SCUOLA POETICA SICILIANA, FORTUNA E TRADIZIONE
"Oggi il termine di Siciliani vale a designare i rimatori, di qualsiasi regione italiana, che appartennero a quella corte o le gravitarono attorno, e la cui produzione occupa, genere per genere, il primo posto nella più estesa e organica silloge delle nostre origini, il canzoniere Vaticano 3793" (Poeti del Duecento, 1960, I, p. 45). In misura ancora maggiore di quanto non accada per altri momenti della letteratura medievale, le informazioni circa la poesia siciliana fiorita attorno alla corte di Federico II, fino addirittura all'identificazione dei suoi protagonisti, dipendono pressoché unicamente dalla sua esile tradizione manoscritta. Nonostante alcuni degli autori di cui ci sono pervenuti componimenti lirici siano tra i personaggi più in vista del seguito imperiale, dallo stesso Federico e dai suoi familiari, il figlio Enzo e probabilmente il suocero Giovanni di Brienne, al "notaio" Giacomo da Lentini o al "giudice" Guido delle Colonne da Messina, fino al gran cancelliere Pier della Vigna, niente sappiamo circa il movimento che portò alla nascita e al primo sviluppo di un'organica attività poetica in volgare di sì che non siano le scarne informazioni presenti nei codici che ci hanno tramandato quel corpus. I contorni stessi di quella che solo la critica ottocentesca definì la "Scuola" siciliana debbono essere ricostruiti sulla base delle testimonianze accolte nelle tre grandi sillogi antologiche confezionate in Toscana sul finire del Duecento (Vaticano, Palatino, Laurenziano), che contengono anche la produzione dei contemporanei poeti locali.
I tre canzonieri toscani configurano dunque una tradizione unitaria, e l'immagine della prima stagione federiciana ci appare inesorabilmente attraverso il filtro della sua ricezione nella Toscana comunale, in un contesto cioè assai diverso da quello d'origine, dopo lo spartiacque delle morti di Federico (1250) e di Manfredi (1266). La soglia del tardo Duecento, nella quale si colloca la quasi totalità delle attestazioni manoscritte di quella poesia, costituisce così il momento della sua massima influenza, e al tempo stesso l'anticamera del suo subitaneo e irrimediabile declino, dopo la rivoluzione letteraria operata da Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.
In questa situazione così incerta, poche sono le conferme che ci possono derivare dalla tradizione indiretta, in primo luogo dallo stesso Dante, primo storico di quella letteratura, dal De vulgari eloquentia alla Commedia: l'uniformità della stagione lirica precedente, per cui tutta la poesia italiana fino ad allora può definirsi "siciliana" (De vulgari eloquentia, I, XII, 2); la preminenza del Notaro Giacomo da Lentini, rappresentante per antonomasia della fase fondativa (Purgatorio, XXIV, 56); la coesistenza di un filone 'comico', parallelo a quello aulico, esemplificato nel Contrasto di Cielo d'Alcamo (De vulgari eloquentia, I, XII, 6); sono tutti elementi che troviamo già nei tre canzonieri di fine Duecento, ed è probabile che Dante avesse conosciuto la poesia siciliana leggendola in manoscritti assai vicini a quelli che sono stati conservati.
Pressoché nulla sappiamo dunque delle modalità di trasmissione precedenti alla ricezione toscana: possiamo solo ipotizzare la confezione di pergamene sciolte (come quella recentemente ritrovata a Ravenna, databile addirittura all'inizio del Duecento, che presenta una canzone probabilmente anteriore e indipendente dalla produzione siciliana), o di quaderni con piccoli nuclei d'autore, o magari già di raccolte più rappresentative e organiche, come lascerebbero pensare il retroterra comune ai canzonieri toscani e il misterioso "Libro siciliano" emerso nel Cinquecento (v. oltre). In realtà questo schema genealogico, proposto con successo per ricostruire le tappe secolari della tradizione manoscritta dei trovatori, può applicarsi solo impropriamente all'ambito italiano, dove tutto si gioca nei pochi decenni centrali del Duecento.
L'unica testimonianza che precede la sistemazione dei canzonieri toscani ci è fornita da un frammento: le prime quattro strofe di una canzone di Giacomino Pugliese, Resplendiente stella de albur (presente in forma integrale anche nel canzoniere Vaticano), sono trascritte sul verso della carta di guardia di un codice delle Institutiones grammaticae di Prisciano del sec. XII (Zurigo, Zentralbibliothek, ms. C 88). Il contesto della trascrizione lascia intravedere un rapporto con l'ambiente della corte di Enrico (VII) figlio di Federico II, e ha consentito l'ipotesi di datazione della scrittura agli anni 1234-1235, a ridosso dunque del presunto avvio della produzione poetica siciliana. All'eccezionale altezza cronologica si affianca l'indubbio interesse linguistico del documento, dato che la complessa fisionomia del testo conferma l'indipendenza dai successivi adattamenti operati dai copisti toscani: alcuni tratti potrebbero addirittura appartenere al fondo originario, meridionale, altri a una sovrapposta patina settentrionale (friulana), mentre alcuni elementi per lo più grafici tradirebbero la mano di uno scriba tedesco.
L'insieme dei dati testimonia dunque una qualche circolazione di poesia siciliana mentre era ancora in vita Federico II, in ambienti probabilmente legati alla continua dislocazione della sua corte, itinerante lungo tutta la penisola e anche a cavallo delle Alpi (per il frammento di Zurigo si è pensato ad Aquileia). A questa traccia si è tentati di collegare un ristretto manipolo di ulteriori testimonianze, sia pure assai più tarde (seconda metà del Duecento), di testi siciliani o d'impianto siciliano ritrovati in area padana, niente più che i relitti di una presenza che dovette essere episodica, e della quale non ci rimane comunque alcuna documentazione organica.
