Scuola napoletana
Nell’arco di tutto il Settecento, la giovane scienza dell’economia si avvale, nel suo farsi autonoma, del contributo della Scuola napoletana. Privilegiati dagli economisti napoletani sono alcuni temi d’analisi, come valore e moneta, ricchezza e sviluppo, insieme alla riflessione sul significato di ‘civiltà’ nella vita economica (la «vita civile economica», l’«economia civile»). Pur all’interno di alcune rilevanti continuità, su questi temi essi propongono risposte e schemi analitici differenziati.
In questo scritto illustreremo dapprima le aree di convergenza, che sono quelle più direttamente attinenti alla sfera della politica economica.
Analizzeremo poi il loro contributo teorico a partire dai quesiti fondativi, al confine tra filosofia politica e scienza economica: esiste un conflitto originario tra le persone? Su cosa si fonda la possibilità della loro cooperazione? Che relazione esiste tra l’utile privato e la felicità pubblica? Come vedremo, le loro risposte sono molto articolate: emergono qui le principali linee di continuità, ma anche alcune importanti differenze di fondo.
Gli economisti napoletani vanno distinti anche per il diverso grado di autonomia concettuale cui portano il ragionamento economico: autonomia che se non implica la rescissione del legame con la matrice filosofica di partenza, richiede tuttavia la capacità di sviluppare le categorie proprie dell’analisi economica, quali valore, prezzo, ricchezza, moneta, occupazione; e di analizzare fenomeni quali il funzionamento dei mercati, il commercio interno e lo scambio internazionale, la distribuzione, lo sviluppo, l’inflazione, la tassazione. Della necessaria autonomia dell’analisi economica fu consapevole Antonio Genovesi, che proprio di questo parlava nel dichiarare la propria conversione «da metafisico a mercatante»; e Ferdinando Galiani ve la condusse in grado sommo, secondo alcuni saltando addirittura un secolo, in particolare sulla strada di una compiuta teoria del valore.
I modelli economici e gli strumenti analitici sono dunque oggetto del terzo stadio del nostro ragionamento, dedicato a un sintetico esame del contributo scientifico di alcune figure centrali della Scuola napoletana: in ordine cronologico, Paolo Mattia Doria; Carlo Antonio Broggia; Genovesi e la sua scuola, rappresentata qui da Francescantonio Grimaldi (1741-1784); Giuseppe Palmieri e Gaetano Filangieri. Tratteremo infine di Galiani, che rappresenta in un certo senso il vertice del lungo percorso con cui l’economia si costituisce come scienza autonoma nella Napoli settecentesca.
Sul piano della politica economica, è lecito individuare il comune approccio degli economisti napoletani in un deciso riformismo di segno liberista, se per liberismo si intende l’idea che la formazione del mercato interno e lo sviluppo economico richiedano la libertà dai vincoli e dai pesi imposti dalle giurisdizioni feudali, dai monopoli, dagli «ostacoli insuperabili» al commercio interno, ivi incluso il commercio del grano, dall’imposizione fiscale troppo grave o mal distribuita, dai fedecommessi e dalle primogeniture, dai freni imposti dai proprietari assenteisti, dagli effetti distorcenti sulla concorrenza di alcune istituzioni obsolete, come l’amministrazione dell’annona e gli arrendamenti (l’alienazione ai privati del diritto di esazione dei tributi): insomma, se per liberismo intendiamo l’adesione al movimento antifeudale e antivincolistico che nel corso del secolo si apre la strada nel nome di un più libero e pieno sviluppo delle forze produttive, e che si connette a Napoli con l’analisi sempre più lucida dei problemi economici del Regno (si vedano, per es., P.M. Doria, Del commercio del Regno di Napoli, 1740, in Id., Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, a cura di G. Belgioioso, 1° vol., 1981, p. 142; C.A. Broggia, Trattato de’ tributi, delle monete e del governo politico della sanità, 1743, p. 56; A. Genovesi, Delle lezioni di commercio o sia di economia civile. Con elementi del commercio, 1768-1770, a cura di M.L. Perna, 2005, pp. 318, 326, 339, 347, 531; F. Galiani, Della moneta. Libri cinque, 1750 [ma 1751], pp. 121-22, 188, 252, 335-36; Della moneta, 17802, in Id., Della moneta e scritti inediti, a cura di A. Caracciolo, A. Merola, 1963, pp. 110-11, 163, 211, 276).
Più sfumate, complesse o cangianti appaiono le posizioni sul commercio estero: pur sostenendone la libertà, gli economisti napoletani sono altresì orientati alla difesa degli interessi nazionali mediante misure protezionistiche e sistemi tariffari ben articolati, come nella proposta galianea di una tariffa da imporsi sulle importazioni (tranne che sui materiali da lavoro) e sull’esportazione di beni non lavorati, esentando tutte le altre esportazioni (F. Galiani, Della moneta, cit., p. 244, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 204). Genovesi elabora, in forma di risposta a «tre quistioncine», un’interessante tesi sulla «dipendenza»: l’indipendenza assoluta o, diremmo oggi, l’autarchia è da respingere perché incompatibile con quella «molteplicità dei bisogni» che costituisce l’essenza delle nazioni evolute, e perché priverebbe un Paese «de’ lumi degli altri popoli», bloccando i possibili effetti imitativi. Tuttavia, per evitare che il Paese diventi «schiavo» delle altre nazioni, bisogna limitare le importazioni alle sole derrate nella cui produzione c’è in patria uno svantaggio relativo, ai materiali assenti dal suolo del paese e «all’arti di lusso men generali», cioè, nel Regno di Napoli, a quelle diverse dalle «seterie, le belle tele, la scultura ecc.» (A. Genovesi, Delle lezioni, cit., pp. 393-94). Forte è infine la consapevolezza del ruolo del cambio e dei prezzi relativi per la competitività internazionale (cfr. anche P.M. Doria, Del commercio, cit., p. 142; C.A. Broggia, Il banco e il monte de’ pegni. Del lusso, a cura di L. De Rosa, A. Graziani, R. Patalano, 2004, p. 25; F. Galiani, Dialogues sur le commerce des bleds, 1770; A. Genovesi, Delle lezioni, cit., pp. 382, 387, 419-21, 512, 522-28, 876-77).
Sul tema dell’equilibrio del conto finanziario della bilancia dei pagamenti, gli economisti napoletani mettono in guardia contro l’accumulazione del debito estero, nella forma sia del debito privato sia di quote di debito pubblico in mano agli stranieri (F. Galiani, Della moneta, cit., p. 361, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 298). Le conseguenze deleterie del debito estero erano state già, del resto, ben illustrate da Marc’Antonio De Santis, Antonio Serra e Gian Donato Turbolo (1578?-?) all’inizio del secolo precedente, quando agli stranieri affluivano molte rendite prodotte nel Mezzogiorno spagnolo.
La convergenza di vedute si estende anche al netto rifiuto delle posizioni bullioniste, in nome dell’identificazione, ormai matura, della ricchezza nazionale non con i metalli preziosi, ma con il fiorire delle attività produttive e con la crescita della popolazione o, per dirla con Galiani, più semplicemente, con l’uomo stesso (cfr. P.M. Doria, La vita civile con un trattato della educazione del principe, 1729, pp. 318 e 320; C.A. Broggia, Trattato de’ tributi, cit., p. 174; F. Galiani, Della moneta, cit., pp. 123, 147, 154, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 111, 129-30, 134; A. Genovesi, Delle lezioni, cit., pp. 702, 859-60). Del resto, a Napoli, in senso nettamente antibullionista si era chiaramente già espresso Serra, economista per il quale Galiani ebbe grande ammirazione. Nell’ambito di questo approccio condiviso, Genovesi addita all’attenzione del policymaker (sovrano e ministri) due temi specifici: la necessità della proporzione tra risorse e popolazione, con una certa attenzione alle condizioni dell’assorbimento della popolazione stessa nel processo produttivo; il ruolo propulsivo dell’istruzione (rigorosamente pubblica e rivolta soprattutto al «ceto mezzano») nella crescita della produttività del lavoro e quindi della ricchezza nazionale.
