SCUOLA POETICA SICILIANA
Intorno alla Magna Curia di Federico II si raccoglie, non solo idealmente, nel ventennio che precede la morte del sovrano (1230 ca.-1250, con eventuale prolungamento fino alla disfatta sveva nelle battaglie di Benevento, 1266, e di Tagliacozzo, 1268) un gruppo di poeti, siciliani o provenienti da altre zone del dominio imperiale (soprattutto, ma non solo, dal Meridione d'Italia), la cui organica e tutto sommato omogenea produzione si caratterizza per: a) la ripresa, se non il prolungamento, della tradizione lirica occitanica; b) l'uso sistematico del "volgare di sì" (secondo la celebre definizione dantesca). I due tratti, incontestabili, vanno però subito problematizzati e precisati.
Quanto al primo, il legame con la tradizione occitanica, occorrerà innanzitutto chiarire da un lato la portata e il senso della certo massiccia ma selettiva importazione di forme e temi originari della poesia trobadorica, dall'altro il rapporto che i Siciliani instaurano con le varie generazioni dei loro predecessores, già persuasivamente differenziate nella ricostruzione storica. Ancor più delicata è la questione (capitale) della lingua che questi poeti impongono come strumento esclusivo della propria comunicazione poetica, con una decisione che risulterà fatale per gli sviluppi dell'intera storia letteraria nazionale. E si sottolinei subito come la figura di Federico assuma un ruolo primario già nella definizione di questi che sono i tratti basilari, le marche, per così dire, genetiche della fisionomia della Scuola. Nessun dubbio infatti che, circa un decennio dopo l'incoronazione imperiale, il sovrano integri alla impetuosa azione di stabilizzazione istituzionale del proprio dominio un ambizioso progetto politico-culturale: tra le varie iniziative in cui si articola tale progetto c'è anche la creazione di una letteratura in volgare che risulti competitiva con le forme più avanzate della produzione letteraria del tempo e, insieme, contrassegnata da un'indiscutibile peculiarità che ne sancisca la dipendenza da una specifica, identificabile, localizzata volontà. L'eventuale predilezione personale del sovrano per la lirica in volgare, testimoniata dalla piccola e non esaltante raccolta a lui attribuibile e da connettersi alla latitudine davvero singolare dei suoi interessi e delle sue curiosità culturali, va certamente subordinata alla lucida consapevolezza del complessivo disegno strategico che si manifesta nella promozione della Scuola.
Per quanto riguarda i trovatori, andrà innanzitutto sottolineato che, come già gli studiosi hanno più volte messo in evidenza, il loro accoglimento in Sicilia esclude indulgenze o concessioni personali, che pure sarebbero state possibili (e furono effettivamente sollecitate) per la diaspora dei poeti occitani a seguito della crociata di Simone di Montfort bandita da Innocenzo III. Su questo punto Federico è fermissimo: né trovatori provenzali (v.), né Minnesänger (v.) trovano asilo presso la sua corte e anzi egli si mostra impaziente di querule lagnanze o umili richieste, e persino indifferente a rampogne pittoresche o insolenti. La poesia trobadorica è un puro serbatoio di modelli letterari, consultati e utilizzati sulla base di testi scritti, non trasmessi oralmente (per motivi diversi, si ipotizza che il codice di riferimento per i Siciliani fosse molto vicino al ms. provenzale T; ed è nota l'ingegnosa ipotesi di Roncaglia, da considerarsi però con prudenza, secondo cui circostanza concreta per l'inizio del trasferimento, se non per il verificarsi di contatti, possa essere stato, nel marzo del 1232, il dono fatto all'imperatore da parte dei potenti alleati da Romano di un codice trobadorico in occasione di un soggiorno nella Marca trevigiana della mobile corte del sovrano). Il trasferimento e l'inevitabile manipolazione dei modelli, in cui si intrecciano senza dubbio scelte dei rimatori e, per l'appunto, quelle ipotizzabili 'direttive regie' su cui stiamo cercando di indagare, implicano delicate questioni interpretative. I Siciliani ereditano dai trovatori soprattutto il rigore dei dispositivi prosodico e metrico (che è cosa affatto diversa, si badi, da un deposito di forme, i nuovi poeti essendo, come si vedrà, straordinariamente innovativi quanto a formule rimiche e sillabiche, uso della polimetria, estensione e schemi della stanza di canzone, ecc.), con una puntualità che recenti accertamenti filologici consentono di fissare in una misura che va al di là di quanto si è fino ad oggi ritenuto, soprattutto per quanto attiene alla rima e alla struttura dell'endecasillabo, continuatore del provenzale décasyllabe (v. Scuola poetica siciliana,metrica). Ereditano un lessico (per calchi e nuove formazioni analogiche), un repertorio d'immagini, una serie di figure e situazioni codificate. Ma, pur entro quel puntiglioso scrupolo formale che si è detto, essi procedono, com'è ovvio, per inevitabili opzioni e conversioni; e, come è forse un po' meno ovvio, sulla base di una drastica, preliminare operazione selettiva: la riduzione cioè, quasi senza eccezioni (se si esclude un manipolo di sonetti di Giacomo da Lentini [v.], Rinaldo d'Aquino [v.], Mazzeo di Ricco [v.] e re Enzo [v.], di argomento latamente morale), della loro intera produzione alla tematica amorosa, con esclusione assoluta di quella materia politica, cronachistica, personale che, sia pure minoritaria, caratterizzava una parte non trascurabile della poesia trobadorica (è la materia affidata alle forme del sirventese che ripullulerà nei grandi toscani della seconda metà del secolo). Che Federico procedesse, come sembra di dover capire anche dalle parole di studiosi solitamente prudenti, a stilare un catalogo di ciò che era consentito e di ciò che era vietato trattare in poesia, onde evitare che venisse in qualche modo coinvolta la propria persona e soprattutto la propria funzione di sovrano autocrate, è ipotesi, così formulata, non solo poco convincente, ma quasi ridicola. Resta però il fatto, impressionante e che andrà valutato senza moralismi ma anche senza ingenuità, che la maggioranza di questi poeti fa parte letteralmente dell'apparato imperiale, ne è per così dire una emanazione, sotto il controllo ferreo dell'autorità del sovrano. È una situazione in cui è difficile pensare che il fedele servitore dell'autorità imperiale al mattino, possa indulgere, la sera, vestiti i panni del poeta, a qualche forma di interferenza se non di fronda nei confronti di Federico, e tanto più in una pratica scrittoria così esposta, così esibita per ragioni di franca autopromozione politico-culturale (e si noti a tale proposito, come sottolinea Alberto Varvaro [1987], che "questa rinuncia alla partecipazione non si estende invece, ed è fatto significativo, ai poeti bizantini di terra d'Otranto, che continuano la tradizione normanna [...] e che partecipano, ad esempio con Giorgio di Gallipoli e Giovanni di Otranto, alla polemica contro la curia papale"). Il prolungamento di una poesia di vivace, spesso polemica intonazione politica oltre i confini dell'originaria matrice occitanica interessa, com'è noto, la poesia in lingua d'oc che fiorisce, nello stesso periodo, presso le corti ancora feudali dell'Italia settentrionale: qui il trapianto su un terreno politico e socio-culturale tutto sommato omogeneo a quella matrice comporta la possibilità di riprodurre taluni motivi, e le sottese dinamiche materiali, ormai del tutto estranei al modello della corte federiciana. Né, a infirmare la correttezza di questa valutazione, varrà ricordare che la stessa estraneità a una tematica non amorosa riguarda anche i contemporanei trapianti della lirica provenzale nella Francia settentrionale, circostanza che andrà riportata a diverse motivazioni.
Dunque è la forma particolare, determinata soprattutto dal rilievo dell'iniziativa regia, che l'importazione dei trovatori assume in Sicilia a definire alcuni caratteri specifici della poesia fiorita intorno alla Magna Curia federiciana (e anche, si direbbe, le conseguenti riserve critiche, in termini di artificiosità e manierismo, espresse a partire soprattutto dalle grandi pagine della Storia desanctisiana). La situazione sommariamente descritta comporta, rispetto al modello importato di per sé già problematicamente analizzabile nelle sue motivazioni genetiche, un'ulteriore separazione dei moduli poetici di ascendenza trobadorica dai propri originari referenti e una parallela insistenza, da una parte, sul modello formale, e dall'altra su varianti più astratte nell'allestimento e nell'articolazione dei contenuti. Non s'intende qui alludere tanto, o soltanto, a fenomeni notissimi come la soppressione della tornada (presente solo in Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro; v.) e del senhal (che, con tutta la sua astrattezza, pure contrassegnava esilmente una presenza individuale), ma proprio a ciò che caratterizza la forma del contenuto della poesia siciliana, e che questi poeti si apprestano a consegnare, per una sorta di eterogenesi dei fini e, beninteso, attraverso cospicue integrazioni, ai grandi toscani di fine secolo e a tutta la tradizione successiva: la sostanziale eclisse dello stesso oggetto d'amore reale (per quanto è lecito impiegare questo termine nell'ambito della poesia medievale) a favore della riflessione sull'amore in quanto tale (che le celebri tenzoni del Notaro con l'Abate di Tivoli, da un lato, e con Jacopo Mostacci [v.] e Pier della Vigna [v.], dall'altro, esplicitano quasi didascalicamente, ma che investe l'ispirazione stessa di gran parte di questa poesia); l'insistenza quasi ossessiva sulla fenomenologia erotica; l'indubbio potenziamento dottrinario soprattutto in chiave di filosofia naturale (in cui trovano eco, con tutta probabilità, i diffusi interessi della corte nel campo del pensiero filosofico-scientifico). Organica alla natura di tale riconversione è quella "'quadratura' ritmico-sintattica che sembra avvicinarsi ai modelli di compositio tradizionali nella prosa d'arte e rielaborati dall'ars dictandi", come ha detto benissimo Gianfranco Folena a proposito del Notaro traduttore: ma l'indicazione può utilmente estendersi alle procedure complessive di questi poeti, tutti più o meno professionalmente educati all'arte del comporre, con ricadute significative anche sulla qualità dello strumento linguistico utilizzato.
