino al 1847. Anche nella sua incompletezza, tuttavia, il tentativo rappresentò l’aspirazione diffusa di dare una base di conoscenza agli interventi ritenuti necessari per l’ammodernamento dell’agricoltura, in vista dell’unità del Paese (Pazzagli 2008).
A questa indagine ne seguì un’altra nel 1868. Essa fu molto meno impegnativa e ambiziosa, di natura essenzialmente statistica, ma con un aspetto di particolare rilievo, perché organizzata sulla base di una suddivisione del territorio nazionale in undici regioni agrarie «scelte sulla base sia di identità di condizioni topografiche, sia per analogie di tradizioni morali e civili» (Caracciolo 1973, p. 13).
Queste due indagini hanno costituito le premesse per quella ben più rilevante e famosa affidata a Jacini, l’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola che nel 1877 il Parlamento italiano avviò con apposita legge. L’indagine aveva avuto una difficile gestazione e ugualmente travagliata fu la sua conduzione, perché sull’impostazione e attuazione si confrontarono duramente l’anima sociale e l’anima tecnico-produttiva. La prima rifletteva i termini che aveva assunto la questione sociale ed economica nell’agricoltura italiana, come in quella europea, e guardava ai problemi dei contadini e dei lavoratori della terra. La seconda chiedeva di far luce sulle condizioni tecnico-economiche della produzione agraria e degli agricoltori e, pertanto, rappresentava maggiormente gli interessi delle classi agrarie dominanti, divise sulla prospettiva di ammodernamento o mantenimento dello status quo. Ma, come si diceva, si era nel pieno della crisi agraria ed erano ancora poco chiare e naturalmente controverse le vie da intraprendere.
Nel 1885 furono finalmente pubblicati i risultati definitivi dell’indagine:
La raccolta di quei 15 volumi, 22 tomi, completati da numerose appendici, tavole, resoconti verbali, costituisce un’opera […] di straordinario interesse per la conoscenza dell’Italia agricola (Caracciolo 1973, p. 3).
L’essenza dell’Inchiesta si ritrova nella Relazione finale del 1885. In essa Jacini mise in evidenza il decadimento registrato dall’agricoltura italiana nei trent’anni precedenti, e il ritardo tecnologico rispetto agli altri Paesi; invocò il superamento degli ordinamenti estensivi e, soprattutto indicò l’indagine stessa «come punto di partenza, come faro, d’ora in avanti, delle deliberazioni del governo nazionale relativamente alla sua politica economica nella materia agraria» (Caracciolo 1973, p. 199).
Sempre Jacini, qualche tempo prima, nel Proemio pubblicato nel 1882 aveva sostenuto:
si può dire che esiste ormai un’italia industriale e commerciale. Un’Italia agricola, invece, non esiste ancora; ma abbiamo parecchie Italie agricole affatto distinte tra loro; così grande e multiforme è l’influenza, sull’economia rurale, della disparità dei climi che si riscontrano tra le Alpi e il Lilibeo; delle tradizioni storiche, morali, amministrative, legislative, diversissime da regione a regione; dell’invincibile lentezza dei mutamenti delle cose agrarie; della disuguaglianza di trattamento dei possessori del suolo rispetto alle pubbliche gravezze, in mancanza di una unità di cadastro; dei mezzi di comunicazione i quali, assai più che non dall’industria manifattrice, dall’agricoltura si esigono moltiplicati e ramificati.
Questa visione è stata parte importante dello spirito che ha informato l’Inchiesta e che è rimasta alla radice dell’approccio che caratterizzerà le impostazioni degli economisti agrari che verranno: la forte sensibilità alla dimensione territoriale, nella consapevolezza delle profonde differenze che su questo fronte caratterizzano l’agricoltura italiana.
È dalla fine dell’Ottocento che si può parlare della costituzione di una Scuola di economia agraria nettamente distinta dalle scienze tecnico-agronomiche. Gli anni della seconda metà del secolo avevano costituito la fase di preparazione lungo la quale erano state poste le radici della Scuola segnandone i caratteri che sarebbero emersi successivamente. È dalla fine del 19° sec. che varie e importanti figure sono emerse come esponenti dei diversi filoni di pensiero e dei distinti segmenti in cui si è articolata la disciplina: economia dell’azienda agraria, politica agraria, estimo. Tra le figure più rilevanti di studiosi che hanno inizialmente segnato con la loro opera il cammino della Scuola italiana, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento emergono Oreste Bordiga (1852-1931), Vittorio Niccoli (1859-1917) e Ghino Valenti (1852-1920).
