SCUOLA
La riforma della scuola. Dal ministero Berlinguer alla riforma Gelmini. L’iter della riforma Renzi-Giannini. Principali caratteristiche della riforma Renzi-Giannini
La riforma della scuola. – Il 13 luglio 2015 la Camera ha approvato la l. nr. 107, che fornisce la terza riforma della s. del 21° sec. e che viene detta vuoi riforma Renzi-Giannini, dal nome del presidente del Consiglio e del ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca che l’hanno proposta, vuoi ‘La buona scuola’, dal titolo del documento programmatico che l’aveva preparata nel 2014.
Dal ministero Berlinguer alla riforma Gelmini. – I precedenti interventi sulla materia, se non si torna alla legge Falcucci (l. nr. 517/77) della fine degli anni Settanta o agli interventi dei Programmi Brocca della fine degli anni Ottanta, erano stati quanto mai difficili e delicati. Nel primo governo Prodi, il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer fece suoi i principi enunciati da Attilio Monasta, pedagogista fiorentino, in un Documento di discussione del gennaio 1997, che conteneva il cardine concettuale della riforma: cioè il superamento dell’impianto gentiliano e idealista della s. italiana – quello che aveva resistito al fascismo e formato la generazione degli antifascisti – fornendo a ciascun soggetto del sistema educativo, insegnante o studente, il ‘controllo’ del processo formativo erogato o ricevuto.
L’intervento di Berlinguer si articolò in tre linee d’azione. In primo luogo, l’affermazione del principio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, attuato nel disegno più generale di riforma della Pubblica Amministrazione prevista dalla legge delega nr. 59/97, promossa dal ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini: l’autonomia, secondo Berlinguer, si concretizzava in un decentramento amministrativo e nel trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali. Attraverso il regolamento dell’autonomia (decreto del presidente della Repubblica nr. 275/99), le s. diventavano il cardine della governance territoriale dell’istruzione e del rapporto con gli enti locali e ricevevano una serie di poteri in materia di organizzazione della didattica, di ricerca e di sperimentazione, funzionali alla progettazione e alla realizzazione dell’offerta formativa. Il principio dell’autonomia scolastica rimase per anni in buona parte inattuato a causa dei successivi interventi di tagli alla spesa scolastica.
La seconda linea d’azione, che prese forma nella l. nr. 30 del 10 febbraio 2000, riguardava gli ordinamenti. In concreto, si spostava il sistema educativo dalla logica degli ordini a quella degli obiettivi, articolata su cicli. Nel disegno di legge quadro erano previsti due cicli di sei anni: uno volto alla «formazione dell’uomo e del cittadino», l’altro volto alla progressiva specializzazione delle competenze. Osteggiato dalle opposizioni di centrodestra – che volevano una scansione diversa e la distinzione finale fra un liceo unico (con indirizzi) e un istituto tecnico (con indirizzi) – il d.d.l. diventò legge, ma fu disapplicato dal successivo governo.
La terza linea d’azione attuata da Berlinguer fu quella relativa al merito degli insegnanti, attraverso una prova per quiz e colloqui (detto giornalisticamente concorsone) che aveva come obiettivo quello di riconoscere e incentivare economicamente la professionalità di un certo numero di insegnanti, partendo dalla valutazione dell’attività svolta nel lavoro in classe. Su questa iniziativa si coagulò un clima di contrapposizione e di resistenza che provocò la fine dell’esperienza di Berlinguer al ministero della Pubblica Istruzione.