Comunque si voglia valutare l'intreccio tra spinte soggettive e la dinamica obiettivamente molto complessa di un trasferimento di questa portata, ciò che è impossibile negare è il livello di assoluta e attiva consapevolezza a cui il rapporto con i predecessores occitanici viene vissuto dai nuovi poeti. L'accennata, cospicua conversione 'ideologica', inevitabilmente connessa al trapianto su di un terreno non solo diverso da quello originario, ma così accentuatamente caratterizzato da elementi di grandissima novità, non esclude ma anzi enfatizza la dipendenza dei Siciliani dal codice cortese trobadorico, dipendenza massicciamente accertabile sul piano della pura testualità. Il grande ms. Vat. Lat. 3793, massimo latore di testi siciliani, si apre, come è ormai noto, con una vera e propria traduzione (che non per questo però andrà considerato necessariamente il testo inaugurale della Scuola): con Madonna, dir vo voglio Giacomo da Lentini traspone in italiano la canzone di Folchetto di Marsiglia A vos, midontç, voill retrair' en cantan (di cui però non ci restano, nell'unica testimonianza manoscritta, che due sole stanze); e di traduzioni a questa comparabili sono autori Jacopo Mostacci (Umile core e fino e amoroso da Longa sazon ai estat vas amor, di autore incerto) e Rinaldo d'Aquino (Poi le piace c'avanzi suo valore da Chantan volgra mon fin cor descobrir, sempre di Folchetto). Ma il catalogo delle fonti provenzali, sparsamente segnalate, tra gli altri, da studiosi come Gaspary, Torraca, De Bartholomaeis, Simonelli, Antonelli e di recente raccolte e integrate da Aniello Fratta (1996), è impressionante, e sarà ancor più incrementato dall'esplorazione sistematica che i vari curatori hanno condotto in servizio della prossima edizione critica e commentata dei testi siciliani in corso di allestimento per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani (per alcune preziose osservazioni sulle modalità e il senso dei prelievi, cf. soprattutto Bruni, 1990 e Brugnolo, 1995, pp. 301-318). Di grande rilievo, nella canzone del Notaro, a conferma del gioco di spinte e controspinte, di assimilazione e distinzione che caratterizza il recupero siciliano dei trovatori, l'ostentata alterazione del sistema metrico di Folchetto con la sostituzione di una lunga stanza di settenari ed endecasillabi alla monometrica serie decasillabica del testo fonte.
La qualità di questo recupero programmatico dei provenzali non depone solo per l'acume dei singoli rimatori, ma si fa spia e contrassegno del fatto che qui davvero vige una logica di gruppo, al punto che l'uso del termine 'scuola' pare in questo caso meno abusivo che nelle innumerevoli etichette consimili consegnateci da una storiografia convenzionale (ma, sia detto per inciso, sulla liceità della qualifica pesa, ancora una volta, l'innegabile funzione unificante dell'iniziativa verticistica di Federico). Si è da tempo notato infatti che i Siciliani, da una parte, si ritagliano una certa fetta della tradizione occitanica, qualificando i propri prelievi senza ambizioni onnivore; dall'altra, si muovono, nel selezionare le proprie fonti, in modo coordinato, strategico, quasi si direbbe "in stretta collaborazione" (Bruni, 1990), recuperando, per così dire, al proprio interno una sorta di socialità culturale che surroga, su un piano diverso, l'improponibile socialità delle fonti. Per il primo punto, si noti che la selezione dei trovatori esclude la ricerca di blasoni arcaizzanti o i percorsi impervi degli sperimentalismi più spinti. Essa riguarda soprattutto la parte della tradizione occitanica "compresa fra gli ultimi decenni del Millecento e i primi del Duecento" (Brugnolo, 1995), entro cui, come si è già visto dai pochi cenni precedenti, assume un rilievo spiccato la figura di Folchetto, parzialmente omologa, culturalmente e persino socio-biograficamente, a quelle dei rimatori federiciani (basti, per una prima verifica, la consultazione dell'Indice dei luoghi paralleli in Fratta, 1996). E ciò avviene non tanto dunque (o non solo, o non precipuamente) perché questi trovatori "all'altezza del secondo quarto del XIII secolo, dovevano già esser considerati classici"; quanto per la loro prossimità cronologica e, in qualche misura, ideologica (almeno rispetto alle prime generazioni trobadoriche) che li rende piuttosto che "modelli, […] interlocutori a distanza […] essendo tutti legati ai temi 'ortodossi' della fin'amor, nonché all'uso di una maniera raffinata ma anche, nel contempo, priva di eccessive asperità" (Meneghetti, 1992). È un fatto che, per quanto verosimilmente sottoposti al pesante condizionamento di un'iniziativa dirigistica e soggetti al rischio di una pura funzione di "rappresentanza", questi poeti si sentono a tutti gli effetti membri dell'"ecumene della lirica cortese" (Di Girolamo, 1993), perfettamente abilitati (e senza dubbio intenzionati) a misurarsi con gli episodi più avanzati della produzione letteraria coeva fissati nella trasmissione scritta. È la conclusione a cui porta anche il secondo dei due aspetti di cui ci stiamo occupando, vale a dire la modalità e le reciproche relazioni, accertabili in re, dei prelievi. Entro quel recinto delimitato, che rappresenta il bacino di utenza privilegiato (ma, ovviamente, non esclusivo), non è frequente, anche se può essere molto indicativo, il caso della sovrapposizione di due rimatori nel riuso di una stessa porzione di testo: la cosa è tanto più significativa in quanto frequenti sono, viceversa, i casi in cui una stessa poesia si rivela parziale ipotesto, ma per frammenti diversi, di liriche siciliane di vari autori. È come se tra questi poeti esistesse una sorta di coordinamento, o quanto meno circolassero informazioni precise sul comune lavoro: circostanza che garantisce, da un lato, l'esistenza di un sodalizio fondato su letture condivise, ma che indica, dall'altro, la volontà da parte di ciascuno di "differenziare la propria voce rispetto agli altri" (Bruni, 1990). Sempre nel quadro dei rapporti con la tradizione occitanica, ma anche sul piano più generale dello sviluppo complessivo delle forme della comunicazione poetica nel periodo che stiamo esaminando, si inserisce la questione non secondaria del cosiddetto "divorzio tra musica e poesia", sostenuto vigorosamente, in anni recenti, da studiosi del calibro di Folena, Contini e soprattutto Roncaglia. Che il legame tra parola scritta ed esecuzione musicata abbia perso, tra i Siciliani, l'organicità che caratterizzava la precedente esperienza trobadorica, in cui comune era la figura del poeta-musico, è un fatto difficilmente contestabile; né valgono a confutare tale conclusione le notizie in nostro possesso sugli interessi personali dei sovrani svevi per la musica o sul ruolo che questa indubbiamente conserva nelle consuetudini e nelle pratiche della corte. Forse però sarà più prudente pensare (e la cosa potrebbe estendersi fino a una data molto posteriore, se è vero che ancora occorre riflettere sulle problematiche teorizzazioni del secondo libro del De vulgari eloquentia) a una potenziale 'musicabilità' di questi testi, a esecuzioni cantate affidate alle competenze di musicisti professionisti. Né maggior luce viene dalla proposta di Joachim Schulze di considerare i testi siciliani che ricalcano esattamente schemi metrici occitanici veri e propri contrafacta di questi, di cui erediterebbero anche la melodia: pare evidente, infatti, come ha subito sottolineato polemicamente Roberto Antonelli, che, a voler seguire tale criterio, proprio i tre casi già citati di autentica traduzione-rifacimento dal provenzale in siciliano, in cui gli autori "trasformano radicalmente la struttura metrica, sia nella formula rimica che in quella sillabica", dimostrano, da parte dei Siciliani, "la non-acquisizione della melodia e quindi del relativo pattern metrico". La questione resta, in larga misura, aperta. Le conclusioni di Schulze e di Antonelli, a veder bene, non si elidono reciprocamente; d'altronde "il fatto che le traduzioni-rifacimenti di testi provenzali non mantengano la struttura metrica dell'originale (e quindi, nel caso, nemmeno la struttura musicale) può essere considerato un aspetto di quella tensione tra imitazione e originalità che si suole riconoscere in altri aspetti della poesia siciliana, piuttosto che necessariamente una prova del fatto che la traduzione non era per musica" (Beltrami, in Dai siciliani ai siculo-toscani, 1999). Per il momento converrà assumere la posizione prudenziale già suggerita che, del resto, viene ormai considerata quanto meno ammissibile anche dai più tenaci assertori del 'divorzio' (v. Musica).