Alle posizioni antibullioniste si affianca un pensiero monetario decisamente evoluto che, affondando le radici nel dibattito seicentesco tra De Santis, Serra e Turbolo, si sviluppa soprattutto con Troiano Spinelli (1712-1777), Broggia e Galiani, che da questi predecessori trasse ispirazione. In tema di politica monetaria, è avvertito con minore drammaticità il problema seicentesco del costante deflusso dei metalli preziosi dallo Stato. Due tematiche emergono ora sopra le altre: la scorrevole circolazione della moneta per facilitare lo scambio e l’attività produttiva, evitando i pericoli del tesoreggiamento; e l’alzamento, ossia la manipolazione del valore della moneta da parte del sovrano. Gli economisti napoletani riconoscono la tassa occulta imposta attraverso l’inflazione dall’autorità monetaria, ma si dividono sulla sua legittimità: alla condanna senza appello di Spinelli, si contrappone il giudizio più cauto e circostanziato di Broggia e Galiani.
In tema di politica tributaria, si intende promuovere lo sviluppo delle attività imprenditoriali attraverso la riduzione o l’azzeramento dei tributi sulla ricchezza mobile e sui redditi «incerti», cioè quelli delle classi produttive, e lo spostamento del carico fiscale sulle rendite dei proprietari assenteisti, dei poltroni e dei neghittosi. Prevale anche la propensione per un sistema più progressivo, o almeno non regressivo. La tassazione, dice Broggia, deve colpire più geometricamente che aritmeticamente, intendendo egli, con questo, rifiutare il sistema del testatico (Trattato de’ tributi, cit., p. 6).
Si vuole poi limitare l’effetto depressivo dell’emissione di titoli del debito pubblico sull’iniziativa privata. Galiani rileva che la corsa alle corrispondenti rendite allontana i capitali dagli usi produttivi e nutre «la pigrizia ne’ ricchi pur troppo inclinati a giacervi dentro» (Della moneta, cit., p.360, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 297). Filangieri riprenderà l’argomentazione in Delle leggi politiche ed economiche (1780, in Scrittori classici di economia politica, a cura di P. Custodi, 1804, pp. 379-80).
Nella discussione sulla politica economica notevole importanza riveste la categoria del ‘lusso’, molto dibattuta a Napoli, anche sulla scorta della citatissima opera di Jean-François Melon (1675-1738), Essai politique sur le commerce (1734). Gradualmente superate le resistenze conservatrici di Doria e di Broggia (il quale però, come vedremo, presenta un’interessante analisi economica sul tema), si afferma la tesi che lo sviluppo di bisogni sofisticati costituisca lo stimolo e la manifestazione dello sviluppo produttivo e possa perfino contribuire a una distribuzione più equa della ricchezza, perché il lusso «apre la cassa del ricco possidente, e l’obbliga a pagare una tassa volontaria a colui che languirebbe nell’ozio e nella miseria senza questo sprone» (G. Filangieri, Delle leggi, cit., p. 404). Perciò, se l’importazione dei beni di lusso dall’estero va strettamente limitata (ma non abolita), non si deve invece frenare la domanda di beni di lusso di produzione nazionale (F. Galiani, Della moneta, cit., p. 290, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 242; A. Genovesi, Delle lezioni, cit., pp. 423-28).
Infine, anche la scelta del regime politico accomuna, pur con qualche sfumatura, gli economisti napoletani del Settecento: con l’avvento del «principe proprio» (F. Galiani, Della moneta, cit., p. 156, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 136) nella figura del re Carlo di Borbone, nel 1734, si sperò che la monarchia assoluta potesse efficacemente contrastare il potere dei baroni e i privilegi della Chiesa. Anche quando, con il passare dei decenni, i tentativi di riforma fallirono e la speranza si affievolì, e poi per molti si spense, la forma monarchica non fu messa in discussione.
Entro tale ambito si può parlare dunque di una Scuola napoletana, individuata da comuni istanze di politica economica: antivincolistica all’interno, latamente protezionista per il commercio estero, più o meno moderatamente perequatrice e antifeudale in materia di politica tributaria, e infine propensa alla monarchia assoluta sul piano politico. L’obiettivo comune è l’avvio di una politica di sviluppo; gli strumenti d’intervento proposti sono adeguati allo scopo, e sufficientemente raffinati da un punto di vista tecnico.
Sui caratteri comuni appena individuati la Scuola napoletana converge anche attraverso una continua ‘circolazione interna’ delle idee, sia sul piano intergenerazionale sia all’interno di ciascuna generazione. Gli esempi di ‘fertilizzazione incrociata’ sono numerosissimi. Alla circolazione interna delle idee si affianca la circolazione internazionale propria del secolo dei lumi, già promossa a Napoli dall’Accademia degli Investiganti; poi divenuta intensa sotto lo stimolo di Celestino Galiani, zio di Ferdinando, nella sua funzione di rettore dell’Università; degli intellettuali del circolo di Bartolomeo Intieri; e di Genovesi, che di quel circolo fece parte; come ne fece parte Galiani, il cui pensiero, insieme a quello di Filangieri, fu nostra ricercata merce di esportazione.
Più complesso è il discorso sull’approccio teorico degli economisti napoletani. Bisogna innanzitutto osservare che la teoria economica del Settecento, non solo in Italia e a Napoli, non nasconde (come oggi talvolta tende a fare) i solidi legami che la congiungono alla filosofia politica: Doria lo diceva a chiare lettere, che il commercio e gli altri ordini della società «hanno con la filosofia un necessario rapporto», e intanto possono esser buoni «in quanto che da quella si deducano» (Del commercio, cit., p. 141). E, significativamente, Genovesi dedicava la parte iniziale delle Lezioni ai principi filosofici a fondamento della propria «economia civile». Ora, poiché il 18° sec. presenta un gran confronto tra diversi approcci di filosofia politica, e poiché, come studi classici e recenti hanno dimostrato, Napoli fu un incubatore di grande rilievo e di grande vivacità intellettuale in questo ambito, non può stupire la varietà di approcci presenti nella Scuola napoletana.
Guardiamo dunque ai grandi quesiti posti dai filosofi della politica e, allora come oggi, raccolti dagli economisti: esiste un conflitto tra bene privato e bene collettivo? È possibile la loro conciliazione? E quale forma di società la rende possibile? Le soluzioni sono molteplici, e talvolta molto diverse tra loro, come dimostrano gli esempi di Doria, Genovesi e Galiani.
Il platonismo cristiano, o «cristianesimo sociale» (Rotta, in La letteratura italiana, 44° vol., t. 5, 1978, p. 864) di Doria postula tra le passioni e la virtù un conflitto iniziale, che egli intende risolvere attraverso la fondazione morale della politica, in netta opposizione alla dannosa scorciatoia intrapresa dai filosofi «moderni» (i pensatori laici da Niccolò Machiavelli a René Descartes, da Thomas Hobbes, a John Locke e Baruch Spinoza) di «considerar l’uomo nello stato, ch’egli è» anziché «in quello, nel quale dovrebbe essere» (P.M. Doria, La vita civile, cit., p. 5). La ragione mostra infatti che la virtù, e non il cieco assecondamento delle passioni, è il vero utile degli uomini o, diremmo oggi, il loro interesse illuminato. Occorre quindi «far loro conoscere per utile la virtù stessa: altro per mio avviso non essendo la virtù umana, e naturale, che l’amor prop[r]io ben diretto» (p. 14).