Questo impianto fu abrogato dalla riforma Moratti, dal nome del ministro dell’Istruzione del secondo governo Berlusconi, che aveva giurato nel 2001. La l. nr. 53 del 28 marzo 2003, ispirata sul piano tecnico dai lavori della commissione presieduta dal pedagogista bergamasco Giuseppe Bertagna, ripristinava l’antico schema dei cinque anni di primaria (da iniziare però a cinque anni e quattro mesi di età), dei tre di ‘media’ (la secondaria di primo grado) e dei cinque di ‘superiori’ (la secondaria di secondo grado) e prevedeva un’alternanza scuola-lavoro per gli studenti delle s. professionali. Fu poi Giuseppe Fioroni, ministro del secondo governo Prodi, a bloccare l’attuazione della l. nr. 53 e a dotare la s. di un nuovo esame di Stato che sostituiva l’esame di maturità, riformato dopo il 1968 con provvedimenti estemporanei, e a innalzare l’obbligo scolastico (prima era un diritto) a sedici anni; inoltre il ministro ripristinava i rimandi estivi (aboliti dal ministro Francesco D’Onofrio nel 1995) al posto dei debiti formativi. Restava invece in vigore la l. 52/2003 che costituiva l’INVALSI (Istituto Nazionale per la VALutazione del SIstema educativo di istruzione e formazione), un organismo dedicato a creare strumenti di valutazione unitari in un Paese nel quale le differenze di tipo geografico e sociale proiettavano di necessità anche sulla s. disparità e discrasie.
Il 4 agosto 2006 veniva depositata la proposta di legge di iniziativa popolare Per una buona scuola della Repubblica, forte di 100.000 firme. La proposta di fissare al 6% del PIL la spesa per l’istruzione (riferita a una ‛media europea’ piuttosto imprecisa, stanti le differenze fra gestione degli immobili, servizi aggiuntivi e sistemi previdenziali) qualificava
il progetto di una «buona scuola», che prevedeva l’obbligatorietà dell’ultimo anno di materna prima del passaggio alla s. primaria, l’estensione a 18 anni dell’obbligo scolastico, classi di 22 alunni, il ripristino del modulo e del tempo pieno nella s. elementare e il loro ampliamento alla media, una s. superio re comune fino a 16 anni e un triennio di specializzazione, rafforzato dall’obbligo per gli insegnanti di accedere alla formazione e all’aggiornamento, l’estensione degli organi collegiali, l’apertura pomeridiana delle s. e un piano straordinario di edilizia scolastica. Incardinata con il nr. 1600 nella XV legislatura, la proposta venne discussa nella VII commissione della Camera dei deputati nell’aprile 2007, ma nella XVI legislatura non fu mai ripresa e decadde.
Nel contempo iniziava la serie di provvedimenti che nel loro insieme vennero identificati dall’opinione pubblica come riforma Gelmini: come ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del quarto governo Berlusconi, Mariastella Gelmini portò ad approvazione la l. nr. 103 del 6 agosto 2008, la l. nr. 169 del 30 ottobre 2008, poi la l. nr. 1 del 9 gennaio 2009 e la l. nr. 240 del 30 dicembre 2010, preceduta dal d.m. nr. 17 del 22 settembre. Furono la l. nr. 103 e la l. nr. 169 a incidere sul funzionamento del sistema scolastico: l’abbassamento dell’obbligo a 15 anni di fatto invertiva una tendenza dell’intera storia repubblicana a far valere l’obbligo come strumento di emancipazione ed eguaglianza; il ripristino del maestro o della maestra unica e il ‘ritorno’ (questa era la parola chiave) dei voti, che si rifletteva nella semplificazione degli indirizzi negli istituti e nei licei, marcavano una distanza crescente fra la formazione professionale, che includeva tirocinio e lavoro, e quella intellettuale, orientata a formare in modo diverso gli studenti. Sul lato degli insegnanti, invece, la riforma Gelmini garantiva valore abilitante alla laurea in formazione primaria e introduceva le Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario (SSIS) per dotare gli aspiranti insegnanti della secondaria del titolo di accesso alle supplenze, poi sostituito, con il decisivo apporto dell’onorevole Valentina Aprea, nella l. nr. 249/2010, dal Tirocinio formativo attivo (TFA), in seguito integrato dal TFA speciale, che prevedeva un costo a carico degli insegnanti e a favore delle università per ottenere i requisiti.
Accompagnata da una politica di ‘tagli lineari’ alla spesa pubblica, e da un ‘piano nazionale’ sul merito elaborato dal finanziere Roger Abravonel, la riforma Gelmini cercò di affrontare l’annoso problema degli insegnanti ‘precari’: coloro cioè che, entrati in graduatorie locali per le supplenze sulla base di complessi calcoli di punteggio, venivano chiamati a coprire la cattedre resesi vacanti per i più diversi motivi.