In una situazione come quella descritta, gli indubbi riadattamenti e le inedite curvature della materia amorosa già codificata dalle fonti provenzali non possono però competere, nel contrassegnare la novità della Scuola, con l'evento capitale costituito dall'adozione del volgare locale. E anche da questo versante, a veder bene, si conferma il ruolo di assoluto rilievo del sovrano. È vero che, tra la fine del sec. XII e l'inizio del XIII, la materia di Provenza trasmigra con straordinario successo, e sempre volta nelle varie lingue locali, nella Francia settentrionale, nella Germania renano-danubiana, in Galizia, in Portogallo. Ma quello che, altrove, è l'effetto prevedibile di una dinamica comune nella circolazione dei prodotti letterari, assume in Sicilia un significato assai più marcato, come confermerà anche soltanto il seguito straordinario della tradizione letteraria italiana, che ancora con Petrarca si riconoscerà nell'iniziativa pionieristica dei padri siciliani.
Nonostante l'ampiezza davvero singolare, fin quasi alla dispersività, dei propri interessi personali, è noto che le lingue da Federico promosse, ed effettivamente usate nella Curia, sono da una parte il latino, strumento degli atti ufficiali, dall'altra, appunto, il volgare, esclusivamente adibito alla comunicazione poetica. Talora la doppia competenza si assomma nella stessa persona (esemplare il caso di Pier della Vigna), ma sempre in regime di rigida separazione degli ambiti di applicazione. La promozione della lingua locale (e dunque, sia pure con tutte le mediazioni e integrazioni che occorrerà precisare, dello strumento di comunicazione effettivo del Regno) a lingua della poesia comporta il rigetto totale di ogni altra lingua europea concorrente (ivi compresi il tedesco, lingua paterna del sovrano, e soprattutto il provenzale, lingua delle detestate corti feudali) e l'attribuzione di un'indiscutibile valenza politico-culturale al privilegio a quella riconosciuto. È senza dubbio ciò che anche l'acume dantesco riconoscerà nella celebre dichiarazione di De vulgari eloquentia, I, XII, 2-4: "Et primo de siciliano examinemus ingenium: nam videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis asciscere eo quod quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur, et eo quod perplures doctores indigenas invenimus graviter cecinisse, puta in cantionibus illis Ancor che l'aigua per lo foco lassi, et Amor, che lungiamente m'hai menato. Sed hec fama trinacrie terre, si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in obproprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more sed plebeo secuntur superbiam. Siquidem illustres heroes, Fredericus Cesar et benegenitus eius Manfredus, nobilitadem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit humana secuti sunt, brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inherere tantorum principum maiestati conati sunt, ita ut eorum tempore quicquid excellentes animi Latinorum enitebantur primitus in tantorum coronatorum aula prodibat; et quia regale solium erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri predecessores vulgariter proyulerunt, sicilianum vocetur; quod quidem retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt" ('E per prima cosa facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell'isola hanno cantato con solennità, per esempio nelle famose canzoni Ancor che l'aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m'hai menato. Ma questa fama della terra di Trinacria, a guardar bene a che bersaglio tende, sembra persistere solo come motivo d'infamia per i principi italiani, i quali seguono le vie della superbia vivendo non da magnanimi ma da gente di bassa lega. E in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore e ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italiani più nobili d'animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare'; trad. di P.V. Mengaldo).
Qui l'accento, si badi, batte proprio sulla lingua (de siciliano), conformemente all'ispirazione primaria del trattato; il nome del poeta cui viene attribuita funzione esemplare (Guido delle Colonne [v.], comunque chiamato in causa per una evidente, comprensibile predilezione) viene taciuto non tanto, pare, perché, come scrive Mengaldo (in Dante Alighieri, Opere minori, V, 2, Milano-Napoli 1979, p. 100), trattandosi "di canzoni famose […] è superfluo citarne l'autore" (è molto significativo che anche altrove, nel trattato, le allegazioni dai Siciliani siano preferibilmente portate allo stesso modo, di contro alle meticolose attribuzioni dantesche per componimenti successivi anche più leggendari, forse a riconoscimento dei meriti individuali nell'aula dispersa dell'Italia contemporanea), quanto per evidenziare il ruolo essenziale dei sovrani, viceversa nominati a tutte lettere come autentici promotori e guide della poesia siciliana (e infatti i protagonisti "corde nobiles atque gratiarum dotati inherere tantorum principum maiestati conati sunt", che 'avevano in sé nobiltà di cuore e ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi', e "quicquid excellentes animi Latinorum enitebantur primitus in tantorum coronatorum aula prodibat", 'tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italiani più nobili d'animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni': in questione è l'adeguamento, o meglio l'allineamento alla volontà e al prestigio dei sovrani, da cui anche il giudizio di valore discende come conseguenza).
Ciò detto andrà precisato che, anche a prescindere dal travestimento toscaneggiante in cui le poesie della Scuola ci sono pervenute per il tramite dei tre grandi codici tardoduecenteschi che le hanno tramandate e che ne hanno irreparabilmente alterato la facies originaria, non v'è dubbio che il siciliano utilizzato da questi autori sia una lingua di difficilissima definizione, ma certamente ibridata in partenza da apporti di varia provenienza nonché caratterizzata da una "tensione interregionale" (G. Alfieri, La Sicilia, in L'italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino 1992, p. 804) conseguente alla diversa origine dei protagonisti. La celebre ipotesi di Ernesto Monaci, non fondata però su evidenze plausibili e di impianto sostanzialmente congetturale, secondo cui la formazione di un codice comune almeno parzialmente delocalizzato potrebbe riportarsi agli incontri che alcune delle personalità della Scuola non possono non aver avuto, nella seconda decade del secolo, presso lo Studio bolognese, impegnata ciascuna nella propria formazione professionale, ha il merito quanto meno di segnalare uno dei tramiti possibili (almeno in linea generale) dell'interferenza della lingua dei poeti con il latino e di una parte delle loro procedure euristiche con le regole dell'ars dictaminis (e si ponga mente, ancora una volta, a Pier della Vigna e a Guido delle Colonne, possibile autore, in anni tardi, della Historia destructionis Troiae, rifacimento latino del Roman de Troie di Benoît de Sainte Maure). L'altro serbatoio privilegiato cui questi poeti hanno attinto è ovviamente quello galloromanzo, con assoluta e naturale prevalenza del provenzale (e non sfugga la sottigliezza di un'operazione in cui all'abbandono della lingua d'oc è possibile anche attribuire i caratteri di una esibita ripulsa, ma il provenzale persiste come modello insostituibile per la formazione di una lingua d'arte). Dunque, se si escludono le celeberrime reliquie cinquecentesche di Giovanni Maria Barbieri (Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, il frammento Alegru cori, plenu e la parte finale di S'eo trovasse Pietanza di re Enzo, una stanza di Gioiosamente canto di Guido delle Colonne), su cui peraltro grava un sospetto non proprio ingiustificato di ipersicilianizzazione, la fisionomia linguistica dei Siciliani quale risulta dalla forma in cui siamo costretti oggi a leggerli sconta la pesante sovrapposizione di una vera e propria ritraduzione toscana (pisano-lucchese, pistoiese, fiorentina) a un originario ibridismo, lessicale e fonomorfologico, che non compromette in ogni caso la riconoscibilità della base locale, per così dire naturalistica (per i fenomeni più noti, ma ancora suscettibili di discussione, della successiva lirica toscana che impongono una originaria matrice siciliana: la cosiddetta 'rima siciliana', la rima tra vocale aperta e vocale chiusa, le sopravvivenze lessicali e fonomorfologiche, v. Scuola poetica siciliana, metrica; Scuola poetica siciliana, lingua). Una situazione, come si vede, molto complessa e di delicata decifrazione, della quale mette conto in questa sede soprattutto evidenziare il fatto che, se le cose stanno così, la disponibilità storicamente accertabile all'esportazione entro contesti molto diversi da quello originario è carattere costitutivo della natura stessa dell'idioma impiegato dai lirici della corte federiciana, fertilmente in bilico tra radicamento localistico e aspirazioni universalizzanti (con perfetta congruenza, ancora una volta, con i tratti più propri