Si ricorderanno almeno la canzone trevigiana Eu ò la plu fina druderia, apposta all'incirca negli anni Settanta sul foglio di guardia di un codice ambrosiano di Orazio (Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. Q 75 sup.); e la canzone di crociata Suspirava una pulcela, trascritta entro il Duecento sulle ultime carte di un codice gonzaghesco del Partenopeus de Blois, e seguita da ballate di mano ancora più tarda (intercalate da una canzonetta provenzale e da una ballete francese: Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ms. Nouv. acq. fr. 7516).
Come nel caso del frammento di Zurigo, si tratta di scritture estemporanee, in posizione ancillare a testi di tutt'altra natura, e in quanto tali non consentono di ipotizzare una diffusione articolata; del resto gli interessi per la poesia lirica nelle corti padane si coa-gulano proprio a partire dalla metà del Duecento sulla ben più antica e gloriosa tradizione dei trovatori provenzali, che dà luogo a una produzione imponente di canzonieri organici confezionati per il pubblico italiano, senza lasciare spazio per iniziative culturali indigene di diversa natura (tanto che anche autori d'origine italiana adottano la lingua d'oc come tramite incontrastato del genere lirico).
Testimonianze episodiche di natura analoga si trovano del resto anche in altre aree geografiche, probabilmente riconducibili alle peregrinazioni di Federico II o ai molteplici contatti politico-dinastici della diplomazia imperiale.
Si veda il caso delle cosiddette rime "siculo-umbre", tre testi di tono siciliano ma di origine umbra meridionale, copiati forse a Siena alla fine di un testimone primotrecentesco dell'opera di Fibonacci (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chig. M. V. 104); oppure la canzone, riconducibile anch'essa alla tipologia siciliana, dislocata addirittura in area catalana, precisamente a S. Joan de les Abadesses, dove nel corso del Duecento fu trascritta sui fogli di un registro notarile con altre provenzali, tutte munite della relativa melodia (Barcellona, Biblioteca de Catalunya, ms. 3871; sulla questione musicale, v. oltre); la traccia è assai esile, ma potrebbe ricollegarsi ai rapporti tra la casata imperiale e il trono di Aragona, nonché agli indizi intertestuali di una conoscenza dei Siciliani da parte dei trovatori catalani fra Tre e Quattrocento.
L'aggiunta di testi poetici a documenti notarili è prassi che ci riporta però all'area padana, e precisamente a Bologna, dove fra i testi vergati dai notai in calce ai celeberrimi "Memoriali" sussiste il nucleo più numeroso di testi sicuramente siciliani al di fuori della tradizione dei canzonieri toscani: troviamo infatti la canzone Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini (trascritta nell'anno 1288), due sonetti della tenzone tra Giacomo da Lentini e l'Abate di Tivoli (1300), e un frammento di sonetto ancora di Giacomo da Lentini (1310), testi di attribuzione sicura in quanto presenti anche nel canzoniere Vaticano; e inoltre, attestati solo qui, l'inizio di un anonimo pianto in morte di Manfredi, A la gran cordoglienza (1289), e l'inizio di una canzone di tono siciliano (1310), oltre a un frammento del sonetto Tempo vene che sagle e che desende, che altri codici trecenteschi assegnano a re Enzo (1319).
Quest'ultima presenza potrebbe non essere casuale, dal momento che il re Enzo, figlio di Federico II, fu 'recluso' nel palazzo comunale di Bologna dalla sconfitta di Fossalta (1249) fino alla morte (1272): dato che i canzonieri toscani tramandano due canzoni sotto il suo nome, si è pensato che il suo soggiorno bolognese possa aver giocato un ruolo nella diffusione della poesia siciliana nell'Italia centrale, e che per questa via la tradizione possa essersi impiantata in Toscana. Un qualche legame tra le sporadiche attestazioni dei "Memoriali" e la linea di trasmissione dei canzonieri dovette certo sussistere, e risulta anzi provato dal fatto che il testo 'bolognese' della canzone del Notaio, Madonna, dir vo voglio, mostra di discendere dalla stessa fonte che è confluita nei canzonieri, e più precisamente nel Vaticano: ma i dati dello stemma inducono a credere che la direzione del rapporto sia da Sud a Nord, che cioè siano i "Memoriali" a dipendere da una fonte toscana, e non viceversa.
In conclusione, il regesto della documentazione duecentesca diversa dai tre grandi canzonieri offre ben poca cosa, e nemmeno consente di rintracciare canali di diffusione propriamente alternativi dell'esperienza poetica siciliana. Vediamo dunque più da vicino le tre raccolte toscane, con le quali si costituisce sullo scorcio del Duecento la prima tradizione testuale organica della lirica italiana, comprendente l'insieme della produzione poetica siciliana e toscana, Guinizzelli compreso, ma esclusi i protagonisti dello "stil novo", Cavalcanti e Dante.
