SCUOLA POETICA SICILIANA, LINGUA
Ogni valutazione concernente la lingua usata dai rimatori della Scuola poetica siciliana deve tener conto in primo luogo delle particolari modalità nella trasmissione manoscritta dei testi. Le poesie della Scuola non sono giunte in originale ma (salvi alcuni casi specifici, affidati a diversa tradizione, che verranno presentati in seguito) grazie alla trascrizione operata, oltre mezzo secolo più tardi, dai copisti toscani che misero insieme le ben note sillogi correntemente siglate V (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793), L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Redi 9), P (ivi, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Banco Rari 217, già Palatino 418), dell'ultimo quarto del Duecento o di pochissimo posteriori (la mano dello scrivente principale di V, "considerato comunemente l'ordinatore della raccolta" [Petrucci, 2001, p. 27], lavora forse ancora nel primo decennio del secolo successivo). Quello trasmesso a noi è dunque il risultato di trascrizioni non solo abbastanza lontane nel tempo rispetto alla fase di prima stesura delle poesie, ma soprattutto nettamente dislocate nello spazio, in quanto avvenute in area toscana (V è di ambiente fiorentino, L fondamentalmente di ambiente pisano, P di ambiente pistoiese), vale a dire in zona linguisticamente assai diversa rispetto al primigenio ambiente meridionale. La duplice divaricazione, cronologica e topografica, comporta che la lingua dei testi a noi pervenuti rappresenti il risultato di una forte torsione rispetto alla veste di partenza, una vera e propria 'conversione' da un sistema linguistico a un altro.
Nella poesia siciliana, come in altri episodi antichi caratterizzati dal trasferimento di testi dall'una all'altra regione italiana, è difficile stabilire esattamente quanto intensa e (in)volontaria sia la trasformazione idiomatica attuata dai copisti: bisogna tener conto del fatto che i fenomeni di diffrazione linguistica che si producono durante l'azione di copia si moltiplicano non solo in relazione al numero degli interpositi che si frappongono fra l'antigrafo all'inizio del processo e il codice a noi pervenuto (con riferimento implicito alla distanza cronologica che separa le successive trascrizioni), ma anche in ragione della provenienza geografica dei trascrittori, quando si tratti di copisti di origine differente da quella degli autori dei testi da loro ricopiati. L'intervento dei trascrittori produce un'opera graduale e in parte inconscia, ma sicuramente massiccia, di ibridazione della lingua originaria con quella dei copisti: questo è il punto centrale, su questo conviene insistere. Se si tratta di testi ricopiati da copisti della medesima area i fenomeni di diffrazione appaiono sfumati, si possono rilevare con difficoltà e, da questo particolare punto di vista, quasi non consentono particolari quesiti interpretativi. Le cose cambiano radicalmente quando i testi trasmigrano da una zona linguistica ad un'altra; esemplari diversi di uno stesso testo possono subi-re radicali metamorfosi linguistiche a opera di differenti copisti che seguano diverse tradizioni scrittorie. La conversione linguistica attuata dai copisti "è un dato di fatto indiscutibile, di carattere generale e si può dire necessario [il corsivo è mio], che vale dunque per i canzonieri come per ogni manoscritto di ogni genere di prosa e di poesia; per il Notaio come per la Divina Commedia; per i codici siciliani come per quelli di qualsiasi regione; per i copisti toscani come per quelli siciliani o pugliesi, o del resto d'Italia, o francesi, o di che paese si voglia" (Parodi, 1957, I, p. 169). Tali nette indicazioni, remote ma non per questo meno fondate, non paiono essere state percepite in tutta la loro portata generale e accolte nei comportamenti operativi dai filologi e dai linguisti, a dispetto delle recenti conferme provenienti da episodi diversi, sconosciuti al momento in cui esse venivano dapprima formulate; analoghi suggerimenti infatti propiziano i testi di Guglielmo Maramauro e degli altri poeti napoletani del secondo Trecento, giunti attraverso trascrizioni toscane e settentrionali e fortemente modificati rispetto alla lingua di partenza (Coluccia, 2000). Forse in futuro, nella valutazione dei documenti scritti (non solo letterari), dovremo prestare attenzione particolare proprio alla fenomenologia linguistica della copia, che coinvolge non solo la tradizione, la filologia e le soluzioni editoriali, ma ha implicazioni storico-linguistiche e storico-culturali evidenti.
Torniamo al nostro caso. Nella lingua dei testi siciliani documentata attraverso i canzonieri forme toscane introdotte dai copisti (maggioritarie) convivono con forme siciliane e meridionali degli autori, che ‒ come già accennato ‒ si mantengono anche grazie al carattere asistematico dell'operazione di copia (vedremo i particolari in seguito). Con raffinatezza e dettagli variabili, argomentazioni di questo genere rimontano già a studiosi delle passate generazioni quali Bartoli, D'Ancona, D'Ovidio. Al contrario, la polimorfia non andrebbe attribuita al processo di trasmissione ma sarebbe originaria, secondo una tesi sostenuta da studiosi altrettanto autorevoli quali Gaspary, De Bartholomaeis, Bertoni e Monaci; a quest'ultimo in particolare si deve la sintesi efficace "da Bologna a Palermo", che indica il vettore di spostamento della poesia siciliana, originatasi a Bologna e solo in seguito sviluppatasi nel Centro e nel Sud (Monaci, 1885). Proprio a Bologna sarebbe nata la Scuola, grazie all'incontro precoce (agli inizi del secondo decennio del Duecento) tra il siciliano Giacomo da Lentini, il campano Pier della Vigna, il pisano (o meglio, tale ritenuto) Jacopo Mostacci, impegnati in una tenzone sulla natura d'amore (notizie in Coluccia, 2003, pp. 121-122); la diversa provenienza dei tre e l'eccellenza della tradizione culturale volgare che in quegli anni si andava costituendo fra Toscana ed Emilia giustificherebbero la scelta di un modello linguistico sovralocale a base fondamentalmente toscana (come ci viene documentato dai canzonieri), poi esteso all'intera produzione poetica federiciana.
Questi richiami non mirano tanto a fare storia delle idee linguistiche, ma a tratteggiare gli antecedenti storici di posizioni che, con aggiornamenti e sviluppi, riaffiorano ripetutamente.
La rima (e assenza di rima) tra due o più versi collegati è notoriamente la spia privilegiata per la valutazione dei fenomeni linguistici intrinseci ai processi della trasmissione: da un lato la presenza di sicilianismi (o meridionalismi) in sede finale di verso e garantiti dalla rima assicura che si tratti di forme originarie, dovute all'autore ('sicilianismi in rima'); dall'altro l'assenza di rima in forme come ora : cura; rena : fina; dire : avere : sospiri (per dirla con Monteverdi, 1953, p. 209), che si registra nei testi tràditi dai canzonieri, si potrà spiegare con il toscaneggiamento operato dai copisti toscani, che hanno convertito nel proprio sistema linguistico gli originari *ura, *rina, *diri, *aviri ('rime siciliane'). Si insiste spesso sul fatto che, a fronte di un sistema rimico provenzale a sette vocali, la poesia siciliana adotti un sistema a cinque, in cui è inoperante la distinzione tra è : é, ò : ó. Su questo punto, rispetto ai loro predecessori provenzali, i poeti federiciani non attuano semplificazioni né dimostrano minori capacità distintive, ma semplicemente riversano nello scritto le condizioni del sistema fonetico siciliano, che non conosce l'opposizione tra e e o aperte e chiuse: non rime per l'occhio, dunque, ma ovvio (quasi obbligato) trasferimento al sistema scritto delle condizioni linguistiche di base. Questa soluzione allo stesso tempo rimica e grafica viene adottata dai continuatori toscani ed entra così a far parte della tradizione successiva. L'accettazione di essa in Toscana, tanto in poesia quanto in prosa, si spiega sicuramente con il peso e il prestigio della tradizione poetica siciliana; ma sarà stata favorita in modo determinante dal fatto che il sistema scritto latino (base, come sappiamo, dei sistemi scritti romanzi) non attua al suo interno soluzioni grafiche in grado di distinguere tra vocali omologhe di timbro diverso. Per queste ragioni strutturali e storiche, più che per la via 'lirica', tali caratteristiche (insieme alle altre che determinano la non integrale, anche se notevole, complessiva corrispondenza biunivoca tra grafemi e fonemi) si impiantano stabilmente nel sistema grafico dell'italiano, in vigore ancor oggi (Coluccia, 2002).
