Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra le più antiche scuole mediche europee, erede diretta di quella di Salerno è quella di Montpellier. La scuola della città della Linguadoca, regione del Sud della Francia, è aperta alle diverse influenze culturali del Mediterraneo: ebraiche (benché agli ebrei fosse proibito l’insegnamento) ma soprattutto islamiche. L’istituzione, già attiva dalla metà del XII secolo, e ben organizzata nei primi decenni del Duecento, è tra le prime a dotarsi di statuti che ne regolano l’organizzazione. Ma l’Italia è in questi secoli il luogo privilegiato di una medicina “delle città”: medici e curanti in genere assumono una notevole visibilità anche sulla scena civica e politica, distinguendosi in quella che con un’espressione di origine tomista è stata definita la vita activa civilis.
A Montpellier sono ben note anche le opere della tradizione occidentale recente, più rivolta all’empirismo, come il lavoro di Gilberto Anglico, medico inglese della seconda metà del Duecento, il cui Compendium medicinae gode di grande successo. Nel 1309 il papa Clemente V emana una bolla che contiene tra l’altro i 15 testi da utilizzare per l’insegnamento della medicina a Montpellier, tra i quali diversi arabi e galenici; la lista, rivista nel 1340 con l’aggiunta di altri trattati, diviene rapidamente canonica. Tra i suoi maestri vi è Gilles de Corbeil, che aveva studiato a Salerno, poi insegnato a Montpellier e infine a Parigi.
Ma il protagonista della fase più antica della scuola, destinata a restare con Parigi la prima facoltà medica di Francia fino al XIX secolo, è Arnaldo da Villanova, una delle personalità più affascinanti della medicina e della cultura scientifica medievale. Catalano, forse ebreo di origine, studia a Montpellier intorno agli anni Sessanta del Duecento, e diviene in seguito medico di corte della casa d’Aragona. Come medico praticante ha un notevole successo, e avendo curato papi e re la sua fama si diffonde in tutta Europa, ma egli non sembra essere stato un innovatore della clinica e della medicina pratica. Come esperto di testi e traduttore in proprio, Arnaldo incarna la commistione di culture diverse proprie della Francia del Sud: conosce l’arabo e traduce Avicenna, De viribus cordis, e Galeno, De rigore, dall’arabo. Si sa che utilizza per l’insegnamento una ricca varietà di testi, anche ippocratici.
A partire dalla fine del secolo Arnaldo si stabilisce a Montpellier, insegnando allo studium e ispirandone la riorganizzazione in senso scolastico nel primo Trecento. La sua biblioteca, che può essere ricostruita attraverso l’inventario redatto dopo la morte, è ricca di circa 100 volumi, e mostra l’ampiezza dei suoi interessi, comprendendo le traduzioni salernitane e costantiniane, le più recenti dall’arabo, e le recentissime opere di rielaborazione occidentale sulla falsariga dei testi arabi. Sforzandosi di dare una sistematizzazione alla medicina su basi galeniche, i suoi scritti mostrano un’evoluzione da un iniziale pragmatismo verso un maggiore interesse per problemi filosofici. Negli Aphorismi de gradibus egli elabora teorie e scritti arabi, soprattutto di al-Kindi, per costruire una medicina e una farmacologia a base quantitativa.
L’interesse per problemi teorici e formali si accompagna, nello sviluppo del pensiero di Arnaldo, con il singolare interesse per questioni teologico-religiose e millenaristiche che accompagna i suoi ultimi anni. Propugnatore di una radicale riforma della Chiesa, prende posizioni che gli costano critiche anche aspre da parte del clero, e in particolare da papa Bonifacio VIII. Le discussioni sulla posizione religiosa di Arnaldo ne hanno evidenziato l’originalità, ma hanno anche contribuito a mettere a fuoco l’importanza dello sfondo religioso per la comprensione della medicina di questo periodo.
Il medico bolognese Taddeo Alderotti, ad esempio, traduce in italiano (dal latino) una versione breve dell’Ethica ad Nicomachum di Aristotele. L’elaborazione intellettuale si accompagna a una nuova ondata di traduzioni: Pietro d’Abano completa, tra l’altro, la traduzione del De sectis di Galeno, iniziata da Burgundio da Pisa. Miglior fama e fortuna delle sue traduzioni hanno quelle di Nicolò da Reggio (1280-?), medico calabrese che aveva studiato e insegnato a Salerno e a Napoli ed era stato al servizio degli Angioini, in particolare di re Roberto d’Angiò, che lo incoraggia nella sua attività e nel 1334 avvia in tutto il Regno una campagna di ricerca di manoscritti greci, acquistandone anche in Oriente. Le opere tradotte da Nicolò hanno notevole circolazione, soprattutto in area francese, attraverso la curia papale di Avignone.