Anticipando un tema poi ripreso da Genovesi, Doria sostiene che il dolore, o meglio il desiderio di evitarlo, è la molla dell’azione umana: una volta che l’uomo abbia provato il dolore che nasce dallo scontro tra le passioni individuali, egli riconoscerà l’«inclinazione naturale all’unione fra gli uomini» (p. 21), impiantata provvidenzialmente in noi dalla natura. Abbandonerà perciò la vita barbara e approderà alla «vita civile», la cui essenza è «uno scambievole soccorso delle virtù, e delle facultà naturali, che gli uomini si danno l’un l’altro, a fine di conseguire l’umana felicità» (p. 83). Dunque, la felicità consiste nel trascendimento, non nel soddisfacimento delle passioni individuali. Essa si realizza in una società ben ordinata, caratterizzata dall’ordine gerarchico tra governanti e governati, e ben descritta dalla metafora organicistica del corpo umano (pp. 83-84,100-03).
Sul piano più strettamente economico, lo «scambievole soccorso» tra gli uomini si esplica nella dimensione dello scambio e del commercio, sia interno sia internazionale. Come Doria scrisse nel 1740:
Il Commercio è un’Arte del fare, che gli uomini uniti nella Civile Società si prestino l’un l’altro un mutuo soccorso, soccorrendosi vicendevolmente a l’uno all’altro di quelle Merci, delle quali alcuni mancano, e gli altri hanno abbondanza, e tutto ciò si deve fare senza che la lontananza de’ luoghi, né altra cosa possa questo mutuo soccorso impedire. Il mutuo soccorso, poi, che si danno quelli di una medesima Città o di un medesimo Regno si chiama commercio interno, mentre quello che per mezzo delle lettere di cambio e poi del trasporto delle merci si danno gli abitatori delle provincie lontane si chiama commercio esterno (Del commercio, cit., p. 142).
Egli propone dunque, insieme alla fondazione etica della politica, la fondazione etica dell’economia mercantile, basando entrambe sull’idea del mutuo soccorso.
Diverso è l’approccio giusnaturalistico-antropologico di Genovesi che non postula, nemmeno come punto di partenza, un vero dualismo tra passioni e virtù. L’atto costitutivo della società ha un duplice fondamento: da un lato, nel diritto «di esser soccorsi e dall’obbligazione di soccorrere, che sono diritti e obbligazioni naturali o primitivi del genere umano» (Delle lezioni, cit., p. 284); dall’altro, nelle «primitive proprietà della natura umana», che sono una sintesi di amor proprio e di «pietà» (p. 274).
Certo, Genovesi è consapevole della nostra «ignoranza» e «ritrosia» e della «forza elastica e resiliente delle nostre passioni», che possono generare la discordia (p. 288). Nondimeno, l’antropologia genovesiana concilia interesse e socievolezza come motori dell’agire umano, spianando così la strada a una non troppo problematica sintesi tra felicità privata e felicità pubblica: l’«obbligazione» delle persone a cooperare alla «comune prosperità» (p. 283) ha buon esito poiché «il fondo della natura umana è compassionevole, che vale a dire inchinato alla virtù sociale, ch’è la vera virtù di quaggiù» (p. 284). E in fondo, il soccorrere gli altri non è che una forma di interesse (p. 300, nota c). «Natura» umana, «patti sociali» e «utilità propria» si integrano agevolmente nel garantire il raggiungimento della «comune felicità», che è la felicità delle persone unite nel «corpo politico» della società (p. 295).
Il rapporto di Genovesi con Doria è complesso: mentre per Doria la transizione alla ‘vita civile’ richiede che il dualismo tra passioni individuali e bene comune sia superato con la virtù; per Genovesi quella transizione scivola agevolmente sull’«inclinazione naturale» degli uomini alla virtù sociale, grazie alla «compassione all’aspetto di chi subisce miseria», senza che quel dualismo mai davvero si manifesti, grazie a una dotazione iniziale di virtù già insita nella natura umana (Delle lezioni, cit., p. 298). Tuttavia, le loro visioni convergono: l’approdo è per entrambi un’attività mercantile «benevolente», una «vita civile economica» o un’«economia civile» in cui si conciliano interesse privato e soccorso reciproco, bene privato e bene pubblico. Inoltre, per entrambi la società è un corpo organico gerarchicamente ordinato e guidato dal sovrano, sebbene questi debba regolare, non forzare, la libertà delle persone per il più moderno Genovesi (p. 308).
Altra è la soluzione offerta dall’utilitarismo disincantato di Galiani, che in primo luogo distingue la morale dalla politica: «La morale guida gli uomini dopo miglioratigli e fattigli virtuosi: la politica gli ha da ben riguardare come lordi ancora e coperti dalle loro ordinarie passioni» (Della moneta, cit., p. 356, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 294). Egli identifica nell’amor proprio, padre delle passioni, «il principio d’azione ch’è in noi», e considera il «privato interesse» (insieme ai suoi due veicoli, il commercio e la moneta) come il cardine della civilizzazione e della felicità, che consiste nell’utilità derivata dal soddisfacimento delle passioni e, nella sfera economica, dal consumo dei beni (Della moneta, cit., pp. 28-30, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 39-41). È certamente vero che anche per Galiani, come per Doria e Genovesi, regolatrice delle vicende umane, e della vita economica in particolare, è la Divina Provvidenza; ma non si sfugge alla sensazione che la «suprema Mano» (Della moneta, cit., p. 53, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 57), consapevole dell’imperfezione della nostra natura, e avendo riconosciuto nella virtù una risorsa scarsa, abbia cercato di farne economia, e di servirsi per i propri fini direttamente delle passioni non depurate. Così «l’equilibrio del tutto», e in particolare quello del mercato, si consegue non grazie all’«umana prudenza o virtù» bensì sotto il
vilissimo stimolo del sordido lucro […] avendo la Provvidenza, per lo suo infinito amore agli uomini, talmente congegnato l’ordine del tutto, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate (Della moneta, cit., p. 50, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 55).
Il binomio utilità-felicità proprio dell’utilitarismo sembra così trovare una giustificazione etica nella volontà della Provvidenza; ma a ben vedere è questa ad aver subito un estremo processo di laicizzazione, fino al punto di manifestarsi (o scomparire) negli incentivi economici all’azione umana. All’economista non resta che impartire quasi in sordina, per scansare l’accusa di epicureismo, l’avvertimento debole che il calcolo dell’utilità va fatto bilanciando i piaceri guadagnati in questa vita con l’eventuale dolore nella prossima (Della moneta, cit., p. 29, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 40).
La soluzione individualista di Galiani è dunque molto diversa, sia sul piano etico sia su quello metodologico, da quelle, convergenti, degli altri due: la sua etica è quella del mercato; la sua «civile società» è un’aggregazione ex post, un equilibrio che nasce dall’interazione tra individui indipendenti che perseguono i loro obiettivi di «sordido lucro». La monarchia assoluta può essere tranquillamente accettata come cornice politica, purché essa si limiti a garantire la sicurezza dei contratti senza «turbare con la legge […] la piena e naturale libertà» dei contraenti, né pretendere di dirci «cosa ci debba piacere o bisognare» (Della moneta, cit., p. 184, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 160).
