Scuole socratiche minori
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sono così denominate le scuole fondate, vivente Socrate o dopo la sua morte, dai suoi discepoli, ad esclusione di quella platonica. La qualifica di “minori”, in effetti, rispecchia l’assoluta preminenza accordata al ramo platonico-aristotelico nella visione storiografica tradizionale. Ne fanno parte la scuola di Megara fondata da Euclide, quella cirenaica fondata da Aristippo, quella cinica fondata da Antistene e quella di Elide-Eretria fondata da Fedone. Il dibattito tra le diverse correnti socratiche caratterizza tutto il IV secolo a.C. e dalla metà del III secolo a.C. in poi solo il cinismo e l’Accademia platonica restano sostanzialmente attive.
La peculiarità della figura di Socrate si mostra nel fatto che è impossibile riprodurla nella sua funzione all’interno della storia della filosofia. La filosofia può – forse deve – sempre ricominciare da Socrate: non può replicarlo.
Messosi in scena come iniziatore assoluto, Socrate è destinato a essere tradito, nel senso che dopo quest’inizio non sarà più possibile fare filosofia come lui. Socrate non assume il ruolo di maestro e dopo di lui ci saranno scuole. Socrate rende migliori tutti coloro che lo desiderano (Senofonte, Mem. I.2.61) e dopo di lui ci saranno onorari e selezione dei discenti. Socrate è integralmente dedito alla parola dialogica e dopo di lui c’è una profusione di letteratura socratica. Socrate proclama di nulla sapere e dopo di lui ci saranno dottrine, saperi, trasmissione di contenuti. Socrate interroga e i filosofi dopo di lui impartiranno insegnamenti, per di più in netta contrapposizione fra loro. Cionondimeno, Socrate è un fattore di unificazione della tradizione filosofica occidentale. “Siccome Socrate ebbe numerosi discepoli, che svilupparono chi in un senso, chi in un altro le diverse, opposte e ampie indagini del maestro, ebbero origine, per dir così, delle famiglie filosofiche discordi tra di loro, molto lontane e diverse una dall’altra, per quanto tutti quei filosofi amassero di essere chiamati ‘socratici’ e credessero di essere i veri continuatori di Socrate” (Cicerone, De or. III.16.61, trad. Norcio). Di fatto quasi tutti i pensatori successivi (salvo Epicuro, che a sua volta si mette in scena come iniziatore) si richiamano esplicitamente a lui; vi è anche l’ipotesi (Donald Dudley) che gli stoici abbiano fabbricato la propria discendenza da Antistene, proprio al fine di socratizzare le proprie origini. La nozione stessa di scuola socratica è dunque un paradosso, ma senza di esso non esisterebbe la filosofia europea.
Tra i compagni di Socrate il solo Eschine di Sfetto ne segue l’esempio e rifiuta di tenere scuola; e se alcuni di essi (Euclide, Fedone) danno vita forse a circoli di amici che s’incontrano irregolarmente, per altri (Aristippo) si tratta di attività a pagamento e, almeno nel caso di Platone, di una vera e propria istituzione d’istruzione superiore, come quelle che caratterizzeranno l’età ellenistica. È vero che tali scuole manterranno quel carattere su cui la storiografia recente (Pierre Hadot) spesso insiste in relazione a tutta la filosofia antica: cioè di non essere tanto correnti di pensiero, quanto comunità che praticano un certo genere di vita. Tuttavia il loro spazio non sarà più quello aperto e destrutturato dell’agorà, della palestra, della strada: avranno sedi stabili, di solito decentrate, fisicamente separate dalla città e dal suo pulsare politico. Forse proprio la fine di Socrate aveva reso evidente quanto potesse essere pericoloso per i filosofi parlare coram populo, senza precauzioni (malgrado vari processi, mai c’era stata una condanna a morte eseguita). Così la filosofia sente il bisogno di darsi una sorta di demarcazione protettiva, che comporta una forma di esclusione. Il discorso filosofico si fa in primo luogo in un interno, uno spazio rassicurante, con una propria disciplina, con rapporti gerarchici e ritualizzati: non durante una nottata di libagioni come nel Simposio platonico; non nelle case dei mecenati come nel Protagora; e non certo nel pieno della vita pubblica. A volte si utilizzano spazi di riunione aperti (palestre, porticati: ma anche la Stoà o il Giardino di Epicuro sono luoghi idealmente e fisicamente appartati), ma il tipo d’insegnamento è privato e perciò può rivolgersi a un uditorio preparato, selezionato, a un pubblico che è lì per quello scopo, per dedicarsi alla filosofia come attività propria di spiriti liberi. È questo il modello culturale della scholé, dell’ozio filosofico, attività appartata e disinteressata, che il cinismo contesta aggressivamente – Diogene definiva “bile” (cholé) la scholé di Euclide (Diog. Laert. VI. 24) – ma che Aristotele teorizzerà come presupposto necessario per l’acquisizione della conoscenza e che alla fine conquisterà il campo.