Una tesi radicalmente diversa (Sanga, 1992) sostiene che l'antica poesia siciliana possedeva un sistema di rime trivocalico, in cui potevano rimare regolarmente e con i e parimenti o con u; tale sistema, mutuato dalla ritmica latina medievale, sarebbe rimasto in pieno vigore per tutto il Duecento e progressivamente sostituito, grazie all'azione dei lirici toscani, da quello attuale pentavocalico solo a partire dagli inizi del Trecento (con persistenze successive, progressivamente ridotte). Ne consegue che la saltuaria rima imperfetta rilevabile nelle poesie della Scuola sarebbe in effetti apparente, quasi il risultato di una sorta di deformazione ottica legata all'applicazione del sistema oggi in vigore a una situazione caratterizzata da altra struttura; al fine di ristabilire la rima perfetta non si renderebbe necessaria alcuna 'ritraduzione' in siciliano: le rime tra e : i, o : u in questo sistema non sarebbero dovute all'intervento dei copisti, bensì risulterebbero, come già detto, assolutamente regolari. Da questo assunto discende l'ovvia conclusione che "non essendo più necessario tradurre in siciliano per 'ristabilire' la rima, la tesi sicilianista, per quanto riguarda questo punto, si rivela arbitraria" (ibid., p. 197). Forse non è ingeneroso dire che asserzioni così radicali abbiano riscosso meno consensi (Fassò, 1994) che dissensi. Tra questi ultimi andranno segnalati almeno numerosi interventi (Antonelli, Brunetti, più volte Brugnolo) compresi in Lingua, rima, codici (1999) e, con puntuale contestazione dei singoli casi linguistici addotti a prova, la disamina di Castellani (2000, pp. 509-516) di cui conviene riportare un brano: "Per concludere, mi pare che i dati presentati dal Sanga non bastino, nella loro scarsezza, ad accreditare l'idea di un tipo semplificato di rima da considerarsi un vero e proprio istituto culturale, e trovino invece una spiegazione migliore nella tendenza al pressappochismo o a forzar la lingua da parte di qualche verseggiatore" (p. 516).
Posizioni più articolate si rinvengono in CLPIO (1992), opera che come è noto poggia su un esame diretto dell'intera tradizione poetica delle origini, soprattutto nel quarto capitolo, intitolato Programma per un omofonario automatico delle forme presentate. Scopo dell'omofonario automatico è di "omogeneizzare le forme in desinenza, connotando i fine verso e i fine emistichio (laddove interessati dall'omofonia […]) con una 'formula' univoca, tale, insomma, da consentire al calcolatore di elaborare tassonomie rigorosamente unitarie, anche in presenza di forme diverse" (ibid., p. CCXXVIa); parrebbe un semplice artificio di natura tecnica, predisposto allo scopo di riunificare sotto l'etichetta della rima dati testuali che il calcolatore non potrebbe autonomamente riconoscere come tali, ad esempio allo scopo di ricondurre alla medesima rima -ire forme come tenere : partire : mantenere : agradire o alla medesima rima -ura forme come dimora : ventura : figura. Ma accenni ripetuti configurano l'ipotesi che i fenomeni linguistici presenti nei testi possano attribuirsi all'autore più che al copista e che se ne individui la genesi in un modello preesistente, di ascendenza latina medievale: "Un'idea della consistenza [delle 'rime siciliane'] potrà venirci dall'uso che ne ha fatto il Notaro; egli infatti è stato il primo a servirsene con una certa larghezza" (p. CCXXVIIa); "sull'ibridismo linguistico dei siciliani e dei loro imitatori avremo modo di tornare più avanti" (p. CCXXIXb); "Omofonie Ĭ Ē: Ī, e Ŭ Ō: Ū, di ascendenza merovingica, meglio note, per quel che riguarda la lirica dugentesca, col nome di rime 'siciliane'" (p. CCXXVIIa); "Lo stesso tipo di omofonie si ritrova in non pochi componimenti dell'Italia superiore. […] Il fare appello, sia per le rime 'siciliane', sia per quest'ultime, a fattori locali casualmente convergenti, è operazione del tutto legittima. Questo però non toglie il sospetto che, soprattutto per le omofonie coinvolgenti la serie delle vocali anteriori, si possa trattare di un fenomeno riconducibile ad un comune background, quello, in altre parole, che si è convenuto di chiamare 'merovingico' […] o, più esattamente, 'africano'" (pp. CCXXVIIIa-CCXXVIIIb); e infine: "In conclusione, nulla si trova nella tecnica della rima praticata dai poeti della scuola siciliana, che non sia già presente in quella della poesia settentrionale. […] Prima di tutto […] la congruenza delle due tradizioni, 'siciliana' e settentrionale […] non esclude in assoluto la linea siciliana, visto che il suo omologo settentrionale vi si aggiungerebbe solo per definizione. In secondo luogo […] questa stessa congruenza sta probabilmente ad attestare […] l'esistenza di un 'sistema unitario' anteriore alla nostra letteratura in versi" (pp. CCXXIXb-CCXXXa).
Più che esplicitare certezze, tali dichiarazioni ‒ peraltro esposte in forma problematica e non assertiva ‒ verosimilmente indicano la persistenza di dubbi interpretativi per alcuni fenomeni su cui è senz'altro opportuno affinare ulteriori riflessioni; in particolare decisive potrebbero rivelarsi le questioni riguardanti la cronologia dei differenti testi sotto osservazione, definita la quale potremmo meglio precisare la direzione dei rapporti e degli scambi tra i centri poetici dislocati al Sud e al Nord della penisola. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, si potrà almeno convenire sulla primaria importanza rappresentata dalla veste formale dei testi giunti sino a noi i quali, interrogati a dovere, hanno sempre molte cose preziose da dirci, secondo la nota formula del textus testis (Folena, 2002, p. 7). Risposte teoriche e comportamenti editoriali operativi non potranno che venire da quanto propone il complesso testimoniale disponibile, considerato nella varietà delle manifestazioni e delle tradizioni. In questo senso, pare condivisibile il metodo di lavoro adottato da chi, analizzando complessivamente il contenuto di V ("raccolta di quasi mille poesie composte da un'ottantina di autori noti" operanti in contesti storici e linguistici diversi "e passate per le mani di un numero ugualmente sconosciuto di trascrittori" anch'essi diversificati per storia e geografia; Larson, 2001, p. 57), si proponga non un esame generale della lingua, bensì ‒ obiettivo apparentemente più modesto ma raggiungibile ‒ "d'isolare un certo numero di tratti linguistici per vedere quali di tali tratti possano con ragionevole probabilità attribuirsi al copista di V e quali apparterranno invece agli autori" (ibid.). Con questi presupposti metodologici è possibile affrontare "l'impegnativo viaggio nel mare aperto della nostra prima lingua poetica" (Serianni, 2002, p. 112), confidando in risultati che riescano a integrare le informazioni, peraltro ragguardevoli, di cui disponiamo a partire già da oltre un secolo (almeno da Caix, 1880).
In primo luogo consideriamo forme protette e garantite dalla rima. La coerenza del modello rimico pentavocalico siciliano consente di individuare e distinguere tra fenomeni linguistici originari e altri attribuibili invece specificamente al processo di trasmissione dei testi. Verifichiamo in vitro questa affermazione esaminando quello che tradizionalmente viene considerato il testo d'apertura della Scuola, Madonna dir vo voglio del caposcuola Giacomo da Lentini, notissima traduzione-adattamento di A vos, midontç, voill retrair'en cantan di Folchetto da Marsiglia, poeta provenzale della quarta generazione attivo negli ultimi decenni del sec. XII, tra i preferiti dai Siciliani.
