FOSCARINI, Sebastiano
Primogenito dei sei figli di Alvise del procuratore Nicolò e di Chiara Nani di Giovanni, nacque a Venezia nella parrocchia di S. Stae il 14 genn. 1718. La figura paterna non ebbe troppa influenza nella formazione del F., che risentì piuttosto della ricca personalità dello zio Marco, letterato, cavaliere, procuratore e infine doge: fu lui infatti a curarne l'educazione, a portarlo con sé, ancora giovinetto, nelle ambascerie di Roma (1737-40) e di Torino (1741-42); un più disinvolto precettore trovò inoltre nel francescano Carlo Lodoli, del cui gruppo fece parte, assieme ai più vivaci ingegni della Venezia dei primi decenni del secolo, quali Andrea Memmo e Giacomo Casanova.
Intraprese presto la carriera politica: il 10 giugno 1744 il F. entrò savio agli Ordini per poco più di un trimestre, sino alla fine di settembre; quindi riottenne la carica l'anno successivo, per il periodo aprile-settembre, dopodiché (6 ott. 1745) fu nominato provveditore sopra gli Offici per dodici mesi, e poi provveditore alle Pompe dal 29 giugno 1747 sino alla fine dell'anno. Nel 1748 passò poi savio di Terraferma, incarico che avrebbe ricoperto per quasi un decennio fino al 1756, sempre nel secondo semestre, fuorché per gli anni 1749 e 1750, quando gli fu affidato il periodo aprile-settembre. A interrompere il corso di questa routine puntualmente rinnovantesi sopraggiunse, il 14 marzo 1751, l'elezione alla podesteria veronese: in pratica, l'occasione di imprimere un'accelerazione decisiva alla carriera. Chiese invece, e ottenne, l'esenzione, adducendo quale scusa le doti provvedute alle sorelle Maria e Caterina, e il costoso trasloco - proprio allora in atto - dall'avita dimora di S. Stae al palazzo ai Carmini, pervenuto con altri beni a questo ramo della famiglia in seguito alla morte del procuratore Pietro Foscarini. Questa fortunata eredità avrebbe consentito a Marco di conseguire la dignità ducale (1762), ma avrebbe anche finito col sottoporre la famiglia a una quantità di impegni politico-mondani tale da comprometterne per sempre l'organizzazione economica e, quindi, il patrimonio.
La rinuncia del F. al rettorato di Verona assume dunque il significato d'un atto di obbedienza alle regole della "ragion familiare"; pertanto si trovava ancora savio di Terraferma quando una ducale del 9 dic. 1752 lo incaricava di "riferire qual metodo attualmente si osservi nella gelosa incombenza del licenziamento dei brevi o altre carte ecclesiastiche…, e quali siano le leggi nel proposito". Era, in sostanza, il tentativo di esercitare un più stretto controllo sulle richieste inoltrate dai sudditi alla S. Sede, quale ritorsione verso il papa che, un anno prima, aveva portato a termine l'abolizione dell'antico patriarcato di Aquileia, per compiacere Maria Teresa, uscita vittoriosa dalla guerra di successione.
Il F. sfruttò al meglio l'occasione, trasformando quella che doveva essere una semplice informazione documentaria in una violenta presa di posizione antiromana: con l'aiuto del consultore in iure Antonio di Montegnacco, egli rispondeva alla commissione ducale il 15 luglio 1753 mediante una scrittura tutta imbevuta dei principî del regalismo. Ne uscì il decreto del 7 sett. 1754, gravemente lesivo delle prerogative della S. Sede, che ebbe per protagonista proprio il F. e che sarebbe stato abolito solo quattro anni più tardi, in seguito alla morte di Benedetto XIV e all'elevazione al soglio pontificio del veneziano Carlo Rezzonico (Clemente XIII).
La revoca del decreto si verificò quando il F. s'era da poco allontanato da Venezia per assumere il rango di ambasciatore in Spagna, cui era stato eletto sin dal 22 apr. 1757. L'anno precedente, il 5 giugno 1756 aveva sposato Bianca Contarini, con la quale ebbe due figli, entrambi di nome Giacomo: il primo morì in tenera età, il secondo, nato il 17 sett. 1768, condusse un'esistenza segnata da scandali e dissipazioni, per cui venne anche relegato dagli inquisitori di Stato nel castello di Brescia.