Tutto ciò indica un diverso rapporto con la città e la politica. Il “sogno” di Socrate, quello di un contatto diretto e senza mediazioni tra filosofo e città (il filosofo che si fa educatore dei cittadini in quanto soggetti politici), è finito: d’ora in poi la filosofia sarà sì in rapporto con lo stato e la società, ma da istituzione a istituzione. La scuola filosofica si propone come struttura in grado di fornire alla città un servizio di formazione delle élite; e in ciò deve ancora scontrarsi con l’eterna concorrenza della retorica.
Il contesto storico non è ovviamente estraneo all’istituzionalizzazione della filosofia. Anche prima dell’entrata di Atene nell’orbita macedone e della formazione del mondo ellenistico, la discendenza socratica viene a operare in una situazione che necessariamente non è più quella del V secolo a.C. Naturalmente la costituzione clisteniana, con qualche riforma, resta in vigore ancora a lungo. Tuttavia si può certo parlare, se non d’un crollo, almeno di un declino graduale del sistema della cittadinanza democratica. Che la sconfitta d’Atene sia la sconfitta del modello democratico è già chiaro all’epoca; e anche se la polis ateniese resta vitale, il modello ha cessato di essere di riferimento nello spazio greco. La generazione immediatamente successiva a Socrate si colloca in questo clima di crisi e conflittualità, a cui reagisce in forme molto diverse, ma mantenendo un sostanziale distacco dalla politica. Alcune di queste scuole, poi, hanno uno sviluppo che si estende all’età ellenistica e romano-imperiale, venendo così a confrontarsi con un clima in cui la partecipazione politica si ridefinisce: il potere potrà sì aver di mira il bene dell’individuo, ma non sarà esercitato da esso. Vi è senza dubbio uno scollamento tra l’individuo e le istituzioni, che il potere cerca di colmare coi metodi eterni di questo tipo di regimi: carisma, propaganda, elargizioni (evergetismo), ritualità religiose (divinizzazione del sovrano, sul modello orientale).
Non a caso, tra i postsocratici, solo i platonici continuano a coltivare interesse per la politica, ma – almeno dopo la fallimentare esperienza siracusana di Platone – nella forma distaccata dell’ingegneria costituzionale e dell’idealizzazione utopico-progettuale. L’atteggiamento morale prevalente è in sostanza quello di un nuovo individualismo, magari accompagnato da un sentimento di fratellanza universale: il cinico Diogene si dice cittadino del mondo, kosmopolites. Il perimetro della città è scavalcato, si passa direttamente dal singolo alla totalità. La comunità politica autoistituita non è più un orizzonte di senso per l’individuo: la fratellanza ha casomai radici naturali, si richiama all’appartenenza al genere umano e non a un gruppo deliberatamente fondato su nomoi condivisi. D’altronde, non necessariamente gli stati dinastici sono totalitari (certo vi sono casi di dispotismo: ma ciò dipende dalla personalità del monarca, non dal sistema).