In questa canzone di Giacomo, qui presentata secondo il testo predisposto da Roberto Antonelli (editore del Notaro in una quasi ultimata edizione integrale della Scuola commissionata dal Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani di Palermo, alla quale faremo ricorso anche successivamente), ricorrono le seguenti 'rime siciliane' (in parentesi quadra le varianti significative dei codici rispetto alla lezione accolta a testo): "eo sì fo per long'uso, / vivo 'n foc'amoroso" (vv. 29-30) [ozo La]; "come 'ncarnato tutto, / e non facesse motto ‒ a voi, sdegnosa" (vv. 75-76). E contemporaneamente ricorrono i seguenti 'sicilianismi in rima', tratti fonetici siciliani garantiti come originali dalla rima: "como l'amor m' à priso / inver' lo grande orgoglio / che voi, bella, mostrate, e no m'aita. / Oi lasso, lo meo core, / che 'n tante pene è miso" (vv. 2-6) [preso V P]; "La salamandra audivi / che 'nfra lo foco vivi ‒ stando sana" (vv. 27-28) [aldive : vive La; vive P]; "sì com'omo in prudito / lo cor mi fa sentire / che già mai no 'nd'è quito" (vv. 37-39). La coesistenza di questi due blocchi di esempi, geneticamente diversi e quasi reciprocamente contraddittori, rende ragione delle variabili modalità di lavoro dei copisti, che a volte intervengono per modificare in senso toscano la lingua dei testi ricopiati, a volte accolgono e mantengono caratteristiche originarie estranee al proprio sistema.
"Ci si può domandare se il codice linguistico siciliano sia stato adottato nella sua interezza (o comunque colle sue caratteristiche essenziali) dai più antichi poeti non siciliani della Scuola siciliana" (Castellani, 2000, p. 497). La verifica su autori non siciliani quali Rinaldo d'Aquino, Paganino da Serzana, Pier della Vigna, Jacopo d'Aquino, Giacomino Pugliese e l'Abate di Tivoli, appartenenti tutti al novero dei più antichi, consente "di dare una risposta affermativa", nel senso che 'rima siciliana' e 'sicilianismi in rima' risultano ripetutamente documentati nei loro testi. In altre parole, nell'ambito dei primi poeti federiciani non si rilevano differenze apprezzabili tra la lingua adottata dai rimatori nativi dell'isola e quella adottata dai loro omologhi continentali meridionali, mediani e addirittura toscani: sembrerebbe che fin dai primi passi la Scuola si sia prefissa un modello linguistico tendenzialmente condiviso da tutti i praticanti.
Riprendendo quanto è già capitato di proporre in altre circostanze (Coluccia, 1999, p. 48; Id., 2003, pp. 133-134), a questo punto può diventare funzionale una distinzione geostorica e terminologica nello stesso tempo. Pur se non esistono dati storici incontrovertibili, è fortemente verosimile che nella Scuola poetica siciliana siano esistite due generazioni di poeti, la prima legata a Federico e ai suoi funzionari di maggiore spicco come Giacomo da Lentini e Pier della Vigna e più radicata in Sicilia e nel Sud, la seconda sviluppata intorno a Manfredi e con ramificazioni diffuse verso la Toscana e l'Emilia. Per comodità potremmo chiamare Siciliani i primi e Siculo-toscani i secondi, riservando l'etichetta di Toscano-siculi ai rimatori nati in Toscana (Bonagiunta, Guittone e i seguaci di costui), che hanno conosciuto i precedenti solo attraverso le raccolte manoscritte redatte in Toscana e che sicuramente non hanno avuto contatti biografici o storici, neanche occasionali o di circostanza, con i circoli poetici di Federico e di Manfredi. Se estendiamo ai Siculo-toscani (compresi alcuni anonimi, che sembrano appartenere alla medesima temperie) la verifica linguistica esperita da Castellani con risultati positivi sui Siciliani non nati in Sicilia, ricaviamo i dati seguenti (dall'edizione in allestimento si offre un campione esteso, non uno spoglio integrale, rispettando la grafia dei codici; come in precedenza, quando è utile si indicano tra parentesi eventuali varianti desunte dai manoscritti le cui lezioni non vengono assunte a testo).
Rime siciliane:
Ciolo dela Barba di Pisa, Kompiutamente mess'ò jntenzïone (ed. M. Berisso), 32 partire : 35 savere;
Pucciandone Martelli, Lo fermo intendimento k'ëo agio (ed. M. Berisso), 53 fina : 54 redina : 56 ataupina : 59 mischina : 60 fina : 68 camina : 69 mena;
Tuctora agio di voi rimenbrança (ed. M. Berisso), 25 podere : 26 servire (r.i.);
Inghilfredi, Caunoscença penosa e angosciosa (ed. M. Berisso), 3 parere : 6 fallire : 32 calere : 35 languire;
Greve puot'on piacere a tucta gente (ed. M. Berisso), 12 cominça : 15 provedença;
Poi la noiosa errança m'à sorpreso (ed. M. Berisso), 1 sorpreso : 4 miso;
Tiberto Galliziani di Pisa, Blasmomi del'amore (ed. M. Berisso), 22 plagere : 23 avere : 26 soffrire : 27 martiri; 59 inteso : 62 conquizo : 63 misprizo [mi spizo La; mispreso V P; si preso Ch (= Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. L. VIII. 305)] : 66 prizo [preso P Ch] : 67 vizo : 70 divizo [dimiso V];
Pietro Morovelli, Donna amorosa sanza merzede (ed. M. Berisso), 6 ride : 7 vede; 17 perire : 18 soferire [soffrire P] : 22 vedere : 23 temere [tenere V P]; 20 miso : 25 inpeso; 51 adussi [adusse P] : 56 fosse; 52 passi : 57 guardasse;
Compagnetto da Prato, L'Amor fa una donna amare (ed. S. Lubello), 5 savesse : 7 avenisse : 9 desse;
Per lo marito c'ò rio (ed. S. Lubello), 6 avea : 8 balia; 15 noi : 17 di llui;
Bartolomeo Mocati, Nom pemssai che distretto (ed. S. Lubello), 53 innamora : 54 natura (r.i.);
Bondie Dietaiuti, Amor, quando mi membra (ed. S. Lubello), 52 natura : 56 ora;
Gl'ochi col core stanno jn tenzamento (ed. S. Lubello), 10 comune : 12 masgione : 14 casgione;
Madonna, m'è avenuto similgliante (ed. S. Lubello), 3 altura : 6 inamora;
S'eo chanto d'alegranza (ed. S. Lubello), 38 diletoso : 39 gravoso : 41 uso;
Carnino Ghiberti, Disïoso cantare (ed. S. Lubello), 62 frutto : 63 disdotto (identico in Chiaro Davanzati, Allegrosi cantari, 10-11); e vedi successivamente Anonimo, Sol per un bel sembiante (ed. R. Gualdo), 17-19;
Anonimo, Sì altamente e bene (ed. A. Fratta), 6 sospire [sospiro P] : 10 benvolere [bene avere V]; 85 voi : 88 fui [fue P];
Anonimo, D'una alegra rasgione (ed. A. Fratta), 63 venire : 66 tenere;
Anonimo, Umilemente vo merzé cherendo (ed. A. Fratta), 17 alena : 18 rafina (r.i.); 24 guisa : 25 intesa (r.i.);
Anonimo, Per gioiosa baldanza (ed. A. Fratta), 69 avea (r.i.) : 72 poria (r.i.);
Anonimo, Aimeve lasso!, lo penzier m'à vinto (ed. A. Fratta), 52 spagire : 56 volere;
Anonimo, Di dolor comvien cantare (ed. R. Gualdo), 58 fuori : 60 core. Come osserva l'editore, in quel punto il testo è corrotto (ma la lezione del manoscritto è sicura);
Anonimo, U novello pensiero ò al core e volglia (ed. R. Gualdo), 52 ritenere : 54 schernire;
Anonimo, Ciò c'altro ommo a sé noia o pena conta (ed. R. Gualdo), 66 alchuna : 70 persona;
Anonimo, Sol per un bel sembiante, 2 aventura : 3 ancora (r.i.) : 6 dimora : 7 figura (r.i.); 13 adotto : 15 disdotto : 16 frutto (r.i.) : 17 tutto : 19 disdotto. E vedi sopra Carnino Ghiberti, Disïoso cantare;
Anonimo, Madonna mia, non chero (ed. R. Gualdo), 21 misi : 23 apresi; 36 fosse : 38 condusse; 65 feci : 70 amici;
Anonimo, Per ciò non dico ciò c'ò in volglienza (ed. A. Fratta), 9 dire : 10 volere (r.i.); 12 soferire : 13 martiri (r.i.);
Anonimo, Al primo ch'io vi vidi, Amor mi prese (ed. A. Fratta), 1 prese : 3 divise;
Anonimo, Oi avenente donna di gran valglia (ed. A. Fratta), 2 partire : 4 gire : 6 avere : 8 mantenere; 10 altrui : 12 voi : 14 plui;
Anonimo, Qual omo vede molte gioe piagiente (ed. A. Fratta), 9 servire : 12 savere;
Anonimo, Se del tuo amore giunta a me non dai (ed. A. Fratta), 10 ora : 13 chura;
Anonimo, Io consilglio ciaschuno che bene ama (ed. A. Fratta), 2 prima : 4 tema;
Anonimo, Amor discende e nascie da piacere (ed. A. Fratta), 10 servire : 13 piacere;
Anonimo, Uno piaciere dal core si move (ed. R. Gualdo), 11 spengne : 14 distringne;
Anonimo, Qualumque donna à presgio di bieltate (ed. R. Gualdo), 10 sete : 12 ferite : 14 vedete;
Anonimo, Lo parpalglion, guardando a la lumera (ed. R. Gualdo), 2 perire : 4 chadere : 6 tradire : 8 partire;
Anonimo, Come fontana, quando l'agua spande (ed. R. Gualdo), 11 gioioso : 14 rinchiuso;
Anonimo, D'Amor volendo traerne intendimento (ed. R. Gualdo), 2 vidire : 4 tenere : 6 sentire : 8 volere;
Anonimo, Chonosco 'n vista, gentil donna mia (ed. R. Gualdo), 4 vedere : 6 dire;
Anonimo, Si fosse 'n mia vertù che i' potesse (ed. R. Gualdo), 1 potesse : 3 volesse : 5 convenisse : 7 avesse. Oltre alla rima, si consideri in convenisse 'converrebbe' l'uso del congiuntivo con funzione di condizionale caratteristico del siciliano;
Anonimo, Vedut'aggio una stella mattutina (ed. R. Gualdo), 9 preso : 12 diviso.