Sul piano della metodologia della ricerca economico-sociale, scaturiscono da questi approcci strategie alternative. Mentre Galiani sviluppa l’approccio dell’individualismo metodologico, che studia la società a partire dagli individui, nell’altra impostazione il percorso è inverso: il ‘corpo sociale’, da organismo originariamente semplice, si articola progressivamente nel corso della storia in ordini, classi e ceti sociali. Il tema doriano della suddivisione degli «ordini» e della sempre più complessa «distribuzion delle fatiche secondo le diverse facultà, o talenti degli uomini» (P.M. Doria, La vita civile, cit., p. 107), sarà sviluppato dapprima da Broggia (soprattutto nei manoscritti inediti di un suo trattato su La vita civile economica o sia del vero essere del sapere e del potere), per acquistare poi il senso di una perlustrazione delle interazioni tra stratificazione sociale e sviluppo economico nell’analisi di Genovesi. Quest’ultimo rovescerà alcune delle conclusioni teoriche di Doria e Broggia; ma è evidente la continuità metodologica tra il loro approccio e il suo. Come vedremo, questa continuità si estende, dall’analisi delle classi, anche al graduale riconoscimento del ruolo della domanda come stimolo all’attività economica.
Troveremo quindi una linea evolutiva che, pur nelle differenze, unisce il pensiero economico di Doria, Broggia e Genovesi: una linea dalla quale invece Galiani si distacca per il suo approccio metodologico individualista. Sebbene molte siano le fonti e le influenze comuni, a partire da quella vichiana, che trasmette a tutti una qualche sensibilità ‘storicista’, e nonostante la convergenza su molti temi specifici, è sul crinale filosofico e metodologico descritto in questo paragrafo che si colloca la principale linea di frattura interna alla Scuola napoletana. Con queste osservazioni in mente, analizziamo più da vicino il contributo analitico di alcuni suoi protagonisti.
Nobile genovese trapiantato a Napoli e qui attivo fino alla morte, Doria fu filosofo, matematico, politico ed economista: «un genovese con la mente di un meridionale» lo definirà elogiativamente un interprete novecentesco (E. Rota, Le origini del Risorgimento, 1700-1800, 1938, p. 425). Insieme con Giovan Battista Vico (1668-1744), che gli dedicò il De antiquissimi Italorum sapientia, e con il più giovane Broggia, egli condivise la collocazione polemica rispetto ai filosofi laici «moderni».
Il suo contributo analitico può essere analizzato a partire da un’apparente difficoltà in cui il suo ragionamento si imbatte: come si concilia la teoria dello scambio come mutuo soccorso con la realtà dello scambio tra «padroni» («i possessori de’ campi e degli averi») e «servi» («la rustica plebe al lavoro de’ campi destinata; e coloro, eziandio, che coltivano le arti per comodo, e servizio degli uomini nelle città», La vita civile, cit., p. 104)? Tanto più che la divisione tra questi due ordini è la «principale» nella società? Egli risolve la difficoltà brillantemente, negando la disuguaglianza in base alla considerazione che anche in questo scambio «si truova tutto quello scambievol soccorso dell’uno all’altro, in cui abbiam detto nell’antecedente discorso consistere la essenza della vita civile» (p. 105). Infatti:
nella ben ordinata vita civile questa differenza di nome non fa veruna differenza reale fra il padrone de’ campi, ed il servo, né veruna reale disuguaglianza fra l’uno, e l’altro: perché il primo non è che un semplice amministratore; e’l secondo è un’operante (p. 104);
il quale, essendo mantenuto e ben governato dal padrone, «è ben giusto che tanto beneficio compensi con la meccanica servitù» (p. 105).
Dall’assimilazione a un’attività lavorativa del contributo del «padrone», visto come un manager, consegue la definizione della rendita non come un surplus, ma come «il frutto reale ed effettivo, che la terra somministra a’ padroni, aiutata dalla industria, con la quale lo conservano, lo distribuiscono, e l’aumentano» (p. 319). La teoria della reciprocità dei benefici dello scambio s’incontra dunque con un’embrionale teoria della distribuzione basata sul contributo dei fattori produttivi.
Escluso per questa via, il conflitto tuttavia ricompare nella forma della contrapposizione tra interesse individuale e interesse collettivo o, come Doria dice, «il presente e particolare [cioè privato] vantaggio» e il «pubblico bene, il quale è lo stabile fondamento di quello» (Massime del governo spagnolo a Napoli, a cura di G. Galasso, V. Conti, 1973, pp. 120-21). Come anticipando il moderno teorema del prigioniero, egli mostra acuta consapevolezza degli esiti subottimali per tutti della mancanza di cooperazione o, con linguaggio moderno, della defezione. Questa a sua volta viene imputata al prevalere del movente dell’accumulazione della ricchezza privata. Cedendo alla falsa idea che «la vera virtù sta nell’oro riposta»,
ognuno s’affatica di cumulare particolari ricchezze, e non solamente non abborrisce, ma gode di fabbricarle sopra la rovina del prossimo, e in questo modo non si avvedono i miseri che fanno come chi, alzando fino al cielo un grande edificio, zappa nel medesimo tempo con le proprie sue mani i fondamenti di quello, per modo che, dopo non molto, vinto dal proprio peso, forz’è che rovini (p. 121).
In particolare la deviazione dalla cooperazione avviene quando l’«economia astratta», che «ha per oggetto la conservazione e l’aumento del denaro, ch’è immaginario» si separa dall’«economia naturale» che «ha per oggetto il buon’ordine, la buona distribuzione, e l’aumento della roba effettiva» (La vita civile, cit., p. 318). Questa separazione tra economia astratta ed economia naturale, che richiama irresistibilmente alla mente l’ancora lontana teorizzazione marxiana dell’autonomizzazione della ricchezza astratta dai valori d’uso, provoca conseguenze negative sulla produzione. Nel commercio interno ciò si verifica allorché usurai e avari fanno ristagnare la circolazione monetaria sottraendola agli usi produttivi; nel commercio estero, allorché il principe avido di conquista «trascura la economia del suo regno, che nell’aumento de’ popoli nella coltura de’ campi, e nell’accrescimento delle arti e del commercio consiste» (p. 320).
L’idea della «vita civile economica» è ripresa da Broggia, economista d’ingegno cui non giovarono né il carattere (Galiani nell’Avviso premesso all’edizione del 1780 del Della moneta lo accusa in pratica di non saper vivere); né la numerosa famiglia da mantenere con la professione di aromatario, che lo distraeva dagli studi; né forse lo stile letterario un po’ «asiatico», come lo definì Ludovico Muratori, che però stimò molto Broggia, e lo gratificò scrivendogli che «si puol essere gran dottore, senza esercitare il dottorismo» (cit. in Dal Pane 1958). Non gli giovò poi certo la nettezza della sua posizione critica sulla politica degli arrendamenti, che gli costò un lungo esilio a Pantelleria e poi a Palermo, e la fine di ogni speranza di accedere agli agognati incarichi pubblici.
Secondo la particolare torsione semantica che egli impresse al concetto doriano, la vita civile economica, che si esplica nell’operosità (l’industria), nell’abbondanza della ricchezza e nella moderazione del vivere (Il banco e il monte de’ pegni, cit., p. 60), può affermarsi solo in un sistema economico in cui la disuguaglianza distributiva sia poco accentuata: civiltà e riduzione della disuguaglianza camminano insieme.