Niccoli e Bordiga sono ambedue provenienti dalla Scuola superiore di agricoltura di Milano retta dagli allievi di Cattaneo e hanno portato poi altrove il patrimonio di quell’esperienza. Entrambi hanno dato impulso allo studio dell’estimo sia nell’ambito dei rispettivi corsi di economia rurale sia nell’attività applicata svolta in varie istituzioni pubbliche. Niccoli ha tentato una non facile sistemazione delle precedenti opere di estimo prodotte da vari studiosi ed esperti, ed è stato tra i maestri di Arrigo Serpieri mentre reggeva la cattedra di economia rurale ed estimo a Firenze (1890).
La figura di Bordiga prevale per un impianto attento sia a problemi tecnici sia a quelli di rilievo economico e sociale. Partecipò all’Inchiesta di Jacini e, nominato alla Commissione censuaria centrale, si occupò della determinazione e revisione delle tariffe di estimo dei terreni portando quest’esperienza nell’imponente Trattato delle stime rurali (1891). Con quest’opera si precisa la tradizione italiana dell’estimo poi continuata da Giuseppe Medici a partire dagli anni del secondo dopoguerra.
Ma Bordiga si è distinto soprattutto nella Scuola di Portici (dove approdò nel 1884), per il contributo all’analisi e alla conoscenza delle diverse realtà dell’agricoltura meridionale, individuate sulla base delle caratteristiche colturali, dei contratti agrari e dei rapporti di produzione: l’area estensiva e latifondistica, quella segnata dalla promiscuità tra l’olivo e la vite, e quella più intensiva delle ortive, del frutteto, dell’agrumeto. Certamente Bordiga ha aperto la strada all’analisi zonale italiana sviluppata successivamente da Rossi-Doria (1965).
Valenti ha collaborato, come molti altri economisti del tempo, all’Inchiesta di Jacini. È lo studioso che si è adoperato a fornire le analisi necessarie ad avviare il rilancio dell’agricoltura italiana all’indomani del primo conflitto mondiale. Tra il 1907 e il 1911, come Commissario centrale per la statistica agraria aveva impostato il servizio statistico nazionale per l’agricoltura e riorganizzato il catasto agrario in 702 zone agrarie anziché amministrative. Questo gli consentì, in un volume intitolato L’Italia agricola e il suo avvenire (1919), di chiamare a raccolta il meglio degli esperti del settore per dettare un vero e proprio programma di intervento in tutti i segmenti dell’economia e della società rurale, invocando un ruolo quasi federalista dello Stato e un decentramento dell’amministrazione dell’agricoltura. Come Jacini, egli sosteneva:
L’Italia agricola presenta una tale varietà di condizioni di fatto che, ben lungi dal costituire […] una unità economica, si può ben dire che rifletta in sé, come nessun altro dei paesi d’Europa, tutto ciò che vi è più disparato, in fatto di economia rurale (L’Italia agricola e il suo avvenire, cit., p. 10).
Da Valenti a Serpieri (1877-1960), suo allievo. Nell’alveo costruito dal processo di distacco dalle discipline agronomiche, lo sviluppo dell’economia agraria nei tre decenni successivi al primo conflitto mondiale ha conosciuto con lui la forma più compiuta. Il suo pensiero, indirizzando l’attenzione ai fenomeni sociali, all’analisi del territorio, all’esigenza di ammodernamento del settore, si è affermato lungo tre direttrici: a) una visione interventista della mano pubblica nel governo dello sviluppo agricolo; b) l’organizzazione stabile di un sistema di indagini sui problemi dell’agricoltura; c) la sistemazione metodologica e applicativa delle ricerche di economia agraria.
Il maggior contributo lungo la prima direttrice è stato l’introduzione del concetto di integralità della bonifica. Con una totale revisione della concezione precedente egli ha inteso la ‘bonifica integrale’ come operazione simultanea di sistemazione idraulica, risanamento igienico, trasformazione agraria e riorganizzazione produttiva in grado di investire gli assetti del territorio in un’opera di trasformazione, appunto, integrale. Introducendo il concetto di piano coordinato di opere per la valorizzazione dei territori in condizioni economiche e sociali arretrate (Le bonifiche in Italia dal ’700 ad oggi, 1984), l’intervento di bonifica integrale ha assunto una dimensione socioeconomica, oltre che tecnica, e ha posto il problema della completa trasformazione agraria e produttiva del latifondo estensivo, perché ormai occorreva parlare della nuova economia agraria che doveva necessariamente sostituire quella esistente.
