GIUSTINIAN, Sebastiano
Secondogenito di Marino di Alvise e Cassandra Gradenigo di Piero di Angelo, nacque a Venezia nel 1459. Il padre non aveva percorso una carriera politica particolarmente significativa (fu accusato di avere favorito il vescovo Lorenzo Zane, parente di sua moglie), ma seppe fornire ai figli - almeno cinque maschi, tre dei quali si sarebbero sposati - un'ottima educazione. Ne avrebbe approfittato in particolare il G., che conseguì a Padova il dottorato in artibus e sarebbe riuscito facondo oratore e apprezzato corrispondente di Erasmo da Rotterdam.
Forse, in gioventù, il G. esercitò anche la mercatura; certo i suoi esordi nel mondo della politica avvennero quando si avvicinava alla soglia dei trent'anni e furono modesti: il 20 apr. 1483 e poi ancora il 7 maggio 1486 fu eletto avvocato per le Corti, magistratura che presupponeva una buona conoscenza delle norme giuridiche. Sempre nel 1486, il G. sposò Lucia Agostini di Antonio, appartenente a una famiglia della borghesia che gestiva il più piccolo dei banchi privati veneziani; dalla moglie il G. avrebbe avuto due figli maschi: Marino e Giovan Battista.
Ancora di natura giudiziaria le successive cariche ricoperte dal G., che il 3 marzo 1490 entrò auditor delle Sentenze vecchie, per poi passare alle Nuove (3 nov. 1490). Giusto due anni dopo, il 3 nov. 1492, fu eletto podestà e provveditore a Romano, nel Bresciano, ma rifiutò; forse non si sentiva ancor pronto ad assumere un incarico amministrativo e preferì continuare a fare pratica nel settore giudiziario, dove raggiunse la nomina a camerlengo di Comun (26 maggio 1497).
Poi, la svolta: il 1° marzo 1498 fu eletto ambasciatore presso Massimiliano, re dei Romani. Era un incarico di assoluto prestigio; nella fattispecie, poi, si trattava di succedere al dottore e cavaliere Giorgio Pisani, uno dei più autorevoli senatori. Stavolta il G. accettò e "con gran contento per haver otenuto tal legatione molto disiata", commenta il Sanuto (I, col. 895), che per la vita del G. costituisce una fonte ricchissima. Certo, qualcosa doveva essere avvenuto nella vita del G. per spiegare questo suo nuovo atteggiamento; o forse, più semplicemente, giunto ormai alla piena maturità, riteneva che fosse il momento di giocare le proprie carte. Sennonché, la nomina non ebbe effetto, a causa del rapido deteriorarsi dei rapporti tra Venezia e l'Asburgo, e così il G. dovette ripiegare sull'elezione a provveditore sopra i Conti (6 luglio 1499), magistratura di recente istituzione che aveva principalmente il compito di rivedere le spese sostenute dai rappresentanti della Serenissima all'estero. Qualche mese dopo gli toccò però un'altra ambasceria: il 14 genn. 1500 accettò "libentissime" di recarsi presso Ladislao II Jagellone, re di Boemia e d'Ungheria, insieme con il collega Vettor Soranzo.
La Repubblica si trovava in guerra con il Turco (1499-1503), e aveva patito una dura umiliazione allo Zonchio, dove la flotta comandata da Antonio Grimani, pur superiore di numero, non era riuscita a difendere le fortezze sul golfo di Corinto. Donde, da un lato, il tentativo di ottenere la pace dal sultano; dall'altro gli sforzi per mettere in piedi l'ennesima lega antiottomana, sollecitando l'aiuto pontificio, francese e ungherese.