Nei due ministeri di Francesco Profumo e Maria Chiara Carrozza, al di là di ipotesi, presto rientrate, di un uso più intensivo degli insegnanti in servizio per coprire le ore vacanti e ridurre le spese di supplenza del sistema scolastico italiano, non furono predisposti interventi sistemici. Il ministro Profumo, tuttavia, conseguiva l’importante risultato di indire, dopo quasi 15 anni, un concorso nazionale per la carriera di insegnante.
L’iter della riforma Renzi-Giannini. – Il governo Renzi aveva annunciato fin dal proprio esordio la volontà di una sua riforma della scuola. A essa il presidente del Consiglio attribuiva una virtù intrinseca nel grave contesto di crisi economica che dal 2008 affliggeva l’Occidente e che in Europa si rivelava più difficile da risolvere di quanto non fosse accaduto negli Stati Uniti, che ne erano stati la culla. Lo slogan renziano «se riparte la scuola, riparte l’Italia» trovava forma nell’azione del ministro Stefania Giannini, glottologa e già rettore dell’Università per stranieri di Perugia, senatrice e segretario del piccolo ma turbolento partito di Scelta civica, poi passata al gruppo del PD.
Il processo di definizione della riforma Renzi-Giannini ha avuto inizio con la creazione di due gruppi di lavoro, coordinati da Alessandro Fusacchia e Francesco Luccisano – già dirigenti di RENA (Rete per l’Eccellenza NAzionale), un think tank di 150 soci fondato nel 2007 –, chiamati a posti chiave nel ministero. Le proposte sulla professionalità docente, da un lato, e sulle competenze degli studenti, dall’altro, sono poi confluite in un documento del governo, che nel titolo La buona scuola riprendeva quello della proposta di legge di iniziativa popolare del 2006. Renzi e Giannini lo presentarono nel settembre 2014 ed esso fu quindi sottoposto a una consultazione pubblica poi rivelatasi la più vasta mai promossa da un governo europeo, contando 207.000 partecipanti attivi, 1,3 milioni di accessi, 200.000 astanti a 2043 dibattiti off-line, e producendo 20 documenti regionali e 115 position papers. Il documento offerto al dibattito si basava su alcuni principi chiave: un’autonomia scolastica più accentuata, che consegnava alle s. la responsabilità anche su materie integrative di grande importanza, come l’arte o la cittadinanza attiva, e le risorse sia umane sia finanziarie per rendere effettiva l’autonomia di Bassanini e Berlinguer; la prevalenza del criterio di merito su quello dell’anzianità per determinare la retribuzione degli insegnanti; il criterio della valutazione come strumento generale di governo del sistema dell’istruzione; l’alternanza s.-lavoro come strumento di formazione per tutti gli studenti; un piano per le competenze digitali e strumenti per attrarre fondi, anche privati, sulla scuola.
Sul piano politico, invece, la riforma Renzi-Giannini puntava a fornire la soluzione dell’annosa questione dei precari non con una riduzione del personale, ma con un piano assunzionale straordinario per assorbire le cosiddette graduatorie a esaurimento (inizialmente quantificato in 148.000 unità) e il ripristino del concorso come strumento di selezione degli insegnanti. Alla proposta, la legge di stabilità 2015 attribuiva risorse per 3 miliardi di euro e nelle coeve Country specific recommendations sull’Italia del maggio 2015 la Commissione europea riteneva che quel progetto superasse tutte le raccomandazioni comunicate all’Italia negli anni riguardo il suo sistema di istruzione.