Broggia ipotizza un legame negativo della ricchezza personale sia con l’offerta di lavoro (chi è molto ricco preferirà indugiare nell’ozio), sia con la domanda di beni di consumo di produzione interna. Come egli spiega con la parabola dell’«isola», l’eccessiva polarizzazione della ricchezza spinge i ricchi a sviluppare un gusto per i beni di lusso di produzione estera. Dal gusto per il lusso deriva allora un aumento delle importazioni che va a scapito della produzione e dell’occupazione all’interno dei confini nazionali. Viceversa, in una società egualitaria l’offerta di lavoro sarebbe maggiore e la «propensione» a importare sarebbe minore, garantendo che «verrebbe tutto il denaro speso nell’isola», perché gli uomini «delle manifatture del proprio Paese si contenterebbero». Broggia è consapevole dell’obiezione secondo cui, se i ricchi acquistassero beni di lusso di produzione nazionale, «darebbe un tale spendere un tale eccitamento all’industria e farebbe comodamente campare gli artefici, e così verrebbe a moltiplicare l’istesso popolo» (pp. 69-75). Ma l’esperienza dimostra che il fasto crea «l’incentivo per la roba forastiera». La relazione positiva tra spese di lusso e importazioni non è dunque una necessità logica, ma una questione empirica: e la diagnosi di Broggia presenta un buon grado di verosimiglianza. Ma quello che è davvero interessante è la logica del modello broggiano dell’isola, sia per le ipotesi sul comportamento dell’offerta di lavoro, sia soprattutto per l’idea che produzione e occupazione dipendano dalla domanda di beni.
In questo modo la polemica contro il lusso, pur innestandosi sulla tradizione filosofica di Vico e di Doria, che nel lusso eccessivo avevano visto la causa della decadenza dei popoli e del ricorso della barbarie, diventa analisi economica vera e propria, iscrivendo saldamente Broggia nel novero degli economisti orientati «al lato della domanda».
Come vedremo, lo stesso orientamento si ritrova in Genovesi, il quale però analizza l’evoluzione storica della domanda in un orizzonte di lungo periodo.
Franco Venturi, ispirato dal paragone suggerito da Galiani (in una lettera a Tanucci) tra Genovesi e Diderot, attribuisce a entrambi questi pensatori «una tendenza a trasformare tutti i loro studi in una enciclopedia, in una pratica raccolta dello scibile»; ma poi aggiunge trattarsi, nel caso del solo Genovesi, di «un’enciclopedia per ragazzi» (Nota introduttiva ad Antonio Genovesi, in Illuministi italiani, 1962, p. 4): un giudizio severo ma che, insieme a quello sulle «sue eccezionali capacità di assimilazione e di chiara esposizione» (p. 12), coglie la tendenza di Genovesi da un lato a ordinare, classificare, esemplificare, dall’altro a semplificare la materia dei suoi studi, per farne oggetto d’insegnamento.
Nel 1754, con l’istituzione della cattedra di commercio e di meccanica voluta e finanziata dall’Intieri, la sua vocazione pedagogica diventa parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni politiche ed economiche, cui serve da strumento una profonda opera di svecchiamento culturale basato sulla diffusione delle scienze esatte, della meccanica, del sapere tecnologico e, non da ultimo, della scienza economica. In questo ambito, emerge nelle Lezioni di commercio la specifica funzione dell’economia civile, descritta come subdisciplina della politica, la quale ultima contempla l’uomo
come gran padre e sovrano del popolo e ammaestralo a governar con iscienza, prudenza e umanità. Nella quale quella parte che abbraccia le regole da rendere la sottomessa nazione popolata, ricca, potente, saggia, polita, si può chiamare economia civile (Delle lezioni, cit., p. 263, corsivo nell’originale).
All’interno di tale progetto di assolutismo illuminato, la disciplina economica è dunque strumento del governo, che i riformatori napoletani vogliono indirizzare verso la riforma istituzionale e lo sviluppo economico. Ma, proprio in virtù dell’obiettivo di riforma, finalizzata alla ricchezza e alla potenza della nazione, la riflessione economica deve configurarsi come indagine sulle «molle motrici» (p. 308) dello sviluppo. E quest’analisi conduce al graduale stemperamento dell’approccio statalista, perché in essa il «corpo politico» si frange, modernamente, nella complessità di una società articolata, nella quale cooperano non più solo «ordini» come in Doria, ma anche ceti e classi sociali.
Genovesi distingue le nazioni in selvagge, vaganti, barbare stabili, culte non commercianti e culte commercianti, sulla base delle «arti», cioè delle attività produttive che in esse si praticano: arti primitive, migliorative, voluttuose e di lusso, articolate nella caccia, la pesca, la pastorizia, l’agricoltura, la metallurgia, fino alle arti del lusso proprie delle nazioni ‘culte’, nelle quali sono anche coltivate le lettere e le scienze, e il diritto si è definitivamente affermato. Si tratta di una progressiva crescita della divisione del lavoro, cui si accompagna una stratificazione sociale sempre più complessa, poiché ogni attività è svolta da una classe diversa, e le diverse classi si articolano poi nella gerarchia dei «ceti», portatori di diversi gradi di prestigio e stima sociale.
La stratificazione sociale è fattore di sviluppo in un duplice senso: da un lato, le nuove classi sviluppano nuovi bisogni; dall’altro, la stratificazione genera effetti imitativi sul consumo. Infatti, «se in una società di uomini non vi fosse né varietà di classi, né ricchezze di segno, non vi sarebbe neppure gran luogo a volersi distinguere per le maniere e qualità di vivere» (p. 418). Gli effetti imitativi generano la mobilità sociale (pp. 418-19), ma soprattutto mettono in moto l’evoluzione di lungo periodo dei consumi, la cui struttura, come Genovesi ben vede, si evolve nel tempo: beni prima considerati di lusso diventano gradualmente necessari, perché a essi ci si abitua: diventano «natura e necessario» (pp. 412-13).
In questo quadro si iscrive la sua presa di posizione in difesa del «lusso» «gentilezza e politezza di vivere» (p. 428), che «moltiplica i bisogni della vita» (p. 425). Il lusso, insomma, è causa ed effetto insieme dello sviluppo, poiché esso stimola la produzione, fa aumentare la velocità di circolazione della moneta, crea occupazione, dà luogo a una sempre maggiore divisione del lavoro e, infine, fornisce alimento al commercio estero allorché una nazione riesce ad andare oltre il semplice livello di sussistenza, e può quindi esportare il «soverchio» (p. 423).
Se lo sviluppo è stimolato dall’evoluzione dei bisogni e della domanda, esso richiede però un’adeguata risposta dal lato dell’offerta. Da questo punto di vista, Genovesi rivendica con forza soprattutto il ruolo dell’istruzione (l’educazione) come fattore fondamentale di crescita della produttività del lavoro: senza educazione gli uomini «faranno poco o in molto tempo e con gran fatica, come vedesi in tutte le opere meccaniche de’ popoli barbari» (p. 359). A una carente diffusione dell’istruzione, non a una pretesa mancanza di «voglia di faticare» dei suoi abitanti, si deve per esempio la scarsa produttività del lavoro nel Regno. Infatti: «non ci è Paese in Europa dove più si fatichi, e certe volte si stenti, delle due Sicilie» (p. 730).
Il modello genovesiano consiste dunque in una teoria dell’evoluzione secolare della società e del cambiamento strutturale, trainati, l’una e l’altro, dagli effetti di azione e reazione tra crescita della divisione del lavoro ed evoluzione dei bisogni e dei consumi. I circoli vichiani della storia si aprono così, finalmente, in una linea di progresso di cui è motore l’economia insieme con le scienze, la tecnologia e l’istruzione.
Genovesi fu il fondatore dell’unica vera e propria scuola di economia del Regno di Napoli. Il patrimonio illuministico e riformistico accumulato grazie al suo magistero fruttifica e si ramifica in direzioni diverse, ma è chiara nelle opere dei suoi allievi la radice comune. Due figure notevoli sono quelle di Melchiorre Delfico (1705-1774) e Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), entrambi impegnati nella polemica antifeudale.