Proprio perché, a differenza della polis, non richiede al suddito la partecipazione né l’adesione convinta a un insieme di valori, ma soltanto l’obbedienza formale, un potere monarchico può consentire qualche libertà nella sfera individuale e negli stili di vita. Paradossalmente c’è meno controllo sociale: così cinici e cirenaici si permettono comportamenti di chiaro anticonformismo, si sentono liberi di coltivare la propria personalità e sperimentare la propria via alla saggezza. Libertà nei comportamenti ma anche nei contenuti: ora c’è chi si dichiara francamente ateo (il cirenaico Teodoro, detto l’Ateo, fu sull’orlo di subire un processo per asebeia, ma pare averlo evitato), o incita apertamente al suicidio (un altro cirenaico è detto “persuasore di morte”), o predica l’uguaglianza tra i sessi e critica la schiavitù. Simili idee, che forse la città democratica avrebbe mal sopportato, ormai non fanno più paura, non sono più un affronto all’orizzonte di valori che sta a fondamento della comunità: sono soltanto idee, sia pure associate a pratiche che vogliono essere socialmente scioccanti, come quelle del cinismo. La parrhesia, la libertà di parola che Diogene si permette di fronte ad Alessandro, è una pratica sociale ammessa, che ha regole definite e non comporta conseguenze sul piano degli equilibri di potere.
Come la maggior parte della produzione letteraria antica, le opere dei socratici minori sono quasi completamente perdute. Le fonti che abbiamo per la conoscenza di questi filosofi sono soprattutto dossografiche e aneddotico-biografiche, ed entrambi i tipi di notizie sono in gran parte concentrati in Diogene Laerzio, in Stobeo.
Il genere letterario più praticato è naturalmente il logos sokratikos, il dialogo con protagonista Socrate e ispirato a ciò che l’autore ha appreso o ricavato dal contatto col capostipite. Letteratura fiorente, ma di cui resta ben poco oltre ai dialoghi platonici. Oltre ai titoli elencati da Diogene Laerzio e ai frammenti conservati qua e là, che solo in qualche caso ci permettono di ricostruire plausibilmente un’opera, rimangono solo scritti o epitomi riferibili al movimento cinico, ma appartenenti a generazioni relativamente tarde (come gli scritti di Telete, della prima metà del III sec. a.C., o le orazioni di Dione di Prusa, 40 ca.
È vero d’altronde che le fonti aneddotiche potrebbero essere un tipo di letteratura particolarmente adatta a movimenti come il cinismo, notoriamente centrati sulla stilizzazione di una forma di vita, sull’assunzione di un modo di condursi e di presentarsi, se non addirittura di un look. Mentre certamente il mondo filosofico dei megarici appare più intellettualizzato, l’azione, il tratto, la personalità esemplare sono la vera sostanza del cinismo e in fondo anche del cirenaismo. Forse anzi questa è una delle radici del successo di queste scuole: l’apparato teorico abbastanza ridotto, la semplicità del messaggio, che risulta comunicabile attraverso il discorso conciso e il gesto. Niente di meglio allora, come mezzo di disseminazione, delle raccolte di chreiai, piccole storie con una morale, una massima o un bon mot finale.
Alcune delle correnti procedenti da Socrate sono avvolte nel mistero per esiguità di fonti. Pochissimo si sa della scuola fondata a Elide da Fedone, così come di lui stesso, tradizionalmente considerato tra i più giovani membri del gruppo, e narratore dell’omonimo dialogo platonico. La biografia rocambolesca che ne dà Diogene Laerzio è da considerare dubbia. Varie fonti antiche lodano la qualità letteraria dei suoi dialoghi socratici (Zopiro, Simone), in cui si elaborava il tema socratico della ricerca filosofica come terapeutica dell’anima, probabilmente in una certa consonanza con Antistene. Due generazioni dopo, la scuola sarà trasferita a Eretria da Menedemo, che non lascerà opere e si dedicherà soprattutto all’eristica (la dialettica volta non alla dimostrazione quanto alla confutazione e alla disputa) e alla logica, sostenendo la tesi che l’unica predicazione ammissibile è quella identica (l’uomo è uomo).