Ecco adesso una lista, non meno significativa, di sicilianismi in rima:
Galletto Pisano, Inn-Alta Donna ò mizo mia 'ntendansa (ed. M. Berisso), 5 solia [solea V] : 14 gholia [gholeo V] : 20 dolia : 23 valia [volea V] : 29 solia [solea V] : 38 sallia : 41 aulia [auliva V]; la terminazione -ia rima con sostantivi quali 2 bailia : 32 Seccelìa [Cicilia V] e con 11 umelìa pres. indic. 3 pers., e quindi è originaria (non a caso nella trascrizione degli imperfetti qualche volta il copista di V toscanizza l'uscita in -ea);
Betto Mettefuoco, Amore, perché m'ài (ed. M. Berisso), 36 placire [piaciere La] : 40 servire;
Ciolo dela Barba di Pisa, Kompiutamente mess'ò jntenzïone, 21 naturali : 24 'guali; 27 raminga : 28 linga (r.i.). La forma siciliana linga (in rima e in contesto assimilabile), è già in Giacomo da Lentini, Meravigliosa-mente, 52-53;
Inghilfredi, Dogliosamente e con gran malenanza (ed. M. Berisso), 17 dismaruto : 19 feruto, con desinenza siciliana del participio;
Pietro Morovelli, Donna amorosa sanza merzede, 10 fino : 16 mino [meno P]. Il sicilianismo mino è già in Tommaso di Sasso, D'amoroso paese (ed. S. Rapisarda), 44 (r.i.) e in Guido delle Colonne, Gioiosamente canto (ed. C. Calenda), 59 (in rima);
54 volia : 55 credia. La terminazione siciliana -ia dell'imperfetto è garantita come originaria dai casi in cui -ia non si riferisce a un imperfetto: 49 mia : 50 dia;
Carnino Ghiberti, Luntan vi son, ma presso v'è lo core (ed. S. Lubello), 38 dipartuto : 41 dormuto [dormito P];
Anonimo, Sì altamente e bene, 31 pensieri : 34 eri : 35 peri [perin P] : 38 primeri : 42 lusinghieri. Per quanto riguarda l'oscillazione peri / perin del v. 35, P presenta "una -n incongrua smentita dalla rima, introdotta dall'amanuense per ovviare in qualche modo alla mancanza di accordo col soggetto plurale. In effetti il sistema delle rime impone di leggere peri 'perisce', forma pienamente siciliana, conservata intatta da V […], sia pure con la trasformazione del soggetto da plurale a singolare" (Concordanze, 1992, p. CLXXXVa);
Anonimo, La gran sovrabbondansa (ed. R. Gualdo), 21 obria : 22 solia (r.i.);
Anonimo, Dispietata Morte e fera (ed. R. Gualdo), 14 credia in rima con 15 dia, e quindi con terminazione originaria;
Anonimo, Ciò c'altro ommo a sé noia o pena conta, 28 smaruto : 38 jsmaruto;
Anonimo, Tapin'ainmè, c'amava uno sparviero (ed. A. Fratta), 2 moria : 4 dovia : 6 solia : 8 balia (-ia originario).
Non è solo siciliana ma appartiene a una più vasta zona meridionale anche continentale (Rohlfs, 1966-1969, §§ 568 e 570) la morfologia della terza persona del perfetto in -ao, ampiamente attestata fin dai primi Siciliani (va comunque attribuita agli autori, non ai copisti toscani).
Pucciandone Martelli, Madonna, voi isguardandosenti' Amore (ed. M. Berisso), 10 innamorao : 11 onorao : 14 alacciao;
Tiberto Galliziani di Pisa, Già lungiamente, Amore (ed. M. Berisso), 8 inflammao : 9 levao;
Anonimo, Madonna mia, non chero, 27 presentao : 28 'namorao;
Anonimo, Guardando la fontana il buȯNarciso (ed. R. Gualdo), 2 'namorao : 4 oblidao : 6 mirao : 8 finao.
Il condizionale che prosegue il piuccheperfetto latino è di sicura origine meridionale (Rohlfs 1966-1969, §§ 602-603), per quanto forse continentale più che isolano, considerato "che nella maggior parte dell'isola la forma veramente popolare [è] cantassi, putissi; cfr. si putissi, manciassi, si putissi vivissi 'berrei'" (ibid., § 593). Presso i Siculo-toscani si rintraccia un esempio in rima:
Bondie Dietaiuti, Greve cosa m'avene oltre misura (ed. S. Lubello), [28 fera agg.f.s.] : 29 sembrera.
Considerato che si tratta di un fenomeno a forte caratterizzazione, conviene eccezionalmente elencare le poche altre occorrenze non garantite dalla rima: anche queste andranno considerate con ogni probabilità originarie, pur se le ragioni metriche, vale a dire misura sillabica e accenti, consentono in via teorica la sostituzione con altre forme concorrenti senza che ne risulti compromessa la struttura del verso.
Inghilfredi, Caunoscença penosa e angosciosa, 8 avèra;
Bondie Dietaiuti, Greve cosa m'avene oltremisura, 16 àrsera.
Tale tipo di condizionale si rivela impiantato da subito nei testi della Scuola, come dimostra l'utilizzazione che ne fa Giacomo da Lentini, Madonna, dir vo voglio, 59 soffondara : 60 gravara (r.i.); ricorre inoltre nel sonetto anonimo (gravata da forti sospetti l'attribuzione a Rinaldo d'Aquino), Meglio val dire ciò c'omo à 'n talento (ed. A. Comes), [11 spera f.s.]: 14 finèra. Non in rima è usato ancora da Giacomo da Lentini, Chi non avesse mai veduto foco, 6 sembrara, in abile "gioco morfologico, certamente originario", con 3 sembraria; e da Cielo, Rosa fresca aulentissima (ed. M. Spampinato), 47 fòrano, 48 talgliàrami, 103 chiamàrano. La coesistenza tra questi condizionali e quelli in -ia, neanche questi indigeni, a quanto pare (Rohlfs, 1966-1969, §§ 593-596), è ammessa con ogni evidenza e anzi ben accettata dai primi poeti siciliani, che riconoscono a entrambe le forme dignità letteraria e con efficacia se ne avvalgono a fini stilistici, cioè per attuare una certa variazione formale; l'adozione della coppia fin dalle prime prove poetiche della Scuola potrebbe essere stata favorita dal fatto che i due condizionali esistono anche in occitano, dove hanno eguale dignità nella lingua poetica, ad esempio chantaria e chantera, dormiria e dormira, floriria e florira (Di Girolamo-Lee, 1996, pp. 69-71). La censura che Dante, De vulgari eloquentia, I, xii, 7, riserva al bòlzera del canto 'apulo', che nella sequenza espositiva è incastonato in una lista di citazioni da autori siciliani che precedono e seguono, scatta presumibilmente non tanto per ragioni che attengono alla morfologia, bensì per il betacismo iniziale e per il consonantismo interno. Come i Siciliani anche i Siculo-toscani praticano la variazione tra le due forme e se ne avvalgono funzionalmente.
