Scuola poetica siciliana
In questa voce si può tenere conto della recente edizione integrale, critica e commentata, in tre volumi, dell’intero corpus poetico dei Siciliani e dei Siculo-toscani (Antonelli, Di Girolamo & Coluccia 2008), costituito da 337 componimenti.
Il primo volume (d’ora in avanti citato come I, seguito dalle coordinate numeriche riferite alla pagina nonché, quando opportuno, all’autore e al componimento) è dedicato per intero a Giacomo da Lentini, riunendo i testi (canzoni e sonetti) allo stesso riferibili, compresi i sonetti dei corrispondenti (Abate di Tivoli, Iacopo Mostacci, Piero della Vigna) e le rime di dubbia attribuzione; il secondo (cit. come II) presenta le poesie degli autori siciliani operanti intorno alle corti di Federico II e di suo figlio Manfredi e degli anonimi collocabili nella medesima temperie storica e culturale; il terzo volume (cit. come III), riunisce l’intero corpus poetico dei Siculo-toscani, cioè di quei poeti nati e operanti in Toscana che ripropongono con adattamenti il modello siciliano.
Un simile supporto costituisce il costante punto di riferimento anche per i dati bibliografici, impliciti quando lì contenuti.
Le origini della lirica d’arte in Europa datano agli ultimi anni dell’XI secolo, quando presumibilmente iniziò la sua attività il primo trovatore, Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1126). La civiltà letteraria occitana durò in vita poco più di due secoli, travolta da tragici eventi storici (la crociata contro gli Albigesi e la conquista francese): si tratta di una poesia laica in volgare, diffusa principalmente nelle corti di Provenza ad opera di professionisti che di essa vivevano, ma anche di signori feudali e di altri soggetti di varia estrazione sociale.
L’occitano diventa in breve la lingua internazionale della lirica e la poesia trobadorica il modello per esperienze analoghe che si sviluppano in altri territori. Su queste basi, riprendendo l’esperienza provenzale, nasce in Italia la lirica siciliana, per impulso decisivo dell’imperatore Federico II di Svevia, in un periodo che molti consistenti indizi spingono a collocare negli anni Venti del XIII secolo. Tra i codici e le poesie provenzali circolanti in Sicilia alle spalle e agli albori della Scuola è di recentissima individuazione l’alba Reis glorios di Giraut de Bornelh (Di Girolamo 2010).
In termini meramente cronologici, in Italia la lirica non nasce con i Siciliani. Il trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras, attivo in Monferrato dal 1180, è autore di un singolare discordo plurilingue, in cui il poeta amante, sconvolto dall’abbandono della sua dama, cambia lingua di stanza in stanza impiegando, nell’ordine, l’occitano, l’italiano, il francese, il guascone, il galego-portoghese, e poi di nuovo le medesime lingue nelle cinque tornadas di due versi ciascuna. Allo stesso Raimbaut si deve un altro componimento, databile tra il 1183 e il 1185, il cosiddetto contrasto con la genovese, una sorta di pastorella borghese, in cui la corteggiata replica al corteggiatore nella propria lingua e in malo modo (➔ scrittori stranieri, italiano degli).
Altri reperti recentemente hanno arricchito il panorama della nostra lirica più antica, documentando un’attività poetica anteriore alla nascita della Scuola siciliana, in parte in possibile collegamento con la stessa.
Grande eco ha provocato la messa in luce, a Ravenna, di due testi contenenti versi d’amore in volgare, forniti di accompagnamento musicale, il primo da collocare fra il 1180 e il 1210, il secondo nel primo o nei primi decenni del XIII secolo. Entrambi i testi furono forse generati in un centro lirico settentrionale; il secondo mostra di aver subito un influsso del tipo siciliano. Un po’ più recente è il cosiddetto frammento piacentino, con molte probabilità un contrasto di 18 versi accompagnato dalla musica, trascritto intorno al 1220 e comunque non oltre il terzo decennio del secolo (II: xxiii-xxix; III: xviii-xix).
Sono ancora in parte da definire le questioni riguardanti la maggiore o minore prossimità culturale dei due testi ravennati rispetto alla lirica siciliana, né risulta del tutto chiaro in quale contesto storico-culturale il frammento piacentino possa essere stato generato. Tuttavia, grazie a questi reperti, si può affermare che a cavallo del Cento e del Duecento (➔ Duecento e Trecento, lingua del) abbiano preso vita in più parti d’Italia forme di poesia cortese tra loro indipendenti, che per certi aspetti (in primo luogo la versificazione e la presenza della musica), guardano a modelli galloromanzi. Ma si tratta di episodi isolati, per quanto importanti.