delle aspirazioni complessive della corte). Né d'altra parte il trasferimento materiale, e la connessa alterazione linguistica, dei testi siciliani nella penisola, ad assecondarne le virtuali tendenze espansive, segue l'unica direttrice toscana testimoniata dai canzonieri della seconda metà del secolo. Oggi è possibile viceversa affermare che le primissime tracce superstiti della diffusione dei Siciliani sono estranee a quella direttrice. Assai per tempo infatti, quasi agli albori della Scuola, una canzone di Giacomino Pugliese (v.), Resplendiente stella de albur (è l'incipit che si legge nel codice in questione, ma Isplendiente in V: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793), è trascritta sul margine della pergamena di guardia di un antico codice di grammatica attualmente conservato nella Zentralbibliothek di Zurigo con segnatura C 88 (già 292). Quello che è ormai noto come 'frammento zurighese', scoperto e studiato da Giuseppina Brunetti, può, per la connessione fortunata con il Landfriede svevo di Enrico (VII), figlio di Federico che immediatamente lo precede nel manoscritto, essere con ogni verosimiglianza datato "fra l'11 febbraio 1234 ed il 15-21 agosto 1235, ovvero nel periodo in cui le norme in esso [nel Landfriede] contenute risultavano ancora in vigore" (Brunetti, 2000). Orbene "il sistema primario" in cui questa preziosa, unica reliquia della primissima trasmissione siciliana, da connettersi probabilmente con il lungo incontro ad Aquileia tra Federico e il figlio Enrico (VII) re di Germania nella primavera del 1232, appare stilata "è quello dell'italiano settentrionale, più propriamente del veneto orientale. Pure nella difficoltà di sovrapposizione, alcuni suoi tratti specifici sembrerebbero attribuibili ad una varietà estremamente orientale o, più propriamente, friulana. Permangono tuttavia nel sistema primario esiti di difficile localizzazione e di possibile influenza francese" (ibid.). È dunque da ritenere che l'arrivo del frammento nel Nord-Est d'Italia sia legato appunto ai due mesi di permanenza della corte di Federico in Friuli nel 1232 e che la trascrizione sulla pergamena zurighese di un paio d'anni successiva ne registri l'esito linguistico in quell'area. Di notevole, in questa plausibilissima ricostruzione, c'è, oltre alla conferma di quella dinamica della trasmissione linguistica dei testi di cui si parlava: a) la traccia del legame organico tra la corte, in quanto entità anche fisica non solo ideale, e i prodotti dei suoi funzionari-poeti utilizzati come strumenti di autopromozione politico-culturale; b) un possibile indizio sulle modalità di circolazione dei testi siciliani almeno nella prima fase della loro produzione, prima della formazione di raccolte antologiche (ma la fisionomia complessiva della diffusione di questi testi, almeno per quanto ci è dato sapere, potrebbe non escludere del tutto l'eventualità che i canzonieri toscani della seconda metà del Duecento abbiano provveduto non solo a renderli consultabili a un pubblico nuovo, ma anche a raccoglierli organicamente per la prima volta; nel qual caso andrebbe attentamente riconsiderata la collocazione del mitico "Libro siciliano" di Barbieri).
Il frammento zurighese, si è visto, risalirebbe ai primordi della Scuola. Ma occorre dire subito che sulla durata dell'esperienza lirica siciliana sono poche le nozioni certe in nostro possesso. Due fatti però, e di assoluto rilievo, sono affermabili al di là di ogni controversia: l'estrema concentrazione di tale esperienza in un giro d'anni molto limitato e la coincidenza del suo definitivo esaurimento con la scomparsa della corte sveva (ma è la morte di Federico a segnare in realtà l'estinzione irreparabile della poesia siciliana e alle figure, certo secondarie, di Manfredi e re Enzo, prigioniero a Bologna fino al 1272, non è possibile attribuire molto di più che un malinconico prolungamento dell'agonia di quella vera e propria emanazione federiciana). Non sfugga il significato delle due menzionate circostanze: entrambe cospirano, ancora una volta, a fissare il ruolo cruciale dell'imperatore. La breve durata e il livello di straordinaria maturità tecnica subito raggiunto dai componenti della Scuola escludono il riferimento a una apprezzabile tradizione autoctona (di cui in ogni caso manca traccia) e implicano, viceversa, una sorta di superiore, impaziente committenza che intende inserire un ulteriore tassello al complesso mosaico della costruzione statuale in corso, certo additando modelli, fonti, livelli auspicati di stile. Il trentennio (1220-1250) in cui Federico edifica il suo progetto, generoso ma fragile, di totale distacco "dal contesto feudale per tornare all'alta solitudine della maiestas imperiale" (Varvaro, 1987), passa attraverso la costituzione di un sistema organico di formazione dei quadri amministrativi (ne sono segni tipici la fondazione dell'Università di Napoli e il tentativo di aggressivo esautoramento dello Studium bolognese), la promozione di un'adeguata piattaforma istituzionale, arricchita del ricorso alla tradizione giuridica romana (soprattutto con le Costituzioni di Melfi del 1231), un articolato, operosissimo slancio impresso alle credenziali culturali del potere, che si esprime, con altri episodi notissimi, principalmente (in maniera cioè più vistosa e durevole) attraverso l'impulso fornito al valore rappresentativo dell'architettura e la creazione della Scuola poetica in volgare. Nell'uno e nell'altro campo (come peraltro da tempo vanno segnalando soprattutto gli storici dell'arte medievale) si direbbe che il ruolo della committenza, del promotore, superi di gran lunga, fin quasi a oscurarlo, quello dei concreti produttori, come ancora una volta pare aver capito Dante nel brano del De vulgari citato in precedenza: "Per una produzione come questa c'è da domandarsi non chi la faccia ma chi la progetti e autorizzi, proprio come in Castiglia Alfonso X si dichiarava esplicitamente autore delle sue grandi opere non perché le avesse scritte ma perché le aveva progettate e seguite. In quest'ottica solo Federico può dirsi il promotore della lirica volgare, anche se i suoi prodotti sono scadenti e la vitalità dell'esperimento è merito di altri, in primis di Giacomo da Lentini" (ibid.). Un progetto, si diceva, generoso ma fragile, in quanto legato al destino personale dell'imperatore, alla tenuta di un'iniziativa che non riuscì a radicarsi in un solido sistema di potere, e che finì travolto dalla caduta della dominazione sveva.
È quasi paradossale, ma solo in apparenza, rilevare come un'attività così ricca di stimoli istituzionali, così sottilmente implicata, e sia pure in posizione peculiare, con la gestione del potere, debba essere in qualche modo valutata di livello amatoriale, frutto di un impegno accessorio rispetto a quello primario costituito dalle mansioni ordinarie di funzionari statali, uomini di legge, professionisti dello stile epistolare. In realtà è questo un tratto fondamentale dei poeti della Scuola: e non tanto, in prospettiva, perché qui assistiamo alla fondazione della figura del poeta-giurista laico destinata a perpetuarsi, con altre motivazioni, nell'ambiente comunale-cittadino della seconda metà del secolo, quanto perché anche qui si evidenzia il carattere costitutivo della Scuola nel tracciato che si va elaborando. All'evasività, per così dire, dei temi poetici selezionati dal campionario trobadorico a garanzia di una piena compatibilità con le esigenze del potere istitutivo, si coniuga coerentemente il profilo di chi nell'attività poetica investe una parte certo incidentale del proprio impegno, evitando ambizioni o attese eccedenti (di qui, forse, anche l'assenza, acutamente segnalata da Gianfranco Folena [1965], di "un termine tecnico che designi individualmente e come categoria sociale questi 'poeti volgari' o 'dicitori per rima', un termine come trobador, trouvère, Minnesänger"). In questa chiave, come è stato notato, gli incarichi a corte non vanno affatto interpretati anacronisticamente come ricompense o prebende offerte dal signore a letterati encomiastici o servili, l'attività poetica essendo viceversa appendice 'libera' e, appunto, amatoriale di funzionari inquadrati su base rigorosamente professionale. Il notaro Giacomo da Lentini, il giudice Guido delle Colonne, il protonotaro e logoteta Pier della Vigna, per citare solo i casi più vistosi e noti, sono membri selezionati del sistema di potere e amministrativo federiciano cui viene richiesto, come ufficio sussidiario, di esercitare le proprie capacità e aspirazioni poetiche individuali nella lingua locale (comunque la si debba intendere) e con il contributo normalizzante della loro cultura scolastica: l'unificazione delle esperienze e l'attribuzione di un senso complessivo sono lasciate alla cura del promotore, che funzionalizza alla propria "logica spersonalizzante" (Meneghetti, 1992) i moventi personali peraltro, come si è visto, coordinati quanto alle scelte nel campo della prestigiosa tradizione di riferimento.