Un poco più nota è la scuola fondata a Megara da Euclide, forse prima della morte di Socrate (il che spiegherebbe perché Platone e altri socratici riparino in quella città dopo il processo). La tradizione che lo vuole antico discepolo di Parmenide è oggi messa in dubbio, mentre resiste l’interpretazione delle sue dottrine come prossime a quelle eleatiche, principalmente sulla base della tesi, attribuitagli da Diogene Laerzio (II.106), per cui il bene è uno e i non-beni non hanno esistenza. I megarici sarebbero allora l’ala “metafisica” nella discendenza socratica; più precisamente sosterrebbero una metafisica attualista che, secondo la lettura di Aristotele, nega la potenza e pertanto il movimento e il divenire. È certa comunque la persistente influenza socratica su Euclide e la sua scuola, come attesta la stessa focalizzazione sul bene e sul suo carattere permanente e universale.
I successori di Euclide si concentrano in particolare sulla dialettica, sviluppandola in senso eristico e formulando alcuni “paradossi” tra i più conosciuti già nel mondo antico, come il “Cornuto” (ognuno possiede ciò che non ha perso; ma tu non hai perso le corna, dunque hai le corna) e il “Mentitore” (se affermo che quanto sto dicendo è falso, dico il vero o il falso?). Diodoro Crono si dedica allo studio delle modalità e formula la famosa definizione del possibile come “ciò che è o sarà”. La problematica etica sarà ripresa da Stilpone, con accenti che risultano affini al cinismo e precorrono lo stoicismo (tanto Cratete quanto Zenone di Cizio sarebbero stati suoi allievi).
Le scuole cirenaica e cinica, su cui abbiamo maggiori informazioni, riprendono da Socrate la problematica della felicità e dell’eu zen, della buona vita, sviluppandola in maniera divergente ma caratterizzata in ambo i casi dalla definizione di uno stile più che di una dottrina. Che si tratti dell’edonismo, quasi dandysmo ante litteram, di Aristippo o dell’ascesi antisociale di Diogene, la costruzione della propria biografia è insieme opera d’arte e lavoro filosofico. Entrambi cioè realizzano le loro premesse etiche attraverso una strategia estetica: raffigurando il proprio ideale di saggezza più che teorizzandolo.
Aristippo di Cirene, trasferitosi ad Atene (forse nel 416 a.C.) per ascoltare Socrate, fonda una scuola che dura circa un secolo, due se si contano le propaggini, che nelle fonti antiche prendono talvolta il nome dai capiscuola: scuola annicerica, teodorea, egesica. Ciò suggerisce una certa mancanza di continuità e probabilmente un approccio piuttosto centrato sul carisma del leader. Nella storiografia Aristippo viene talvolta indicato come rampollo di famiglia facoltosa, il che potrebbe essere una malignità di fonti ostili; tra l’altro Diogene Laerzio (II.65) registra, cosa non del tutto consueta, l’avversione che Aristippo suscita in altri autori (Platone, Senofonte, Teodoro). Ciò è da mettere in rapporto con l’edonismo teorico concordemente attribuito ai cirenaici (non sempre a Aristippo stesso): identificazione del bene con l’utile e dell’utile col piacere, la cui ricerca è fine della vita e motivazione principale delle azioni umane. Dottrina che molti autori, specie di marca stoica e poi cristiana, aborrono, contrapponendola retoricamente all’idealizzazione della virtù attribuita a Antistene (per esempio Agostino, Civ. Dei VIII.3).
Di certo Aristippo è dipinto come personaggio raffinato quanto superficiale; c’è un tratto quasi d’indolenza nella sua figura: “Godeva il piacere dei beni presenti, ma rinunziava ad affaticarsi per il godimento di beni non presenti” (Diog. Laert. II.66). Una nonchalance che indica forse un ideale più profondo, il rifiuto di un modo di vivere fondato sul conflitto e la competizione secondo il tradizionale agonismo greco. È significativo un brano di Senofonte (Mem. II.1.8-11) in cui Aristippo si professa estraneo alla politica intesa come ricerca del potere: non vuol comandare né esser comandato (ricordando che archein e archesthai sono le due prestazioni che definiscono il ruolo del cittadino e ciò che gli è richiesto), ma persegue una sua “via di mezzo” improntata alla ricerca della libertà.