Non è dubbio che solo con i Siciliani nasca in Italia un movimento lirico collettivo che possa fregiarsi della qualifica di Scuola: fondamentalmente unitarie sono la composizione sociale del gruppo dei poeti (in gran parte notai, cancellieri, diplomatici, funzionari alle dirette dipendenze del sovrano) e la strumentazione formale e linguistica, pur con ovvie variazioni interne; costante è il riferimento ai modelli provenzali, non solo con l’assunzione di temi, moduli e forme, ma addirittura mediante non pochi casi di traduzione-adattamento; costellate da frequenti reciproche citazioni e riprese sono le poesie, fino a dar luogo a vere e proprie tenzoni (I, 1.18a-18e; I, 1.19a-19c). I Siciliani sono i primi poeti d’arte in Italia e possono essere considerati i fondatori della tradizione letteraria italiana. È incerto se tale produzione fosse caratterizzata nella sua globalità dal «fondamentale divorzio della poesia dalla musica» (formula di G. Folena, poi ripresa e discussa da A. Roncaglia) o se fosse musicata, almeno in parte, come più recenti ripetute posizioni tendono problematicamente a prospettare (I: lxii-lxvi; II: xliv-l; III: xxiii-xxiv). I musicologi, da parte loro, tendono a sottolineare la presenza della musica alla corte sveva (da ultimo Otterstedt 2008: 197).
In questo gruppo la personalità più interessante è Giacomo da Lentini, fondatore del movimento e caposcuola per molti rimatori contemporanei e successivi (Antonelli 2009), che viene indicato con la definizione antonomastica di Notaro (che sottolinea la collocazione sociale propria di Giacomo e di altri rimatori attivi nella corte sveva, che riescono a fare della propria attività professionale lo strumento di promozione per individui di origine anche modesta) in alcuni componimenti coevi o appena successivi, nei grandi canzonieri poetici due e trecenteschi e nella famosa terzina dantesca (Purg. XXIV, 55-57) che riunisce le figure più eminenti dell’intero panorama lirico duecentesco prestilnovistico. Ignoti l’anno di nascita e di morte, abbiamo qualche notizia sulla sua formazione giuridica nello studio bolognese e qualche traccia della sua attività professionale, documentata negli anni Trenta del XIII secolo. Autografa è la redazione a Catania, nel giugno 1233, di un privilegio imperiale al monastero di San Salvatore, vicino Messina, nelle cui righe finali si dichiara che l’atto è vergato «per manus Iacobi de Lentino Notarij et fidelis nostri» (nostri si riferisce all’imperatore) (Brunetti 2009). Il corpus delle sue poesie (diciassette canzoni e venti sonetti, oltre a tre sonetti di dubbia attribuzione) è di gran lunga il più esteso tra tutti quelli della Scuola: segno anche questo della preminenza del rimatore. A Giacomo si deve l’invenzione della forma poetica più squisita della poesia occidentale, il ➔ sonetto (I: lxvi-lxx), gabbia metrica di straordinario successo in tante letterature romanze e non romanze, dall’esordio duecentesco fino alla contemporaneità.
Pur con cautela, gli assetti iniziali della Scuola e l’individuazione delle personalità di maggiore spicco appaiono oggi sufficientemente chiari. Al primo nucleo appartengono, oltre all’imperatore e al figlio Enzo, vari esponenti della corte: Giacomo da Lentini, Ruggeri d’Amici, Guido delle Colonne, Odo delle Colonne, Pier della Vigna, Iacopo d’Aquino, Iacopo Mostacci, Mazzeo di Ricco, Folco di Calavra, Filippo da Messina. Il nucleo gravitava probabilmente intorno a Messina, come indicherebbe il fatto che i soli toponimi siciliani presenti nel corpus rimandino alla città di Messina (quattro volte) e allo Stretto (il Faro, due volte) o ad altre località della Sicilia orientale: Siracusa (due volte) e ovviamente Lentini (cinque volte). Nebulosa o incerta l’identificazione di altri undici autori: alcuni erano presumibilmente anch’essi messinesi (Tommaso di Sasso, Stefano Protonotaro), uno forse lentinese (Arrigo Testa), due della Sicilia occidentale (Cielo e Ruggerone), sei certamente del continente, non solo meridionale (Rinaldo d’Aquino, Paganino da Serzana, Giacomino Pugliese, Ruggeri Apugliese, Percivalle Doria genovese e l’Abate di Tivoli), provenienza multipla collegabile al carattere itinerante della corte. A parte stanno il re Giovanni, se davvero va identificato con Giovanni di Brienne padre di Isabella, seconda moglie di Federico, e Iacopo, che per noi è solo un nome (II: xxxix-xl). In tutto venticinque autori più un blocco di anonimi.
