SCUOLA
(XXXI, p. 249; App. I, p. 997; II, II, p. 801; III, II, p. 685; IV, III, p. 294)
Nel quindicennio compreso tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta, i problemi dell'istruzione e della s. hanno assunto caratteri in parte diversi da quelli espressi nel quindicennio precedente. Allora furono dominanti i temi imposti dalla scolarizzazione di massa e dalla conseguente espansione dei sistemi scolastici in termini di strutture, di personale impiegato e di risorse investite. Furono anche gli anni della contestazione giovanile e del carico di tensioni psicologiche, sociali e politiche che l'accompagnò. Furono gli anni, infine, dei grandi progetti di riforma, dettati spesso dall'urgenza del momento e non esenti da forzature ideologiche. Quel clima dai toni forti e dalle contrapposizioni radicali si è andato spegnendo, sebbene neppure oggi possa dirsi del tutto superato. Per contro si è venuta affermando una maggiore consapevolezza della complessità dei fenomeni educativi, in rapporto non solo alle dinamiche sociali ed economiche delle comunità, ma anche alle interrelazioni fra i diversi fattori interni dei sistemi d'istruzione, che esigono una valutazione più organica o meno settoriale degli interventi. Nuove tematiche, poi, emergono nello scenario internazionale delle politiche formative: da un lato, l'esigenza sempre più avvertita d'individuare raccordi fra i percorsi scolastici propri di aree in cui si realizzano processi d'integrazione politica ed economica; dall'altro, i problemi sollevati dal fenomeno dell'immigrazione di consistenti gruppi giovanili provenienti da aree di sottosviluppo e bisognosi quanto meno di qualificazione professionale e di primo orientamento in contesti culturali e sociali diversi da quelli di origine.
Tuttavia non c'è stata vera rottura col passato. Le innovazioni via via introdotte non hanno mutato in modo radicale il quadro di riferimento delle politiche scolastiche degli ultimi tempi. Uno dei maggiori fattori propulsivi di tali politiche, quello relativo all'estensione della scolarità anche in termini di durata, in attuazione del principio delle pari opportunità formative, ha continuato a essere la direttiva di marcia dovunque seguita, segnatamente là dove si riscontrava un certo ritardo nell'adeguamento degli ordinamenti. L'altro criterio, impostosi già negli anni Sessanta, secondo cui l'istruzione deve fare largo spazio alle istanze egualitarie, di socializzazione, di orientamento e di partecipazione, nella sostanza non viene messo più in discussione. Semmai, oggi, è l'attuazione di questa linea a suscitare, in alcuni ambienti, perplessità e riserve. Se le scuole hanno esteso notevolmente il loro campo d'azione e aggiornato i loro metodi, è però l'efficacia dell'istruzione che esse impartiscono a sollevare dubbi e preoccupazioni, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa.
Il largo spazio accordato negli ultimi due decenni all'innovazione metodologica, alla sperimentazione curricolare, alle tecnologie e all'organizzazione del lavoro didattico hanno contribuito a migliorare il servizio scolastico sul fronte della comunicazione educativa, della correlazione insegnamento-apprendimento e delle sue condizioni di espletamento. Del resto, i fattori relazionali e ancor più quelli di progettazione, commisurata ai concreti bisogni formativi, erano quelli maggiormente carenti nella s. di tipo tradizionale; e tali carenze determinavano le difficoltà della s. di allora di corrispondere alle esigenze di una popolazione studentesca divenuta nel frattempo assai composita, con caratteristiche sociali e culturali molto differenziate. Non di meno, l'impegno innovatore ha dato l'impressione in questi ultimi anni di essere stato alquanto sbilanciato sulle condizioni socio-ambientali dell'apprendimento e sulle metodologie dell'intervento educativo, mentre sono rimasti sullo sfondo i contenuti dell'insegnamento e la formazione specifica che i processi d'istruzione devono assicurare. Il nesso sapere-istruzione attende di essere ridefinito nel quadro di una prospettiva più ricca e dinamica ma non meno provveduta di quella su cui poggiava la s. di antica tradizione.
Livelli di scolarità e processi d'istruzione. - I dati disponibili sui fenomeni dell'istruzione consentono d'indicare le grandi linee di tendenza, ma non permettono ancora di comparare la consistenza e le caratteristiche dei processi in corso, a causa della diversità dei sistemi scolastici nonché della difformità dei criteri di rilevazione comunemente adottati. Ciò emerge anche dai dati internazionali presentati nel rapporto Education at a glance del 1992 (quello del 1993 è incompleto), pubblicato dal Centre pour la Recherche et l'Innovation dans l'Enseignement, organismo dell'OCSE, nell'ambito del progetto INES, che non a caso si propone d'individuare idonei indicatori educativi internazionali. Fra i dati generali resi noti, è interessante osservare che nel 1991 la maggioranza della popolazione adulta (25÷64 anni) dei paesi dell'OCSE possedeva un titolo di studio di s. secondaria superiore o almeno di quella inferiore. I paesi col più elevato livello d'istruzione (secondo ciclo di s. secondaria) nella popolazione adulta risultano: l'Austria, la Germania e la Svizzera, con circa il 60%; la Norvegia con il 54%; il Regno Unito con il 49%; gli Stati Uniti e il Giappone con circa il 47%; la Svezia, la Danimarca e la Finlandia con circa il 43%. Nella fascia di età compresa fra 2 e 29 anni il tasso generale di scolarità variava, nel 1988, dal 34,0% della Turchia al 63,6% del Belgio; l'Italia, col 50,3%, si collocava in una posizione centrale. Dati di questo genere, tuttavia, devono essere considerati con una certa prudenza, come del resto concordemente avvertono gli estensori del rapporto.