D’altronde la riflessione etica cirenaica è tutt’altro che ingenua, essendo associata a una teorizzazione epistemologica assai sviluppata e centrata su un fenomenismo e un soggettivismo affine a quello di Protagora. Ognuno conosce unicamente il contenuto della propria percezione attuale, mentre il mondo esterno è propriamente inconoscibile, così come le esperienze altrui. Ogni esperienza è veicolo soltanto di se stessa e ogni estensione del giudizio al di là di essa è priva di garanzia epistemica. Così il darsi pena per il futuro, necessariamente incerto, è tutt’altro che prudente: anche il soppesamento dei piaceri immediati e prevedibili, difeso da Socrate nel Protagora, è strategia quantomeno dubbia e si fonda sulla premessa epistemologicamente falsa che ciò che ora appare desiderabile lo sia intrinsecamente e debba continuare ad apparire tale.
Per il saggio cirenaico è dunque essenziale mantenere l’indipendenza (autarkeia) e la capacità di giudicare di volta in volta sulla base della propria esperienza sensibile. Tuttavia il cirenaico non è un ribelle né un emarginato, anzi socializza volentieri (“A chi gli chiese qual vantaggio avesse tratto dalla filosofia, rispose: ‘La possibilità di trovarmi a mio agio con tutti’”, Diog. Laert. II.68). In questo edonismo rigoroso, non c’è ragione di esercitare l’autodominio, virtù suprema del cinismo, se non in quanto serva a coltivare i piaceri. L’uso dei piaceri infatti dev’esser tale da non assorbire tutto l’individuo e lasciargli così libertà di scelta: “Una volta entrò nella casa di un’etera e, poiché uno dei giovanotti che erano con lui arrossì, egli disse: ‘Non l’entrare è turpe, ma il non saperne uscire’” (Diog. Laert. II.69). Ancor più chiara è la demarcazione rispetto all’epicureismo, di cui i cirenaici rifiuteranno la tesi del piacere come assenza di dolore, definendola polemicamente la condizione di un cadavere. Il piacere è innanzitutto piacere positivo, attuale e sensuale; questo è l’unico contenuto della felicità, intesa come somma dei piaceri di tutta una vita.
Di origine tracia, ex-allievo di Gorgia, Antistene sarà poi particolarmente vicino a Socrate; è probabile che certe aspre notazioni di Platone siano dirette contro di lui nel quadro di una rivalità per l’eredità socratica. Uno dei falsi problemi più dibattuti dalla critica è se Antistene sia effettivamente da considerare un cinico o ancora un socratico. In realtà Antistene sta bene dove sta, cioè tra Socrate e Diogene: è certo un socratico, ma ciò non impedisce che sia anche protocinico, nella misura in cui il cinismo è anzitutto un’interpretazione intransigente ed estrema del socratismo. Certo di quest’ultimo assume meno il carattere aporetico che l’appello alla cura dell’anima e alla purezza morale. In generale i cinici non sono maieuti: anzi sempre più nel corso dei secoli la loro attività si presenta come una predicazione (non a caso non c’è maieutica nel Socrate senofonteo, notoriamente influenzato da Antistene). L’attrezzatura concettuale, del resto abbastanza ridotta, è già quasi tutta in Antistene: rifiuto delle istituzioni, delle convenzioni sociali e persino del sapere, perseguimento della felicità mediante estinzione dei desideri, identificazione della virtù con la vita secondo natura, idealizzazione della lotta personale e dell’ascesi come strategia di enkrateia (autodominio, possesso di sé; si veda il culto cinico di Eracle, l’eroe errabondo e sofferente, la cui forza proverbiale si esercita in primo luogo su di sé).