Più problematico risulta ricostruire le fasi del trapianto di questa esperienza fuori dai contesti originari, processo concluso dalla decisiva trascrizione, in veste toscanizzata, dei grandi canzonieri toscani V (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, Vat. lat. 3793), L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi 9), P (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, B.R. 217, già Palatino 418), dell’ultimo quarto del Duecento o di pochissimo posteriori (la mano dello scrivente principale di V, ordinatore della raccolta, opera forse ancora nel primo lustro del Trecento). In particolare l’antologia vaticana, oltre a testimoniare il valore straordinario dell’esperienza poetica siciliana, dispone le presenze secondo un tracciato storico e geografico che a ragione può essere assunto per la ricostruzione del profilo storico e culturale dell’Italia poetica predantesca (I: xix-xxiv).
Va formulata una prima domanda: la morte di Federico comportò la fine immediata del movimento poetico da lui fondato o l’estenuazione dello stesso fu molto più lenta e si realizzò in una serie di episodi successivi? E ancora: è possibile ricostruire, perlomeno nelle linee fondamentali, lo spostamento della lirica siciliana verso la Toscana e il Settentrione?
L’estensione dell’esperienza poetica siciliana al di là della scomparsa di Federico trova conferma nel passaggio del De vulgari eloquentia (I, xii, 3-4; ➔ Dante), dove alla figura dell’imperatore viene accostata quella del successore Manfredi; nel famosissimo brano si sottolinea inoltre l’estrazione sovralocale dei poeti operanti alla corte sveva e il conseguente valore quasi generalizzante dell’etichetta siciliano con cui Dante, posteriore ed estraneo al movimento, contrassegna la produzione della Scuola.
Per quanto riguarda la continuità della Scuola nei territori d’origine e di prima circolazione, è certo che, prima della trasmigrazione, la poesia siciliana transitò nel Mezzogiorno continentale, come più di un indizio intertestuale e documentario lascia intravedere (III: xx-xxiv). Né il punto di approdo unico è rappresentato dalla Toscana, pur se indubbiamente verso questa regione si produce la dislocazione più massiccia e significativa.
Nella Bologna prestilnovistica trascorre da prigioniero i suoi ultimi anni (dal 1249 al 1272) Enzo, figlio di Federico, il quale vi compone alcune canzoni. Il caso più intrigante è rappresentato da S’eo trovasse Pietanza (II: 20.2), nella tradizione testuale di attribuzione controversa (le candidature più qualificate si riducono a due, quella di re Enzo e quella del notaio bolognese Semprebene, con l’ulteriore possibilità di una collaborazione tra i due) e linguisticamente duplice: le carte Barbieri (cfr. infra) offrono le ultime due stanze (vv. 43-70) in veste siciliana, da ritenersi originaria, rispetto a quella toscana delle altre testimonianze. La canzone, ascrivibile al periodo della prigionia bolognese del re, fu redatta da autore o da autori fisicamente e biograficamente estranei all’isola. La presenza dei versi finali in organica veste siciliana tra le carte Barbieri dimostra che l’autore (o il rifacitore, se a Semprebene assegniamo questo ruolo), operando una simile scelta linguistica, conosce e apprezza i testi della Scuola nell’aspetto originario, scegliendo di scrivere in una lingua di cui subisce il fascino anche nei momenti finali e meno fulgidi della dinastia sveva, forse addirittura dopo il crollo dinastico.
Una prova del trapianto nel centro emiliano della lirica siciliana è rappresentata anche dai Memoriali conservati nell’Archivio di Stato di Bologna, in cui sono tramandati sette pezzi, tra cui alcuni del caposcuola Giacomo da Lentini, dell’Abate di Tivoli strutturalmente collegato al precedente e del ‘bolognese’ re Enzo (➔ notai e lingua). Attraverso questo manipolo testuale ricaviamo la certezza di una presenza fisica di poesie siciliane a Bologna almeno a partire dal 1288, contemporaneamente alla confezione materiale dei grandi canzonieri toscani. Un’importante spia linguistica (la grafia prettamente siciliana ‹ch› per [ʧ]; ➔ scripta) sembra indicare la presenza nel capoluogo emiliano di almeno una fonte manoscritta che conservava i testi nella forma originaria, non sottoposti al processo di toscanizzazione che interessa i canzonieri.