Un'analisi dei differenti livelli d'istruzione non può che partire dalla considerazione dello sviluppo assunto dalla s. preprimaria o materna. La ricerca psicopedagogica contemporanea è riuscita a indicare in questa s. uno dei più efficaci strumenti per combattere le situazioni di svantaggio socio-culturale che condizionano la prosecuzione degli studi. Fattori ambientali, come il lavoro femminile e la prevalente struttura mononucleare delle famiglie, hanno sensibilmente incrementato la domanda di asili nido e s. materne. In quest'ultimo caso, l'iniziativa pubblica e privata è stata particolarmente attiva, anche se non dovunque con gli stessi ritmi. In Italia ne fruisce l'87,2% dei bambini tra i 3 e i 5 anni di età. I valori più elevati di alcuni paesi, come Norvegia e Svezia, sono da riferire alla durata di un solo anno del periodo prescolare. Valori bassi fanno ancora registrare Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Portogallo. Con la progressiva estensione della scolarizzazione nella fascia di età compresa fra i 3 e i 6 anni è avanzata anche la trasformazione delle finalità e dei compiti della s. pre-primaria, che da luogo prevalentemente di custodia e di assistenza si sta ormai dappertutto configurando come istituto di educazione con specifici obiettivi formativi. Senza sostituire, ma anzi proponendosi d'integrare l'azione delle famiglie, questa s. mira a promuovere la formazione della personalità del bambino attraverso lo sviluppo di tutte le sue potenzialità, in un ambiente favorevole alla socializzazione. L'obiettivo comune è di garantire un armonico sviluppo fisico, affettivo e intellettivo mediante giochi e altre attività educative, suffragate da un'attenta e aggiornata esperienza pedagogica ma non irrigidite in schemi formalizzati di comportamento. All'interno di questo progetto comune si percepiscono differenze di accento fra orientamenti che privilegiano l'autonomia di tale s. rispetto a quella dei successivi ordini di studi e orientamenti che puntano a far acquisire le precondizioni necessarie a facilitare la prosecuzione nella s. primaria. Altre differenze discendono dall'assetto istituzionale, nel senso dell'ampia autonomia che in alcuni ordinamenti viene accordata alle iniziative di privati o di enti pubblici locali (come nel caso dei Kindergarten austriaci, gestiti dai vari Länder) e che pone problemi di coordinamento nazionale e di collegamento fra le diverse iniziative. Un fenomeno tuttora aperto e che sta interessando le autorità politiche e scolastiche di molti paesi europei è quello relativo all'integrazione dei bambini stranieri, figli di immigrati provenienti da aree di crisi europee o da paesi extracomunitari. Sono in corso di sperimentazione varie iniziative tendenti a conciliare le esigenze d'inserimento nelle nuove comunità con la tutela delle tradizioni culturali dei paesi di origine degli immigrati. Anche il problema dei portatori di handicap trova ancora soluzioni differenti fra chi privilegia l'integrazione nelle normali unità scolastiche e chi invece prevede l'istituzione di scuole specializzate. La crescente attenzione per la s. pre-primaria ha larga eco nelle sedi internazionali, come documenta la Risoluzione (14 dicembre 1989) del Consiglio dei ministri dell'Istruzione della Comunità Europea. Questo documento impegna gli stati membri a "rafforzare la scolarizzazione preelementare in quanto contribuisce a una migliore scolarizzazione ulteriore specie per i bambini provenienti da situazioni svantaggiate". La Convenzione dei diritti del fanciullo, approvata dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata dal Parlamento italiano, impegna a realizzare forme educative che promuovano tutte le abilità fisiche e mentali e il talento dei bambini, la loro identità culturale, la loro lingua, i valori nazionali del paese di origine, in uno spirito di comprensione, tolleranza e amicizia fra i popoli.
La s. primaria e quella secondaria di primo grado, che dovunque ormai fanno parte dell'istruzione obbligatoria, realizzano la piena scolarizzazione degli alunni della fascia di età compresa fra i 6 e i 14 anni. Tale risultato, di grande rilievo civile e sociale e che è all'origine della forte espansione dell'istruzione di livello superiore, è dovuto non solo alla formalizzazione giuridica dell'obbligo scolastico, ma altresì alla politica di sostegno che ha accompagnato in forme varie l'estensione dell'obbligo. Strumenti principali di questa politica sono stati: la localizzazione quasi capillare sul territorio delle sedi scolastiche; gli interventi per la concreta attuazione del diritto allo studio; l'adeguamento dei piani di studio e delle metodologie d'insegnamento in ragione delle esigenze di una s. aperta a tutti; la revisione dei criteri di valutazione selettiva del profitto; l'attivazione di servizi integrativi in favore di soggetti svantaggiati o comunque in difficoltà; la messa a punto di strategie per l'aggiornamento professionale degli insegnanti; una migliore organizzazione dei rapporti fra la s. e le famiglie. L'ordinamento della s. primaria non presenta varietà sostanziali riguardo sia alla struttura dei corsi sia ai suoi obiettivi, che mirano a far acquisire le abilità di base e un bagaglio di nozioni elementari in campo scientifico e storico, oltre a curare l'educazione morale e fisica dei bambini. La s. secondaria di primo grado, invece, presenta tuttora varietà di ordinamento, anche là dove essa è stata oggetto di riforme incisive (fra le altre, quelle intervenute in Italia nel 1962 e nel 1977, in Svezia e Norvegia nel 1969, nel Regno Unito dal 1965 al 1976, in Francia nel 1975). Nondimeno, il processo di unificazione dei corsi di tale livello d'istruzione, con spostamento in avanti del momento di scelta degli studi, è stato la linea di tendenza prevalente negli scorsi decenni, accompagnata dal rinnovamento dei metodi e delle tecniche didattiche, dei piani di studio, dei criteri di valutazione. Emblematico a riguardo il caso della Folkeskole danese, istituita nel 1975 con l'intento di assicurare a tutti i ragazzi uguali opportunità educative: tale s. ha carattere onnicomprensivo e i ragazzi restano insieme con la stessa classe per l'intero iter scolastico, dai sette ai sedici anni di età.
Nel corso degli anni Ottanta, negli Stati Uniti e in Europa si è cominciato a discutere dell'efficacia dell'istruzione impartita nei due primi livelli scolastici, che di fatto si pongono oggi in un rapporto di continuità sconosciuto in passato. Si osserva, in effetti, che dalla s. elementare e persino dalla s. media escono ragazzi con gravi lacune proprio nelle abilità di base (lettura e comprensione dei testi, capacità di esprimersi per iscritto in modo corretto, di eseguire elementari operazioni matematiche). Alcuni esperti europei, pur stigmatizzando le opinioni critiche espresse a riguardo, registrano tuttavia la tendenza in atto nei maggiori paesi industrializzati: secondo questa tendenza, per contrastare l'abbassamento del rendimento scolastico, occorrerebbe ristabilire il modello tradizionale d'insegnamento, ripristinando piani di studio più concentrati e anticipando di qualche anno la scelta dei corsi secondari successivi.
Nel 1992 il ministro francese della cultura J. Lang, in un documento che ha trovato vasta eco nella stampa estera, affermava la necessità di mettere da parte le spinte di tipo sessantottesco (i metodi globali, la pedagogia del risveglio, i linguaggi differenziati) e di riscoprire l'efficacia dei metodi tradizionali dei maestri, come il dettato, la lettura dei grandi classici, lo studio a memoria delle poesie; anche la redazione dei testi scritti dovrebbe essere seguita dai docenti con la massima attenzione. Altri lamentano che, se non proprio la pigrizia per l'insegnamento sistematico delle conoscenze di base, certo il privilegio che viene accordato alla comunicazione, al dialogo occasionale, all'iniziativa spontanea o libera dei discenti, finisce per depotenziare l'istruzione pubblica e per favorire la s. privata, meno incline ad accogliere ogni novità. Probabilmente non basta limitarsi a riscoprire l'utilità della lettura dei classici o lo studio a memoria delle poesie o l'importanza dei compiti scritti. La realtà dell'istruzione di massa e i bisogni di orientamento dei giovani, oggi assai più diversificati che in passato, non sono eludibili ed esigono una sintesi nuova fra vecchio e nuovo. Solo in questo quadro andrà riconosciuta la funzione primaria dell'apprendimento sistematico delle strutture morfologiche e sintattiche delle lingue materne e, se del caso, il recupero dell'insegnamento del latino nelle classi terminali della scuola di base, nella consapevolezza che non tutte le discipline comprese nei nuovi piani di studio presentano le stesse valenze formative e richiedono lo stesso impegno didattico. Purtroppo, le numerose indagini condotte negli ultimi anni non riescono a chiarire le differenze di rendimento fra s. di tipo tradizionale e s. di tipo attivo o progressivo, anche perché nelle situazioni concrete i due modelli risultano spesso contaminati. Si può osservare, in generale, che i bambini di una s. di chiara impronta innovativa appaiono più sciolti o meno ansiosi e rivelano spirito d'indipendenza e maggiore ingegnosità di quelli educati in una s. tradizionale; per contro, "sembrano avere una conoscenza meno sicura delle materie scolastiche, essere meno precisi e avere maggiori difficoltà di concentrazione su compiti spiacevoli" (Huberman 1982). Ciò finisce per confermare la necessità di trovare una misura adeguata che contemperi i vantaggi dei due modelli, innestando le aperture di curricolo e metodologiche sulla solida base degli insegnamenti fondamentali.