Lasciata Venezia il 20 febbr. 1500, qualche giorno dopo i due ambasciatori sbarcarono a Segna e il 2 aprile entrarono a Buda, accolti con grandi onori. Tre giorni dopo, il G. pronunciò dinanzi al re un'elegante orazione latina che fu data alle stampe. Buono e pio Ladislao, ma fiacco, indolente e spesso in balia delle fazioni nobiliari ed ecclesiastiche; fuori discussione, tuttavia, il suo desiderio di accedere alla lega, che nelle intenzioni veneziane doveva essere duplice: una generale che comprendesse tutti i collegati, e una particolare, concernente direttamente la Repubblica e l'Ungheria. Ai colloqui con gli inviati veneziani vennero deputati quattro oratori, tra i quali spiccava il potentissimo arcivescovo di Strigonia (Esztergom), Tommaso Bakacs d'Erdöd ("alter rex" lo definisce il G., in Sanuto, III, col. 239), personalmente favorevole all'intesa. La trattativa fu lunga e complessa, costringendo il G. a rimanere sulle sponde del Danubio per tre anni. L'importanza della missione è confermata dall'abbondanza di notizie lasciateci dal Sanuto. Tramontate ben presto le speranze di un concreto aiuto francese (i delegati di Luigi XII ammisero che "non hanno commission di offerir al re alcuna cossa" [ibid., III, col. 356], se non un generico appoggio), la sostanza della trattativa si risolse nella quantificazione dell'aiuto finanziario che la Signoria si sarebbe impegnata a versare a Ladislao per muovere contro gli Ottomani. Nel giugno 1500 gli Ungheresi chiesero un contributo annuo di 100.000 ducati, che i Veneziani abbassarono a 70.000 ("licet essi oratori havesseno libertà di prometer li ducati 100 milia, tamen non volseno", ibid., col. 566). Queste riserve erano motivate dal fatto che essi temevano che l'attacco promesso da Ladislao si sarebbe piuttosto rivolto a respingere i Tartari che minacciavano la Polonia, sul cui trono sedeva suo fratello Giovanni Alberto, anziché a guadagnare posizioni nei Balcani. La prudenza del G. e del collega non fu peraltro approvata dal Senato, a causa dell'andamento negativo della guerra marittima (il 4 sett. 1500 i Turchi conquistavano Modone) e del fallimento della missione esplorativa affidata al segretario Alvise Manenti, inviato a Costantinopoli. Nella fase più accesa del dibattito Alvise Molin, già savio del Consiglio, confrontò impietosamente la potenza ottomana con le reali forze veneziane: "Semo sorzi a par de un lion, rispetto al turcho" (ibid., col. 666) e accusò "l'indusia" degli ambasciatori. In realtà il G. da tempo operava da solo, poiché il Soranzo era caduto ammalato e di lì a poco sarebbe morto (15 nov. 1500).
La scomparsa del collega sopraggiunse quando il G. si trovava al campo, accanto al re: se ne tornò in fretta a Buda "con neve et pioze excessive […], convenendo passar il Danubio, qual era agiazato, e far taiar con manere" (ibid., col. 1177). Si spiega forse così la riluttanza ad assumersi integralmente la responsabilità di un accordo oneroso per la Repubblica e passibile di essere smentito dall'evolversi di una situazione segnata dall'incertezza. Premuta anche dalle accuse del legato pontificio a Buda, Gaspare Gulfi, la Signoria inviò un altro ambasciatore in Ungheria ad affiancare il G., nella persona dell'abile ed esperto Giorgio Pisani. Costui giunse a Buda nel febbraio 1501, con l'autorizzazione a elevare subito a 80.000 ducati l'aiuto a Ladislao. Si giunse in tal modo (13 maggio 1501) alla proclamazione di una vasta lega comprendente, oltre a Venezia, papa e Ungheria, anche Francia e Spagna. A frenare gli entusiasmi sopravvenne però (circa un mese dopo, il 17 giugno) la morte del re di Polonia, che di fatto ridusse l'offensiva balcanica a qualche scorreria affidata al "conte Josa" (Joseph Som, conte di Temes), più pronto a infierire su popolazioni inermi che ad affrontare truppe regolari: "per tutto dove corevano" scrive il G. in un dispaccio del 19 nov. 1501, "depredeno, brusando e usando crudeltà grandissima, impalando e rostendo quanti turchi prendevano […]. Hanno brusà più de terre 600, sono tutte bone ville, grosse" (ibid., IV, col. 187). Ma ormai tutto inclinava alla pace e il segretario Zaccaria Freschi fu inviato a Costantinopoli per gli accordi definitivi, che sarebbero stati siglati il 20 maggio 1503. A quella data anche nei Balcani era cessata la guerra: qualche mese prima il G. e il collega Giovanni Badoer, che aveva da poco sostituito il Pisani nell'incarico, avevano firmato per parte veneziana i capitoli della pace, pubblicata il 22 febbr. 1503. Tre giorni dopo il G. lasciò Buda con le insegne di cavaliere; a Venezia il 26 marzo leggeva la relazione, assai bella nel riassunto consegnatoci da Sanuto.