A un diverso luogo del Settentrione (l’area nord-orientale) rinviano altri episodi. Il frammento zurighese della canzone Ispendïente (II: 17.8) di Giacomino Pugliese, rimontante al 1234-1235, va ricordato come testimonianza precoce di una possibile linea adriatica: passato direttamente dal Sud al Nord saltando la Toscana (punto di approdo della poesia siciliana giunta attraverso le grandi raccolte manoscritte), il frammento avvalora le tesi sulla originaria sicilianità linguistica dei testi della Scuola.
Una decina di componimenti siciliani comprende il codice B, cosiddetto codice di Nicolò de’ Rossi (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, Barb. Lat. 3953), allestito per iniziativa dello stesso rimatore entro il decennio 1325-1335, probabilmente a Treviso. Se consideriamo le poesie della Scuola lì trascritte, possiamo distinguere tra i testi documentati anche da altre fonti e quelli tramandati esclusivamente da B. Se ne constata una sorta di isolamento stemmatico (se così si può dire) di B rispetto al filone toscano che veicola la parte più rilevante della poesia siciliana: sia per i componimenti anche altrimenti attestati sia, a maggior ragione, per quelli di attestazione unica, B rappresenta un ramo della tradizione con spiccati caratteri di autonomia rispetto alle tre antologie toscane. L’approdo in Veneto di questo segmento di poesie siciliane, pur limitato a non molti pezzi, configura un canale di trasmissione diverso e indipendente rispetto a quello principale di ambiente toscano.
Ancora al Veneto e agli inizi del XIV secolo, se non alla fine del precedente, ci riconduce l’antecedente (x), oggi perduto, del Libro siciliano (Ls), zibaldone parimenti introvabile, da cui Gianmaria Barbieri (1519-1574) trasse quattro testi della Scuola ricopiati nel suo trattato Arte del rimare o Rimario. Nella sua opera il Barbieri ricopia la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro (II: 11.3) e un frammento di soli 7 versi (di canzone?) Alegru cori, plenu di re Enzo (II: 20.3), altrimenti ignoti, nonché la prima stanza di Gioiosamente canto di Guido delle Colonne (II: 4.2) e le due stanze finali di S’eo trovasse Pietanza (II: 20.2), canzoni attestate pure (ma in versioni radicalmente diverse per quanto riguarda la lingua) nei canzonieri e in testimonianze successive. L’eccezionalità delle trascrizioni di Barbieri risiede in primo luogo nella loro organica forma siciliana. È relativamente secondario chiedersi se e in quale misura le operazioni di copia abbiano alterato il siciliano originario di questi testi e fino a qual punto la lingua delle carte Barbieri riproduca fedelmente quella degli autori; importa di più che i primi due testi siano assenti nella restante tradizione e che gli ultimi due, pur attestati dai canzonieri e da altri testimoni, si rifacciano anch’essi a una linea da questi indipendente.
Al medesimo ambiente veneto, forse precisamente padovano, e a un’epoca tarda (che tuttavia potrebbe rispecchiare fasi poetiche precedenti) riconduce un manoscritto della metà del Quattrocento con un frammento (vv. 1-2 e 5-8) di Dolze meo drudo (II: 14.1), da attribuire con grandissima probabilità a Federico, eccezionale nell’abbinamento che ne offre questo testimone: si tratta dell’unico testo siciliano di cui esista un accompagnamento musicale. La presenza della musica che accompagna i versi sollecita la domanda se essa sia da ascrivere all’epoca tarda della confezione materiale del manoscritto o se invece non possa essere originaria. Ai fini del nostro discorso importa che la testimonianza di questo codice, per la forte diffrazione testuale che i vv. 5-8 presentano rispetto alla lezione di V, paia configurare un ramo autonomo della tradizione manoscritta: di conseguenza si prospetta l’ipotesi che un ulteriore frammento di poesia federiciana abbia raggiunto il Veneto per una via indipendente da quella delle grandi sillogi toscane.
In definitiva, pur se non possiamo ricostruire l’entità della circolazione autonoma dei testi siciliani nell’area veneta, una conclusione se ne può trarre: la dislocazione dei testi siciliani dal Sud verso il Nord andrà associata a movimenti più articolati di quanto comporterebbe il semplice trasferimento dei testi verso la Toscana (III: xxv-xxxv) e la circoscritta confezione di un unico archetipo già toscanizzato, dal quale si sarebbe diramata l’intera tradizione testuale successiva.