L'istruzione secondaria di secondo grado rappresenta il livello scolastico che ha subito il maggiore sviluppo nell'ultimo quindicennio e che tuttora prosegue la sua corsa per l'assorbimento della residua frangia di non scolarizzati nella corrispondente fascia di età. Rappresenta anche il settore scolastico sulla cui attuale configurazione permangono maggiori divergenze di vedute, dato che in esso si accentuano le specifiche caratteristiche delle diverse tradizioni nazionali. I dati quantitativi disponibili sono importanti, ma non del tutto indicativi dei fenomeni coinvolti da tale livello d'istruzione. Il tasso di scolarità, per es., si presta poco a una comparazione immediata stante la diversità, a volte considerevole, nella tipologia delle s., nella durata dei corsi, nei criteri di valutazione del profitto che incidono, fra l'altro, sul fenomeno dell'abbandono ovvero della dispersione scolastica.
Senza tener conto di tali diversità, evidentemente non di poco conto, il citato rapporto Education at a glance rileva che nel 1988 la prosecuzione degli studi secondari raggiungeva valori superiori al 90% in un gran numero di paesi (Finlandia, Germania, Danimarca, Irlanda, Canada, Giappone, Spagna, Norvegia, Australia, Paesi Bassi, Stati Uniti); in un altro gruppo di paesi il tasso si collocava fra il 70% e il 90% (Francia, Svezia, Svizzera, Austria, Regno Unito); l'Italia con il 60,2% si trovava agli ultimi posti, prima del Portogallo (48,3%) e della Turchia (34,0%). Questa posizione modesta dell'Italia sarebbe confermata dall'indice dei diplomati di scuola secondaria superiore, pari al 43,2%. Al contrario, se si considera il tasso di passaggio dalla s. media alla secondaria superiore, l'Italia si colloca, con l'83% (ma l'89,2% nel 1991-92), ai massimi livelli ormai da anni. Comunque, la difformità delle variabili in gioco non consente a semplici parametri numerici di registrare e correlare gli aspetti qualitativi dei corsi, sebbene tali parametri risultino indicativi di fenomeni macroscopici di ritardo o di inadeguatezza dei sistemi d'istruzione.
Sull'efficacia dell'istruzione impartita a questo livello sembra abbia influito non positivamente l'unificazione e l'onnicomprensività dei corsi del precedente grado di istruzione con la conseguente ritardata scelta dell'indirizzo di studi. In alcuni casi, anzi, l'unificazione dei corsi è stata progettata anche per i primi anni dei corsi di istruzione secondaria superiore, che finiscono così per configurare una sorta di prosecuzione della s. di primo grado. Il prolungamento dell'obbligo scolastico fino al sedicesimo anno di età agisce talvolta da ulteriore fattore unificante dei percorsi di studio. L'area di specificazione degli indirizzi di studio si riduce sensibilmente rispetto all'area curricolare comune. In corrispondenza di ciò la specializzazione dell'indirizzo, specie se di natura professionalizzante, si sposta a un livello più avanzato di studi, la cosiddetta istruzione post-secondaria.
La maggior parte dei paesi europei conserva ancora ordinamenti differenziati nella secondaria superiore, almeno per quanto concerne la grande ripartizione fra s. di formazione generale o liceale e s. d'indirizzo tecnico-professionale. Tuttavia, a causa dell'avvenuto prolungamento del precedente ciclo d'istruzione, in termini sostanzialmente unitari, la secondaria superiore veramente differenziata finisce per ridursi, per lo più, ai soli tre o più spesso due anni terminali.
A parte il caso del tutto particolare, oltre l'Italia, della Germania, che ha conservato sostanzialmente inalterato il tradizionale ''sistema a tre'' (Hauptschule, Realschule, Gymnasium), si osserva che la specializzazione degli indirizzi si realizza in Belgio nel ''ciclo di determinazione'' (ultimi due anni), in Francia con l'ingresso nella première (ultimi due anni del liceo), in Danimarca con le ultime due classi del Ginnasio, in Olanda con il quarto e quinto anno del corso ginnasiale o di ateneo o liceale, in Portogallo con il corso complementare relativo al 10° e 11° anno di scolarità, cui si aggiunge un 12° anno propedeutico agli studi superiori. La logica che ispira tali modelli è quella di una formazione di largo spettro e per quanto possibile polivalente, capace di conciliare formazione generale comune e specificazione degli interessi nel presupposto che tale polivalenza risponda meglio alle esigenze delle professioni e del mondo del lavoro. Anche là dove la secondaria mantiene articolazioni più accentuate si registrano iniziative locali piuttosto estese, tipo le sperimentazioni, che rendono il quadro alquanto disomogeneo con la più varia contaminazione di indirizzi tradizionalmente distinti. Se ciò si verifica nei sistemi centralizzati, in quelli che vantano una storia di autonomie più o meno diffuse si verifica il fenomeno contrario. Nel Regno Unito, per es., con la legge che va sotto il nome di Education Reform Act del 1988 è stato introdotto per la prima volta un curricolo nazionale di studi, che prevede tre materie "centrali" (inglese, matematica e scienze) e sette materie "fondamentali" (disegno e tecnologia, storia, geografia, musica, arte, educazione fisica e lingua straniera) uguali per tutti fino all'età di 16 anni. È stato previsto, inoltre, un sistema universale di esami, con il divieto di alternative non autorizzate sugli esami di licenza a 16 e a 18 anni. Tutto ciò non solo condiziona l'autonomia di azione finora goduta dalle s. britanniche, ma porta a ridurre sensibilmente la differenziazione dei percorsi d'istruzione secondaria.