All’inizio del 2015 veniva così redatto un decreto legge per ottenere gli scopi indicati nel documento. A sorpresa, però, il 2 marzo 2015 il presidente del Consiglio, forse sul-l’onda del successo parlamentare ottenuto con l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, decideva di trasformare il decreto in un disegno di legge da consegnare al dibattito parlamentare. In questa metamorfosi entravano alcune novità rilevanti: tra queste, quella che avrebbe sollevato maggiori polemiche attribuiva ai dirigenti scolastici maggiori responsabilità, come la possibilità di procedere alla chiamata diretta dei docenti della s. da un albo. Il piano assunzionale prendeva un contorno più preciso, con la previsione di interessare circa 100.000 precari.
La reazione sindacale fu molto forte, con l’organizzazione di manifestazioni di piazza che misero d’accordo le circa 40 sigle sindacali del pianeta s. nel chiedere – senza successo – la riduzione dei poteri dei presidi e l’estensione del piano assunzionale ai cosiddetti precari di seconda fascia, vale a dire gli abilitati all’insegnamento non inseriti in graduatorie nazionali, per i quali la riforma prevedeva invece soltanto il concorso.
Attenuata la premialità stipendiale per merito e preservata quella per anzianità, il d.d.l. subì un lavoro di rimodulazione nei diversi passaggi al Senato e alla Camera, che vide un inasprimento del dibattito politico anche a causa della coincidenza con le elezioni regionali amministrative. A fine giugno la fiducia posta al Senato su un maxiemendamento chiudeva l’iter della discussione e mandava alla Camera per il voto finale la l. nr. 107.
Principali caratteristiche della riforma Renzi-Giannini. – La riforma Renzi-Giannini si presenta dunque come atto di riordino complessivo della s. e, con i circa 200 atti di applicazione ed esecuzione in corso, sposta il baricentro normativo dalle questioni di sistema (ordini, bienni, biforcazioni, indirizzi) alle questioni di contenuto (conoscenze e competenze offerte dalla s. agli studenti) e di metodo (reclutamento e formazione dei docenti, valutazione, autonomia e responsabilità delle istituzioni scolastiche).
Affronta la piaga del precariato, che era stato per decenni, alla pari del debito pubblico, una leva pericolosa di consenso con prezzi da pagare nel futuro. Si propone di fare della s. un organo responsabile, oltre che autonomo, nel quale il dirigente ha la possibilità di commettere errori, ma anche il compito di scegliere, e viene valutato sulla base delle scelte.
Mette a sistema le numerose sperimentazioni sulla valutazione delle s., impostando un meccanismo per cui tale valutazione avviene a tre livelli: l’istituto, che viene esaminato sulla base di 50 indicatori uguali per ogni s. e visibili alle famiglie; i dirigenti, che vengono valutati a livello regionale sulla base della loro capacità di guidare il miglioramento della s.; i docenti, che ricevono un premio economico sulla base della stima del loro operato.
Introduce l’alternanza s.-lavoro in tutte le scuole superiori, licei inclusi, non come assuefazione alla subalternità per i figli delle classi meno abbienti, ma come strumento di orientamento, piattaforma per la trasmissione di competenze trasversali e di educazione alla responsabilità.
Istituisce un diverso sistema di formazione del personale scolastico, con un duplice strumento: un programma nazionale di qualificazione, che prevede lo stanziamento di 40 milioni di euro l’anno per la formazione dei docenti in servizio sulle aree ritenute prioritarie a livello nazionale, e una carta individuale del valore di 500 euro annui, messa a disposizione di ciascun insegnante per iniziative di miglioramento professionale.
Introduce un Piano nazionale per la s. digitale, volto non solo a completare l’infrastrutturazione tecnologica delle 8000 s. italiane, ma anche ad affrontare il tema delle competenze digitali degli studenti, come la programmazione, la logica computazionale, l’uso dei dati, l’utilizzo consapevole dei social media.
In materia di educazione alla cittadinanza offre nuove opportunità di conoscenza delle diversità e del pluralismo delle fedi e delle culture. Sostituisce un’idea ottocentesca e discriminatoria della differenza di genere con un’educazione al rispetto.
Introduce, infine, un meccanismo di credito di imposta per le erogazioni di privati a vantaggio della s. (detto school bonus) e la detraibilità delle spese sostenute per l’istruzione dalle famiglie che mandano i figli nelle s. paritarie del sistema pubblico.