Iniziamo senz'altro dal canzoniere Vaticano (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793 = V), che tramanda l'antologia di gran lunga più cospicua (un migliaio di testi, per centottantotto fogli), anche per il nucleo propriamente siciliano, e dispone i componimenti in una successione che configura un percorso cronologicamente e storiograficamente orientato. Allestito a Firenze tra la fine del Duecento e i primissimi anni del Trecento, è per gran parte opera di un unico copista, che confeziona un prodotto privo di rubriche in colore, si direbbe d'uso personale, in un ambiente popolare-borghese se non proprio mercantile, in quegli anni vivissimo nella società fiorentina. Le numerose mani secondarie, più o meno coeve, che aggiungono singoli testi sui fogli o interi fascicoli rimasti bianchi, non contraddicono l'impostazione generale stabilita dal primo compilatore (che trascrive anche l'indice del volume, nel primo fascicolo). L'ordinamento è scandito per fascicoli, all'interno dei quali vige un criterio gerarchico, che prevede l'apertura con autori di rilievo, anche numerico, e la dislocazione in chiusura dei testi anonimi: si inizia appunto coi Siciliani (fascc. II-V), per passare al trapianto della tradizione siciliana a Bologna e soprattutto in Toscana (fasc. VI, racchiuso tra Guido Guinizzelli e Bonagiunta Orbicciani), e per arrivare poi al grande corpus di Guittone d'Arezzo (fascc. VII-VIII) e agli autori fiorentini (nomi minori nel fasc. IX, poi l'imponente Chiaro Davanzati nei fascc. X-XII e infine Monte Andrea nel fasc. XIII), coi quali si corona il disegno antologico originario. Nella sezione dedicata ai sonetti l'ordinamento non è altrettanto lineare, ma si intravede bene l'applicazione di criteri sostanzialmente paralleli, ad esempio nell'apertura del primo fascicolo con testi del Notaio (XVIII).
La grandiosità e insieme la linearità della raccolta vaticana la rendono il testimone principale della poesia siciliana: anzi, in mancanza di documentazione esterna, la composizione dei suoi tre fascicoli iniziali costituisce tuttora di fatto il criterio principale per l'assegnazione di un autore o di un testo a quella più antica fase della poesia italiana, insomma per la definizione del canone della cosiddetta 'Scuola', come anche per la decisione circa le attribuzioni discusse.
Le figure più rappresentate, ad apertura di fascicolo, sono il "Notaro Giacomo" da Lentini (seguito da Ruggero de Amicis, Tommaso di Sasso, Guido delle Colonne, Giovanni di Brienne, Odo delle Colonne), Rinaldo d'Aquino (seguito da Arrigo Testa, Paganino "da Serezano", Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Jacopo Mostacci, Federico II, Ruggerone da Palermo), Giacomino Pugliese (preceduto e seguito da testi adespoti) e Mazzeo di Ricco (seguito da autori attivi sul continente: re Enzo, Percivalle Doria, Compagnetto da Prato). L'importanza capitale di V risulta anche dalla frequenza dei componimenti in attestazione unica, più d'una cinquantina di canzoni, comprese le molte anonime che chiudono ciascun fascicolo, e abbondano nel quarto: di assoluto rilievo, ad esempio, il testo che apre eccezionalmente il fascicolo, quel celebre "contrasto" (Rosa fresca aulentissima) che documenta un filone comico-parodistico altrimenti ignoto in ambito siciliano, e che nel Cinquecento l'umanista Angelo Colocci attribuì a un "Cielo d'Alcamo".
Nonostante la scansione a grandi blocchi successivi della raccolta, compaiono nei primi fascicoli di V alcuni autori di estrazione toscana: oltre a Paganino e Compagnetto, vi si trovano adespoti anche testi altrove attribuiti a Galletto Pisano e Inghilfredi da Lucca, testimonianza forse di una precoce adesione della fascia tirrenica alla novità poetica federiciana. Una ben più ampia e costitutiva commistione degli autori 'siciliani' con quelli che verranno appunto definiti 'siculo-toscani' si registra invece nel canzoniere Palatino (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Banco Rari 217, già Palatino 418 = P), probabilmente il più antico dei tre (oltre che il meno esteso: circa centottanta testi), caratterizzato dall'imponente corredo di iniziali figurate che si susseguono lungo tutti gli otto fascicoli dedicati alle canzoni (gli ultimi due sono dedicati rispettivamente alle ballate e ai sonetti). Un prodotto di lusso dunque, allestito tra Firenze e Pistoia, ma fermo alla stagione prefiorentina della lirica duecentesca: punto di riferimento è l'autorità di Guittone, i cui testi aprono e chiudono la serie maggiore delle canzoni, non suddivise per autore, bensì disposte semplicemente prima in ordine alfabetico della lettera incipitaria (P, 10-63), poi senza criterio ordinativo apparente (P, 64-88).
Compaiono così tra i prevalenti autori 'siciliani' numerosi nomi toscani, con una preferenza per i lucchesi Inghilfredi e Bonagiunta: questa ascendenza lucchese, confermata tra i sonetti da altri minori noti solo per la testimonianza di P, dipende probabilmente dalla provenienza di una delle sue fonti, dato che la patina dialettale del copista è stata ormai ben individuata come pistoiese. D'altronde, la disponibilità di più modelli a monte di P, forse in parte frammentari o sfascicolati, è suggerita dalla sua fisionomia composita, e può avere qualche rapporto anche con la sua incertezza nelle attribuzioni, che più volte risultano contraddette dagli altri testimoni. Per contro, si è ormai rivalutata la qualità del testo, come anche l'atteggiamento linguisticamente conservativo del copista, meno 'attivo' rispetto a quelli più competenti che compilarono gli altri due canzonieri.
La confezione del canzoniere Laurenziano (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Redi 9 = L) segue di poco quella del Palatino, collocandosi probabilmente tra l'ultimo decennio del Duecento e la fine del secolo. Ma la fisionomia della raccolta è totalmente diversa, anzi risulta singolare in tutto il panorama dei canzonieri romanzi delle origini, incentrata com'è sull'opera di un solo autore, Guittone d'Arezzo, che occupa più di metà dell'antologia; tanto che, se magari non a Guittone in persona, il suo allestimento si deve ad ambienti a lui molto vicini, sicuramente in area pisana, come conferma la coloritura linguistica del copista principale (La1). Caratteristica peculiare di L è la sua natura di raccolta in progress: il primo compilatore lascia bianchi più fogli al termine di ogni sezione del canzoniere, prevedendo fin dall'impianto del codice la sua apertura a integrazioni successive, che infatti si registrano in più luoghi: per il corpus guittoniano, le poche aggiunte sono dovute a una seconda mano pisana (La2), vicinissima alla prima, mentre per le parti antologiche intervengono con inserti abbondanti due mani fiorentine, una per le canzoni (Lb1) e una per i sonetti (Lb2).