Sul piano teorico, due temi genovesiani vengono ripresi in particolare dagli allievi, quello della felicità pubblica e quello dell’uguaglianza. La prima, definita come «l’aggregato» di quella dei cittadini (G. Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1788, in Scrittori classici di economia politica, a cura di P. Custodi, parte moderna, t. 37, 1805, p. 44) o come «l’aggregato delle felicità private di tutti gli individui che compongono la società» (G. Filangieri, Delle leggi, cit., p. 385), chiama in causa la discussione sull’uguaglianza e la disuguaglianza. Genovesi, pur avendo dichiarato che «l’egualità è un sogno, perché è impossibile che duri», aveva anche aggiunto «ma si può e si dee desiderare che non regni troppa sproporzione» (Delle lezioni, cit., p. 348). I suoi allievi si schierano a seconda delle proprie propensioni politiche.
Francescantonio Grimaldi riflette sull’evoluzione delle società, in base allo sviluppo dei bisogni e della divisione del lavoro, verso il loro stadio civile, che considera inevitabilmente caratterizzato dalla dipendenza reciproca e dalla disuguaglianza tra gli uomini (Riflessioni sopra l’ineguaglianza tra gli uomini, 1779-1780, in Illuministi italiani, a cura di F. Venturi, t. 5, 1962, pp. 557-85).
Anche Giuseppe Palmieri propone una visione antiegualitaria della società, basata sulla classica argomentazione incentrata sulle differenze di merito:
Come si può pretendere che le porzioni delle terre sieno uguali, quando gli uomini non sono uguali ne’ talenti, nell’attività e nella forza? Chi di tali qualità più abbonda, deve necessariamente acquistare più di colui, che n’è men provveduto (Riflessioni sulla pubblica felicità, cit., p. 95).
A suo modo di vedere, un ruolo economico centrale spetta ai grandi proprietari terrieri in virtù della superiore efficienza della grande proprietà agricola rispetto alla piccola proprietà contadina. Ciò, contro il dettato fisiocratico, ne giustifica l’esenzione fiscale.
Sul tema dell’eguaglianza, a conclusioni opposte giunge Filangieri. Cercando le radici della felicità pubblica nella felicità individuale, egli di questa individua l’essenza nel soddisfacimento dei bisogni. Nel momento in cui il bisogno, quale che esso sia, è soddisfatto, il ricco e il povero sono ugualmente felici; ma essi sono diversi nel «modo di occupare l’intervallo che passa tra un bisogno soddisfatto e un bisogno rinascente»: il ricco va alla ricerca di nuovi bisogni da soddisfare e vive nella noia; il povero maledice il fatto stesso di avere dei bisogni naturali che non riesce a soddisfare. Entrambi sono infelici. Solo in una società in cui le ricchezze siano «equabilmente diffuse», e in cui al «travaglio eccessivo» degli uni non si contrappongano le «angosce della noia» degli altri, si potrebbe realizzare la felicità pubblica. Lo strumento di questa perequazione allude in prospettiva alla radicale eversione del regime feudale: l’abolizione dei maggiorascati e la distribuzione della proprietà ecclesiastica servirebbero a creare una più ampia classe di proprietari e quindi, riducendosi l’offerta di lavoro dipendente, farebbe aumentare i salari anche di coloro che rimanessero esclusi dalla grande redistribuzione proprietaria così realizzata.
Il grande progetto di riforma genovesiano tocca con l’opera di Filangieri uno dei suoi vertici più alti. La sua «felicità» attraverserà l’Atlantico per essere incorporata nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Ferdinando Galiani, mente brillante, genio precoce, analista sofisticato delle istituzioni, del mercato, del valore e della moneta, fu scrittore dalla prosa scintillante e autore di definizioni fulminanti, come per l’interesse: «il prezzo del batticuore»; il cambio: «il termometro degli Stati» e «il polso del corpo civile della società» (Della moneta, cit., pp. 234, 368, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 197, 303); la ricerca di una moneta di valore invariabile: «un sogno, una frenesia» (Della moneta, cit., p. 103, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 96); il commercio estero delle grandi potenze: «succhia il sangue anche a’ più lontani, meno gloriosamente, sì, ma con più comodità» che non la guerra (Della moneta, cit., p. 291, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 243). Sciolse nodi teorici e difficoltà analitiche apparentemente insormontabili: come l’apparentemente «inestricabile nodo e circolo vizioso» dell’interdipendenza tra prezzo e quantità domandata (Della moneta, cit., p. 49, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 53).
Tra gli ingredienti del suo successo teorico è l’antidogmatismo, figlio dell’intelligenza: «Je ne suis pour rien, je suis pour qu’on ne déraisonne pas», fa egli dire al suo alter ego, il cavalier Zanobi, nel primo dei Dialoghi sul commercio dei grani. Quest’attitudine della mente, che lo induce a rivendicare la libertà di pensare al di fuori degli schemi, gli consente di articolare la sua visione del funzionamento della società nelle categorie analitiche proprie della teoria economica. Più che un precursore, come talvolta si dice, Galiani è piuttosto uno dei fondatori della moderna teoria economica, nella sua versione basata sull’individualismo metodologico. Vediamo perché, a partire dalle risposte da lui date ad alcuni quesiti di fondo su cui indagano gli economisti.
Il mercato? È un meccanismo di coordinamento delle azioni individuali in presenza di informazione dispersa: «la moltitudine degli uomini, che vi hanno interesse» interagendo tra loro trovano il prezzo delle cose, che nessun «aritmetico» potrebbe trovare, per l’impossibilità di raccogliere e analizzare le informazioni relative da un lato alle azioni delle «migliaia e migliaia d’uomini» impegnati nella produzione dei beni sotto diverse condizioni di produttività e di fertilità; dall’altro, alle condizioni della domanda espressa da «tanta moltitudine di compratori, che variano nel gusto, ne’ bisogni, nell’opulenza» (Della moneta, cit., pp. 53-54, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 57-58).
Le istituzioni? Non sono il prodotto di un disegno umano intenzionale («la sapienza della nostra mente»), né tanto meno di un contratto sociale («dove son mai questi congressi, queste convenzioni di tutto il genere umano […]?»), o di una decisione dell’autorità sovrana. Piuttosto, esse emergono da un processo evolutivo spontaneo, basato sulla scoperta fortuita e sul graduale apprendimento dei loro vantaggi, come dimostra il caso della «grandissima» istituzione della moneta, che «si cominciò ad usare quasi senza sapere ch’ella si usava e senza comprendersene l’utilità»; e solo dopo che se ne scoprirono i vantaggi si cominciò a coniarla (Della moneta, cit., pp. 65-66, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 66-67).
Veniamo quindi al valore. Questo non è una qualità intrinseca, ma «una idea di proporzione tra’l possesso d’una cosa e quello d’un’altra nel concetto d’un uomo» (Della moneta, cit., p. 27, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 39). Alla sua base sono l’utilità e la rarità (non sembra invece che il riferimento alla «fatica» prefiguri la teoria marxiana del valore, perché il prezzo della fatica compare tra le determinanti del valore stesso). L’utilità non è l’attitudine a soddisfare un bisogno oggettivo, ma un dato puramente soggettivo dipendente dai gusti individuali: «Essendo varie le disposizioni degli animi umani, e vari i bisogni, vario è il valor delle cose» (Della moneta, cit., p. 27, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 39). Inoltre, l’utilità di un bene non è una costante, ma diminuisce al crescere della dotazione di quel bene: un semplice uovo avrebbe potuto valere perfino mille grani d’oro per il conte Ugolino affamato (Della moneta, cit., p. 35, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 43-44), ma varrebbe molto meno per una persona già in possesso di una scorta di uova e altri generi alimentari. L’utilità di un bene, insomma, dipende dai gusti individuali ed è decrescente al crescere della quantità posseduta (Della moneta, cit., p. 38, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 44).