Quest’impostazione, da un lato avrebbe permesso di stabilizzare sulla terra buona parte delle turbolente masse bracciantili e contadine ricorrendo anche al trasferimento della popolazione e alla colonizzazione di ampi territori. Dall’altro, poneva le figure tradizionali dei proprietari latifondistici di fronte a un’alternativa: impegnarsi nella trasformazione migliorativa dei terreni in conformità delle direttive dell’intervento pubblico, o subire l’espropriazione dei terreni stessi.
Anche per questo a Serpieri non fu data la possibilità di portare a compimento il proprio disegno di trasformazione e innovazione dell’agricoltura del Paese. Ma i concetti da lui sostenuti si mostrarono preziosi negli anni successivi per elaborare gli strumenti di intervento di riforma fondiaria e di trasformazione agraria sia nelle aree più avanzate sia in quelle più arretrate, fino all’impostazione della pianificazione zonale degli anni Sessanta e Settanta e alle concettualizzazioni successive dello sviluppo locale e del distretto industriale.
La seconda direttrice si è sostanziata nella costituzione (dopo aver fondato l’Istituto di economia e statistica agraria) dell’Istituto nazionale di economia agraria (INEA), articolato territorialmente e immaginato per approfondire la conoscenza dell’agricoltura nazionale nei suoi vari aspetti. L’INEA sarà diretto da Serpieri dal 1928 al 1939, e sarà il luogo di aggregazione di tutta l’economia agraria italiana. Dall’INEA e dalla sua rete di osservatori regionali, sono nate opere come: Le indagini sulla Piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra (1938), Le monografie di famiglie agricole (1931-40), Lo spopolamento montano in Italia (1929-38), I rapporti tra proprietà impresa e manodopera, conclusa con il volume su La struttura sociale dell’agricoltura italiana (1947), La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia (1948) nell’immediato dopoguerra. Tutte queste opere sono state preziosi momenti di studio e di analisi dell’agricoltura italiana, e terreno di formazione di tutta la generazione di economisti agrari della prima metà del Novecento.
La terza direttrice è espressa dalla Guida a ricerche di economia agraria (1929) di Serpieri. Nel presentarla nella riedizione del 1960, Aldo Pagani sosterrà a ragione che: «tutta l’attuale generazione di economisti agrari si è formata lavorando su questa guida». In essa, l’autore ha precisato i metodi e la terminologia con cui procedere all’analisi di un territorio, alla costruzione del bilancio di un’azienda agraria nelle sue varie configurazione, così come di un’impresa di trasformazione, oppure a un’azione di trasformazione fondiaria. Tenendo conto, oltre che degli aspetti produttivi e commerciali, di aspetti generali come i movimenti di popolazione, le condizioni del territorio, la storia delle famiglie, il grado di alfabetizzazione, la distribuzione della popolazione sul territorio e così via.
Attraverso queste tre direttrici Serpieri ha marcato un’egemonia indiscussa nell’evoluzione del pensiero economico agrario, protrattasi a lungo oltre gli anni della sua diretta influenza personale. Tutti i maggiori studiosi della disciplina ne sono rimasti segnati e, tra questi, in particolare, Alessandro Brizi, Giovanni Lorenzoni, Mario Bandini, Giuseppe Tassinari, Medici, i quali affiancarono Serpieri nel sostenere l’attività di governo e quella dell’INEA, pur approfondendo tematiche diverse. Solo Rossi-Doria ed Emilio Sereni, avendola comunque assimilata, si sono staccati dalla lezione serpieriana. Questi due autori, come gli altri, si sono formati a quel ceppo comune, essendosi laureati all’Istituto di Portici e avendo partecipato come borsisti all’Inchiesta sui rapporti tra proprietà impresa e manodopera e sulle condizioni della piccola proprietà coltivatrice nel 1928-29 (1932) sotto la conduzione di Brizi.
Sereni si distinguerà per il tentativo di applicazione del marxismo alla realtà delle campagne italiane (La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, 1946, e Il capitalismo nelle campagne, 1947), collocandosi in una posizione di rilievo nel panorama internazionale degli studi sull’evoluzione dell’agricoltura. Studioso estremamente poliedrico, egli mostrerà in seguito una particolare «capacità di penetrazione nei lontani primordi agricoli […] e di collegarsi alle fasi successive dello sviluppo agricolo» (R. Zangheri, Emilio Sereni e la questione agraria in Italia, 1981) nei suoi aspetti economici e sociali, sia discutendo di antiche tecniche produttive o di allevamento, sia facendo dell’evoluzione del paesaggio agrario un affascinante strumento di analisi dello sviluppo di lungo periodo dell’agricoltura, sia, ancora, occupandosi attivamente di politica agraria.