La testimonianza di L per gli autori siciliani è dunque duplice. La prima mano, pisana, inserisce un ristretto nucleo di una quindicina di testi nel primo fascicolo dedicato agli autori diversi da Guittone, preceduti però da Guinizzelli e da uno scambio tra i pisani Lunardo del Guallacca e Galletto (già incluso tra i siciliani da V): la serie è quindi molto selezionata, e mancano alcuni nomi presenti negli altri canzonieri, come Pier della Vigna o Giacomino Pugliese), ma comune a V è l'apertura con le canzoni del Notaro, anzi con la stessa canzone Madonna, dir vo voglio, a indicare un retroterra comune. D'altra parte la selettività di L non gli impedisce di trasmettere, in coda alla serie, una canzone di Guido delle Colonne assente in V, e una di Stefano Protonotaro che in V è adespota e dislocata tra i toscani: segnali di accesso a fonti privilegiate, che traspaiono anche nelle aggiunte fiorentine alla sezione dei sonetti (Lb2), dove compaiono quattordici componimenti del Notaro Giacomo da Lentini, di cui ben dodici in attestazione unica.
Per contro, le aggiunte fiorentine alla sezione delle canzoni (Lb1) sono vicinissime alla testimonianza di V, dimostrando di dipendere dal medesimo modello. Se dunque il loro contributo per la costituzione del testo risulta di scarso interesse, notevoli sono le informazioni che ne provengono circa la diffusione della poesia siciliana in Toscana: il fatto che l'ordine dei diciotto componimenti rispecchi, pur con intervalli, quello dei primi fascicoli 'siciliani' di V, dimostra che la disposizione organica di quel corpus non si deve al compilatore di V stesso, che la ereditò dalla sua fonte; inoltre, il fatto che le canzoni inserite da Lb1 siano tutte di autori siciliani è un forte indizio, l'unico a nostra disposizione, a favore della presenza in Toscana di un codice che contenesse soltanto lirica siciliana; infine, i tratti linguisticamente pisani che traspaiono anche in questa sezione fiorentina di L tradiscono la provenienza di quella fonte.
Si intravede insomma quello che dovette essere il retroterra immediato delle tre grandi raccolte di fine secolo, e tra i molteplici canali che convogliarono la lirica federiciana nel cuore della cultura comunale toscana è assai probabile che un ruolo di primo piano l'abbia svolto l'area pisano-lucchese: del resto Pisa si era distinta per la sua immutata fedeltà all'imperatore, che vi aveva soggiornato tra il 1239 e il 1240, quando cioè la produzione poetica alla sua corte doveva aver raggiunto una qualche consistenza, tanto da rendere più che plausibile l'idea della confezione di una raccolta lasciata in uso ai neofiti locali.
Sicuramente un nucleo unitario si deve supporre, dietro le presenze siciliane nei tre canzonieri: in questo senso si parla di un 'archetipo' toscano della tradizione siciliana. Il termine filologico indica tecnicamente il punto di origine comune di una trasmissione manoscritta, dimostrabile mediante la concordanza in errore. Delle undici canzoni siciliane che vantano triplice attestazione nei canzonieri, secondo Contini offrono prove sicure dell'esistenza di un archetipo due casi, probabili altri quattro, possibili un quinto: non è poco, se si consideri la competenza e l'accuratezza dei tre copisti. Inoltre, frequenti errori si registrano anche nella ventina di canzoni comuni ai soli P e V (più sei presenti anche in Lb, assimilabile però a V), e potrebbero anch'essi risalire all'archetipo. Il che non implica necessariamente che tutto discenda da un'unica silloge, fisicamente individuata, d'altronde poco compatibile con i cambiamenti di fonte che abbiamo già visto evidenti almeno in L e in P: ma certo gli indizi testuali parlano a favore di una fase originariamente unitaria di diffusione (per una conferma sul piano linguistico, v. oltre).
La tradizione manoscritta della lirica italiana, una volta superato lo spartiacque dell'inizio del nuovo secolo, è pressoché totalmente condizionata dalla 'novità' dell'esperienza fiorentina del "dolce stile", e dal confine che l'autorevolezza di Dante aveva definitivamente tracciato nella Commedia, relegando a un passato ormai fuori moda la tradizione siciliana e quella toscana precedente (impersonate nel Notaro, in Bonagiunta e in Guittone nel celebre episodio di Purgatorio, XXIV). In conformità con questo radicale cambiamento, nei canzonieri trecenteschi la presenza siciliana è decisamente minoritaria, quando non residuale, e comunque è accolta come un'eco lontana, testimonianza di un periodo fondativo poi superato dalla rivoluzione cavalcantiana e dantesca: la spinta propulsiva dell'innovazione federiciana si è ormai definitivamente esaurita.