Di fronte all'unico avèra che abbiamo visto in Inghilfredi, sono più numerosi i casi di averia (usato per la 1a, la 2a e la 3a persona), una volta in rima: Anonimo, Sì son montato in dolglia (ed. A. Fratta), [32 faria :] 34 averia; più spesso fuori dalla rima e quindi non garantito: Pucciandone Martelli, Tuctora agio di voi rimenbrança, 20; Carnino Ghiberti, L'Amore pecao fortte (ed. S. Lubello), 28; Anonimo, Son stato lungiamente (ed. A. Fratta), 46; Anonimo, Madonna mia, non chero, 34; Anonimo, Ai lasso!, di che sono io blasimato (ed. A. Fratta), 3. Ancora fuori dalla rima, appare anche avria: Anonimo, Già mai null'om nonn-à sì grạricheze (ed. A. Fratta), 34. Non si rintracciano varianti (né vi è utilizzazione diretta, d'altro canto) rispetto a sembrera e àrsera usati da Bondie; altrettanto capita per i condizionali che abbiamo visto usati dai predecessori siciliani. Se invece consideriamo altri casi (e limitandoci a pochi verbi di larga diffusione), le uscite in -ia sono molteplici. Per potere: Pucciandone Martelli, Tuctora agio di voi rimenbrança, [28 mia : 30 dia :] 32 poria; Arrigo Baldonasco, Lo fino amor piacente (ed. M. Berisso), 73 poria [: 74 bailia]; Tiberto Galliziani di Pisa, Già lungiamente, Amore, [2 bailia :] 5 poria; Carnino Ghiberti, Disïoso cantare, 18 poria [: 20 sia]; Neri Visdomini, L'animo è turbato (ed. S. Lubello), [72 gielosia : 73 via (r.i.) :] 75 poria [: 76 sia (r.i.)]; Anonimo, Per gioiosa baldanza, [66 via : 69 avea (r.i.) :] 72 poria (r.i.); Anonimo, Sì m'à comquiso Amore (ed. R. Gualdo), 46 poria [: 48 sengnoria]; Anonimo, Kome per diletanza (ed. R. Gualdo), 52 poria [: 56 saria]; Anonimo, Nom saccio a che coninzi lo meo dire (ed. R. Gualdo), 9 poria [: 11 balia : 13 mia]; Anonimo, Vis'amoros', angielico e clero (ed. R. Gualdo), [2 cortesia :] 4 poria [: 6 dia : 8 sengnoria]. Per dovere: Neri Visdomini, L'animo è turbato, 19 dovria [: 20 saria (r.i.) : 23 ria]. Per fare: Neri Visdomini, Oi fortte inamoranza (ed. S. Lubello), 61 faria [: 65 voria]; Anonimo, Sì son montato in dolglia, 32 faria [: 34 averia]; Anonimo, Ciò c'altro ommo a sé noia o pena conta, 65 faria [: 69 sia]. è assolutamente minoritario il tipo in -ei (Rohlfs, 1966-1969, § 597): Anonimo, Biasmar volglio, che m'à mestieri (ed. R. Gualdo), 32 farei [: 34 vivrei : 36 mei]. Attraverso la filiera letteraria il modello di condizionale dal piuccheperfetto trasmigra fino a Bonagiunta (toccara, degnara, portara, sembrara, adoblaran) e Guittone (amara, portara, convenera, credera) (ibid., § 602), e approda fino a Dante, Paradiso, XXI, 93: satisfara 'soddisferebbe' (in rima); l'isolato mancara di Niccolò de' Rossi, in rima, viene giudicato "uno degli arcaismi più vistosi di tutto il Canzoniere" (Brugnolo, 1977, p. 239).
Di genesi analoga e di diffusione più fortunata perché giunge sino alla lingua poetica ottocentesca (Serianni, 2001, pp. 196-197) è fora, tipo proveniente dai Siciliani, nei quali è davvero troppo frequente per dover essere documentato singolarmente, spesso in coesistenza con saria.
La matrice fondamentalmente siciliana (con innesti meridionali) di questa lingua si conferma anche attraverso altri tratti morfologici significativi. Rappresenta una forma non insulare, bensì piuttosto centrale (Rohlfs, 1966-1969, § 216), creo 'credo', considerato "esito [a volte] monosillabico di criju" (Poeti del Duecento, 1960, I, p. 134). Quando ha valore monosillabico (come nei due esempi indicati subito dopo) è sicuramente originario; non così quando è bisillabo, perché alle spalle della forma a noi pervenuta potrebbe esserci credo (ma quest'ipotesi è del tutto astratta: è inverosimile che copisti toscani abbiano sostituito con una forma non propria una toscana originaria).
Il monosillabo originario ricorre in:
Bartolomeo Mocati, Nom pemssai che distretto, 6 creo [credo P];
Bondie Dietaiuti, S'eo chanto d'alegranza, 25 creo [la correzione rispetto a credo del ms. è necessaria per ragioni metriche].
Presso i Siculo-toscani è largamente rappresentato lo sviluppo toscano credo, del quale è inutile fornire esempi.
Nei Siciliani accanto a creo e a credo troviamo anche crio (sicilianismo crudo) e creio (esito toscanizzato): la coesistenza delle varie forme mette a disposizione degli autori più estese possibilità di variazione formale e nello stesso tempo testimonia le stratificazioni culturali precocemente confluite in questa lingua. L'originarietà degli esiti non toscani, assicurata dal valore monosillabico, è spesso rinforzata dal contesto rimico, che rivela frequenti rime siciliane e sicilianismi in rima.
Abbiamo dunque: in Giacomo da Lentini, Madonna, dir vo voglio, [60 disio :] 64 crio [creio V; creo La]; in Tommaso di Sasso, L'amorosovedere (ed. S. Rapisarda), 17 crio [: 18 disio (r.i.) : 21 soferio : 22 partio (r.i.)]; in Jacopo d'Aquino, Al cor m'è nato e prende uno disio (ed. A. Comes), [1 disio :] 3 crio; [21 veo : 22 doneo :] 23 creo [: 24 disio (r.i.)]; in Folco di Calavra, D'amor distretto vivo doloroso (ed. A. Fratta), [24 disio :] 27 crio. Significativo che il tipo marcatamente siciliano ricorra anche in un autore non siciliano come Percivalle Doria, Kome lo giorno quand'è dal maitino (ed. C. Calenda), 20 disvio : 21 crio; quest'ultima è variante di Ch non accolta a testo, che offre invece l'altrettanto marcato vio (cf. in seguito), emendamento editoriale da veio di V, necessario per la rima. La coppia non toscana crio / creo è adottata anche dai Toscano-siculi: eccezionalmente crio da Monte Andrea, L'arma e lo core (1979, p. 121), [1 disio :] 3 crio [: 5 port'io : 7 fio : 9 colpìo], e inoltre 7credo, coesistente in sede iniziale di verso; più diffusamente creo, da Chiaro Davanzati, Nesuna gioia creo, 1 ("forma semisiciliana" per Menichetti [Chiaro Davanzati, 1965, p. 200]) [: 4 veo] e da Guittone, tanto nelle canzoni (15.93; 22.61) che nei sonetti (9.7; 50.6; 62.7; 142.21), costantemente in rima (la rima tra 6 recheo : 7 creo : 9 veo del sonetto 9 e di altri casi) coinvolge "forme […] interpretabili come sicilianismi", secondo quanto osserva Leonardi [in Guittone d'Arezzo, 1994, p. 28]).
Un discorso analogo si può fare per gli esiti di vedere. Senza duplicare i dettagli dei commenti già registrati nei capoversi precedenti, ecco qualche dato proveniente dai Siculo-toscani:
Inghilfredi, Greve puot'on piacere a tucta gente, 4, 7, 18 veo (monosillabico, non in rima). Esistono inoltre assai più numerosi casi di vegio / veggio (evoluzione normale di -di- in Toscana), mentre mancano del tutto occorrenze di vio, veio e anche di vedo.
Anche in questo caso si profila la tendenza che abbiamo già rilevato a proposito del verbo precedente. Ammessa e benvoluta la compresenza tra varie forme, la frequenza degli esiti siciliano vio ("cioè viju"; Poeti del Duecento, 1960, I, p. 134) / continentale veo (cui si accompagnano le varianti veio, vegio /veggio, vedo) è ampia nei Siciliani e decresce nettamente nei Siculo-toscani. Mi limito a pochi esempi in rima, caratterizzati da sicilianismi in rima e da rime siciliane.