Rossi-Doria, coetaneo e amico di Sereni, aveva frequentato con lui la Scuola di Portici e aveva fatto proprio l’insegnamento di Serpieri applicandolo all’indagine sulla piccola proprietà contadina dell’avellinese. Di quell’insegnamento Rossi-Doria fece tesoro, ma già da giovane aveva dimostrato di saperlo integrare in una visione più ampia, attenta ai problemi di sviluppo delle altre economie agricole, spaziando dal New Deal degli Stati Uniti alla politica agraria nazista della Germania, dalla struttura dell’agricoltura svizzera alla riforma agraria del Messico, alla politica fondiaria in Africa.
La formazione a Portici, il bagaglio di conoscenze tecniche e agronomiche acquisite in varie esperienze di studio sul campo, il rapporto diretto con le campagne e i contadini del Mezzogiorno dettato da una passione civile straordinaria e, infine, l’approccio riformatore derivante dalla vicinanza al pensiero gramsciano, da un lato, e a quello liberal-azionista (Guido Dorso), dall’altro, lo portarono a un forte impegno meridionalista. Negli anni successivi alla Liberazione svolse una funzione di primo piano nel dibattito per l’avvio e l’attuazione della Riforma agraria (Riforma agraria e azione meridionalista, 1948) e negli anni Cinquanta fu promotore di una profonda revisione delle linee di politica agraria prevalse nel dopoguerra, affrontando i problemi dell’esodo rurale e dell’ammodernamento dell’agricoltura nel nuovo assetto che stava determinandosi in Europa e nel mondo.
La sua opera continuerà fino agli anni Ottanta segnando l’economia e la politica agraria del Paese. Ma, al di là del suo specifico contributo di studioso, Rossi-Doria si è distinto per una funzione particolare: aver preparato negli anni a cavallo del 1950 il rinnovamento dell’economia agraria italiana che si realizzerà compiutamente nei decenni successivi attraverso il ricongiungimento della disciplina con il percorso di sviluppo della teoria economica. Il secondo conflitto mondiale con i suoi disastri era alle spalle; si prospettavano nuove direzioni degli assetti internazionali, dell’economia e della cultura.
Anche per l’economia agraria si dovevano fare i conti con il passato. E, infatti, gli anni dell’immediato dopoguerra costituirono una stagione importante per gli studi di economia agraria. Nell’ambito dell’Assemblea costituente si costituì una Commissione agricoltura, coordinata da Rossi-Doria, che con Bandini, Mario Tofani, Serpieri, Medici e tanti altri analizzò attentamente i risultati della politica agraria del fascismo e propose i cambiamenti necessari (Ministero per la Costituente 1946).
Si costituì la «Rivista di economia agraria» che nel primo numero conteneva un lucido saggio di Luigi Einaudi sulla mezzadria, ritenuta poco adatta a un’agricoltura che cambia e che l’autore definiva significativamente come «l’industria agricola». Partirono le indagini sulla proprietà fondiaria e sulla disoccupazione in agricoltura con Medici e Giuseppe Orlando, per prepararsi ad affrontare i problemi della riforma agraria. Ma si sentiva anche la necessità di riallacciare i contatti con il tronco centrale della disciplina economica che intanto si era fortemente evoluta. E fu Rossi-Doria, appunto, che, divenuto commissario dell’INEA nel 1945, promosse una riunione di economisti agrari per avviare un’analisi dello stato raggiunto dalla disciplina in Italia, assumendosi la responsabilità di porre il problema del superamento del ciclo serpieriano, che pure aveva dato importanti risultati.
Si trattava di un’operazione tutt’altro che facile o scontata e significava precorrere con largo anticipo i tempi di un processo non ancora maturo, in un ambiente totalmente cresciuto alla scuola di Serpieri. In quella riunione egli iniziò affermando che
il Serpieri è una personalità alla quale ci rifaremo continuamente perché, qualunque sia la nostra opinione, egli è certamente il Maestro ed il creatore dell’Economia agraria in Italia (Gli economisti agrari e la loro rivista a 50 anni dalla fondazione, 1995, p. 5).