Limitare la nascita e lo svolgimento complessivo della Scuola all'ultimo ventennio della prima metà del sec. XIII, con qualche doverosa flessibilità nella data d'esordio, consegue logicamente dagli scarsi indizi, interni ed esterni, di natura cronologica in nostro possesso. La prudenza relativa agli esordi, con eventuale spostamento verso una data sia pur di poco più alta, è imposta da una ragionevole valutazione della problematica connessa al frammento zurighese e suggerita inoltre dalla circostanza che "Federico ha soggiornato in Sicilia in forma abbastanza continuativa, una volta divenuto imperatore, soltanto nel decennio 1222-1232" (Antonelli, 1979). Ciò precisato, è vero che la posizione di preminenza assegnata nei codici al Notaro non ne garantisce il ruolo di capostipite in senso proprio (e tanto meno è lecito attribuire alla complessa operazione da cui nasce Madonna, dir vo voglio la priorità assoluta nella produzione della Scuola): ma è un fatto che i due unici riferimenti cronologici ricavabili con qualche attendibilità dal corpus delle poesie siciliane sono nei suoi componimenti Ben m'è venuto prima cordoglienza e Angelica figura e comprobata, e riportano rispettivamente al 1234 e al 1236. Significativo, ma prevedibile, che si tratti di date immediatamente successive a quella (1233) in cui compare in un atto ufficiale per la prima volta il nome di Giacomo, redattore a Policoro di un privilegio imperiale. Altre circostanze già messe in rilievo dagli studiosi (per esempio la presenza precoce a corte di Pier della Vigna, già segnalata nel 1221; o addirittura la possibilità di retrodatare ai primi anni del secolo un riferimento della quinta strofa di La 'namoranza disiosa, sempre del Notaro; o ancora la questione della controversa identità di re Giovanni autore del discordo Donna, audite como, in grado tutt'al più, nel caso che si tratti effettivamente di Giovanni di Brienne, come vuole Bruno Panvini, di anticipare di un quinquennio o poco più l'inizio della Scuola) sembrano o francamente fantasiose o puramente congetturali: nessuna, in ogni caso, assumibile al rango di prova, neanche indiziaria. Gli altri indizi probabili riportano tutti invece al ventennio 1230-1250: e si intenda sia gli indizi esterni (la presenza documentata a corte dei vari personaggi, nella loro veste per così dire non poetica), sia i pochi altri interni. Tra cui varrà la pena ricordare solo la possibile connessione tra la partecipazione dell'Abate di Tivoli alla tenzone col Notaro sulla natura di Amore e il viaggio della corte federiciana a Tivoli, appunto, nel 1241; e il caso, ancor più controverso, della celebre canzone di crociata (ma contaminata con il genere 'canzone di donna') Giamai non mi conforto di Rinaldo d'Aquino, ritenuta latrice di elementi arcaici da chi tende ad associarla alla crociata del 1227-1228, ma di recente ridotta persuasivamente da Brugnolo alla riproposta (nient'affatto arcaica o 'popolare') di un tema convenzionale, o anche riferibile "alla spedizione del 1239, guidata dal re-troviero Thibaut de Champagne, dopo la rinuncia di Federico II" (e qui si noterà per inciso che i citatissimi versi in cui compare l'unico riferimento, nelle poesie siciliane, alla persona dell'imperatore: "Lo 'mperadore con pace / tuto lo mondo mantene / ed a meve guerra face / che m'à tolta la mia spene", per giunta con intonazione apparentemente critica, si risolvono in realtà in una dichiarazione encomiastica, anche se il caso rimane senz'altro eccezionale). Si rammenterà d'altra parte che la citata ipotesi di Aurelio Roncaglia sull'occasione concreta che può aver segnato l'inizio dell'attività poetica dei Siciliani conduce grosso modo alle stesse conclusioni, solo corredandole arditamente di dettagli non del tutto persuasivi. Se i limiti cronologici assoluti della Scuola si possono fissare solo per approssimazione ma, come si è visto, evitando rischi di grossolani abbagli, ancor meno certezze è possibile esprimere, anche in considerazione dell'esigua durata del fenomeno, a proposito di eventuali 'fasi' o 'momenti' della Scuola. Esclusa ovviamente la possibilità di parlare di 'generazioni' successive di poeti, magari riconosciute attraverso un sistema razionalizzabile di citazioni interne (l'autorità indiscussa del Notaro è un fatto che non consente illazioni cronologiche significative), tutto ciò che è possibile ricavare dai dati in nostro possesso consente qualche indicazione puntuale francamente inutilizzabile a fini ricostruttivi. Non si va al di là della constatazione che Mazzeo di Ricco risulta ancora destinatario di una poesia di Guittone e che Guido delle Colonne (se pure si tratta dello stesso autore) sarà impegnato addirittura nel penultimo decennio del secolo nella compilazione dell'Historia destructionis Troiae (si tratterebbe comunque di un caso di notevole longevità). La stessa convenzionale datazione delle poesie di re Enzo al lunghissimo, e tardo, periodo della sua prigionia bolognese (1249-1272), si appoggia, pare, a una famosa ipotesi di Contini a proposito della "collaborazione" con il bolognese notaio Semprebene nella scrittura di S'eo trovasse Pietanza: ipotesi molto audace, nonostante l'autorevolezza del proponente, e che coinvolgerebbe peraltro uno solo dei testi dello sfortunato sovrano figlio di Federico. Né molto di più si ricava dalla notizia, ancor più vaga, che Stefano Protonotaro viene dato per morto solo a partire dal 1301. Si tratta, com'è chiaro, di pochi dati 'esterni', che permettono qualche conclusione molto sommaria di cronologia relativa (a cui si potrà aggiungere, per esempio, la collocazione di Pier della Vigna all'altro capo, quello iniziale, della Scuola): niente cioè che alluda al tracciato di una 'storia' interna, a linee di evoluzione, a polarità distinte. Perché il fatto appaia meno sorprendente, si rammenti, accanto alla citata breve durata della Scuola (tra l'altro il 'ventennio 1230-1250' potrebbe segnalare piuttosto date post e ante quem di un fenomeno di ancor più bruciante brevità, con isolati, tardi filamenti sganciati dal momento di più autentica fioritura), l'ispirazione, per così dire, acronica di questa poesia, la sua vocazione alla replica e al rimaneggiamento, nonché, altro dato da non sottovalutare, l'esiguità delle varie raccolte individuali (se si esclude il 'canzoniere' di Giacomo, anch'esso peraltro poco incline a fornire elementi di ricostruzione interna) e le frequenti, notissime difficoltà di attribuzione. Non meraviglia dunque che sulla questione di un'eventuale scansione interna della Scuola i maggiori studiosi abbiano espresso, sempre però in base a considerazioni dichiaratamente opinabili, pareri diversi: dal sostanziale scetticismo di Contini, incline tutt'al più, ma con estrema prudenza, a riconoscere "l'esistenza di un tardo laboratorio messinese, prezioso ed emblematico, dove brillerebbe il magistero di Guido delle Colonne" (ma si tratta, a guardar bene, di un'illazione conseguente alla probabile, citata coincidenza tra il poeta e il tardo autore della Historia destructionis Troiae); al cauto suggerimento di Folena e Antonelli, più favorevoli all'idea di una bipartizione, o meglio di "una dislocazione diacronica della Scuola in due gruppi (o periodi) dall'andamento peraltro ininterrotto e per molteplici aspetti unitario" (Antonelli, Il problema Cielo d'Alcamo, in Cielo d'Alcamo e la letteratura del Duecento. Atti delle giornate di studio [Alcamo, 30-31 ottobre 1991], Alcamo 1993, pp. 45-47); alla più precisa tripartizione di Panvini, che vorrebbe dislocare cronologicamente i Siciliani intorno alle figure successive di tre sovrani, Giovanni di Brienne, Federico e re Enzo.