Oltre alla narrazione del suo operato e delle risorse del Paese, dell'amministrazione, della società, spicca il ritratto del re, che "dise assa' oration, alde tre messe al zorno", ma "in reliquis è come una statua […]; dà audientia a tutti, mai fè amazar niun, ma nel regno ha poca ubedientia, et è avaro; et conclusive à pocho inzegno, e più presto homo est rectus quam rex" (ibid., col. 860); ne segue il cattivo effetto che "non è temudo" dai propri sudditi, oltretutto di per sé "aspri homeni".
A Venezia il G. rimase solo qualche mese, poiché nel novembre dello stesso 1503 era già a Capodistria in qualità di podestà e capitano. Ai nostri occhi potrebbe sembrare riduttiva una tale nomina, che spostava il G. dalla scena internazionale agli angusti confini di un centro minore della periferia adriatica. Eppure, a ben guardare, vi era continuità con il precedente incarico, perché la cittadina veniva allora a trovarsi in un crocevia: da un lato il rettore doveva sorvegliare l'applicazione degli accordi veneto-ungheresi in merito alla soddisfazione dei danni recati dai Croati ai sudditi istriani e dalmati; dall'altro si trovava a essere un osservatore privilegiato delle mosse dell'imperatore Massimiliano I, sempre più ostile alla Repubblica, e che a Trieste poteva contare su un personaggio di notevole levatura quale fu il vescovo Pietro Bonomo.
Rimpatriato agli inizi del 1505, il 10 giugno il G. risultava eletto a un'altra ambasceria, proprio in Germania, presso Massimiliano, ma rifiutò. Qualche tempo dopo, tra l'agosto e il settembre, fu a Zara, "dove saranno - così Sanuto, VI, col. 197 - li oratori ungarici, per adatar li danni alias fati per subditi ungari in Dalmatia"; ma la missione non sortì frutti risolutivi. Miglior esito ebbe la permanenza del G. in Friuli e in Istria (novembre-dicembre 1505), per l'eterna questione della definizione dei confini. Dopo di che (marzo 1506) si recò a Ferrara, dov'era stato eletto visdomino. Rimase un anno e mezzo alla corte del duca Alfonso I, o meglio, del cardinale Ippolito e di Lucrezia Borgia, moglie del duca, dal momento che questi rimase a lungo lontano, impegnato contro Genova a fianco dei Francesi. Fu un soggiorno tranquillo, se si eccettuano talune congiure di palazzo contro gli Estensi, la conquista di Bologna da parte di Giulio II, la sopravvenuta morte in Navarra di Cesare Borgia, "la qual nuova si dovea publichar a la duchessa, sua sorela, graveda" (ibid., VII, col. 54).
Il 4 ag. 1507 il G. tornò nella sua città. Avogador di Comun nel 1508, all'inizio dell'anno seguente si recò come podestà a Brescia, nella peggiore congiuntura che potesse darsi. Fu lui, insieme con il collega Marco Dandolo, a spedire a Venezia il famoso dispaccio che annunciava la rotta di Agnadello, verificatasi il 14 maggio 1509: "Et questa letera - scrive il Sanuto (VII, col. 248) - fo leta […] in colegio […], adeo tutti comenzono a lachrimar e dolersi grandissimamente et, per dir meglio, perdersi".