Come si può constatare, quale che sia il punto di partenza dei differenti sistemi scolastici europei, negli ultimi quindici o venti anni si è affermata una tendenza comune verso l'omologazione dei corsi d'istruzione secondaria e dei relativi piani di studio, con l'obiettivo di accrescere il quadro della formazione generale polivalente a scapito della specializzazione delle conoscenze e degli interessi individuali di studio. Da tale scelta di fondo delle politiche scolastiche discendono conseguenze in merito alle quali si è cominciato a discutere un po' dovunque, senza per il momento arrivare a prospettare alternative convincenti. Le conseguenze più vistose sono, da un lato, in termini positivi, lo sviluppo crescente della scolarizzazione fino al quasi totale assorbimento della popolazione scolastica della fascia di età compresa fra i 15 e i 18 anni; dall'altro lato, in senso negativo, l'abbassamento dei livelli di difficoltà dell'istruzione con conseguenti effetti negativi nell'efficacia della formazione conseguita dai singoli. Un'altra conseguenza è l'inevitabile spostamento in avanti, in un terzo livello di istruzione, con i costi conseguenti, della specificazione dei curricoli e dei profili professionali. A questi ultimi si cerca di corrispondere con i corsi post-secondari o di primo livello universitario (v. professionale, formazione, in questa Appendice). Per gli studi di tipo accademico, invece, l'università si vede sempre più costretta ad adattare il suo tradizionale impianto per assorbire in parte le funzioni un tempo demandate alle istituzioni ginnasiali e liceali (v. università, in questa Appendice). Né la rincorsa pare arrestarsi a questo punto, poiché l'università, nella misura in cui assume funzioni di supplenza nella preparazione propedeutica dei giovani, si trova nella necessità di contrarre i tempi dedicati alla preparazione scientifica in senso proprio e, di conseguenza, a rinviare il completamento di questa a un livello di studi post-universitario, in passato previsto per la specializzazione scientifica di limitati nuclei di ricercatori e che invece già oggi interessa una consistente fascia di laureati.
Sembra evidente che il progressivo rinvio della specificazione degli studi da un grado all'altro dell'istruzione, quasi una rincorsa senza fine, possa essere superato ormai soltanto nel quadro di una riconsiderazione radicale dell'intero iter formativo. La revisione dovrebbe cominciare dalla s. primaria, il cui impegno dovrebbe essere concentrato (come da qualche tempo segnalano attenti osservatori) sugli apprendimenti fondamentali di base, che non escludono un'azione educativa di ampio raggio, purché non venga sacrificato il compito primario dell'istruzione. È altresì da prevedere un orientamento culturale efficace, tale da consentire la scelta degli studi successivi nella fase della prima giovinezza, quando gli interessi cominciano a manifestarsi e richiedono una loro concretizzazione in sede pedagogica. Occorre, infine, rivedere la linea per ora prevalente di una formazione secondaria di tipo generale e polivalente, dispersiva e spesso inconcludente perché non consente gli approfondimenti necessari, e progettare invece corsi d'istruzione secondaria lunga, ciascuno dei quali caratterizzato da un'organica area di sapere e dall'acquisizione dei necessari strumenti operativi. Sembra sia questa l'unica via per consentire ai giovani di acquisire una buona padronanza quanto meno in uno specifico ambito dell'esperienza culturale. È una via che in Europa ha precedenti illustri (sebbene oggi appaiono non pienamente soddisfacenti) nelle grammar schools inglesi, nel Gymnasium tedesco e soprattutto nel liceo classico italiano. Viceversa, una secondaria polivalente del tipo attualmente sperimentato in molti paesi potrà risultare più adatta, come base formativa generale, per quei tronconi di scolarità che puntano alla specializzazione professionale in corsi post-secondari o direttamente in sede aziendale.
L'Unione Europea, pressata dalle esigenze prioritarie della cooperazione economico-finanziaria, tende da anni a promuovere in via collaterale la convergenza dei paesi membri anche nel settore dell'istruzione e della ricerca scientifica e tecnologica. Particolare attenzione ha rivolto nel corso degli anni agli snodi significativi dei processi d'istruzione, in particolare a quello fra formazione generale e formazione professionale e a quello fra scuola secondaria e post-secondaria. Gli organismi comunitari, peraltro, non sono potuti uscire finora dalla linea politica degli stimoli, accompagnata in alcuni casi da sostegni finanziari a specifiche iniziative; né sono riusciti a proporre come modello progetti organici di organizzazione scolastica nella prospettiva d'indurre i singoli paesi, da un lato, ad adeguare i percorsi di studio alle esigenze internazionali del mercato, dall'altro di prevenire l'abbassamento della qualità dell'istruzione indotta dalla scolarizzazione di massa. Lo stesso Trattato dell'Unione, firmato a Maastricht nel febbraio 1992, agli articoli 126 e 127, conferma in sostanza la linea della cooperazione, della promozione di scambi e di incentivi tanto nel campo dell'istruzione generale quanto in quello della formazione professionale. Tale linea non sembra in grado d'impedire in futuro l'aumento dello scarto esistente fra paesi forti e paesi deboli in questo settore, giacché nell'utilizzazione delle opportunità offerte dagli organismi comunitari sono di fatto favoriti i sistemi d'istruzione meglio attrezzati o meno impegnati nel compito di rinsaldare le rispettive strutture organizzative e formative. D'altra parte, come appare a molti osservatori, "confidare in un unico megasistema formativo europeo" sarebbe un grave errore (Izzo 1993). Significherebbe sacrificare almeno in parte quel patrimonio di diversità culturali e linguistiche da sempre considerato una preziosa ricchezza dell'Europa, come alla fine ha riconosciuto la stessa comunità nel Memorandum sull'istruzione superiore del novembre 1991, dove si afferma che "il processo d'integrazione deve essere tale da preservare questa diversità che rappresenta una riserva di ricchezza", l'accesso alla quale da parte di tutti i cittadini europei "è parte integrante dell'essenza e dei principi dell'Unione". Resta però da chiarire quale sia il livello d'integrazione compatibile col rispetto delle diversità nazionali: problema che solleva tuttora notevoli divergenze all'interno dell'Unione, e che comunque non può essere risolto con la sola soddisfazione dei paesi di più forte peso politico-economico.
Nel più ampio quadro internazionale, la s. europea si colloca in una posizione intermedia che la distingue per grandi linee dalla s. statunitense e da quella giapponese. La strategia degli Stati Uniti appare contrassegnata da una scolarizzazione globale, i cui livelli qualitativi sembrano però tutt'altro che elevati; tuttavia vengono promosse con interventi selettivi punte di eccellenza notevole, soprattutto nel settore dell'istruzione superiore o terziaria. Il Giappone persegue da tempo una politica della formazione generalizzata; dalla s. primaria all'università, richiede a tutti notevole impegno, anche attraverso tempi di studio individuali extrascolastici, con costi umani talvolta eccessivi, ma anche tali da garantire un rendimento medio piuttosto elevato. La strategia europea, non senza differenze e contraddizioni, tenta in linea di massima di raggiungere una scolarizzazione generalizzata fino al diciottesimo anno di età in scuole mediamente di buon livello, ma con un'istruzione superiore meno estesa di quella attualmente in vigore negli Stati Uniti e in Giappone.