Ma subito dopo, riferendosi a La guida di economia agraria, la definì come un libro benedetto e maledetto, in quanto costringe le analisi in un «quadro uniforme e pesante». E infine, affrontando il tema dei rapporti con la disciplina economica sostenne che, al contrario di quanto avvenuto tra gli economisti agrari americani e tedeschi,
rispetto alla matrice economica sembra evidente che, mentre è stato di sicuro vantaggio il far per proprio conto, l’acquistare autonomia, il cercare quello che v’era di specifico e non di generale nell’economia agraria, abbia anche portato a distaccar troppo l’interesse dai problemi più generali della scienza economica, la quale nel frattempo era tutta presa da un processo di intensa revisione critica. […] Ho l’impressione che ciò […] abbia avuto due conseguenze gravi cui bisogna rimediare: una troppo rudimentale elaborazione concettuale di alcuni dei fondamenti stessi dell’economia agraria; una poverissima analisi del posto e delle relazioni dell’agricoltura con la rimanente vita economica, con la conseguenza di lasciare come sospesa in aria tutta l’economia agraria (p. 44).
Queste affermazioni sono chiaramente anticipatrici del percorso di recupero rispetto alla teoria economica che si avvierà negli anni successivi. Anche se a questo riguardo bisogna riconoscere che l’allontanamento dell’economia agraria dalla teoria economica era avvenuto quando questa aveva teso a diventare scienza astratta e asettica, mentre la prima si stava costituendo come disciplina capace di dare risposta a problemi concreti, pure se a prezzo di un eccessivo rinchiudersi nella dimensione aziendale e agronomica.
In ogni caso fu proprio Rossi-Doria che, con la stessa logica innovativa di Cattaneo e Ridolfi, rivoluzionando l’impostazione del vecchio Istituto di economia agraria di Portici, si impegnerà nella formazione di giovani economisti agrari collegandosi con il mondo accademico statunitense attraverso la costituzione di un Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie il cui programma consisteva nello studio e applicazione di moderni strumenti di analisi economica e statistica sia al livello dell’azienda agraria sia dell’intero settore agricolo. Si configurava così definitivamente una disciplina analiticamente e metodologicamente più attrezzata e distinta nei vari filoni specialistici dell’economia dell’azienda agraria, della politica agraria, dell’economia dei mercati agricoli, dello sviluppo delle economie agricole. Quest’azione, anche se tra vari contrasti, ha certamente influenzato in positivo l’evoluzione successiva della disciplina.
Con il Rossi-Doria degli anni Cinquanta si conclude il primo secolo di vita della Scuola italiana di economia agraria: cento anni di formazione della Scuola durante i quali si è accumulato uno straordinario patrimonio di conoscenza, di attenzione ai tanti aspetti tecnici, sociali, culturali, territoriali dell’agricoltura italiana. Un contributo significativo alla crescita unitaria del Paese. Cento anni che hanno costituito il retroterra di una nuova storia che negli anni recenti ha configurato una disciplina che ha saputo aggiornarsi, sia per analizzare le trasformazioni del processo produttivo settoriale, sia per rispondere all’accresciuta complessità delle variabili da tenere in considerazione per l’efficiente gestione economica delle aziende agrarie. Sia, infine, per interpretare il ruolo svolto dall’agricoltura nell’ambito dei sistemi economici contemporanei a diversi stadi di sviluppo e nei nuovi e dinamici assetti della globalizzazione.
G. Valenti, L’Italia agricola ed il suo avvenire, Roma 1919.
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A. Serpieri, La legge sulla bonifica integrale nel quinto anno di applicazione, Roma 1933.
A. Serpieri, Fra politica ed economia rurale, Firenze 19372.
C. Cattaneo, Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino 1939, Torino 1975.
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M. Rossi-Doria, Note di economia e politica agraria, Roma 1949.
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E. Roll, History of economic thought, London 1938 (trad. it. Torino 1962).
Ministero per la Costituente, Rapporto sull’agricoltura, 1° e 2° vol., Roma 1946.
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Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, 3° vol., Venezia 1991 (in partic. L. D’Antone, L’intelligenza dell’agricoltura. Istruzione superiore, profili intellettuali e identità professionali, pp. 391-412; C. Fumian, Gli agronomi da ceto a mestiere, pp. 345-89).
Gli economisti agrari e la loro rivista a 50 anni dalla fondazione, introduzione di G. Amadei, Bologna 1995.
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