Ciò non toglie che dall'assai ridotta tradizione trecentesca possa emergere qualche rivolo della diffusione siciliana che non era confluito nella sistemazione tardoduecentesca dei tre canzonieri toscani. È il caso del più antico testimone della lirica stilnovistica, il cosiddetto Barberiniano (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb. Lat. 3953 = B), allestito entro il decennio 1325-1335 probabilmente a Treviso nell'ambiente del poeta Nicolò de' Rossi, la cui mano è stata identificata nel secondo dei tre amanuensi del canzoniere. Oltre ad accogliere testi dello stesso Nicolò e di altri rimatori veneti suoi contemporanei, la silloge consiste in un'antologia della maggiore poesia toscana, incluso il versante realistico, e per i poeti dello stilnovo rappresenta l'autorevole testimone del 'ramo veneto'. Il canone degli auctores di Nicolò include anche una decina di testi siciliani, soprattutto sonetti, tra i quali si trovano alcune presenze non altrimenti attestate: due sonetti noti come del Notaro, qui attribuiti a un Monaldo d'Aquino, sono preceduti da un altro sonetto assegnato allo stesso autore, e poco più avanti è un unicum anche una miniserie di tre sonetti di Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e ancora Giacomo da Lentini; inoltre un sonetto di argomento teologico compare sotto il nome di Guglielmotto d'Otranto, anch'esso, come Monaldo, ignoto alla tradizione duecentesca.
Difficile dire se queste presenze inedite risalgano a un filone più ampio, e per il resto scomparso, della tradizione siciliana, ancora vivo nei primi del Trecento in quella Treviso che era stata la roccaforte di Ezzelino da Romano, uno dei maggiori alleati di Federico II; inducono però a prudenza circa l'indipendenza di queste fonti i contatti stemmatici che l'unica canzone siciliana presente in B (Assai mi placeria, di Stefano "Protonotaro" da Messina) dimostra di intrattenere con la testimonianza toscana di L.
È comunque vero che le presenze siciliane in B non coincidono con quelle degli altri canzonieri trecenteschi. Unica eccezione, il sonetto di re Enzo già citato per la sua trascrizione nei "Memoriali" bolognesi, assente nei tre canzonieri antichi ma ben attestato in seguito (in B però assegnato a Guittone). Per il resto, la grande tradizione toscana, e soprattutto fiorentina, dello stilnovo dipende per i Siciliani da una fonte assai vicina all'antico canzoniere P, e non presenta dunque novità rispetto al canone duecentesco. Il corpus siciliano più cospicuo, una quindicina di canzoni, si trova nel più importante manoscritto dello stilnovo e di Dante, il cosiddetto Chigiano (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chig. L. VIII. 305 = Ch), databile alla metà del Trecento. La mano del copista è parsa identificabile con quella che ha trascritto una serie di codici della Commedia, e l'impronta di Dante è comunque centrale nel canzoniere, non solo per la presenza cospicua delle sue rime, compresa l'intera Vita nova, ma anche perché Ch più di ogni altra raccolta rispecchia il canone stilnovistico secondo l'impostazione dantesca, presentando nella prima delle sue tre sezioni canzoni e ballate di Guinizzelli, Cavalcanti, Dante, Cino, Lapo Gianni e Dino Frescobaldi (con soli quattro inserti allotri); e gli stessi autori tornano nella serie seguente di sonetti. Al termine di un percorso cronologico e storiografico inverso, la terza sezione accoglie le canzoni dei siciliani (più una di Monte Andrea), con attribuzioni talvolta discordanti anche dal ramo di P da cui comunque i testi derivano. Interessante è piuttosto l'ordinamento del nucleo, dove i principali autori siciliani (Rinaldo d'Aquino, Giacomo da Lentini, Pier della Vigna, Mazzeo di Ricco) sono preceduti dai due rappresentanti della dinastia, Federico II e re Enzo, che aprono così la serie, fornendoci l'unica testimonianza di una gerarchia poetica siciliana dominata dai vertici politici della Magna Curia, quasi fossero non solo i promotori impliciti, ma anche i veri iniziatori di quell'esperienza letteraria. Sembra improbabile che l'iniziativa di questa seriazione si debba al copista di Ch, a un secolo dalla morte dell'imperatore, e dato che P è ordinato alfabeticamente, e quindi muto circa l'ordine dei suoi modelli, la successione 'dinastica' potrebbe ben risalire a uno stadio antico della tradizione.
Comunque sia, la posizione non più iniziale, ma terminale e quasi di appendice, che le testimonianze siciliane assumono in Ch, è un segno inequivocabile della marginalità di quegli autori nel quadro dei valori poetici del nuovo secolo. Tale collocazione all'estremo finale della raccolta sarà adottata anche negli stadi successivi della tradizione, a conferma di una valutazione che è sintetizzata storiograficamente nella celebre schiera dei poeti d'amore descritta da Petrarca in apertura del Triumphus Cupidinis (composto dopo la metà del Trecento), dove appunto compaiono in un gruppo anonimo "i Ciciliani, / che fur già primi, e quivi eran da sezzo" (Triumphus Cupidinis, IV, 35-36).
Solidali con la testimonianza di Ch sono i suoi collaterali tra inizio e fine Quattrocento ‒ rispettivamente Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Magl. VII.1208 e Valladolid, Biblioteca Universitaria y de Santa Cruz, ms. 332 ‒, che riducono ulteriormente a sette canzoni il già ristretto canone siciliano. Di poco più numerosa, e sempre dipendente dal ramo di P, la presenza siciliana nel secondo ramo toscano dello stilnovo, identificato nel canzoniere Vat. Lat. 3214 (V 2): si tratta della copia di un manoscritto fiorentino e mediotrecentesco, fatta allestire nel 1523 da Giulio Camillo per conto di Pietro Bembo, e postillata dagli stessi Camillo e Bembo, e nei secoli seguenti da Celso Cittadini, Federico Ubaldini e Leone Allacci. Dopo Cavalcanti e Guinizzelli, compaiono le otto canzoni siciliane (una sola, del Notaro ma qui adespota, assente in Ch: Poi non mi val merzé, né ben servire), e tanto più colpisce la persistenza delle due di Federico II e re Enzo. Fra i collaterali di V 2, attesta un nucleo siciliano anche un altro codice perduto, appartenuto a Ludovico Beccadelli ai primi del Cinquecento ("testo del Beccadelli"), ricostruibile attraverso gli estratti che se ne trovano nella prima sezione del composito ms. Bologna, Biblioteca Universitaria, 1289 (allestito da Antonio Giganti per lo stesso Beccadelli), e nella cosiddetta Raccolta Bartoliniana, ovvero la silloge allestita da Lorenzo Bartolini probabilmente nel 1529 (oggi Firenze, Accademia della Crusca, ms. 53), ove il "testo del Beccadelli" è corredato delle varianti di altre due fonti manoscritte oggi andate perdute ("testo del Brevio" e "testo del Bembo").