Un capitolo di particolare rilievo nelle politiche scolastiche di tutti i paesi è rappresentato dalla spesa per l'istruzione e la formazione professionale. Tutti concordano in linea di principio sul fatto che l'investimento finanziario sull'istruzione scolastica e universitaria, al pari di quello sulla ricerca scientifica e tecnologica, sia da considerare prioritario per lo sviluppo del potenziale culturale ed economico e altresì civile delle comunità. Di fatto l'incremento degli stanziamenti relativi, anche nei paesi più sviluppati, risulta condizionato dal gioco di altre priorità, soprattutto in relazione ai ricorrenti cicli recessivi delle economie locali o di quella globale. Anche sulla destinazione degli investimenti ci sono differenze fra paesi che devono ancora colmare il gap di scolarizzazione nei gradi intermedio e superiore dell'istruzione e paesi che possono più tranquillamente indirizzare le risorse all'elevazione dei livelli qualitativi degli studi.
Gli ultimi dati disponibili relativi ai paesi OCSE ci dicono che la spesa pubblica per l'istruzione in rapporto al prodotto interno lordo consiste in media del 4,8%. Su tale valore medio si attestavano recentemente nazioni come Stati Uniti, Australia, Francia, Italia, Regno Unito, Portogallo. Nello stesso periodo, le nazioni che destinavano quote superiori (oltre il 6%) all'istruzione erano i paesi scandinavi e il Canada. La struttura di detta spesa fra le diverse fasce d'istruzione non presentava sensibili scarti dalla media nei differenti paesi dell'OCSE. Precisamente, la spesa per la s. materna si aggirava dovunque intorno al 4,8%; quella per la scuola primaria era del 28,8%; quella per la secondaria raggiungeva il 39,8%, quella per l'istruzione superiore si attestava al 21,9%. In tutti i paesi, la spesa corrente o di funzionamento assorbiva circa il 90% dell'intera quota disponibile; quella in conto capitale variava da un minimo del 3,0% della Danimarca al 16,8% del Giappone. La spesa unitaria per allievo mostrava un po' dovunque un andamento crescente nel passaggio dal primo all'ultimo ciclo degli studi. Un indicatore qualitativo della spesa è fornito dal rapporto alunni-insegnanti. La media OCSE di tale rapporto era del 15,0. L'Italia, a questo riguardo, presenta una situazione favorevole con un rapporto medio alunni-insegnanti che è pari a 9,2.
Con i limiti e la rigidità stessa della spesa dell'istruzione si scontrano spesso le attese giovanili in ordine al miglioramento dei servizi e alla disponibilità di strutture adeguate alle accresciute esigenze formative. Le più recenti misure di contenimento della finanza pubblica che si sono fatte sentire anche nel settore scolastico figurano fra le cause del malcontento che episodicamente è affiorato nel corso degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta fra il corpo insegnante e tra le masse studentesche di diversi paesi. Al manifestarsi di tali fenomeni concorrono alcune iniziative di riforma degli ordinamenti ovvero i tentativi dei governi di ridisciplinare l'autonomia delle istituzioni scolastiche anche per consentire nuovi rapporti fra le istituzioni stesse e il mondo delle imprese. In questo quadro si è riaffacciato pure il problema del finanziamento pubblico alla s. privata, problema che riapre vecchie questioni ideologiche, come in Francia, dove nel dicembre 1993 vi è stata un'imponente manifestazione popolare contro tale finanziamento, e recentemente in Italia.
Aspetti della scuola italiana. - Nell'ultimo quindicennio, innovazioni di un certo rilievo sono state introdotte negli ordinamenti della s. materna, della s. elementare e di quella media. La s. secondaria superiore, invece, non ha ricevuto quella riorganizzazione generale che era attesa da molti e che ha visto impegnato il Parlamento più volte nell'elaborazione di progetti di riforma, nessuno dei quali è riuscito a conseguire l'approvazione definitiva. Ciò non di meno, questo delicato e complesso settore dell'istruzione è stato interessato a varie iniziative che, sia pure indirettamente, hanno inciso non poco sul profilo culturale, didattico e organizzativo di tale fascia scolastica. Per l'ordinamento attuale dei diversi ordini di studi si rimanda alla voce italia: Istruzione, in questa Appendice. Qui si farà riferimento, nel più ampio quadro della politica scolastica seguita dal nostro paese, ai processi di riforma intervenuti nel periodo considerato.
Scuola materna. - La legge istitutiva di questa s. (18 marzo 1968 n. 444), oltre a creare per la prima volta in Italia strutture moderne per la prima formazione dei bambini nella fascia di età compresa fra i 3 e i 6 anni, ha dato notevole impulso alla scolarizzazione dei bambini di tale età, un tempo affidati quasi esclusivamente all'iniziativa privata. Ancora nel 1978-79 i frequentanti la s. materna pubblica erano circa 693.000 contro 1.160.000 frequentanti delle materne non statali. Nel 1991-92 fruivano della scuola pubblica 827.664 bambini su 1.552.255 scolarizzati, cioè oltre la metà del totale.
Alcune modifiche al quadro istitutivo della s. sono state introdotte con la l. 9 agosto 1978 n. 463. In particolare, è stato fissato in otto ore (elevabili fino a dieci) l'orario giornaliero di funzionamento, suddiviso in due turni, antimeridiano e pomeridiano; è stata soppressa la figura dell'assistente, che era stata introdotta dalla legge del 1968; si è stabilito che a ogni sezione di s. materna possono essere assegnate due insegnanti, il cui orario di servizio è stato fissato in trenta ore settimanali per le attività educative e venti ore mensili per le altre attività connesse al funzionamento della scuola. Gli "Orientamenti pedagogici dell'attività educativa", definiti una prima volta nel 1969, hanno trovato una nuova e più aggiornata stesura nel testo diramato dal D.M. 3 giugno 1991. I nuovi orientamenti hanno ulteriormente accentuato la natura specificamente pedagogica della s. stessa in modo da renderla più rispondente alle caratteristiche proprie di una s. dell'infanzia. La funzione di custodia dei bambini e di assistenza per questo verso alle famiglie può dirsi tramontata definitivamente. Obiettivo primario della s. materna non può che essere la formazione integrale ed equilibrata della personalità dei bambini. L'attività educativa viene indirizzata all'acquisizione di capacità e competenze comunicative, espressive, logiche e operative, nonché a un'armonica organizzazione delle componenti cognitive, affettive, morali e sociali della personalità dei bambini. Pur nata con ritardo, la s. materna italiana appare una delle più avanzate in Europa, con le sue strutture diffuse sul territorio nazionale e con il suo impianto pedagogico ispirato alle più aggiornate ricerche psicopedagogiche.
Scuola elementare. - La contrazione delle leve demografiche verificatasi negli anni Ottanta e tuttora in corso ha portato a una progressiva diminuzione dei frequentanti tale scuola. Nel 1991-92 gli alunni sono stati poco più di tre milioni (nel 1972-73 erano stati quasi cinque milioni). Di conseguenza un consistente numero di insegnanti di ruolo si è trovato senza classi, a disposizione degli istituti per l'utilizzazione in compiti integrativi e di sostegno. Una delle motivazioni riposte che ha portato all'introduzione nel 1990 di nuovi modelli organizzativi dell'attività didattica è da ricercarsi proprio nell'esigenza di riassorbire almeno in parte l'eccedenza di insegnanti elementari.