Peraltro Antistene conserva un aspetto severo e rispettabile, completamente spazzato via invece dal suo discepolo Diogene, il Cane per eccellenza (kyon, da cui il nome della scuola, forse un gioco sul nome del Cinosarge, la palestra in cui insegnava Antistene). Proveniente da Sinope, sul Mar Nero (rotta commerciale tra Grecia e India, un dato che qualcuno ha considerato rilevante per i possibili influssi orientali), forse in fuga dopo una condanna come falsario, Diogene farà dell’“alterare la moneta” (nomisma, che vale anche “legge”) il proprio slogan. Se Antistene dichiarava nulle le convenzioni sociali, Diogene esibisce tale nullità nella propria condotta, nella propria vita randagia, praticando sistematicamente la sfrontatezza (anaideia) e istituendo un mondo alla rovescia immortalato in innumerevoli aneddoti: si profuma i piedi anziché la testa, cammina all’indietro, mangia carne cruda, vuol essere sepolto a faccia in giù, entra a teatro quando gli altri escono; esibisce le proprie funzioni corporee, facendo in pubblico quanto gli altri fanno di nascosto; quando lo invitano a pranzo, pretende d’esser ringraziato; e, fatto schiavo, si propone ai compratori come padrone. Strategia di rovesciamento che è da intendere come una sorta di test: tutto ciò che può essere capovolto non è “secondo natura”, quindi è invenzione umana, dunque posticcio e inautentico. Persino tabù come l’incesto non sono che norme convenzionali: altri popoli, osserva Diogene, lo praticano comunemente. Ciò significa che per i cinici in realtà il mondo è già alla rovescia: Diogene si stupisce che cose inutili come le statue siano tanto costose, mentre quelle più utili come la farina si vendono per poco (Diog. Laert. VI.35). Il capovolgimento cinico è quindi un ripristino dei veri valori, quelli naturali.
Seguaci di Diogene sono Cratete e la moglie Ipparchia. Qui si fa luce una diversa interpretazione delle premesse ciniche, perché Cratete è il volto sorridente del cinismo, che assume in lui un aspetto più filantropico; non a caso lo stoicismo discende da lui. Stobeo riferisce una sua risposta alla domanda su quale sia il vantaggio della filosofia: “Potrai aprire la borsa più facilmente e metter dentro la mano per distribuire il contenuto agli altri”. Stando a Diogene Laerzio (VI.87), era di famiglia ricca, ma vendette tutto e lo distribuì al popolo (non è l’unico tratto cinico che rimandi al cristianesimo: si pensi alla predicazione missionaria, alla mendicità, all’autoidentificazione come portatori di un servizio alla comunità. Nel IV secolo avremo anche il caso di un vescovo cinico, Massimo di Alessandria).
Dopo queste prime grandi figure, il movimento, pur senza scomparire, subisce un appannamento, anche se nel frattempo la Stoa ne riprende molti temi e atteggiamenti. Ma in epoca imperiale c’è una seconda stagione del cinismo, che arriva a rivaleggiare o quantomeno a scorrere parallelo alla progressiva diffusione del cristianesimo. Certo in questo revival vengono accentuati i tratti di teatralità, di messinscena, il che provoca la reazione di intellettuali nostalgici del cinismo originario, puro e disinteressato (l’imperatore Giuliano scrive un’orazione Contro i cinici volgari, il poeta Luciano li sferza nelle sue satire). Tuttavia va tenuto presente che la platealità è intrinseca al cinismo, che ha sempre bisogno di un pubblico: il suo insegnamento è spesso affidato al gesto appariscente, alla provocazione, alla bravata insolente. Non a caso Diogene non ha privacy: vive nella botte, non ha uno spazio riservato in cui ritirarsi e in cui potrebbe magari fare il contrario di ciò che predica. Identificarsi col proprio gesto, rinunciare a un’identità privata per assumerne una totalmente “filosofica”: anche questa è una forma dell’ascesi cinica. E la costruzione della biografia arriva a includere anche la messa in scena della morte: forse il culmine del cinismo d’età imperiale è il suicidio di Peregrino, un ex-cristiano passato al cinismo, che si dà fuoco pubblicamente nel 167 durante le solennità olimpiche.