Giacomo da Lentini, Meravigliosa-mente, [19 disio :] 22 vio [veio V; veo P; significativo il triplice esito della forma, uno per ciascun testimone]; Amor non vole ch'io clami, [42 disio :] 44 veo; Dal core mi vene, 77 veo [: 79 disio]; Amando lungiamente, [46 disio :] 47 veo [: 50 innamorio]; Ruggerone da Palermo, Oịllasso! nom pensai (ed. C. Calenda), 11 vio [: 14 disio] (si tratta di emendamenti editoriali; la lezione dei codici è via : disia, con quest'ultima lezione "in nessun modo accoglibile"); Giacomino Pugliese, La dolce cera piasente (ed. G. Brunetti), 5 veio [: 8 disio]; Ruggieri Apugliese, Umile sono ed orgolglioso (ed. C. Calenda), 21 veo [: 23 deleo]; Percivalle Doria, Kome lo giorno quand'è dal maitino, [20 disvio :] 21 vio (r.i.; già commentato prima, a proposito di creo).
In conclusione, pur se rispetto ai Siciliani non è dato di rilevare differenze macroscopiche nella lingua usata dai Siculo-toscani, a volte pare di scorgere in questi ultimi i segni di un cauto allontanamento rispetto ad alcuni tratti frequenti nei primi, forse giudicati troppo marcati in senso locale: così sembrerebbero suggerire una certa renitenza verso il condizionale che prosegue il piuccheperfetto latino e verso gli indicativi presenti crio e vio, a vantaggio di altre forme equivalenti disponibili (isolate attestazioni ancora successive potrebbero essere una persistenza di natura letteraria, imitazione libresca di un modello). In altri termini, l'allargarsi della esperienza poetica della Scuola a nuove personalità meno legate al contesto siciliano e federiciano della produzione più antica sembra aver favorito il lento ma progressivo distacco da alcuni moduli sentiti come fortemente idiomatici.
Con molte cautele, intrinsecamente legate alla difficoltà di distinguere tra elementi originari e interventi dei copisti, si può ricomporre un elenco di tratti significativi presenti nella lingua di questi testi (Castellani, 2000, pp. 500-504). Abbiamo esaminato in dettaglio fenomeni di fono-morfologia, e discuteremo successivamente alcuni casi lessicali; a livello grafico, è importante un piccolo gruzzolo di occorrenze in cui 〈ch> rende [ć] palatale, tratto indigeno e caratterizzante (per cui vedi insieme ibid., p. 500, e Coluccia, 2002, pp. 24-25 e 75-76; con la bibliografia complessivamente indicata).
Un'analisi della lingua effettuata, per così dire, in tralice lascia affiorare indizi riguardanti le modalità di diffusione del testo (nel passaggio dalla Sicilia verso la Toscana) o la zona di nascita dell'autore. Mi limito a due esempi, uno per argomento. Alcune componenti della lingua del Contrasto di Cielo d'Alcamo (testo la cui composizione non può andare oltre il 1250, considerata la menzione di Federico II al v. 24) quali l'indebolimento -a > -e, il dittongamento metafonetico, ripetuti esempi di betacismo, l'assimilazione nd > nn, i pronomi meve, teve, numerosi meridionalismi lessicali (puntualmente segnalati nelle note all'edizione curata da M. Spampinato), provano l'esistenza di una trascrizione continentale intermedia (non giunta fino a noi), della seconda metà del Duecento, tra l'originale siciliano e il ms. V. La canzone anonima V 72 Amor, nom saccio a chui mi richiami (ed. M. Spampinato), esempio unico di menzione esplicita del destinatario nella tradizione siciliana (stanza VI, vv. 51-60, in particolare vv. 55-58: "e mandolo al più fino, / ch'è nato da Lentino; e priego il Notar Giacomo valente, / quelgli ch'è d'amor fino […]"), si segnala per le fitte rispondenze rimiche, foniche, lessicali, semantiche e tematiche con poesie di Giacomo da Lentini (per un richiamo esplicito cf. Meravigliosa-mente, v. 63: "Ch'è nato da Lentino") e dell'Abate di Tivoli. L'autore appartiene alla stessa cerchia dei due poeti, ma non è siciliano né meridionale di origine, come sembra attestare publicao v. 30, participio passato garantito dalla rima con il passato remoto disturbao v. 27; la forma originaria di participio passato, non siciliana né meridionale (riscontri nel genovese antico e nel veneto antico), denuncia l'appartenenza dell'anonimo all'Italia settentrionale e costituisce un tassello utile a ricostruire quel reticolo di scambi poetici sistematici, interni ed esterni al più ristretto nucleo dei poeti federiciani 'doc', che tanti indizi convergenti ci consentono di disegnare.
Come abbiamo appena visto anche attraverso il caso particolare del Contrasto, le trascrizioni dei copisti toscani che noi possediamo, per quanto largamente maggioritarie, non esauriscono l'intera casistica relativa alle modalità con cui i testi siciliani, dislocati dai luoghi d'origine, raggiungono nuovi ambienti.
Esulano rispetto alla zona toscana le ripetute (pur se non numerosissime) citazioni in una veste più o meno rigorosamente siciliana di poesie intere e di spezzoni che il filologo modenese Giovanni Maria Barbieri (1519-1574) estrasse, per la compilazione di una sua Arte del rimare, da un "Libro siciliano" (probabilmente una copia trecentesca di area veneta in cui venivano raccolti materiali antichi piuttosto che un arcaico codice siciliano approdato nell'Italia settentrionale) da lui consultato e utilizzato intorno alla metà del sec. XVI, poi sparito senza lasciare tracce ulteriori. Nell'autografo della sua opera (ms. B. 3467 dell'Archiginnasio di Bologna) Barbieri trascrive la canzone Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro, il frammento Allegru cori plenu di re Enzo, i versi finali (in sostanza le ultime due stanze; la prima parte è riportata invece in veste toscana) di S'eo trovasse Pietanza dello stesso re Enzo, la stanza iniziale (vv. 1-12) di Gioiosamente canto di Guido delle Colonne: i primi due testi ci sono giunti solo attraverso Barbieri, mentre il terzo e il quarto sono presenti (in versioni radicalmente diverse per quanto riguarda la lingua) anche nei canzonieri e in testimonianze successive. Non sono mancati dubbi sulla schiettezza 'ideologica' del comportamento di Barbieri: ma allo stato attuale le sue trascrizioni vanno considerate attendibili, pur in mancanza dell'edizione critica. L'aggiunta di tale nuovo auspicabile strumento, con la resa delle stratificazioni interne al testo, potrà rivelarsi "indispensabile per valutare le ragioni degli interventi e delle scelte, e fornire un quadro sicuro dei testi che il Barbieri ebbe dinanzi nel redigere il suo trattato" (Cipollone, in corso di stampa). Finora abbiamo i seguenti dati certi. Il minuzioso esame linguistico di Pir meu cori allegrari porta a concludere che "non è certo da pensare [alla manipolazione di] un falsificatore" (Debenedetti, 1932, p. 64), bensì a un prodotto genuino, trascritto in maniera abbastanza fedele da Barbieri nell'Arte del rimare. A conclusioni dello stesso tenore arriva l'editore di re Enzo, a parere del quale Barbieri riporta "le ultime due stanze nella loro veste originaria siciliana (o almeno in una veste molto vicina a quella originaria)" (Calenda), mentre la versione fornita dai copisti dei canzonieri testimonia una toscanizzazione posteriore; su queste basi, la duplice redazione delle stanze finali (siciliana secondo il testo di Barbieri, toscana secondo quello dei Canzonieri) è di importanza centrale per la questione della lingua adottata da questi rimatori. Ai nostri occhi di osservatori moderni continua a suscitare difficoltà il mistilinguismo del testo fornito da Barbieri, toscanizzato nella prima parte e siciliano nella seconda: sembra davvero strano che un operatore attento come egli era non abbia battuto ciglio di fronte alla patente contraddittorietà linguistica derivante dalle due porzioni di testo giustapposte. Le differenti indicazioni delle fonti rendono insicura l'identificazione dell'autore della canzone e di fatto nessuna delle proposte finora avanzate per sanare le divergenti indicazioni testuali e attributive si può giudicare compiutamente soddisfacente (la discussione è riassunta nella nuova edizione in allestimento), pur se appare tuttora più economico pensare che il notaio bolognese Semprebene abbia ampliato di due stanze il testo primitivo di Enzo (Poeti del Duecento, 1960, I, p. 156); se è così, S'eo trovasse Pietanza va ascritta al periodo della prigionia bolognese del re, dal 1249 al 1272, forse in anni più vicini alla seconda che alla prima di queste due date (considerato che Semprebene risulta in piena attività nel 1266). Quale sia la soluzione (Semprebene, Enzo o chiunque altro), pare difficilmente confutabile un fatto: l'autore/rifacitore delle ultime due stanze, operando una simile scelta linguistica, conosce bene e apprezza i testi della Scuola nell'aspetto originario, d'impronta fortemente siciliana. In altre parole a Bologna, in una fase successiva alla morte dell'imperatore (quando declinano le ragioni politiche di militanza o appartenenza), un poeta non nato in Sicilia sceglie di scrivere in una lingua di cui subisce il fascino anche nei momenti finali e meno fulgidi della dinastia sveva, forse addirittura dopo il crollo dinastico (per ulteriori segni del trapianto nel centro emiliano della lirica siciliana cf. Coluccia, 2003, p. 131).