A partire dal 1977 ha trovato applicazione un progetto speciale per l'inserimento della lingua straniera nell'insegnamento elementare. Ancor prima era stata avviata una larga sperimentazione di s. elementare a tempo pieno, con l'adozione di insegnamenti speciali e di attività integrative, allo scopo di arricchire la formazione degli alunni. Dopo le importanti modifiche di ordinamento introdotte dalla l. 4 agosto 1977 n. 517, sono stati varati i nuovi programmi didattici (d.P.R. 12 febbraio 1985 n. 104), entrati in vigore a partire dall'anno scolastico 1987-88. Essi precisano anzitutto le finalità generali dell'istruzione elementare, la quale, oltre a curare la "prima alfabetizzazione culturale, costituisce una delle formazioni sociali basilari per lo sviluppo della personalità del fanciullo". I programmi evidenziano criteri per l'educazione alla convivenza democratica e per lo sviluppo della potenziale creatività del fanciullo. Indicano pure le linee della programmazione didattica e della valutazione dell'apprendimento. Precisano che la s. "promuove l'acquisizione di tutti i fondamentali tipi di linguaggio e un primo livello di padronanza dei quadri concettuali, delle abilità, delle modalità d'indagine essenziali alla comprensione del mondo umano, naturale e artificiale". Per ognuno degli ambiti disciplinari previsti (lingua italiana, lingua straniera, matematica, scienze, storia, geografia, studi sociali, religione, educazione all'immagine, al suono e alla musica, educazione motoria) il testo dei programmi fornisce indicazioni dettagliate relative agli obiettivi specifici, ai contenuti dell'insegnamento e alle metodologie didattiche, facendo opportuna distinzione fra quanto si riferisce ai primi due anni e quanto ai successivi tre anni del corso. I programmi, infatti, segnalano l'esigenza che l'insegnamento proceda "da una impostazione unitaria predisciplinare all'emergere di ambiti disciplinari progressivamente differenziati". All'introduzione dei nuovi programmi ha fatto seguito la riforma dell'ordinamento disposta con l. 5 giugno 1990 n. 148. In base al nuovo ordinamento, gli insegnanti possono essere utilizzati secondo uno dei seguenti moduli organizzativi: tre insegnanti su due classi ovvero quattro insegnanti su tre classi. È previsto un insegnante di sostegno ogni quattro alunni portatori di handicap. Il numero massimo di alunni per classe è fissato in 25 (20 per le classi che accolgono alunni portatori di handicap). Nel quadro della programmazione didattica, il collegio dei docenti procede all'aggregazione delle materie per ambiti disciplinari e ripartisce il tempo da dedicare ai diversi insegnamenti. Gli insegnanti operano collegialmente nell'ambito del modulo adottato e sono contitolari delle classi interessate. Nei primi due anni del corso è consentita una maggiore presenza temporale di un singolo docente in ciascuna classe. L'orario delle attività è di 27 ore settimanali, elevabili fino a 30 in caso di attivazione dell'insegnamento di lingua straniera.
Sia i nuovi programmi, ispirati a una visione ampia e aggiornata, sia l'organizzazione dell'insegnamento secondo i moduli indicati hanno incontrato non poche critiche. Nel caso dei programmi si osserva che l'ampio ventaglio degli ambiti disciplinari previsti può distrarre i docenti dal compito fondamentale di dedicare il tempo dovuto all'acquisizione delle abilità di base come l'apprendimento delle strutture linguistiche elementari e dell'aritmetica. Per quanto riguarda i moduli dell'organizzazione dell'insegnamento si obietta che essi introducono elementi di disomogeneità e di perdita di unità nell'insegnamento stesso e possono anche essere causa di tensioni o attriti fra i docenti impegnati nelle medesime classi, docenti spesso dotati di personalità assai differenti e che hanno modi diversi di atteggiarsi nel rapporto educativo con i bambini.
Scuola media. - Anche in questa s. si è fatto sentire il calo demografico che ha causato una sensibile diminuzione del numero degli iscritti. Nel 1991-92 gli alunni iscritti sono stati 2.156.796 contro, per es., i 2.850.000 circa del 1982-83. L'ordinamento di questa s. non ha subito modifiche dal 1977, quando con la l. 348 è stato parzialmente modificato il piano di studi con l'eliminazione del latino come materia facoltativa e con la trasformazione in obbligatorie delle altre materie previste prima come facoltative. La l. 517 dello stesso anno ha introdotto criteri di organizzazione didattica in sintonia con quanto disposto per la s. elementare, cosicché i due gradi d'istruzione si sono ulteriormente avvicinati tra loro nel quadro della s. dell'obbligo e il secondo di questi gradi ha finito per perdere altri tratti di s. secondaria di primo grado quale era in origine. Gli ambienti istituzionali e politici, in parte anche quelli tecnici, continuano a considerare la s. media nella sua attuale configurazione un momento di svolta decisivo della politica scolastica italiana e in quanto tale almeno per ora immodificabile. Non pochi osservatori, al contrario, preoccupati dei risultati tutt'altro che soddisfacenti dell'istruzione praticata in questa s., auspicano che si proceda al più presto a un radicale riordinamento della stessa in modo da rendere più concentrato ed efficace il piano di studi con riguardo agli insegnamenti basilari per l'ulteriore avanzamento negli studi. Intanto, con D.M. 5 maggio 1993 è stato adottato un nuovo modello di scheda personale di valutazione degli alunni, il quale, a partire dall'anno scolastico 1994-95, dovrebbe consentire una più puntuale analisi dell'apprendimento nelle differenti discipline d'insegnamento; esso, inoltre, dovrebbe indurre gli insegnanti a programmare un'azione didattica più sistematica e maggiormente mirata all'efficacia dell'insegnamento.
Scuola secondaria superiore. - Si è già osservato che nessuno dei pur numerosi tentativi di riforma generale del settore è riuscito a ottenere l'approvazione definitiva del Parlamento. Le difficoltà non sono state soltanto di natura ideologica, come per il passato. Hanno influito ancora le differenti valutazioni culturali e pedagogiche del ruolo di tale fascia d'istruzione. Ha influito, in particolare, il problema se tale istruzione debba avere tutta natura squisitamente formativa o se parte di essa debba conservare anche una funzione professionalizzante. È un problema, questo, con forti implicazioni politiche nell'ambito dei rapporti e delle differenziate competenze dello stato e delle regioni. Un nodo ulteriore è rappresentato dal prospettato prolungamento dell'obbligo scolastico al sedicesimo anno di età. La proposta di legge approvata dal Senato della Repubblica nel settembre del 1993 (ma non dalla Camera dei deputati) prevedeva l'elevazione dell'obbligo per due anni da spendere nel biennio iniziale della nuova secondaria delineata nella stessa proposta di legge, benché tale biennio non si configurasse come un compiuto grado d'istruzione. Del resto, il progetto in questione ha incontrato riserve e opposizioni anche per altri aspetti più generali della riforma stessa.