La caduta della dinastia sveva comportò lo spostamento del baricentro politico e poetico in Toscana. Alla corte si sostituiscono le città toscane, le quali diventano polo di attrazione delle esperienze precedenti e nello stesso tempo d’irradiazione di forme nuove: al cosmopolitismo della Magna Curia si sostituì un evidente municipalismo che si travasa nelle poesie degli autori siculo-toscani, sui quali peraltro sussistono notevoli incertezze di carattere anagrafico e cronologico. Non saremo lontani dal vero collocando intorno alla metà del secolo, successivamente alla morte di Federico ma ancor prima della morte di Manfredi, l’avvio di questa esperienza poetica. In essa ai tradizionali motivi amorosi se ne affiancano altri che sono espressione della nuova coscienza cittadina e dei gruppi borghesi emergenti; in qualche caso la tematica politica assume un ruolo addirittura prevalente.
I nomi di questi rimatori nati in Toscana sono in genere meno celebri di quelli dei predecessori e le loro stesse biografie presentano larghissime zone d’ombra: Galletto Pisano, Compagnetto da Prato, Neri de’ Visdomini, Neri Poponi, Tiberto Galliziani, Lunardo del Guallacca, Betto Mettefuoco, Ciolo de la Barba, Folcacchiero, Bartolomeo Mocati, Caccia, Carnino Ghiberti, Petri Morovelli, Guglielmo Beroardi, Brunetto Latini, Bondie Dietaiuti, Maestro Francesco, Megliore degli Abati, Maestro Torrigiano, Ugo di Massa, Pucciandone Martelli, Inghilfredi, Arrigo Baldonasco, oltre a tantissimi anonimi. La produzione dei singoli è poco ricca e talvolta occasionale; ma considerate nel complesso, diramate nell’intera regione e non solo a Firenze, queste rime rappresentano uno snodo fondamentale nella storia della poesia che conduce a ➔ Dante.
La fissazione fisica, cioè manoscritta, della poesia siciliana e siculo-toscana nella forma rappresentata dai tre grandi canzonieri V, L e P (v. sopra) riveste grande importanza. È perlomeno discutibile che a base della tradizione manoscritta di questa poesia ci sia un unico archetipo già toscanizzato (Contini); molteplici segni di natura storica e testuale suggeriscono invece la possibilità (forse la probabilità) che segmenti della produzione siciliana si siano diramati verso la Toscana attraverso veicoli multipli e flussi successivi, organizzati in esperienze scritte variabili, comprese carte sciolte e microaggregazioni testuali (III: xlvii-li).
La copia che gli scribi toscani fecero delle poesie siciliane ne smeridionalizzò la lingua, adeguandola al toscano anche a prezzo della misura dei versi e della perfezione dello schema rimico. La rima (e assenza di rima) tra due o più versi collegati è per noi la spia privilegiata per la valutazione dei fenomeni linguistici intrinseci ai processi della trasmissione: da un lato la presenza di sicilianismi (o meridionalismi) in sede finale di verso e garantiti dalla rima assicura che si tratti di forme originarie, dovute all’autore (sicilianismi in rima); dall’altro l’assenza di rima in forme come ora : cura; rena : fina; dire : avere : sospiri, che si registra nei testi tràditi dai Canzonieri, si potrà spiegare con la toscanizzazione operata dai copisti toscani, che hanno convertito nel proprio sistema linguistico gli originari *ura, *rina, *diri, *aviri (rime siciliane) (➔ rima). Naturalmente codice per codice, autore per autore, componimento per componimento variano le soluzioni dei copisti: rime siciliane e sicilianismi in rima non si manifestano sempre nelle medesime occorrenze né il mero calcolo numerico dà risultati coincidenti nei diversi testimoni. E tuttavia, pur nella ovvia variazione della forma che caratterizza la tradizione manoscritta complessivamente considerata, le tendenze di fondo non cambiano: nei tre testimoni fondamentali esse sono analoghe, risultato di un medesimo processo culturale e storico (Coluccia 2010).