Siamo nella fase che diremmo 'filologica' della tradizione lirica italiana, quando alla pratica meramente trascrittoria o contaminatrice degli amanuensi si sovrappone l'intento propriamente editoriale degli umanisti, nell'ambito del quale la considerazione per le antiche poesie siciliane assume ormai il carattere di una ricerca antiquaria. E tuttavia, tra Firenze e Roma, circolavano ancora i tre antichi canzonieri duecenteschi poi giunti fino a noi, che furono le fonti principali dell'opera di questi primi filologi di rime volgari: tanto è vero che le loro sillogi non comportano per lo più novità in sede di critica del testo, mentre si rivelano determinanti per la storia della tradizione, mostrando l'interesse selettivo e il valore emblematico che riveste la produzione dei più antichi autori di lirica.
Ciò è vero fin dal primo, fortunato esperimento di antologia complessiva della poesia italiana, la cosiddetta Raccolta Aragonese (Ar), allestita a Firenze negli anni 1476-1477 con la collaborazione di Agnolo Poliziano e per iniziativa di Lorenzo il Magnifico, cui l'aveva 'commissionata' Federico d'Aragona. Del codice si perdono le tracce già nel primo Cinquecento (è il "Libro di Ragona" utilizzato da Angelo Colocci), ma la sua fisionomia e la sua lezione sono ricostruibili attraverso i numerosi derivati, moltiplicatisi per tutto il secolo e oltre: l'imponente sezione dedicata a Dante e alla tradizione stilnovistica era seguita da numerosi autori tre e quattrocenteschi, presentati come la continuazione di quell'esperienza, e solo in chiusura, prima della finale serie dello stesso Lorenzo, si recuperava qualcosa dei primi rimatori siciliani, in particolare due canzoni di Pier della Vigna e due canzoni e due sonetti di Giacomo da Lentini, derivate dall'antico canzoniere L.
L'attività filologica sulle antiche rime volgari si espresse ben presto nella preparazione di numerose raccolte a stampa, tra le quali l'impresa di maggior rilievo e fortuna fu realizzata a Firenze da un gruppo di umanisti coordinato da Bardo Segni: la raccolta detta Giuntina (1527), modello e canone per i secoli a venire della lirica due-trecentesca, accoglie nel suo libro IX, con Guinizzelli e altri autori toscani minori, cinque canzoni siciliane (Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Pier della Vigna, Federico II e re Enzo), ancora una volta discendenti dallo stesso ramo rappresentato dall'antico P.
Tuttavia in quell'intensa stagione di ricerca e recupero di antiche carte emersero materiali che in qualche misura scavalcavano il filtro della tradizione trecentesca, e addirittura duecentesca: tra le citazioni della Poetica di Gian Giorgio Trissino (1529), ad esempio, si rintraccia una dozzina di testi siciliani, ben al di là della selezione della Giuntina; e tra le carte menzionate nei ricchissimi appunti di Angelo Colocci, paralleli alla confezione per sua cura di una copia integrale dell'antico canzoniere Vaticano (ms. Vat. Lat. 4823), figura un "Libro di Latino Giovenale" che dovette contenere testi siciliani in versione diversa da quella altrimenti nota.
Il caso più eclatante è rappresentato dal "Libro siciliano" dal quale dichiara di attingere Giovanni Maria Barbieri per le citazioni nella sua Arte del rimare (ca. 1570), il cui autografo si è ritrovato agli inizi del Novecento (Bologna, Biblioteca dell'Archiginnasio, ms. B 3467). I pochi testi che ne derivano si rivelano infatti indipendenti dall'archetipo toscano dei tre canzonieri duecenteschi, risultando le uniche attestazioni della veste linguistica sicilianeggiante che doveva essere quella originaria: si tratta della canzone Pir meu cori alligrari di Stefano "Protonotaro" e di un frammento di re Enzo, altrimenti ignoti, oltre che di una stanza di Guido delle Colonne e di parte della canzone S'eo trovasse pietanza, ancora di re Enzo, che sono invece presenti nei canzonieri antichi.
L'importanza di questa testimonianza, per la quale si sono da tempo confutati i sospetti di falsità, vale soprattutto per l'aspetto linguistico, fornendo la conferma all'ipotesi di una lingua poetica fondata su una sorta di "siciliano illustre" con forti influssi latini e provenzali (il fatto che tra gli autori compaia anche Enzo, non siciliano e forse addirittura mai stato nell'isola, conferma il carattere tutto letterario di quell'idioma). La veste toscaneggiante dei tre canzonieri duecenteschi appare dunque come una 'traduzione' più o meno omogenea, dietro la quale traspaiono solo lievi tracce della formulazione precedente. Già dall'esame di quel complesso diasistema si può comunque argomentare la sicilianità di fondo della poesia federiciana, dato che le rime imperfette ‒ é : i e ó : u (rima "siciliana"); è : é e ò : ó ‒ presenti nelle trascrizioni toscane (e poi nella lirica autoctona: la seconda, anzi, istituzionalizzata nella lingua poetica italiana) sono spiegabili come l'adattamento di rime che erano perfette a norma del vocalismo siciliano.