Di fronte al problema del prolungamento dell'obbligo si pone nondimeno il fenomeno in atto della dispersione scolastica, particolarmente consistente nei primi due anni della secondaria superiore. Per affrontare tale fenomeno in modo efficace sembrerebbe naturale pensare a ciò che non funziona nel livello d'istruzione precedente e provvedere di conseguenza. In particolare, come già si è osservato anche con riguardo ai ripensamenti in corso in altri paesi circa l'efficacia della s. di base, si tratterebbe d'irrobustire gli insegnamenti delle materie fondamentali che condizionano le prospettive di reale avanzamento negli studi. Viceversa, il dibattito italiano sulla secondaria superiore rimane ancora attardato sulla prospettazione di un modello di s. sostanzialmente unitario nei primi due anni di corso. Tale schema, adottato dalla commissione ministeriale incaricata di elaborare nuovi programmi per la scuola secondaria, viene ribadito nella sostanza nelle "linee di progetto di ristrutturazione dei piani di studio" presentate a Fiuggi nel febbraio 1994. La commissione ritiene "ragionevole ipotizzare una qualche forma di reciproca compensazione" fra i modelli tradizionali del liceo e dell'istituto tecnico, utilizzando il cosiddetto "criterio della integralità" per cui nel piano di studi rientrano tutte "le componenti essenziali" del sapere, espresse soprattutto dalle "discipline comuni". Non pochi osservatori obiettano che una soluzione del genere finisce per configurare il biennio della secondaria superiore come una s. di formazione ancora generale, in parte anche generica, quasi un prolungamento dell'attuale s. media. Ciò potrebbe avere ulteriori conseguenze negative sulla precisazione degli interessi di studio degli allievi, sulle loro stesse motivazioni e quindi sulla consistenza ed efficacia della loro preparazione. In particolare, il "criterio dell'integralità" porta a un tipo d'istruzione in sostanza eterogeneo, a una s. dove si insegna un po' di tutto e dove finisce per mancare un centro specifico d'interesse intorno a cui costruire un sapere organico, sufficientemente approfondito e padroneggiato nelle sue strutture e procedure.
La suddetta commissione ha elaborato i programmi delle materie comuni e anche quelli dei diversi indirizzi, che sono stati adottati in via sperimentale da un centinaio di istituti a partire dall'anno scolastico 1992-93. Si tratta di programmi nuovi o in larga misura aggiornati, sebbene appesantiti da un'ampia precettistica metodologico-didattica. Del resto, nell'ultimo quindicennio, molti istituti d'istruzione secondaria, soprattutto dell'ordine tecnico ma anche di quello classico-scientifico-magistrale, hanno adottato sperimentazioni di vario tipo, sulla base degli articoli 2 e 3 del d.P.R. 31 maggio 1974 n. 419. Ciò che è mancato è una valutazione tecnica accurata degli esiti delle differenti sperimentazioni, anche in vista di una comparazione con gli esiti formativi e con i costi dei corrispondenti corsi normali. Anche il settore dell'istruzione artistica è stato interessato dalla sperimentazione di ordinamenti. Presso i conservatori di musica di diverse città sono stati istituiti in via sperimentale corsi quinquennali di liceo musicale. Tali corsi comprendono di solito un'area di materie umanistico-scientifiche e un'area di insegnamenti specialistici (materie musicali di base, teoria e analisi della musica, storia della musica). Al termine del corso gli allievi sostengono un esame di maturità musicale e il relativo diploma dà accesso a un grado superiore di studi musicali presso gli stessi conservatori oppure ai corsi universitari.
L'attuale popolazione scolastica della secondaria superiore continua a distribuirsi in gran parte fra i tre principali settori dell'istruzione tecnica, professionale e liceale. Gli istituti tecnici dei diversi indirizzi assorbono tuttora la parte più consistente degli scolarizzati del settore. Nel 1991-92, su una popolazione scolastica complessiva della secondaria superiore di 2.853.871 alunni, gli istituti tecnici erano frequentati da 1.283.229 alunni (indirizzo più seguito, il commerciale, con 658.362 frequentanti). Gli istituti professionali di stato erano frequentati da 540.813 alunni. I licei in complesso accoglievano 747.785 alunni (di cui 473.236 i licei scientifici, 231.562 i licei-ginnasi, 42.987 i licei linguistici). Gli istituti magistrali erano frequentati da 160.987 alunni e le scuole magistrali da 21.931. Gli istituti d'arte erano seguiti da 62.771 e i licei artistici da 36.355 alunni. Lo sviluppo quantitativo della fascia secondaria superiore non si è arrestato negli ultimi anni, anche se ha attenuato il suo trend di crescita. Nonostante la contrazione delle leve demografiche, lo sviluppo di questa fascia d'istruzione ha potuto contare finora su un bacino d'utenza mai del tutto scolarizzato. Peraltro, il tasso di passaggio fra s. media e s. superiore è venuto progressivamente crescendo nel corso degli ultimi anni. Questo tasso era dell'82,7% nel 1987-88, dell'86,4% nel 1989-90, dell'89,2% nel 1991-92. La diversificazione degli indirizzi di studio e le innovazioni introdotte via via nella programmazione didattica e nella metodologia d'insegnamento sono all'origine di tale sviluppo, avvenuto al di fuori della costrizione dell'obbligo formale d'istruzione. È da presumere che un prolungamento dell'obbligo fino al sedicesimo anno d'istruzione, da introdurre mantenendo ferma la diversificazione almeno per grandi linee fra istituti tecnici, professionali e licei, dovrebbe favorire e portare a compimento la scolarizzazione della fascia di età compresa fra i 15 e i 19 anni.
In questa direzione si è mossa l'istruzione professionale, con il riordinamento introdotto dal cosiddetto "Progetto '92" che entro l'anno 1994-95 coinvolgerà tutti gli istituti professionali di stato (v. professionale, formazione, in questa Appendice). L'istruzione tecnica, nella sua attuale configurazione, riesce a dare risultati di medio livello, ma attende un rilancio del suo modello formativo nel senso di un più valido e avanzato equilibrio fra preparazione generale umanistico-scientifica e formazione tecnologico-professionale di larga base, in grado di corrispondere meglio alle attuali esigenze di flessibilità e mobilità del mondo della produzione e dei servizi. La specificazione professionale di questo tipo d'istruzione dovrebbe completarsi in un livello di studi post-secondario, come avviene altrove in Europa.