La soluzione del paradosso del valore è semplice: utilità e scarsità contribuiscono insieme alla formazione del prezzo; in mancanza di uno dei due termini il bene non ha valore:
Egli è evidente che l’aria e l’acqua, che sono elementi utilissimi all’umana vita, non hanno valore alcuno, perché manca loro la rarità; e per contrario un sacchetto d’arena de’ lidi del Giappone rara cosa sarebbe, ma, posto che non avesse utilità particolare, non avrebbe valore (Della moneta, cit., p. 28, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 39).
Utilità e scarsità operano attraverso il meccanismo della domanda e dell’offerta, che determina il prezzo. L’offerta dipende dalle condizioni di produzione: per es., in agricoltura, dalla fertilità del suolo (si può notare qui che, nei Dialoghi sul commercio dei grani, Galiani, riprendendo le tesi di Serra, fa almeno un cenno ai rendimenti crescenti nella manifattura). La domanda («il consumo») dipende inversamente dal prezzo (cfr. Della moneta, cit., pp. 48-50, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 53-54).
Importanti esercizi sulla determinazione dell’equilibrio di breve e di lungo periodo in seguito a traslazioni delle curve di domanda e di offerta vengono proposti dall’autore attraverso l’esempio del prezzo del vino in un Paese maomettano che si convertisse improvvisamente al cristianesimo (Della moneta, cit., p. 51, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 55-56).
L’approccio soggettivistico serve a spiegare anche i fenomeni dell’interesse e del cambio, e a sbarazzarsi dell’obiezione moralistica contro l’usura. L’interesse è «l’uguagliamento [...] tra il denaro presente e il lontano nel tempo» (Della moneta, cit., p. 351, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 290), mentre suo «fratello», il cambio, non è che «l’uguagliamento tra il denaro presente e il denaro lontano di luogo» (Della moneta, cit., p. 351, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 290). Il «sovrappiù apparente» che compare nei contratti intertemporali e in quelli di cambio, non è un’eccedenza di valore, ma il compenso per la «minor comodità» o il «maggior pericolo». Dunque: «dove è egualità, non è lucro», e quindi non v’è usura (Della moneta, cit., p. 351, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 291). Certo, in Galiani il saggio d’interesse si configura come «prezzo dell’assicurazione» contro il rischio (Della moneta, cit., p. 357, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 295): ma è indubbio che la definizione dello scambio di equivalenti tra denaro presente e denaro futuro sulla base delle valutazioni soggettive dei contraenti sia il fondamento di una teoria della preferenza intertemporale.
Veniamo alla teoria dell’«alzamento», che consente all’autore di sostenere la neutralità della moneta nel lungo periodo e la sua non neutralità nel breve (Della moneta, cit., p. 234, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 197). Per «alzamento» si intende l’aumento della quantità di moneta nominale a opera del principe, qui in veste di autorità monetaria, che può operare cambiando il valore facciale della moneta, o riducendone il contenuto metallico, e servirsene per operare un prelievo occulto sulla collettività. Per «alzamento dei prezzi» si intende invece la variazione nel livello dei prezzi che ne consegue. Nel lungo periodo, «l’alzamento dei prezzi, come si dice, è la medicina dell’alzamento; e, quando è seguito in tutti i generi e s’è rassettato, l’alzamento si può dire sparito, così come la nebbia del mattino è dileguata dal sole» (Della moneta, cit., p. 224, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 189). Così, «l’alzamento è dalla mutazione dei prezzi annichilato» (Della moneta, cit., p. 224, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 189), e l’effetto non è che un incremento equiproporzionale dei prezzi o, come dice Galiani, una «mutazione di voci e non di cose» (Della moneta, cit., p. 232, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 196), simile a quella che si avrebbe se con una legge «si costituisse che le monete in vece di nominarsi coi nomi italiani, si avessero a dinotare con nomi o latini o greci o ebraici» (Della moneta, cit., p. 224, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 188). Il meccanismo di aggiustamento in un’economia aperta si basa sulla variazione del cambio, che provoca l’incremento dei prezzi dei beni d’importazione, e la reazione riequilibratrice del pubblico mediante la revisione dei prezzi e dei contratti.
Ma nel breve periodo l’alzamento ha effetti sulle variabili reali, a causa della «lentezza con cui la moltitudine cambia la connessione delle idee intorno ai prezzi delle merci e della moneta» (Della moneta, cit., p. 222, e Della moneta e scritti inediti, cit., p.188): «tutto l’effetto dell’alzamento sta in questo spazio, che corre tra la mutazione fatta dal principe e quella del popolo» (Della moneta, cit., p. 234, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 197; cfr. anche Della moneta, cit., p. 224, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 188). Gli effetti reali consistono nella redistribuzione del reddito che penalizza i percettori di redditi fissi e i creditori a vantaggio dei debitori. Tra questi ultimi va incluso il principe, che con l’inflazione impone una tassa occulta ai propri sudditi, la cui giustificazione morale dipende dalle circostanze: la fede pubblica non è tradita da un alzamento, se questo avviene solo quando è strettamente necessario per le finanze pubbliche, e se il principe non ne abusa.
In breve: Galiani contribuisce a fondare analiticamente la teoria del valore e dei prezzi sulla base di un approccio coerentemente soggettivista; la teoria delle istituzioni sulla base dell’approccio evoluzionista dell’«ordine spontaneo»; la visione del mercato come meccanismo di diffusione dell’informazione; la teoria quantitativa della moneta e dell’inflazione. Certo, dopo di lui si svilupperanno strumenti analitici nuovi, come i concetti di margine e di preferenza intertemporale, e la formalizzazione delle aspettative. Ma è evidente che egli deve considerarsi uno dei fondatori, se non il fondatore dell’economia «neoclassica», e più precisamente della sua versione «austriaca»: chiunque abbia letto Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek riconoscerà nella loro trattazione del mercato, dell’informazione, delle istituzioni e dell’inflazione la mano del nostro piccolo abate. È da notare in proposito che il Della moneta, insieme ad altre opere di Galiani (ma anche di Genovesi, di Filangieri, e di altri economisti italiani del Settecento) è incluso nel catalogo della biblioteca di Menger (1969).
Veniamo infine alla teoria della moneta, forse a tutt’oggi meno completamente compresa degli altri suoi contributi, ma straordinariamente articolata e fertile. La letteratura critica si è soffermata infatti su una contrapposizione tra ‘metallismo‘ e ‘cartalismo’ che, come vedremo, sottovaluta a giudizio di chi scrive la coerenza del suo pensiero e la ricchezza della sua analisi delle istituzioni.
Per Galiani, la moneta ha due funzioni: quella di mezzo di circolazione ed equivalente generale («la moneta allor ch’ella compra e equivale a tutte le altre cose») e quella di misura: «una regola della proporzione che hanno le cose tutte ai bisogni della vita, che è quel che dicesi, con una voce sola, il prezzo delle cose» (Della moneta, cit., pp. 96-97, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 92).
Il nucleo analitico della sua teoria della moneta riguarda la prima funzione, pur essendo di estremo interesse anche la sua trattazione della moneta come misura, sia per la tesi della impossibilità di una misura invariabile del valore, sia per la scelta del salario di un lavoratore non qualificato come misura della ricchezza (Della moneta, cit., pp. 104-05, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 97-98 e nota X, pp. 314-16): una soluzione che anticipa Adam Smith e Thomas Robert Malthus e si ricollega alla problematica «dearness and plenty versus cheapness and plenty» (cfr. Schumpeter 1954, pp. 285-88).