Infine, ancora da una testimonianza tarda, di fine Quattrocento, proviene un indizio assai incerto e di dubbia interpretazione circa una questione ancora discussa tra gli studiosi, se cioè la poesia siciliana fosse dotata di accompagnamento musicale, così come avveniva di norma nella tradizione dei trovatori occitanici. Se si esclude la recente rivalutazione del già citato frammento duecentesco di S. Joan de les Abadesses, l'unica attestazione di un componimento sicuramente siciliano (Federico II, Dolze meo drudo) associato a un rigo musicale si trova nel ms. Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Nouv. acq. fr. 6771, dove appare del tutto fuori contesto. Il che non ha impedito la recente ripresa degli argomenti, di tipo metrico-linguistico, a favore della presenza originaria di musica, almeno per il livello esecutivo (v. Musica).
Fonti e Bibl.: sulla tradizione manoscritta e sui problemi testuali della poesia siciliana è ancora punto di riferimento la Nota ai testi dell'antologia Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, II, Milano-Napoli 1960, pp. 799-819 (la citazione d'apertura è nel volume I, p. 45); per una sintesi più aggiornata v. L. Leonardi, La poesia delle Origini e del Duecento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, X, La tradizione dei testi, coordinato da C. Ciociola, Roma 2001, pp. 5-89. Contini non pubblicò la programmata edizione integrale del corpus siciliano, per la quale si deve ancora ricorrere a B. Panvini, Le rime della Scuola siciliana, I, Introduzione, testo critico, note, II, Glossario, Firenze 1962-1964, ora ripresentato in versione rinnovata e limitata in Id., Poeti della corte di Federico II, Napoli 1994; nel frattempo, quasi tutto il corpus è compreso nell'edizione dei tre canzonieri nelle fondamentali Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), a cura di d'A.S. Avalle, I, Milano-Napoli 1992. La recensio più completa e argomentata resta dunque quella condotta in Giacomo da Lentini, Poesie, a cura di R. Antonelli, Roma 1979; allo stesso studioso si deve il repertorio di tutti i testi e i manoscritti 'siciliani' nell'Indice bibliografico in appendice a R. Antonelli, Repertorio metrico della scuola poetica siciliana, Palermo 1984, pp. 377-420. In attesa dell'imminente nuova edizione integrale del corpus, coordinata da R. Coluccia-C. Di Girolamo, v. gli atti del convegno preparatorio: Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia e R. Gualdo, Galatina 1999. Sulla pergamena ravennate v. A. Stussi, Versi d'amore in volgare tra la fine del secolo XII e l'inizio del XIII, "Cultura Neolatina", 59, 1999, pp. 1-69. Sul frammento di Zurigo v. G. Brunetti, Il frammento inedito 'Resplendiente stella de albur' di Giacomino Pugliese e la poesia italiana delle origini, Tübingen 2001. Sulle altre testimonianze isolate v. I. Baldelli, Una canzone veneta provenzaleggiante del Duecento, in Id., Medioevo volgare da Montecassino all'Umbria, Bari 19832, pp. 295-305; F. Brugnolo, 'Eu ò la plu fina druderia'. Nuovi orientamenti sulla lirica italiana settentrionale del Duecento, "Romanische Forschungen", 107, 1995, pp. 22-52; J. Schulze, Eine bisher übersehene sizilianische Kanzone mit Melodie in Katalonien, "Zeitschrift für Romanische Philologie", 118, 2002, pp. 430-440; L. Leonardi, Due rilievi per un atlante lirico italiano (sec. XIII-XIV), "Critica del Testo", 6, 2003. Sulla conoscenza dei Siciliani da parte dei trovatori catalani, v. A. Fratta, Jordi de Sant Jordi e i Siciliani, "Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani", 17, 1992, pp. 7-21. Sui "Memoriali" bolognesi v. da ultimo S. Orlando, La poesia dei siciliani e la lezione dei Memoriali bolognesi, in Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone, a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1999, pp. 29-38. Sulla tradizione dei tre canzonieri V, P, L, v. in generale N. Caix, Le origini della lingua poetica italiana. Principii di grammatica storica italiana ricavati dallo studio dei manoscritti, con una introduzione sulla formazione degli antichi canzonieri italiani, Firenze 1880; S. Debenedetti, Di alcune differenze di attribuzione tra il Vat. 3793 e il Laur. Red. 9, "Studj Romanzi", 31, 1947, pp. 5-21 (poi in Id., Studi filologici, con una nota di C. Segre, Milano 1986, pp. 65-76); G. Contini, Questioni attributive nell'ambito della lirica siciliana, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, pp. 367-395; B. Panvini, Studio sui manoscritti dell'antica lirica italiana, "Studi di Filologia Italiana", 11, 1953, pp. 5-135; d'A.S. Avalle, I canzonieri: definizione di genere e problemi di edizione, in Id., La doppia verità. Fenomenologia ecdotica e lingua letteraria del Medioevo romanzo, Firenze 2002, pp. 155-173; la già citata monumentale edizione interpretativa nelle Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO); C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, I, Torino 1994, pp. 78-124; l'edizione fotografica in I canzonieri della lirica italiana delle Origini. Riproduzione fotografica, I, Il canzoniere Vaticano; II, Il canzoniere Laurenziano; III, Il canzoniere Palatino; IV, Studi critici, a cura di L. Leonardi, Firenze 2000-2001, che nel IV volume contiene la disamina