Il F. lasciò Venezia verso la metà di giugno del 1758, ma non si recò subito in Spagna. Da Torino si diresse anzitutto a Parigi, per annunciare ufficialmente al re di Francia l'avvenuta sospensione del decreto del 7 sett. 1754, sicché giunse nella sua sede il 19 settembre, trovando la corte nel lutto per la recente scomparsa della regina, che aveva lasciato Ferdinando VI in una profonda crisi ipocondriaca, al punto che - nonostante la guerra allora in corso - questi non aveva trovato di meglio che recarsi nella residenza di Villaviciosa, circondato da poche persone.
In questa situazione il F. confessava al Senato di sentirsi "affatto inutile al pubblico servitio", data la forzata inattività cui era costretto; qualche mese più tardi, tuttavia, le notizie che giungevano dal Portogallo (dove la Repubblica non aveva sede diplomatica) gli fornirono finalmente il destro di poter colorire alquanto il grigiore dei suoi dispacci. In un primo momento il F. espresse una cauta adesione alla politica di S. Pombal contro i gesuiti, salvo poi prenderne decisamente le distanze quando l'ondata giurisdizionalista ebbe punte estreme di durezza, talché il processo e l'esecuzione del padre G. Malagrida divennero per lui "oggetto degno di compassione".
Positivo invece il suo giudizio sui provvedimenti intrapresi dal nuovo re di Spagna Carlo III; nonostante l'attività riformatrice del sovrano fosse allora agli inizi e venisse presto turbata dalle preoccupazioni della guerra, il F. mostrò di apprezzare quel cauto riformismo e soprattutto lo spirito che ne era alla base, il quale non risentiva dell'astrattezza e della uniforme rigidità che rendevano, per un veneziano, quasi rivoluzionaria l'azione dei principi illuminati. Poi, l'entrata in guerra della Spagna (che sino all'ultimo il F. non aveva assolutamente previsto) fece spostare l'attenzione del diplomatico sulle ostilità con il vicino Portogallo, ma per pochi mesi: il 31 maggio 1762 lo zio Marco era eletto doge e il F. subito richiamato in patria.
La famiglia giungeva così all'apice del prestigio, ma nel contempo - come si è accennato - vedeva irreparabilmente compromessa la sua solidità economica, a causa del duplice impegno cui era chiamata a far fronte. Nell'autunno 1762 il F. era a Venezia per ricevere le insegne del cavalierato, quindi fu eletto savio del Consiglio nel primo semestre del 1763, carica che avrebbe ricoperto per ben quindici volte, fino al 1780, con la sola esclusione degli anni 1764, 1778, 1779. La precoce scomparsa del doge Marco (31 marzo 1763) assegnò al F. l'eredità morale di guida della famiglia e di protagonista della vita politica veneziana; funzione, quest'ultima, che fu contrassegnata da un'assidua presenza nelle massime magistrature della Repubblica, nei restanti sei mesi che il saviato del Consiglio gli lasciava a disposizione. Egli fu spesso accanto al Memmo (ad esempio nel 1772, durante la tentata riforma delle arti) e ad Andrea Tron, ma - rispetto a quest'ultimo - in una posizione più moderata: l'intransigente giurisdizionalismo degli anni giovanili andò infatti sempre più stemperandosi, fino a portarlo su posizioni d'un cattolicesimo filocuriale; né condivise, del Tron, l'atteggiamento antisemitico, pronunciandosi anzi, nel 1777, contro le limitazioni economiche imposte allora agli ebrei. Per quanto riguarda infine la politica estera, nel 1764 si schierò a favore del progetto filorusso propugnato da Francesco Lorenzo Morosini, forse per controbilanciare la preponderanza austriaca: ma non per questo gli si debbono accreditare velleità antiasburgiche, visto che il F. avrebbe concluso la sua carriera proprio come rappresentante della Repubblica alla corte di Vienna, dove l'aveva preceduto il fratello Nicolò.