Al problema della datazione si connette quello, capitale, del canone dei poeti ragionevolmente ascrivibili alla Scuola. È ben noto che la sistemazione storiografica vigente si giustifica sulla base di un criterio oggettivo formulato lucidamente nei continiani Poeti del Duecento: "Oggi il termine di Siciliani vale a designare i rimatori, di qualsiasi regione italiana, che appartennero a quella corte o le gravitarono attorno, e la cui produzione occupa, genere per genere, il primo posto nella più estesa e organica silloge delle nostre origini, il canzoniere Vaticano 3793, il forse ancora duecentesco 'Libro de Varie Romanze Volgare'" (Poeti del Duecento, 1960). Il privilegio accordato a V va confermato senza discussione, anche perché mancano francamente plausibili criteri alternativi. Eppure non è possibile nascondersi che l'ordinamento di V già sconta un'impostazione storiograficamente e ideologicamente orientata, che fa perno sulla poesia toscana prestilnovistica. Di qui la necessità, pur nell'inevitabile accoglimento dei criteri riportati, di "riflettere sul senso della definizione di un canone, nelle condizioni determinate da una gigantesca ritraduzione e selezione in altro ambiente: non la ricostruzione di un corpus stabilito iuxta propria principia in termini rigorosi, ma la definizione elastica di una tradizione, a partire dall'incrocio fra il dato documentario fornito dai manoscritti (Vaticano in testa) e la fisionomia con cui quella Scuola e quel canone sono stati fissati nella ricezione, forse non solo toscana ma certo, per quanto riguarda la nostra tradizione, prevalentemente toscana" (Antonelli, in Dai siciliani ai siculo-toscani, 1999, pp. 14-15). Tra le conseguenze più cospicue di tale riflessione si segnala la soluzione meno ristretta da dare alla questione non trascurabile dei testi anonimi di V, che ammontano a quasi un terzo dell'intero corpus e che in larga misura occorrerà affiancare organicamente alle presenze tradizionali, distinguendo nell'analisi caso per caso. Tali presenze poi ammontano a venticinque (talune però quantitativamente molto esigue, se non minime): Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, Giacomino Pugliese, Mazzeo di Ricco, che aprono i quattro fascicoli dal secondo al quinto di V (il primo è occupato dagli indici; il quarto fa precedere in realtà le canzoni di Giacomino dal celebre Contrasto di Cielo d'Alcamo [v.] ed è particolarmente ricco di anonimi, quasi a voler isolare una particolare modalità dello stile della Scuola); e poi, trascurando l'ordine di apparizione su cui pure non sarebbe superfluo riflettere, Guido delle Colonne, Pier della Vigna, Jacopo Mostacci, Tommaso di Sasso (v.), Stefano Protonotaro, Percivalle Doria (v.), lo stesso Federico, re Enzo, re Giovanni, Odo delle Colonne (v.), Ruggero de Amicis, Ruggerone da Palermo (v.), Arrigo Testa (v.), Abate di Tivoli, Compagnetto da Prato (v.), Filippo da Messina, Folco Ruffo di Calabria, Iacopo d'Aquino, Lanfranco Marabotto, Monaldo d'Aquino, Paganino da Sarzana (si tratta del corpus Panvini confermato dal Repertorio di Roberto Antonelli). Da questo canone complessivo l'importante antologia continiana aveva isolato ragionevolmente poco più della metà degli autori, oltre il Contrasto e un paio di canzonette anonime. I Siciliani, ovviamente, prevalgono: Giacomo da Lentini, la pattuglia dei messinesi Tommaso di Sasso, Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Mazzeo di Ricco (ma l'ipotesi di un'origine messinese della Scuola fondata su tale prevalenza numerica andrebbe più ampiamente dimostrata), probabilmente Cielo d'Alcamo; di origine incerta Jacopo Mostacci; poi i continentali di varia provenienza, principalmente (ma non solo) centromeridionale: Rinaldo d'Aquino, Pier della Vigna, Giacomino Pugliese, Abate di Tivoli, Paganino da Sarzana, Compagnetto da Prato, Percivalle Doria, oltre, beninteso, re Enzo, difficilmente collocabile tenuto conto della protratta prigionia bolognese. È sulla base di tale sistemazione che andrà ancora (magari con qualche aggiustamento non secondario, come si è visto) valutata la presumibile consistenza reale della Scuola siciliana. Senza dimenticare, comunque, che la seconda delle grandi etichette sotto cui alberga nei nostri manuali lo sviluppo della poesia italiana del primo secolo ("siculo-toscani") non può non interferire nelle decisioni in merito alla definizione del canone. Di recente è stato notato che "la percezione delle diverse fasi che si delineano nella lirica duecentesca suggerirebbe [...] di distinguere, con articolazione contenutistica e semantica in parte nuova, [...], tra poesia siciliana, poesia siculo-toscana e poesia toscano-sicula", includendo in quest'ultima categoria "solo la produzione che sicuramente non ha avuto contatti biografici e storici, neanche occasionali o di circostanza, con i circoli poetici federiciani" (Coluccia, in Dai siciliani ai siculo-toscani, 1999, p. 48). L'osservazione è interessante, in sé e per il suo rilievo metodologico, poiché richiama l'attenzione sulla questione spinosissima delle cosiddette fasi di passaggio e sui 'tagli' netti che la pratica didattica impone artificiosamente a tran-sizioni complesse, ricche di interferenze e conguagli, separando irrimediabilmente esperienze interconnesse e di delicatissima definizione. In questa luce, che può illuminare ad esempio un caso come quello del genovese-siciliano-provenzale Percivalle Doria, persino la conclusione, sostanzialmente indiscutibile, secondo cui il destino della Scuola coincide con le sorti della corte sveva, potrebbe essere mitigata, accordando la dovuta attenzione ad alcune sopravvivenze del codice siciliano in ambiente angioino e oltre.
Rimandando alle voci relative ai singoli autori per una caratterizzazione più precisa delle singole personalità poetiche, qui converrà limitarsi a qualche rilievo complessivo che chiarisca il contributo recato dai poeti più eminenti (o altrimenti significativi) alla fisionomia della Scuola. Il primo posto spetta naturalmente a Giacomo da Lentini, il "Notaro" della celebre dichiarazione dantesca (anzi, del Bonagiunta dantesco) di Purgatorio, XXIV, 56. Anche Dante dunque, una volta venuta meno la prospettiva ideologico-politica del De vulgari e alle prese ormai con una ricostruzione storiografico-critica tutta sbilanciata sul versante della lirica d'amore (fino alla trasvalutazione dell'amore come caritas che distingue l'approdo delle sue "nove rime"), riconosce a Giacomo la qualifica di caposcuola, forse egli stesso guidato dalle gerarchie implicite nell'ordinamento del V (è noto da tempo che Dante dovette leggere la poesia italiana precedente in un manoscritto molto vicino a V, ma più 'alto' nello stemma). E in effetti il Notaro è autore di un canzoniere veramente cospicuo (quattordici canzoni, ventidue sonetti, di cui tre scambiati in tenzone, un discordo, alcune dubbie attribuzioni); è un autentico virtuoso, oggi diremmo uno sperimentalista nella fattura degli schemi della stanza di canzone (come scrive Antonelli: "un'eguale articolazione, complessità e insieme rigorosità non è forse dato ritrovare in nessun altro Siciliano"; in Giacomo da Lentini, 1979); giunge fino al punto di inventarsi la forma fissa del sonetto (che dominerà la successiva lirica europea), a partire probabilmente dall'isolamento di una stanza di canzone, ma forse anche sul fondamento di modelli matematici (per i quali è storicamente provato l'interesse a corte) relativi alla misurazione e alla quadratura del cerchio e a costanti numeriche riscontrabili nel campo dell'architettura, come suggerisce Wilhelm Pötters seguito da Furio Brugnolo (ma anche Avalle pensa a una "configurazione circolare in movimento" del sonetto che chiama in causa rapporti numerici relativi alla quadratura del cerchio); traduce dal provenzale di Folchetto, come si è visto, con una perizia e insieme con una inventiva variantistica (soprattutto metrica) di grandissima sapienza, la canzone con cui si apre V, Madonna, dir vo voglio; infine, ciò che per il nostro discorso interessa altrettanto, si pone come modello per gli altri autori della Scuola che instaurano spesso con lui un fitto dialogo intertestuale (né gli sporadici dubbi sulla direzione dello scambio sono in grado di mettere in discussione l'evidenza del primato che gli viene riconosciuto, provabile anche nel coinvolgimento nelle due tenzoni: l'Abate di Tivoli, nell'ultimo sonetto della tenzone sulla natura di amore, lo apostrofa "ser Giacomo valente, a cui [mi 'nchino]"). E infatti Giacomo è l'unico che abbia conteso in qualche modo a Federico II, nell'opinione degli storici (è il caso di Contini), il titolo di 'fondatore', 'iniziatore' della Scuola: l'unico forse cui tale titolo spetterebbe se, per tutte le ragioni sin qui riportate, gli aspetti per così dire istitutivi o, per essere brevi, politico-culturali non dovessero avere la prevalenza, nel nostro caso, su quelli storico-poetici. Insomma al Dante della Commedia occorrerà preferire, nella valutazione storica, il Dante del trattato: o meglio occorrerà ammirare, ancora una volta, la sapienza delle valutazioni diacroniche dantesche, che si integrano reciprocamente a distanza. Ciò detto, si potrà però notare, prescindendo per un attimo da Dante, che i tratti precedentemente elencati come rappresentativi del 'primato' di Giacomo (imponenza e varietà della produzione poetica, sapienza progettuale negli schemi della stanza, invenzione del sonetto, ruolo-chiave nell'importazione del patrimonio trobadorico, prestigio indiscusso tra i partecipanti alla Scuola) sono precisamente tratti 'fondativi' con cui il Notaro, non certo per caso, elabora una strategia tecnico-organizzativa, prima ancora di esprimere una vocazione poetica. L'impressione che se ne ricava è di un dotatissimo autore (il quale, sottoponendo la topica occitanica "a una fertile euristica", secondo le parole di Contini [Poeti del Duecento, 1960], contribuisce a quella interiorizzazione della tematica amorosa, a quello spostamento dell'attenzione dall'oggetto al soggetto della passione, con tutti i connessi problemi retorico-stilistici relativi ai limiti di esprimibilità di questa, in cui consiste, come si è detto, il connotato forse più originale dei Siciliani rispetto ai predecessores); ma anche di una sorta di longa manus a corte dell'augusto promotore incaricato di gettare le basi del movimento poetico nascente, di fissarne e additarne i percorsi ipotizzabili sulla base di una pratica in qualche modo instaurativa ed esemplarizzante.