più aggiornata sugli aspetti codicologici, filologici e linguistici. In particolare su V cf. anche l'edizione diplomatica in Il libro de varie romanze volgare, cod. Vat. 3793, a cura di F. Egidi, con la collaborazione di G.B. Festa-S. Satta-G. Ciccone, Roma 1908; l'edizione interpretativa in Le antiche rime volgari, secondo la lezione del codice Vaticano 3793, a cura di A. D'Ancona-D. Comparetti, Bologna 1875-1888; R. Antonelli, Canzoniere Vaticano latino 3793, in Letteratura Italiana. Le opere, I, Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 27-44; C. Giunta, Un'ipotesi sulla morfologia del canzoniere Vaticano lat. 3793, "Studi di Filologia Italiana", 53, 1995, pp. 23-54; J. Steinberg, Merchant Bookkeeping and Lyric Anthologizing. Codicological Aspects of Vaticano 3793, "Scrittura e Civiltà", 24, 2000, pp. 251-269; i contributi di A. Petrucci, Le mani e le scritture del canzoniere Vaticano (pp. 25-41), M. Palma, Osservazioni sull'aspetto materiale del canzoniere Vaticano (pp. 43-55), P. Larson, Appunti sulla lingua del canzoniere Vaticano (pp. 57-103), tutti in I canzonieridella lirica italiana delle Origini. Riproduzione fotografica, a cura di L. Leonardi, IV, Firenze 2000-2001. In particolare su P cf. anche l'edizione diplomatica in A. Bartoli-T. Casini, Il canzoniere Palatino 418 della Biblioteca Nazionale di Firenze, Bologna 1888; V. Moleta, The Illuminated 'Canzoniere', Ms. Banco Rari 217, "La Bibliofilia", 78, 1976, pp. 1-36; H.W. Storey, Sulle orme di Guittone: i programmi grafico-visivi del codice Banco Rari 217, in Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, Milano 2000, pp. 93-105; i contributi di G. Savino, Il canzoniere Palatino: una raccolta disordinata? 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Zamponi, Il canzoniere Laurenziano: il codice, le mani, i tempi di confezione (pp. 215-245), G. Frosini, Appunti sulla lingua del canzoniere Laurenziano (pp. 247-297), tutti in I canzonieri della lirica italiana delle Origini. Riproduzione fotografica, a cura di L. Leonardi, IV, Firenze 2000-2001. Sui manoscritti della tradizione stilnovistica v. ormai gli estesi prolegomeni in Dante Alighieri, Rime, a cura di D. De Robertis, Firenze 2002; in particolare su Ch v. gli interventi di G. Borriero, 'Quantum illos proximius imitemur, tantum rectius poetemur'. Note sul Chigiano L.VIII.305 e sulle "antologie d'autore", "Anticomoderno", 3, 1997, pp. 259-286, e Nuovi accertamenti sulla struttura fascicolare del canzoniere Vaticano Chigiano L.VIII.305, "Critica del Testo", 1, 1998, pp. 723-750. Sulla Raccolta Aragonese v. M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze 1915, pp. 215-326. Sulla Giuntina v. l'introduzione di D. De Robertis alla ristampa anastatica per sua cura, Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, ivi 1977, e N. Cannata Salamone, L'Antologia e il canone: la Giuntina delle Rime Antiche (Firenze, 1527), "Critica del Testo", 2, 1999, pp. 221-247. Sull'attività filologica di Colocci v. C. Bologna, Sull'utilità di alcuni 'descripti' umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Messina, 19-22 dicembre 1991), III, Messina 1993, pp. 531-587, e Id., La copia colocciana del canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I canzonieri della lirica italiana delle Origini. Riproduzione fotografica, a cura di L. Leonardi, IV, Firenze 2000-2001, pp. 105-152. Sulle carte Barbieri v. ancora G. De Bartholomaeis, Le carte di Giovanni Maria Barbieri nell'Archiginnasio di Bologna (cod. B.3467), Bologna 1927, e per la confutazione dell'ipotesi di falsità S. Debenedetti, Le canzoni di Stefano Protonotaro. Parte prima. La canzone siciliana (1932), ora in Id., Studi filologici, Milano 1986, pp. 27-64. Sulla questione linguistica v. A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, I, Introduzione, Bologna 2000, pp. 488-504. Sul delicato argomento della rima siciliana la discussione si è ria-perta di recente, in seguito all'ipotesi di G. Sanga, La rima trivocalica. La rima nell'antica poesia italiana e la lingua della Scuola poetica siciliana, Venezia 1992, confutata nei contributi accolti in Lingua, rima, codici. Per una nuova edizione della poesia della Scuola Siciliana. Atti della giornata di studio, Bologna, 24 giugno 1997, "Quaderni di Filologia Romanza", 12-13, 1995-1998, pp. 9-102, e da ultimo in A. Castellani, Grammatica storicadella lingua italiana, I, Introduzione, Bologna 2000, pp. 504-524. Sulla questione della musica v. A. Roncaglia, Sul 'divorzio tra musica e poesia' nel Duecento italiano, in L'Ars nova italiana nel Trecento, Certaldo 1978, pp. 365-397; J. Schulze, Sizilianische Kontrafakturen. Versuch zur Frage der Einheit von Musik und Dichtung in der sizilianischen Lyrik des 13. Jahrhunderts, Tübingen 1989; F. Carapezza, Un 'genere' cantato della scuola poetica siciliana?, "Nuova Rivista di Letteratura Italiana", 2, 1999, pp. 321-354; P.G. Beltrami, Osservazioni sulla metrica dei siciliani e dei siculo-toscani, in Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1999, pp. 187-216. Per la testimonianza di Federico II v. N. Pirrotta, Musica polifonica per un testo attribuito a Federico II, in Id., Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino 1984, pp. 142-153.