Inutili i tentativi posti in atto dai due rettori per arginare il disastro (ma sin dal primo momento il G. fece rimpatriare i figli, ch'erano con lui): il 25 maggio lo stesso re Luigi XII entrava trionfalmente a Brescia. Ben diversi i destini incontrati dai rappresentanti veneti: mentre il Dandolo tentava una disperata resistenza, rifugiandosi nel castello (e ne sarebbe seguita la prigionia in Francia), il G. - grazie all'appoggio del conte Nicolò Gambara, schieratosi subito con i vincitori - riuscì a evitare guai. Consegnato dai Bresciani ai Francesi, questi lo liberarono, scortandolo addirittura sino a Verona. Difficile allora pensare che il G. non abbia avuto parte nella consegna della città ai nemici, negoziando sottobanco la resa; dati sicuri in proposito non ce ne sono, ma il trattamento riservatogli è abbastanza eloquente. Ovviamente, egli si presentò in Collegio, il 3 giugno, colorando la sua sorte come un cavalleresco omaggio di quelle generose popolazioni: al suo partire, infatti, "tutte le done dai balconi e homeni lo benedicea, tra lhoro mostrando grandissimo dolor", sicché "il re è stà contento darli licentia, e lo fece acompagnar con scorta e patente. Item, mai parlò al re" (ibid., VIII, col. 339).
Non fu creduto, ma perdonato sì. Nelle emergenze del momento a Venezia non si poteva andar per il sottile, la patria aveva bisogno di tutti i suoi uomini, anche di un colto umanista che non era da guerra, che non sapeva affrontare le avversità se non tra querele e autocommiserazioni, che nell'esercizio del potere non riusciva a mantenere il giusto equilibrio, trascorrendo con facilità dalla misericordia alla violenza. Insieme con una pronunciata sensibilità religiosa, furono queste le caratteristiche dell'uomo.
Naturalmente, il comportamento tenuto a Brescia dal G. non fu dimenticato tanto presto: l'11 nov. 1509 fu attaccato dal savio del Consiglio Antonio Tron ("cargò molto dito sier Sebastian di le cosse di Brexa", ibid., IX, col. 332), e ancora il 7 ott. 1510 dovette subire una strigliata da Antonio Condulmer, il quale gli rinfacciava "che havia dà via Brexa" (ibid., XI, col. 496).
Fu comunque eletto savio di Terraferma per il primo semestre del 1510 e il 26 genn. 1511 ottenne la nomina di bailo a Costantinopoli. Ancora una volta, però, la missione non ebbe luogo: calamità naturali e congiure di palazzo paralizzavano la politica ottomana, costringendo all'inazione il bailo in carica Andrea Foscolo. Pertanto, il successivo 9 giugno il Collegio, preso atto che il G. "electo a Costantinopoli, non possi esser expedito cussì presto", deliberava che "possi intanto esser in altri offici" (ibid., XII, coll. 226 s.). Divenne così savio di Terraferma il 13 luglio 1511, ma poco dopo (13 settembre) fu nominato provveditore generale in Istria. Non è facile capire quale logica abbia spinto i senatori ad affidare un tale compito a una persona che si era chiaramente dimostrata refrattaria all'azione militare. Forse essi contavano sulle conoscenze che il G. possedeva dei luoghi e degli uomini, forse sul fatto che la guerra con gli Imperiali era davvero poca cosa lì sul Carso. Certo, il G. dimostrò ancora una volta i suoi limiti in occasione del fallito attacco a Ospo, al confine con la Croazia (19 nov. 1511). Di fatto, qualche settimana più tardi era esonerato dall'incarico, opportunamente mutato con quello di provveditore in Dalmazia: dove non di far guerra si trattava, ma di reprimere i disordini che insanguinavano la regione, che scontava indirettamente le conseguenze di Agnadello, abbandonata com'era alla rapacità dei rettori veneziani e alle prevaricazioni delle fazioni nobiliari in perenne conflitto. Il G. lasciò trascorrere tutto l'inverno standosene a Capodistria, poi nel maggio 1512 si portò a Veglia, donde passò a Zara e poi a Sebenico giù giù sino a Lesina. E dovunque trovò corruzione, abusi, violenze, che represse con mano pesante, processando e impiccando.
Sanuto, al solito, riporta molte sue lettere, nelle quali l'esaltazione del proprio operato si alterna con il lamento per i mancati riconoscimenti ("Si duol - così il 29 sett. 1512 - ch'el vede l'opere sue non è acepte […], e s'il scrive tal parole di passione, sa haverne causa per le letere ha de li sui, che tutte le sue operatione, celebrate de lì usque ad astra et han parturito fructi grandissimi, son invise et spreziate": ibid., XV, col. 157). Ripeté le stesse querimonie al suo rientro a Venezia, il 20 nov. 1512, ma riuscì solo a stancare il Senato e a suscitare l'ironia del doge Leonardo Loredan: "et più volte li fo dito strenzesse la sua relatione. Volse compir, fo tedioso assai e tanto disse che l'era raucho […]. Venuto zoso, il Principe lo laudò alquanto, facendo la comparation di uno foruncolo che vien con gran furia e poi schiopado non fa più mal; cussì è stà questo" (ibid., col. 348).