A Dante conviene tornare ancora per avere un'esatta nozione del prestigio, non solo tecnico, che occorre riconoscere a quello che è forse il più robusto e riflessivo tra i poeti della Magna Curia, Guido delle Colonne. Il suo canzoniere è esiguo di numero (solo cinque componimenti) ma composto di sole canzoni: e infatti sono proprio due incipit di Guido, e nessun altro, quelli che Dante cita nel capitale brano del primo libro del De vulgari cui si è fatto più volte riferimento (ma la menzione del Iudex [de Columpnis] de Messana compare altre due volte nel secondo libro del trattato). La produzione poetica di Guido accompagna, ma forse spesso condiziona, il percorso storico-critico del De vulgari, a partire dal privilegio assoluto accordato alla grande canzone 'tragica' (per giunta, ben due delle sue cinque canzoni sono interamente endecasillabiche, e si immagina quanto ciò dovette andare a genio al supremo esaltatore del superbissimum carmen). Ma si pensi inoltre alle prescrizioni dantesche sull'uso della concatenatio e della combinatio, assiduamente praticate dal giudice messinese; all'ammissione, peraltro solo teorica, della fronte tripartita (o meglio, secondo la terminologia dantesca, della presenza di tre pedes), da riportarsi con ogni probabilità al rarissimo affiorare del fenomeno nella stanza di La mia vit'è sì fort' e dura e fera; a quel vero e proprio Leitmotiv del trattato che riguarda la ricerca di una forma lunga, distesa, che consenta lo sviluppo completo della sententia, in nessun altro (se non forse nel detestato e non citabile Guittone) riscontrabile come nelle canzoni di Guido, e soprattutto in quel testo-chiave che è Ancor che ll'aigua per lo foco lassi, dove ciascuna delle cinque stanze comprende ben diciannove versi, e l'amplissima tessitura metrica e retorica viene sorprendentemente arricchita di quell'apparato di analogie naturalistiche e parascientifiche che influenzeranno la grande canzone guinizzelliana. Impegnato, come si è visto, a enfatizzare il ruolo dell'iniziativa imperiale e il generoso conformarsi degli autori della Magna Curia alla eccelsa maestà del sovrano, Dante indica gli esiti a suo parere assoluti di quell'esperienza nelle canzoni di Guido delle Colonne, associando la compatta serie endecasillabica di Amor, che lungiamente m'ài menato e la suprema constructio di Ancor che ll'aigua per lo foco lassi. Il giudizio implicito, sottoscrivibile in linea di massima anche se si prescinde dall'operazione in corso nel trattato, da una parte però parrebbe suggerire un'idea della poesia del giudice messinese più compatta e coe-rente di quanto non sia in realtà (i temi vi sono eclettici e talora opposti, dall'irraggiungibilità fatale all'esultante godimento della gioia amorosa; l'impianto è piuttosto retorico e argomentativo che razionale; la ricerca di analogie rischia talvolta l'ermetismo, ecc.), certo ritagliando della sua fisionomia ciò che è funzionale alla grande poesia tragica teorizzata nel De vulgari (non per caso il giudice messinese sparirà completamente, come Cino, dalle riflessioni e dai bilanci conclusivi del poema). Dall'altra, per evitare di trarne conclusioni univoche riguardo al quadro complessivo dei Siciliani, va immediatamente allargato, integrandovi altre considerazioni. A partire, per esempio, dal riconoscimento di un registro certo meno aulico, meno sostenuto (quello, si diceva, cui con ogni probabilità sembra riferirsi già il quarto fascicolo di V), da valutarsi comunque in termini di scelte stilistiche e non di inattendibili contaminazioni con autentiche esperienze 'popolareggianti'. È il caso di altre due delle quattro 'teste di serie' di V, Rinaldo d'Aquino e Giacomino Pugliese, anch'essi autori di raccolte di media consistenza che consentono il profilarsi di fisionomie individuali abbastanza definite. Il primo viene non a torto considerato, tra i Siciliani, il più fedele imitatore di tonalità schiettamente occitaniche, chiarissime già nel sintagma nominale presente nell'incipit della canzone citata ben due volte (ma sempre senza il nome dell'autore) nel De vulgari, Per fin' amore vao sì allegramente; ma in passato la sua fama dipese soprattutto da un testo molto esaltato nell'Ottocento per il suo presunto 'realismo', quel lamento per la partenza del crociato (Giamai non mi conforto) già citato per le illazioni cronologiche che pare possibile trarvi e soprattutto per l'atipico accenno, nella quinta stanza, alla persona dell'imperatore. Sempre in ambiente romantico-positivistico nasce anche la fortuna di Giacomino, certo, come dimostra il frammento zurighese e in contrasto con convinzioni invalse, tra i primi esponenti della Scuola. Forse la collocazione nel quarto fascicolo di V, subito dopo il Contrasto di Cielo, ne attesta una valutazione precoce di poeta, per così dire, 'popolareggiante' o 'spontaneo', sottoscritta peraltro con l'abituale entusiasmo dai lettori ottocenteschi sul fondamento soprattutto della famosa canzone in morte della donna (Morte, perché m'hai fatta sì gran guerra); laddove, si badi, anche la tonalità 'minore' delle sue liriche merita di essere apprezzata, meno impressionisticamente, in rapporto ad un registro stilistico non estraneo ad una parte almeno del patrimonio occitanico di riferimento. Altre notevoli personalità di poeti (per cui cf. le voci relative) sono quelle di Tommaso di Sasso, Pier della Vigna, Jacopo Mostacci, Mazzeo di Ricco. Alle quali si aggiungono qui, per la combinazione tra rilievo della produzione poetica specifica e fattori di pertinenza tecnica e storico-culturale, i nomi di Stefano Protonotaro, Percivalle Doria e re Enzo. E infatti la figura di Stefano Protonotaro (ma forse meglio di Protonotaro), particolarmente apprezzata da Debenedetti e Contini, rimane in ogni caso quella dell'unico poeta della Magna Curia di cui ci sia giunta per intero una canzone (Pir meu cori alligrari) in veste linguistica originaria (o almeno in una veste molto vicina a quella originaria), attraverso la testimonianza indiretta di Giovanni Maria Barbieri; ma a questo 'merito' obbiettivo il poeta associa l'espansione (o riduzione?) delle analogie parascientifiche di Guido delle Colonne con l'ausilio dei bestiari contemporanei, qualche ardimento sintattico non comune (per esempio nell'uso dell'inarcatura), l'applicazione della combinatio, sempre, parrebbe, sulla falsariga del grande Guido. Altrettanto obbiettivamente considerevole il profilo di Percivalle, della celebre famiglia genovese dei Doria, autore di due canzoni in volgare italiano, una delle quali (Kome lo giorno quand'è dal maitino) si segnala non solo per la novità dell'ampia similitudine iniziale, ma anche per i complessi problemi di stesura che ammettono soluzioni diverse ma tutte parimenti suggestive (collaborazione con un altro rimatore, redazioni diverse nei due manoscritti che l'hanno tramandata, ecc.). Senza contare che Percivalle è autore provatamente bilingue, in italiano e in provenzale, e il confronto tra le rispettive produzioni dimostra che l'assunzione di uno specifico strumento linguistico implica (o impone) scelte specializzate quanto a temi e generi poetici. Questa breve rassegna può chiudersi con la figura, non facilmente decifrabile, di re Enzo. Il quale non è solo l'autore del più celebre (e in quanto tale rarissimo) sonetto morale della Scuola, molto valorizzato da Folena (Tempo vene che sale chi discende), e del frammento in siciliano Alegru cori, plenu, giuntoci sempre per merito delle carte Barbieri; ma pone con la più nota delle sue due canzoni, S'eo trovasse pietanza, e più esattamente con l'intreccio tra le modalità della sua composizione e trasmissione e la propria atipica biografia, una serie di delicatissime eppure affascinanti questioni, alcune delle quali relative ai fondamenti stessi della Scuola (attribuzione problematica; possibile cooperazione tra più autori; eventuale doppia redazione; confronto tra veste linguistica originaria e versione toscanizzata, caso unico in tutta la tradizione siciliana; ma, soprattutto, senso da attribuire, nell'ambito del problema capitale della 'lingua usata dai siciliani', al fatto che la forma siciliana testimoniata, al solito, dalle carte Barbieri riguardi in questo caso una poesia scritta con ogni probabilità a Bologna, da autore, o autori, biograficamente estranei all'isola e in data tarda).