Fra il 1234 e il 1235 un ignoto amanuense appartenente al vasto mondo germanico medievale (che all'epoca include l'estrema regione nordorientale d'Italia), probabilmente un friulano bilingue o trilingue, trascrive in calce a un documento giuridico emanato da Enrico (VII), primogenito di Federico e re di Germania dal 1220, le prime quattro strofe (vv. 1-32) della canzone Resplendiente di Giacomino Pugliese; il foglio che conserva questa redazione della canzone fa parte oggi del codice Z (C 88 della Zentralbibliothek di Zurigo; in altra redazione già nota, più estesa e con diverso incipit, la canzone è conservata dal codice V). Sulla base delle conclusioni alle quali perviene la studiosa cui si deve la scoperta, il frammento poetico sembra avvalorare ‒ pur nei limiti connaturati all'esiguità quantitativa di esso ‒ quanto già sappiamo sulla lingua dei testi della Scuola: alcuni tratti specifici, da assegnare al trascrittore, rinviano a una varietà veneto-orientale o forse più propriamente friulana; altri tratti invece, ancora ben riconoscibili sotto il sistema sovrapposto dovuto al copista, testimoniano la sicilianità originaria della lingua di Giacomino: "albur e amur; i ricostruibili m'a[vi], (ba[s]a[n]do), meu; lu, facisse, (falsasi), k[a]" (Brunetti, 2000, pp. 88-100, in partic. p. 100; e cf. anche la nuova edizione). La localizzazione della copia riconduce per tanti indizi all'estremo lembo orientale d'Italia, nelle terre governate dal patriarca di Aquileia, ghibelline per tradizione e legate politicamente alla casa sveva e in particolare a Federico. Queste regioni avevano offerto, già prima dell'incoronazione imperiale del 1220, ospitalità a Minnesänger (v.) tedeschi e sono finitime a quelle dei da Romano, dove in quegli stessi anni prendeva forma un vero e proprio nucleo italiano della poesia trobadorica: dunque rappresentano un ideale luogo d'intersezione tra prestigiose e così diverse esperienze poetiche. Inoltre il reperto, passato direttamente dal Sud al Nord senza la mediazione toscana, testimonia la precoce diffusione della lirica siciliana molto al di là delle sedi originarie, e quindi ragionevolmente fa pensare che si doveva trattare di una produzione di una certa stabilità e di un certo successo nei circoli letterari, non recentissima e presumibilmente in circolazione già da qualche anno.
Quest'ultimo punto, che investe la questione dell'effettiva data d'avvio dell'esperienza poetica della prima scuola, è particolarmente delicato. Tanto più che il secondo dei due testi contenenti antichissimi Versi d'amore in volgare, da poco portati alla luce (Stussi, Versi d'amore, 1999, e Id., La canzone, 1999), esibisce ‒ pur nella sconsolante esiguità quantitativa dovuta al fatto che rappresenta una traccia di cinque soli versi ‒ caratteri metrici, linguistici e tematici che parrebbero vicini a certi moduli della Scuola e dunque sembrerebbe testimoniare un'espansione già entro il 1220 della poesia siciliana in ambiente ravennate (dove il testo è stato trascritto). La precoce capacità espansiva, se effettivamente provata, è implicita testimonianza del prestigio guadagnato dalla lirica siciliana già a quella altezza cronologica (notevolmente anticipata rispetto alle date tradizionalmente invalse). La scoperta nel febbraio 2004 di versi d'amore delle origini con notazioni musicali in un frammento piacentino articola ulteriormente il quadro della nostra lirica più antica.
Con la strumentazione linguistica accortamente da loro forgiata i poeti siciliani realizzano un progetto di poesia amorosa in volgare, in cui è evidente il debito primario nei confronti del grande modello provenzale, che va molto al di là di una adesione generica: per molte composizioni si possono individuare riscontri con una o più fonti precise. All'origine stessa della poesia siciliana si colloca, come abbiamo già ricordato, la traduzione-adattamento di Giacomo da Lentini e in tentativi di traduzione si impegnano anche altri rimatori (Coluccia, 2003, pp. 102-103); la lista di luoghi e brani delle poesie provenzali riutilizzati dai poeti della Scuola, che appare già ragguardevole (insieme Bruni, 1990, pp. 241-256, e Fratta, 1996), si rivelerà addirittura imponente quando sarà disponibile l'intero blocco dei riscontri testuali e tematici che si inseguono nel commento della nuova edizione che si viene approntando. Anche per quanto riguarda il lessico, il ricorso a prestiti e adattamenti dal provenzale non si limita ai casi di necessità ma è assai più esteso; lo sfruttamento delle possibilità offerte dalla suffissazione accresce il numero delle parole dall'aspetto provenzale e quasi sottolinea la similarità della poesia siciliana rispetto al modello. Le frequenti forme in -anza, -enza, -mento, -ore, -ura sono "certo compatibili col e spesso già proprie del siciliano (come anche, poi, del toscano), ma qui presenti (e in tal quantità) come provenzalismi in grado di alludere al modello e di autenticare così il valore letterario del nuovo testo" (Coletti, 1993, pp. 7-8; l'elenco può accrescersi attraverso il regesto fornito da Cella, 2003, nel quale non è sempre agevole districarsi tra una possibile base provenzale o francese).
L'elemento lessicale di origine provenzale coesiste stabilmente con quello indigeno: si tratta di un apporto significativo e quasi sintomatico, per quanto forse meno rilevante sotto il mero profilo quantitativo. Alcuni sicilianismi della lista seguente, che trasmigrano dagli autori più antichi fino alla generazione successiva (e i testi sovente riproducono alcune costanti di rima), paiono configurarsi come veri e propri tecnicismi di questa poesia, cui talvolta arride una certa fortuna anche fuori dall'ambito siciliano e siculo-toscano:
Giacomo da Lentini, Poi no mi val merzé né ben servire, [43 pensamento :] 44 abento 'quiete, requie, tranquillità' (r.i.);
Tommaso di Sasso, D'amoroso paese, 9 abento [: 11 penzamento];
Pier della Vigna, Amor, da chui move tutora e vene (ed. G. Macciocca), [49 contento :] 50 abento (r.i.) [: 52 talento : 56 compimento : 59 parlamento];
Federico II, Poi ch'a voi piacie, [43 sento :] 47 abento;
Cielo d'Alcamo, Rosa fresca aulentissima, 4 abento;
Anonimo, La mia amorosa mente (ed. M. Pagano), [13 talento : 15 adormento :] 16 abento;
Anonimo, Po' ch'io partio, amorosa (ed. M. Pagano), 9 abento [: 11 piacimento : 13 'ncominciamento : 16 fallimento];
Pucciandone Martelli, Madonna, voi isguardandosenti' Amore, [67 sento :] 68 abento;
Pietro Morovelli, S'ala mia donna piaciesse (ed. M. Berisso), [31 parlamento :] 34 abento;
Compagnetto da Prato, Per lo marito c'ò rio, [32 talento : 34 tormento :] 36 abento;
Neri Visdomini, Oi fortte inamoranza, [21 pensamento:] 22 abento.