Lo studium di Bologna ha fra i suoi principali maestri Taddeo Alderotti. Della sua educazione non si sa molto, e si può ipotizzare che si sia svolta presso i Francescani o i Domenicani. Diviene un uomo ricco e di successo grazie alla pratica, ma al contempo scrive molto: commentari e glosse agli Aforismi ippocratici e all’Isagoge di Porfirio; diversi commenti ad Aristotele, tra cui la versione in volgare dell’Ethica a Nicomachum già ricordata. Il suo insegnamento bolognese inizia nel 1260 circa, in un’università con un forte coinvolgimento della municipalità, ad esempio nel pagamento dei lettori, e dominata dalla facoltà di Legge. La Scuola di Taddeo diviene la principale in Italia: i suoi molti allievi sono infatti i protagonisti della generazione successiva fino alla peste del 1348; tra loro Bartolomeo da Varignana, Dino del Garbo, Pietro de’ Torrigiani, Mondino de’ Liuzzi. Bologna, come molte altre università italiane successive, ha uno dei suoi punti di forza nella stretta connessione tra la facoltà medica e la facoltà delle Arti, dunque tra l’insegnamento della medicina e della filosofia naturale. Nonostante ciò, in Taddeo e nei suoi allievi è possibile trovare una forte accentuazione del legame tra medicina e chirurgia, nonché un interesse per l’anatomia. Non è ancora maturata una vera distinzione tra teoria e pratica medica e anzi, nonostante l’importanza attribuita all’aristotelismo nella spiegazione dei fenomeni naturali, si tende a negare alla medicina uno statuto puramente teoretico. Altra questione è quella dell’averroismo e dell’eterodossia di Taddeo e della sua scuola, leggibili in filigrana nello sforzo di istituzionalizzazione dell’insegnamento della logica aristotelica. Peraltro Taddeo e i suoi allievi hanno un limitato interesse, e in certi casi perfino un’opposizione, al determinismo astrologico.
Pietro d’Abano è legato alla storia dell’Università di Padova, ma ha trascorso molti anni viaggiando, anche in Oriente, a Costantinopoli; dopo alcuni anni di studio a Parigi torna a insegnare a Padova nel 1306 o 1307. La sua opera più nota è il Conciliator, una sintesi filosofica e medica delle posizioni di diversi autori su singole quaestiones. Ma i suoi scritti sono notevoli soprattutto per l’aprirsi del sapere medico ad altre pratiche e discipline scientifiche: la logica; l’astrologia e l’astronomia; la magia. Egli pratica l’astrologia a diversi livelli: si interessa delle natività (oroscopi personali); studia il rapporto tra i giorni cosiddetti critici, e dunque l’insorgere e il decorso delle patologie, e la somministrazione delle terapie, in connessione con la configurazione dei corpi celesti; diviene celebre per le sue avanzate conoscenze astronomiche. Padova viene così configurandosi come un centro di diffusione del sapere astronomico-astrologico, diversamente, come si è visto, da centri come Bologna, dove prevalgono invece le preoccupazioni pratico-mediche e didattiche. L’interesse di Pietro d’Abano per la farmacologia e la terapia si rivolge anche alla fabbricazione di amuleti; la sua ortodossia viene più volte messa in dubbio, e in un certo senso la sua figura si colloca sulla linea di rivalutazione naturalistica della magia, intesa come un sapere operativo, sviluppata poi con successo nella filosofia italiana del Rinascimento.
Nonostante l’età della scolastica sia normalmente considerata come un’epoca di trionfo del sapere teorico e astratto, alcune delle maggiori innovazioni di questo periodo, anche sul piano metodologico, si devono allo sviluppo e al rinnovamento della chirurgia.
La medicina e la chirurgia sono le due sole pratiche mediche per le quali si possa parlare di un’esclusività occupazionale: coloro che le praticano di solito non svolgono altre professioni. La chirurgia è generalista, con l’eccezione della dentistica, riservata a professionisti specializzati. Intorno al 1300, secondo Pietro d’Abano, si afferma un leitmotiv destinato a essere ripreso in seguito, quello della maggiore certezza della chirurgia rispetto alle altre branche della medicina. L’emergere di una generazione di chirurghi “educati e ambiziosi” è una novità molto significativa (Siraisi), così come il fatto che la chirurgia sia trattata a parte in testi dedicati esclusivamente a questo argomento. Si tratta qui di un sapere con una forte impronta teorica, non solo di un insieme di tecniche manuali; e si tratta di un sapere che nelle università gode di un certo riguardo, che avrebbe perso in seguito.
Ispirata dalle numerose traduzioni di testi effettuate tra il XIII e il XIV secolo, la chirurgia colta è al principio soprattutto italiana: Ruggero Frugardo è attivo a Parma intorno al 1170, e produce un testo che illustra interventi pratici, e che viene soppiantato solo da un manuale di grandissima fortuna, diffuso ovunque, la Rolandina di Rolando da Parma, suo allievo: ma si tratta in realtà di un’edizione commentata della stessa Practica Chirurgiae di Ruggero.
Seguono Bruno da Longoburgo, un calabrese attivo a Padova intorno al 1250; e, negli stessi anni, Teodorico Borgognoni, di Lucca, attivo a Bologna. Ancora a Bologna – ma non solo – lavora Guglielmo da Saliceto, la cui Chirurgia in due versioni, del 1258 e del 1275, è sostituita nell’uso comune solo da successive opere francesi. Il maestro Lanfranco da Milano, autore di una Chirurgia magna (1270) si trasferisce infatti a Parigi a fine secolo, portandovi il sapere chirurgico italiano. Henri de Mondeville scrive il primo testo di chirurgia in francese. E sempre in Francia viene elaborato il nuovo, e per molti versi definitivo, testo di riferimento per l’arte chirurgica, l’Inventarium sive Chirurgia Magna (1363) di Guy de Chauliac. Secondo uno dei suoi maggiori interpreti l’opera, ancora in uso fino al Settecento, ““segna la fine della medicina medievale – nel doppio senso di completamento e di conclusione”” (Mc Vaugh). Guy de Chauliac aveva studiato a Montpellier, si era formato a Bologna e si era distinto come medico dei papi ad Avignone.