Veniamo dunque alla moneta come mezzo di circolazione ed equivalente generale. Sia essa metallica o invece di cuoio, di carta (i «bullettini»), o di qualsiasi altro materiale, la moneta è sempre (come già in Spinelli e in Locke) un pegno, un titolo di proprietà su un ammontare di beni equivalenti in valore a quelli che si sono ceduti nello scambio: «una rappresentanza di credito, che uno ha sulla società per cagione di fatiche per essa sostenute o da lui o da altri, che a lui le ha donate» (Della moneta, cit., p. 94, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 90).
L’accettazione generale della moneta ha sempre due fondamenti: il valore, che rappresenta quanto vale quel credito in termini di beni (il potere d’acquisto della moneta); e la sicurezza, che essa conferisce a chi l’accetta, di riottenere l’equivalente del suo credito verso la società. È qui che Galiani introduce la distinzione tra moneta metallica e moneta fiduciaria, perché il valore e la sicurezza dei due tipi di moneta si basano su principi diversi.
Il valore della moneta metallica è ricondotto al valore del metallo non monetato, in base alla legge generale del valore. L’utilità e la scarsità, in questo caso, sono quelle dei metalli preziosi: l’utilità deriva dalla soddisfazione del desiderio di distinguersi (Della moneta, cit., p. 30, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 41); la scarsità nasce dalle condizioni di produzione dei metalli preziosi. L’oro e l’argento, insomma, «usansi per moneta perché vagliono, e non vagliono perché usansi per moneta» (Della moneta, cit., p. 55, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 58-59).
Quanto alla sicurezza, la moneta metallica soddisfa questo secondo requisito proprio in virtù del suo valore intrinseco, che è il valore dei metalli preziosi:
Moneta sono pezzi di metallo [...] i quali si dànno e si prendono sicuramente da tutti come un pegno e una sicurezza perpetua di dover avere da altri, quando che sia, un equivalente a quello che fu dato per aver questi pezzi di metallo (Della moneta, cit., p. 68, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 69).
La possibilità di fondere la moneta e venderla come metallo garantisce la sicurezza di riavere l’originario valore in termini di beni.
Fin qui dunque Galiani è «un metallista senza compromessi» (Schumpeter 1954, p. 300). Lo dimostra la stessa architettura del Della moneta, in cui la teoria del valore viene introdotta proprio allo scopo di ricondurre il valore della moneta a quello del metallo, dimostrando che, come quello di tutti i beni, esso è «da principi certi, generali e costanti derivato»: quelli dell’utilità e della scarsità (Della moneta, cit., pp. 26-27, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 38). Allo stesso fine risponde il lungo calcolo della quantità e degli usi dell’oro e dell’argento nel Regno di Napoli e in Europa, poiché l’uso non monetario prevale sull’uso monetario (Della moneta, cit., pp. 52-63, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 57-64). Infine, la precisazione di Galiani che il conio delle monete metalliche (fatto salvo il legittimo diritto di signoraggio) «dimostra quel valore che già esse hanno in sé, non lo produce» (Della moneta, cit., p. 158, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 137) rivela una posizione opposta a quella cartalista, che vede invece nella moneta metallica una banconota stampata su un pezzo d’oro o d’argento (come è la rupia secondo John Maynard Keynes).
Tuttavia, il metallismo galianeo non si estende alla moneta fiduciaria. La domanda è: è possibile riprodurre i principi dell’accettazione universale (valore e sicurezza) in una moneta che non abbia alcun valore intrinseco? La risposta di Galiani è positiva. La soluzione esiste, ed è la moneta-segno, il cui valore è puramente estrinseco: un valore, cioè, non già ratificato dal conio come avviene per la moneta metallica, bensì interamente creato dalle «firme sulle cedole e su’ bullettini; perché queste costituiscono tutto il valore alla cedola e alla carta, su cui si fanno» (Della moneta, cit., p. 158, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 137). Si può ricordare che l’idea della moneta-segno era già in circolazione a Napoli un secolo e mezzo prima che Galiani scrivesse la sua opera magistrale, perché già in circolazione era, dalla fine del 16° sec., la moneta bancaria: ne parlava già l’Anonimo genovese, sulle cui opinioni riferì De Santis nel 1605.
Ma su che cosa si fondano il valore di una firma, la sicurezza, e dunque l’accettazione universale della moneta-segno? Sulla fiducia:
Dalla difficile imitazione nasce la loro sicurezza; dalla fede e virtù del debitore la loro accettazione. Perciò tali rappresentazioni [della moneta] trovando agevolmente chi le prenda, diventano monete, che si potriano dire in tutto uguali alle vere, se non ch’elle divengono cattive e false, subito che perdono alcuno dei sopraddetti attributi, i quali, non essendo intrinsechi alla natura loro, non vi stanno così fermi addosso, come la bellezza e lo splendore a’ metalli componenti la vera moneta (Della moneta, cit., p. 319, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 265).
Nel pensiero di Galiani possiamo quindi identificare due modelli. Nel primo, la natura metallica del mezzo di circolazione àncora solidamente l’intero meccanismo economico all’economia reale: la moneta-pegno ha a propria garanzia il valore reale dei metalli da cui essa è costituita (fatte salve le sempre possibili manipolazioni della moneta coniata da parte del sovrano). Nel secondo modello, più complesso e meglio rispondente alla situazione dell’epoca, moneta metallica e moneta fiduciaria coesistono. Anche la moneta fiduciaria è un pegno, garantito dalla fiducia nell’emittente-debitore, e la sua circolazione è piena solo entro i confini geografici entro cui si estende la fiducia (Della moneta, cit., pp. 76-77, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 75).
La fiducia diventa così una delle principali forze economiche, potente ancorché fragile: da un lato, la moneta fiduciaria, se ben usata, può produrre vantaggi per l’economia di una nazione, come dimostrano molti esempi, e persino «l’aspetto utile e bello» dell’esperimento di John Law che, prima della sua degenerazione, consentì alla Francia il sostegno delle manifatture in una fase di depressione (Della moneta, cit., pp. 331-33, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 272-73). Dall’altro, essa introduce una potenziale fragilità, poiché le crisi di fiducia possono ostacolare il funzionamento del meccanismo economico.
Su questo sottile discrimine tra potenzialità positive e fragilità della moneta fiduciaria si colloca e si spiega l’orgoglio di Galiani per i banchi pubblici napoletani, garantiti dallo Stato, capaci di creare fiducia attraverso le loro fedi di credito in un ambiente dove la fiducia scarseggia (Della moneta, cit., pp. 342-43, e Della moneta e scritti inediti, cit., p. 281), e di preservarla attraverso l’opera di «privati onestissimi, i quali, riguardando giustamente la cura del ben pubblico come opera pia e divota, usano un disinteresse sommo e dirò quasi miracoloso» (Della moneta, cit., p. 340, e Della moneta e scritti inediti, cit., pp. 278-79).
Per concludere, la contrapposizione tra metallismo e cartalismo, una chiave di lettura spesso usata per interpretare la teoria della moneta di Galiani, non la spiega adeguatamente. Il suo contributo sta invece nell’individuazione del duplice fondamento della liquidità della moneta (l’«accettazione generale») nel valore e nella sicurezza, e nella loro diversa articolazione in due modelli economico-istituzionali: quello semplice, basato sulla sola moneta metallica e quello, più complesso, in cui la moneta metallica e quella fiduciaria coesistono. In questa chiave, la ricchezza istituzionale e soprattutto la logica stringente della sua teoria monetaria possono essere pienamente apprezzate.
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Si veda inoltre:
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