L'aspetto qualificante dell'impegno politico del F. non va tuttavia ricercato nella sua condotta diplomatica o nell'azione perseguita tra i savi del Consiglio, quanto nell'attivismo dispiegato per molti anni nel settore dell'istruzione pubblica. Egli infatti ricoprì a più riprese la carica di riformatore dello Studio di Padova, cui era attribuito il controllo della cultura ufficiale della Repubblica: fece parte del magistrato dal 2 sett. 1769 al 1° sett. 1771, dal 18 sett. 1773 al 17 sett. 1775, dal 2 giugno 1779 al 1° giugno 1781.
Il decennio tra il 1770 e il 1780 vide appunto realizzarsi quella che fu probabilmente la più importante e significativa innovazione tentata dalla Serenissima nell'età dell'illuminismo, voluta dal F. e da un gruppo di influenti senatori ch'egli ebbe accanto a sé. Costoro infatti intesero affidare al rinnovamento dell'istruzione pubblica le possibilità di una ripresa della Repubblica: priva di strutture accentrate, essa avrebbe potuto sopravvivere solo per mezzo di un nucleo burocratico efficiente, quale il modello dell'assolutismo asburgico andava proponendo.
Con la relazione del 18 sett. 1770 il F. e i suoi colleghi affrontavano alla base l'intero problema. Questo testo ricalcava due scritture presentate al magistrato da Gaspare Gozzi (che, occorre ricordare, era intimo del F., avendo a lungo collaborato con lo zio Marco alla stesura della Letteratura veneziana) e prendeva in esame l'intero apparato educativo dello Stato, tanto nel settore pubblico che privato. Negli anni che seguirono venne così attuata una completa riforma delle scuole veneziane, elementari e superiori e, a Padova, di alcune strutture universitarie. In tutte queste iniziative il F. fu presente, ma non è facile - e forse neppure possibile - distinguere la sua azione da quella dei due colleghi con i quali collaborò. Di sicuro però è da ascriversi alla sua opera la ristrutturazione dei collegi universitari padovani, che versavano in stato di grave abbandono, trovandosi gestiti da commissarie talora plurisecolari. La relazione del 18 sett. 1770 aveva posto sotto accusa il sistema educativo vigente, nel quale i riformatori dichiaravano non esserci "che poco o nulla di buono", consumandovisi il tempo "in una perpetua grammatica latina…, in uno studio di vocaboli e precetti che non servono mai all'uso della vita comune"; soprattutto esso non serviva "a formar ingegni per un governo". Di qui, su richiesta del F., vi fu una visita ufficiale dei riformatori (con lui, il Tron e Sebastiano Giustinian) allo Studio patavino, l'8 apr. 1771, perché "di lontano non si possono perfettamente conoscere tutti i disordini"; ne derivò l'incarico al F. di stendere una relazione sui collegi di Padova, per la quale egli ricorse nuovamente alla collaborazione del Gozzi.
Il F. lavorò due anni (dal 1771 al 1773) alla riorganizzazione dei quindici istituti esistenti; dopo una serie di soppressioni e accorpamenti, le sue fatiche pervennero alla creazione di un collegio statale, detto di S. Marco, in grado di ospitare oltre cinquanta convittori, i cui statuti furono stesi dallo stesso F. e approvati dal Senato con un decreto del 27 ag. 1772.
Questa realizzazione è quanto di più importante rimane dell'attività del F., anche se in essa non si esaurì la sua carriera politica: il 20 dic. 1780 era infatti eletto ambasciatore a Vienna, dove giunse quasi un anno dopo, il 20 ott. 1781. I rapporti fra i due Stati erano ufficialmente improntati a cordiale amicizia, sicché il F. si occupò soprattutto di rendere omaggio a Pio VI nella sua permanenza viennese e, all'incirca nello stesso periodo, predisporre la visita che i granduchi di Russia fecero a Venezia nel maggio 1782, quale premessa per l'allacciamento di una stabile rappresentanza diplomatica, che fu lo stesso F. a perfezionare nei colloqui ch'ebbe col collega russo, principe D.M. Golicyn.