Questo discorso si applica alle poesie dei Siciliani prodotte all’interno o nei paraggi della corte sveva di Federico e di Manfredi: in esse forme toscane introdotte dai copisti convivono con forme siciliane e meridionali degli autori, che si mantengono grazie al carattere asistematico dell’operazione di copia. Esistono invece differenze sostanziali per le poesie dei Siculo-toscani, non tanto perché prodotte in epoca più vicina a quella in cui furono confezionate le raccolte manoscritte, ma soprattutto perché composte da autori toscani, aventi cioè la medesima lingua dei copisti. Di conseguenza, i tratti siciliani e meridionali in esse presenti vanno considerati una scelta intenzionale, dovuta al peso della tradizione precedente, consapevolmente accettata e imitata; e le forme toscane non andranno, come per i Siciliani, attribuite ai copisti ma potranno essere considerate originarie, purché garantite dalla rima (toscanismi in rima, con verosimile coniazione).
Oltre agli elementi di fonetica e di morfologia, anche il lessico di provenienza isolana e meridionale costituisce una componente significativa e sintomatica della poesia siculo-toscana, non irrilevante neppure sotto il mero profilo quantitativo. Alcuni sicilianismi che i poeti nati in Toscana riprendono dai Siciliani paiono configurarsi come veri e propri tecnicismi di questa poesia, cui talvolta arride una certa fortuna, anche oltre gli ambiti originari: abento «quiete, requie, tranquillità»; abentare «aver quiete»; dia f. «giorno»; ecc.
Colpisce la quantità di meridionalismi che, usati dai primi Siciliani, entrano a far parte del patrimonio della nostra lingua letteraria: si pensi alla frequenza della terza persona del perfetto in -ao (infiamao, levao, innamorao), a un tipo come saccio «so», al condizionale che prosegue il piuccheperfetto latino (Giacomo da Lentini: soffondara, gravara; Rinaldo d’Aquino (?): finèra; Carnino Ghiberti: amara, portara; Bondie Dietaiuti: sembrera; Bonagiunta: parlara, toccara, degnara, portara, sembrara, adoblaran; Guittone: canpara, portara, conportara, desportara, amara, convenera, credera; Dante addirittura: satisfara Par. XXI, 93). Di genesi analoga e di diffusione più fortunata (giunge sino alla lingua poetica ottocentesca) è fora «sarebbe» ma anche «sarei».
La lingua dei testi siciliani e siculo-toscani documentata nei canzonieri (quella che anche Dante leggeva) si presenta come un intarsio a forme coesistenti, in cui il siciliano (o la varietà meridionale) convive senza difficoltà apparenti con la componente toscana. A questi ingredienti si affiancano in quantità cospicua altri di diversa matrice, provenzale e latina. L’utilizzazione di fonti diverse permette ai rimatori di aumentare il ventaglio delle scelte formali a loro disposizione, costruendo uno strumento comunicativo composito ma perfettamente funzionale. Attraverso esperimenti di questo tipo si pongono le basi di quell’italiano poetico che nel Trecento avrebbe trovato una compiuta sistemazione in ➔ Petrarca e si sarebbe rivelato in grado di caratterizzare l’intera diacronia linguistica della nostra poesia (➔ lingua poetica).
Antonelli, Roberto (2009), Giacomo da Lentini e l’“invenzione” della lirica italiana, «Critica del testo» 12, 1, pp. 1-24.
Antonelli, Roberto, Di Girolamo, Costanzo & Coluccia, Rosario (a cura di) (2008), Poeti della Scuola Siciliana, Milano, Mondadori, 3 voll. (vol. 1º, Giacomo da Lentini; vol. 2º, Poeti della corte di Federico II; vol. 3º, Poeti siculo-toscani).
Brunetti, Giuseppina (2009), Gli autografi del Notaro, «L’ellisse. Studi storici di letteratura italiana» 4, pp. 9-42 e tavv. I-IX.
Coluccia Rosario (2010), I Poeti siculo-toscani. Rapporto da un’edizione (con qualche indicazione di lavoro ulteriore), in Storia della lingua italiana e filologia. Atti del VII convegno dell’Associazione per la storia della lingua italiana (Pisa - Firenze, 18-20 dicembre 2008), Firenze, Cesati.
Di Girolamo, Costanzo (2010), Un testimone siciliano di “Reis glorios” e una riflessione sulla tradizione stravagante, «Cultura neolatina» 70, pp. 1-34 (estratto).
Otterstedt, Annette (2008), Musik zur Zeit Friedrichs II, in Kaiser Friedrich II (1194-1250). Welt und Kultur des Mittelmeerraums, hrsg. von M. Fansa & K. Ermete, Mainz am Rhein, Philipp von Zabern, pp. 188-199.