Nessun riferimento all'esperienza estera potrà valere invece per i licei italiani, in particolare per il liceo classico, la cui coerenza d'impianto culturale e pedagogico costituisce tuttora un modello insuperato, che potrebbe semmai essere ripreso con profitto per nuovi tipi di liceo, ognuno costruito intorno a un'organica area di sapere. Che gli attuali licei rappresentino ancora una risposta valida e di qualità è comprovato da un dato di fatto emerso da un'indagine condotta dall'Istituto centrale di statistica su un largo campione di laureati del 1986. I risultati dell'indagine, pubblicati nel 1989, attestano che ben il 72,2% dei laureati dell'università italiana proviene dai diplomati dei licei classico e scientifico. Il dato è ancor più significativo se si considera che il gettito dei diplomati di quei due licei rappresenta appena il 26% del totale dei diplomati annualmente licenziati dalla s. secondaria superiore. Sembra evidente, sulla base di tali dati, che il numero dei laureati in Italia potrebbe aumentare nel caso fossero offerti ai giovani altri percorsi liceali strutturati sullo stesso modello adottato per i licei classico e scientifico.
Recenti misure per la scuola. - Dalla più recente legislazione italiana emergono alcune tendenze innovative che saranno destinate a incidere in maniera sensibile sull'intero sistema dell'istruzione, anche se per ora è difficile sapere quale effetto esse avranno sull'efficacia dei servizi resi dalla scuola. Diamo qui di seguito notizia dei principali provvedimenti messi in cantiere negli ultimi anni.
Il D.L. 12 febbraio 1993 n. 35 contiene una serie di misure volte a razionalizzare le norme sul personale della scuola. Il principale obiettivo di queste misure concerne la realizzazione di economie nell'utilizzazione del personale, nel più generale quadro dell'economia della spesa pubblica. Il decreto legislativo, fra l'altro, introduce un'importante novità nella gestione dei servizi scolastici. Esso infatti recepisce l'esigenza, largamente avvertita, del controllo dell'efficacia di tali servizi. A tal fine, l'articolo 8 del decreto prevede l'introduzione di strumenti idonei alla valutazione della produttività del sistema scolastico e al raggiungimento di obiettivi di qualità dell'istruzione. Il ministero dovrà determinare parametri di valutazione dell'efficacia della spesa (anche con riguardo ai fenomeni che condizionano l'attuazione del diritto allo studio), definire metodi adeguati di rilevamento dei processi e dei risultati in termini di preparazione generale e specifica fornita dal servizio scolastico. In conseguenza, lo stesso ministero dovrà elaborare un programma triennale di interventi volti alla migliore qualità dell'offerta educativa e in particolare al graduale superamento dei fenomeni di evasione dall'obbligo scolastico, di ripetenza e d'interruzione della frequenza, di abbandono della s., soprattutto nelle aree di maggior disagio scolastico. Per l'analisi dei dati rilevati e per la verifica dell'idoneità degli interventi disposti, il ministero si avvarrà della collaborazione degli Istituti regionali di ricerca sperimentazione e aggiornamento educativi, nonché di enti specializzati pubblici e privati.
Di ancor maggiore rilievo sono le disposizioni previsionali sulla s. contenute nell'articolo 4 della l. 24 dicembre 1993 n. 537 per gli interventi correttivi di finanza pubblica, di accompagnamento alla legge finanziaria 1994. Tali disposizioni prevedono: a) l'autonomia delle istituzioni scolastiche, nel senso che gli istituti e le s. di ogni ordine e grado saranno dotati di autonomia organizzativa, finanziaria, didattica, di ricerca e sviluppo; b) il riassetto degli organi collegiali della s. e l'attribuzione ai capi di istituto di compiti di direzione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane e professionali e di compiti di gestione delle risorse finanziarie e strumentali, con connesse responsabilità in ordine ai risultati; c) la definizione dello statuto dello studente, con indicazione dei diritti e dei doveri, delle modalità di partecipazione alla vita della s., nonché l'istituzione del comitato degli studenti con facoltà di esprimere pareri e proposte direttamente al consiglio di istituto. Fra le modalità di esercizio dell'autonomia didattica sono previsti "progetti di istituto" comprendenti forme di organizzazione modulare dell'insegnamento, procedure di valutazione, ambiti di flessibilità curricolare in relazione alle esigenze locali; nell'autonomia organizzativa e amministrativa, che attribuisce alle istituzioni scolastiche anche la diretta gestione dei beni patrimoniali, è compresa la facoltà di stipulare convenzioni con gli enti locali per la gestione dei servizi. Le stesse disposizioni legislative prevedono: la definizione di un piano di ridimensionamento degli istituti, che terrà conto dei bisogni delle zone considerate a rischio e di altre esigenze locali; la definizione di organici di istituto, anche in relazione all'impiego del personale su reti di s.; la razionalizzazione della gestione del personale e le modalità di utilizzazione dei docenti per attività extracurricolari; le modalità di erogazione alle istituzioni dei contributi, ordinario e perequativo, a carico dello stato, e delle entrate derivanti dalle tasse.
I due criteri innovativi principali introdotti dalla citata legislazione − quello della valutazione della produttività dei servizi scolastici e quello dell'autonomia delle singole istituzioni scolastiche − pongono di conseguenza il problema di una riorganizzazione ampia dell'amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione. Le premesse di tale riorganizzazione sono state individuate nella "Proposta organica sulla scuola" redatta dal ministero della Pubblica Istruzione, come previsto dall'art. 8 del D.L. 35 prima richiamato. Muovendo dalla considerazione di base che l'intero sistema dell'istruzione tende ad articolare la sua azione per obiettivi nazionali e locali e che le istituzioni scolastiche sono chiamate a partecipare direttamente a tali obiettivi tramite un'accentuata autonomia e flessibilità della loro attività didattica e organizzativa, il documento prospetta il graduale superamento dell'attuale modello burocratico e verticale dell'amministrazione scolastica in funzione di un diverso impianto che configuri la stessa amministrazione come una struttura di servizio a sostegno dei processi di sviluppo dell'istruzione realizzata. In sostanza, il ministero assumerà prioritariamente compiti d'indirizzo, di programmazione e coordinamento, di controllo e valutazione; promuoverà altresì accordi-quadro con le regioni e altri enti interessati in vista di una gestione integrata del sistema formativo e di un utilizzo coordinato delle risorse. Dovrà nel contempo garantire standard nazionali controllabili, in coerenza al criterio della validità dei titoli di studio, al fine di salvaguardare l'omogeneità degli obiettivi formativi generali sull'intero territorio nazionale. Nel nuovo quadro, i diversi soggetti istituzionali (amministrazione centrale e periferica, organi collegiali degli istituti, rete delle istituzioni scolastiche, circuiti nazionali e regionali di valutazione e di documentazione) dovrebbero costituire un sistema complesso trasparente di reciproche interazioni, finalizzato a sviluppare la qualità complessiva del servizio dell'istruzione, in sintonia con i processi di sviluppo economico e sociale del paese e della sua integrazione in Europa.
Il D.L. 29 agosto 1994 n. 523 (che, peraltro, deve essere ratificato dal Parlamento) ha disposto l'abolizione degli esami di seconda sessione (i cosiddetti esami di riparazione) negli istituti e scuole di istruzione secondaria superiore. In sostituzione di tali esami, il decreto prevede che i collegi dei docenti e i consigli di classe degli istituti organizzino corsi di sostegno per gli studenti che presentino insufficienze non gravi, ovvero corsi di recupero nel caso di insufficienze rilevanti.
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