Quando ormai l'incarico volgeva al termine, la morte improvvisamente lo colse a Vienna il 23 apr. 1785.
Da un anno il F. aveva come segretario particolare il Casanova, che ne raccontò la morte nel suo Précis de ma vie. Questi era stato assunto un poco per aiutare il vecchio compagno d'un tempo, un poco per poter vantare l'intimità con un uomo che tanto aveva fatto parlare di sé e forse - ma in questo caso la cautela è d'obbligo - anche per la sua aderenza alla massoneria, impiegata da Giuseppe II come strumento di pressione verso alcuni paesi confinanti, quali la Baviera e la Repubblica di Venezia. E quando, dopo una lunga fase di tolleranza, questi due Stati decisero quasi contemporaneamente la repressione della setta (e le logge venete vennero chiuse nei primi giorni di maggio del 1785), Casanova teneva i rapporti tra i "fratelli" veneziani e quelli austriaci, mentre il F., se ancora non apparteneva alla società, certo era a essa molto vicino (Trentafonte, Giurisdizionalismo…, 1984).
Il corpo del F. - morto due settimane avanti la soppressione delle logge - in un primo tempo fu sepolto nel cimitero della chiesa di S. Michele a Vienna e, solo l'8 giugno, fu consegnato alla famiglia per essere trasportato a Venezia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, III, c. 542; Avogaria di Comun. Libro d'oro. Matrimoni, reg. 95/VIII, c. 114r; Provveditori alla Sanità. Necrologi, reg. 972, sub 30 giugno 1785. Sulla carriera politica: Segretario alle Voci. Elezioni Maggior Consiglio, reg. 28, cc. 54, 87, 192; Segretario alle Voci. Elezioni Pregadi, regg. 23, cc. 14-17, 22, 25, 26, 49; 24, cc. 5 s., 12, 22, 51, 61, 74, 76, 80, 84, 86, 96, 105, 138; 25, cc. 3-6, 8, 35, 46 s., 72, 76, 82, 88, 116, 119 s., 126, 128, 141, 156, 162; Senato. Dispacci Spagna, ff. 169, nn. 164-179; 170; 171; 172; Inquisitori di Stato, b. 486: Dispacci dagli ambasciatori in Spagna, ad annos; Senato. Dispacci Germania, ff. 182, nn. 226-227; 283-286; 287, nn. 238-269; Riformatori allo Studio di Padova, ff. 37-39, 42 s. Alcune lettere di Marco al F. a Madrid, in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P.D., 209b: Lettere autografe di M. Foscarini al nipote S.; la testimonianza casanoviana è pubblicata in Lettere di donne a G. Casanova, a cura di A. Ravà, Milano 1912, p. 299. Cfr. inoltre: A.M. Bettanini, Benedetto XIV e la Repubblica di Venezia: storia delle trattative diplomatiche per la difesa dei diritti giurisdizionali ecclesiastici; decreto veneto 7 sett. 1754, Milano 1931, pp. 1-4, 7, 10, 15, 24-38, 171, 212, 227-247, 251; A.M. Alberti, Venezia e la Russia alla fine del secolo XVIII (1770-1785), in Archivio veneto, s. 5, XI (1932), pp. 298 s., 303-307; G. Gullino, S.F. e il decreto del Senato veneto 7 settembre 1754, ibid., XCII (1971), pp. 51-74; Id., Una riforma settecentesca della Serenissima: il collegio di S. Marco, in Studi veneziani, XIII (1971), pp. 515-586 passim; Id., La politica scolastica veneziana nell'età delle riforme, Venezia 1973, pp. 9, 14, 18, 27, 30, 46, 50, 66, 76, 79 s., 85, 104, 158; G. Tabacco, A. Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Udine 1980, pp. 57, 122 s., 166 ss., 183 s., 187; F. Trentafonte, Giurisdizionalismo, illuminismo e massoneria nel tramonto della Repubblica veneta, Venezia 1984, pp. 81 s., 85, 90, 170; R. Derosas, La crisi del patriziato come crisi del sistema familiare. I Foscarini ai Carmini nel secondo Settecento, in Studi veneti offerti a G. Cozzi, Venezia 1992, pp. 317-321, 324.