Fonti e Bibl.: per la bibliografia relativa ai vari temi, qui toccati solo in linea generale e sommariamente, in cui si articola la problematica complessa della Scuola siciliana (lingua, metrica, tradizione manoscritta, ecc.), e per quella relativa alle figure singole dei poeti, si rimanda alle voci specifiche. Quelli che seguono sono solo alcuni riferimenti bibliografici di carattere generale: qualche rara eccezione si giustifica perché collegata a riferimenti puntuali contenuti nel testo o alla questione centrale delle carte Barbieri. In attesa della nuova edizione critica e commentata in corso di allestimento per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani di Palermo, il corpus delle poesie siciliane è raccolto in Le rime della scuola siciliana, a cura di B. Panvini, I-II, Firenze 1962-1964; ma a cura dello stesso Panvini si consultino anche i Poeti italiani della corte di Federico II, Napoli 1994. Molto importante, per i criteri filologici adottati e il commento, la vasta antologia compresa in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1960 (I, pp. 43-185 e II, pp. 799-819), che hanno sostituito definitivamente, per i testi riportati, le precedenti raccolte, tra cui meritano una menzione La Magna Curia (Scuola poetica siciliana), a cura di G. Guerrieri Crocetti, Milano 1947; G. Lazzeri, Antologia dei primi secoli della letteratura italiana, ivi 1950; M. Vitale, Poeti della prima scuola, Arona 1951; La poesia lirica del Duecento, a cura di C. Salinari, Torino 1951; E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli con prospetto grammaticale e glossario, nuova edizione riveduta e aumentata a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955. Di particolare rilievo l'edizione di Giacomo da Lentini, Poesie, a cura di R. Antonelli, I, Introduzione, testo, apparato, Roma 1979. Degli strumenti fondamentali relativi rispettivamente alla tradizione manoscritta e alla metrica dei Siciliani si segnalano G. Folena (con la collaborazione di G. Ineichen, A.E. Quaglio, P.V. Mengaldo), Überlieferungsgeschichte der altitalienischen Literatur, in Geschichte der Textüberlieferung der antiken und mittelalterlichen Literatur, a cura di H. Hunger et al., II, Überlieferungsgeschichte der mittelalterlichen Literatur, Zürich 1964, pp. 319-537 (in partic. pp. 368-396); R. Antonelli, Repertorio metrico della Scuola poetica siciliana, Palermo 1984. Di utile consultazione W. Pagani, Repertorio tematico della Scuola poetica siciliana, Bari 1968. Le trattazioni d'insieme più complete sono: G. Folena, Cultura e poesia dei siciliani, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi-N. Sapegno, I, Le origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 271-347; A.E. Quaglio, I poeti della "Magna Curia" siciliana, in Letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, I, Il Duecento dalle origini a Dante, a cura di N. Mineo-E. Pa-squino-A.E. Quaglio, Bari 1970, pp. 169-240; M. Beretta Spampinato, La scuola poetica siciliana, in Storia della Sicilia, IV, Napoli 1980, pp. 387-425; A. Varvaro, Il regno normanno-svevo, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Storia e geografia, I, L'età medievale, Torino 1987, pp. 79-99; F. Bruni, La cultura alla corte di Federico II e la lirica siciliana, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bàrberi Squarotti, I, Dalle origini al Trecento, a cura di G. Bàrberi Squarotti-F. Bruni, ivi 1990, pp. 211-273; C. Di Girolamo, I siciliani, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi-C. Di Girolamo, I, Dalle origini alla fine del Quattrocento, ivi 1993, pp. 297-310; F. Brugnolo, La scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, I, Dalle origini a Dante, Roma 1995, pp. 265-337; R. Coluccia, La Scuola Poetica Siciliana tra limiti cronologici e dislocazioni territoriali, "Contributi di Filologia dell'Italia Mediana", 14, 2000, pp. 25-45. Le linee fondamentali delle posizioni critiche fino alla metà del secolo scorso, soprattutto in rapporto ai problemi linguistici, sono tracciate da L. De Vendittis, Linee d'una storia della critica sulla Scuola siciliana, "Belfagor", 7, 1952, pp. 290-307 e 632-661. Tra gli studi che affrontano i temi trattati sopra si ricordano: A. Gaspary, La scuola poetica siciliana, Livorno 1882; A. Zenatti, La scuola poetica siciliana del secolo XIII, Messina 1894; Id., Ancora della scuola siciliana, ivi 1895; F. Torraca, Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902; F. Scandone, Notizie biografiche di rimatori della scuola poetica siciliana, Napoli 1904; G.A. Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia siciliana sotto gli Svevi, Catania 1924; V. De Bartholomaeis, Le carte di Giovanni Maria Barbieri nell'Archiginnasio di Bologna (cod. B. 3467), Bologna 1927; S. Santangelo, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Genève 1928; S. Debenedetti, Le canzoni di Stefano Protonotaro: P.I. La canzone siciliana, "Studi Romanzi", 22, 1932, pp. 5-68; V. De Bartholomaeis, Primordi della lirica d'arte in Italia, Torino 1943; S. Santangelo, Le origini della lirica provenzaleggiante in Sicilia, Catania 1949; G. Contini, Questioni attributive nell'ambito della lirica siciliana, in Atti del Convegno internazionale di studi federiciani, Palermo 1952, pp. 367-395; B. Panvini, Studio sui manoscritti dell'antica poesia italiana, "Studi di Filologia Italiana", 11, 1953, pp. 5-135; Id., La canzone "S'eo trovasse pietanza" del re Enzo, "Siculorum Gymnasium", n. ser., 6, 1953, pp. 99-119; A. Monteverdi, Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954; G. Contini, Ancora sulla canzone "S'eo trovasse pietanza", "Siculorum Gymnasium", n. ser., 8, 1955, pp. 122-138; I. Frank, Poésie romane et Minnesang autour de Frédéric II. Essai sur les débuts de l'école sicilienne, "Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani", 3, 1955, pp. 51-83; S. Santangelo, Saggi critici, Modena 1959; Atti del Convegno di Studi su Dante e la Magna Curia, Palermo 1967; M. Marti, Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971; A. Monteverdi, Cento e Duecento. Nuovi saggi su lingua e letteratura italiana dei primi secoli, Roma 1971; A. Roncaglia, De quibusdam provincialibus translatis in lingua nostra, in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno, II, ivi 1975, pp. 1-36; A. Schiaffini, Italiano antico e moderno, a cura di T. De Mauro-P. Mazzantini, Milano-Napoli 1975; A. Roncaglia, Sul "divorzio tra musica e poesia" nel Duecento italiano, in L'Ars Nova Italiana del Trecento, IV, Certaldo 1978, pp. 356-397; R. Antonelli, Seminario romanzo, Roma 1979; J. Schulze, Die sizilianische Wende der Lyrik, "Poetica. Zeitschrift für Sprach- und Literaturwissenschaft", 11, 1979, pp. 318-342; R. Russel, "Ars dialectica" and Poetry: The Aristocratic Love Lyric of the Sicilian School, "Studies in Philology", 77, 1980, pp. 354-375; H. Krauss, Sistema dei generi e scuola siciliana, in La pratica sociale del testo. Scritti di sociologia della letteratura in onore di Erich Köhler, a cura di C. Bordoni, Bologna 1982, pp. 123-157; M. Picchio Simonelli, Il "grande canto cortese" dai provenzali ai siciliani, "Cultura Neolatina", 42, 1982, pp. 201-238; A. Roncaglia, Le corti medievali, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 33-147; Id., Per il 750o Anniversario della Scuola poetica siciliana, "Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche", 38, 1983, 7-12, pp. 321-333; Capitoli per una storia del cuore. Saggi sulla lirica romanza, a cura di F. Bruni, Palermo 1988; F. Mancini, La figura nel cuore fra cortesia e mistica. Dai Siciliani allo Stilnuovo, Perugia 1988; J. Schulze, Die Sizilianer und der Minnesang, "Germanisch-Romanische Monatsschrift", 70, 1989, pp. 387-402; Id., Sizilianische Kontrafakturen. Versuch zur Frage der Einheit von Musik und Dichtung in der sizilianischen und sikulo-toskanischen Lyrik des 13. Jahrhunderts, Tübingen 1989; A. Fratta, Correlazioni testuali nella poesia dei Siciliani, "Medioevo Romanzo", 16, 1991, pp. 189-206; M.L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. La ricezione della poeia cortese fino al XIV secolo, Torino 1992; R. Antonelli, La scuola poetica alla corte di Federico II, in Federico II e le scienze, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994; A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della scuola siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996; W. Pötters, Nascita del sonetto. Metrica e matematica al tempo di Federico II, Ravenna 1998; F. Brugnolo, I Siciliani e l'arte dell'imitazione. Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino e Iacopo Mostacci, "La Parola del Testo", 3, 1999, pp. 45-74; Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1999 (in cui sono compresi i contributi di Antonelli, Coluccia e Beltrami citati nel testo); La poesia di Giacomo da Lentini. Scienza e filosofia nel XIII secolo in Sicilia e nel Mediterraneo occidentale. Atti del Convegno tenutosi all'Università Autonoma di Barcellona (16-18, 23-24 ottobre 1997), a cura di R. Arqués, Palermo 2000; G. Brunetti, Il frammento inedito "Resplendiente stella de albur" di Giacomino Pugliese e la poesia italiana delle origini, Tübingen 2000; R. Coluccia, La tradizione della lirica italiana dei primi secoli, in Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali. Atti del Convegno (Urbino, 1o-3 ottobre 2001), Roma 2003, pp. 101-142.