Guido delle Colonne, Amor che lungiamente m'ài menato (ed. C. Calenda), 63 (no) abento '(non) ho quiete';
Rinaldo d'Aquino, Già mai non mi conforto (ed. A. Comes), 61 (nomposso) abentare [: 63 oltremare];
Inghilfredi, Sì alto intendimento (ed. M. Berisso), [17 pare :] 21 (nol posso) abentare;
Carnino Ghiberti, L'Amore pecao fortte, [40 pare :] 44 (nom posso) abentare.
Stefano Protonotaro, Pir meu cori allegrari (ed. M. Pagano), 51 ammiritatu 'ricompensato' [: 54 latu].
Giacomo da Lentini, A l'aire claro ò vista ploggia dare, 11 stutò 'spense' (confoco). Per la presenza della coppia stutare / astutare tr. 'spegnere', intr. 'cessare di bruciare' nei poeti della Scuola e in numerosi testi siciliani successivi cf. Varvaro, 1986, s.v. astutári; la diffusione odierna interessa il Meridione e zone anche più a nord, ma non la Toscana, che ha spegnere (smorzare è in alcuni dialetti settentrionali). Il tipo non va confuso con attutare 'smorzare', per quanto i due lemmi siano semanticamente poco differenziati: il secondo è infatti generico, il primo peculiare del fuoco (Bettarini, in Dante da Maiano, 1969, p. 108);
Tommaso di Sasso, D'amoroso paese, [51 disamare :] 52 astutare [: 57 amare];
Jacopo Mostacci, A pena pare ch'io saccia cantare (ed. A. Fratta), 56 stutar (disïança); 57 astutare [: 61 kiamare];
Carnino Ghiberti, L'Amore pecao fortte, 12 (nom s') astuta [: 15 tenuta];
Anonimo, I' doglio membrando il partire (ed. R. Gualdo), [26 saluta :] 28 astuta [: 32 avuta]; 29 astutare [: 31 rimembrare].
Paganino da Serzana, Contra lo meo volere (ed. A. Fratta), [60 lassa :] 61 atassa (r.i.) intr. 'sbigottisce, è amareggiato';
Ruggerone da Palermo, Oịllasso! nom pensai, 29 m'atassa tr. 'mi agghiaccia', lett. 'mi avvelena' (cf. Brambilla Ageno, 1964, pp. 109-110 e Cassata, in Federico II di Svevia, 2001, p. 59, con rinvii a testi tre- e quattrocenteschi e attestazioni dialettali di provenienza siciliana) [: 30 lassa].
Rinaldo d'Aquino, Già mai non mi conforto, 14 la dia 'il giorno', sicilianismo per il genere [: 16 sia]; 62 (la notte né) la dia [: 64 mia];
Rinaldo d'Aquino, Venuto m'è in talento (ed. A. Comes), [66 tutavia :] 73 (nott'e) dia [nella versione di V; in P abbiamo 66 varria : 73 trovaria];
Re Giovanni, Donna, audite como (ed. C. Calenda), 83 la dia [: 84 mia : 86 voria : 87 cortesia];
Ruggerone da Palermo, Oịllasso! nom pensai, 27 la dia [: 28 mia];
Ruggieri Apugliese, Umile sono ed orgolglioso, 44 ladia [: 48 carestia];
Re Enzo, Amor mi fa sovente (ed. C. Calenda), [49 mia: 52 bailia : 57 cortezia :] 60 (nott'e) dia;
Anonimo, Chonosco 'n vista, gentil donna mia, [1 mia : 3 via : 5 ria :] 7 una dia.
Giacomo da Lentini, Madonna dir vo voglio, [28 sana :] 32 ingrana 'granisce'; 32 lavoro 'grano in erba' (ma cf. anche prov. labor).
Stefano Protonotaro, Pir meu cori allegrari, 27 nutricatu 'nutrito, allevato' [: 30 amustratu].
Stefano Protonotaro, Pir meu cori allegrari, 37 sanari 'guarire' [: 40 pinari];
Ruggieri Apugliese, Umile sono ed orgolglioso, 53 sanami 'mi guarisce';
Mazzeo di Ricco, Sei anni ò travalgliato (ed. F. Latella), [20 follegiare :] 25 sanare;
Re Enzo, S'eo trovasse Pietanza (ed. C. Calenda), 28 sanare m.;
Anonimo, Per gioiosa baldanza, 5 sanar (mia ferita);
Anonimo, Sì m'à comquiso Amore, 67 sanare [: 72 campare];
Anonimo, Lo gran valor di voi, donna sovrana (ed. A. Fratta), [1 sovrana :] 2 (lo cor mi) sana (r.i.) [: 3 piana : 4 grana (r.i.) : 5 dïana : 6 sotana (r.i.) : 7 Morgana].
Guido delle Colonne, Amor che lungiamente m'àimenato, 18 serra 'sega'.
Anonimo, Amor, nom saccio a chui mi richiami, 67 tando (corr. da intando) 'allora' [: 70 fidando];
Caccia da Siena, Per fforza di piacier, lontana cosa (ed. S. Lubello), 6 intando [: 7 quando].
Si tratta di attestazioni sicure del meridionalismo tando / intando 'allora' (anche la struttura con in- è equivalente ai fini del nostro discorso); gli altri casi elencati in Concordanze, 1992, p. CCXLVIIa, sono insicuri semanticamente o non condivisi dalla nuova edizione.
La presenza del filone siciliano apparirà forse ancora maggiore se, oltre al lessico, si considera anche il livello sintagmatico: nei testi della Scuola (a partire dagli autori più illustri e più antichi) ricorrono frequentemente espressioni formulari e sequenze di sapore idiomatico che sembrano trovare precisi riscontri nel dialetto moderno (Alfieri, 1992, pp. 804-805).
Oltre all'elemento provenzale e a quello indigeno, i poeti hanno a disposizione un'altra risorsa, peraltro comune a chiunque, in epoca medievale e oltre, si cimenti con la letteratura. Il ricorso diretto alle basi latine (o entrate nel latino) consente l'acquisizione di forme che, in non casuale accordo con la fonetica provenzale e francese, mantengono i nessi consonantici BL, CL, PL: blasmare (e forme flesse o connesse: blasmomi, blasmeria, blasmi, blasmata, blasimo), blanca, blonda (blondetta), clamare (clama, clami), claro, clarore, inclosa, speclu, placiri (placere, placer, place, placeria, plagente), plagenza, placimento, displaciri, planger, planto, plu (plui). Questi esiti coesistono con altri che evidenziano la normale evoluzione fonetica italoromanza: biasimare (biasimo, biasmare, biasmate, biasmasse, biasmando, biasmato, biasmo anche m.), bianca, bionda, chiamare (chiama, chiàmanosi), chiaro, chiuso (inchiuso, rinchiuso), chiusament(e), specchio, piacere (piacerà), pianger (piange), compiangi, pianto, più.
Attraverso questi accorgimenti e queste diverse trafile si costituisce a disposizione dei poeti un numero elevato di doppioni e di varianti d'identico valore semantico, da utilizzare per diversificare stilisticamente il testo. La disponibilità lessicale si arricchisce ulteriormente con l'uso accorto di suffissi che, consentendo di moltiplicare le parole derivanti da una medesima radice e d'identico significato, risulta fondamentale nella strategia comunicativa di questa poesia che tende a ribadire pochi, importanti concetti e situazioni, movimentandone sapientemente la tessitura formale.
Mi limito a pochi esempi (attinti anche in questo caso da Coletti, 1993, p. 12, integrati sulla base della nuova edizione; le integrazioni sono riconoscibili dalla sottolineatura):
al(l)egranza, allegrez(z)e f.s., allegressa, allegresse f.s., allegrez(z)a, alegraggio, alegragio, alegramento;
amistanza, amistade, amistate, 'mistate;
belleza, bellessa, belleze, bellezze f.s., billici f.s., biltà (bieltà), beltà, bellore, bieltate, beltate, beltade;
conforto, confortamento, confortanza; ecc.
La figura retorica conosciuta come dittologia sinonimica, così frequente presso i Siciliani, trova per questa via una spiegazione per così dire genetica; in altri termini, il flessibile sfruttamento delle disponibilità lessicali consente di trasformare un artificio variazionale di tipo linguistico in una risorsa retorica fondamentale. Anche la compresenza di varianti morfologiche di diversa tradizione, che abbiamo sopra registrato, può essere meglio valutata alla luce di queste considerazioni. La descrizione della lingua diventa in tal modo mezzo di accertamento della sapiente tecnica comunicativa elaborata dai poeti della Scuola poetica siciliana.
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