Certo, l'azione del G. non dovette risultare senza censure (afferma Sanuto che nei mesi che seguirono molti dalmati a Venezia "exclamavano contra di lui", e persino alle porte del Palazzo "stavano a cridar contra dito Zustignan", ibid., XV, col. 372). In ogni caso, egli non appare molto apprezzato dai concittadini: si spiegano in tal modo le reiterate bocciature che accompagnarono altrettante proposte di elezione a varie cariche, fra il 1513 e il 1514; e questo nonostante il 25 ott. 1513 il G. offrisse l'invio di suo figlio con tre soldati alla difesa di Padova.
Finalmente, fu eletto ambasciatore in Inghilterra, il 27 dic. 1514, giusto perché il prescelto, Francesco Donà, era stato colto da grave insulto apoplettico. Partì col segretario Nicolò Sagundino il 10 genn. 1515, per la via di Ferrara, Genova e Lione. Qui, alla fine di febbraio, si incontrò con Pietro Pasqualigo, che andava ambasciatore in Francia; insieme si recarono a Parigi, incaricati di rallegrarsi per l'assunzione al trono del ventiduenne Francesco I.
L'udienza ebbe luogo il 23 marzo, con gran sfarzo e particolari dimostrazioni di cordialità da parte del re, che già meditava di scendere in Italia contando, appunto, sull'alleanza veneziana. Toccò al G. recitare l'orazione di rito, tenuta in uno splendido latino, così come seppe riferire con vivace crudezza l'incontro con la regina, savia discreta elegante, ma "picola, magra, negra, zoppa de tutti do li piedi, brutissima faccia" (ibid., XX, col. 106), e incinta di cinque mesi.
Dopo di che il G. - accompagnato dal Pasqualigo, incaricato di una breve visita di cortesia alla corte inglese - giunse a Londra, ove fu ricevuto il 23 aprile da Enrico VIII.
Il mandato del G. risultò difficile a causa dell'amicizia che legava il re di Francia alla Repubblica dopo gli accordi di Blois. La mutevole politica del governo veneziano nelle alleanze gli causò infatti il disprezzo della nobiltà e del cardinale T. Wolsey: "vocabant nos piscatores, raptores sine fide", riferiva il G. rammaricato, il 1° apr. 1516 (egli fu il primo ambasciatore veneziano in Inghilterra di cui possediamo un'ininterrotta serie di dispacci, 226, copiati dal suo segretario e dati alla stampa dal Brown nel 1854). In realtà, la questione non era solo politica; c'erano di mezzo anche interessi personali (l'irascibile cancelliere rimproverava alla Repubblica l'ospitalità accordata al cardinale Adriano Castellesi, privato delle diocesi inglesi appunto a favore del Wolsey) e soprattutto ragioni economiche. Si trattava dell'annosa questione delle malvasie, ossia dei dazi imposti dal governo inglese sui vini di Candia, che colpivano i mercanti veneziani operanti a Southampton. Di fronte alla crisi del commercio delle spezie e della lana, l'esportazione di vino pregiato in Inghilterra costituiva ormai l'oggetto principale della "muda" di Fiandra che faceva scalo nell'isola. Ma, a onta di replicati sforzi, di laboriose trattative, di favori e regali parte profusi, parte promessi, alla partenza del G. il problema era ancora irrisolto.
Rimpatriato, lesse la relazione il 10 ott. 1519; dopo di che entrò subito consigliere ducale per il sestiere di Dorsoduro, dimostrando molta attenzione nella scelta dei docenti della scuola di Rialto. Il 15 genn. 1520 fu eletto capitano a Verona, ma qualche mese dopo, il 1° maggio, si offrì di andare provveditore generale a Candia ("vol andar più presto in Candia - così Sanuto, XXVIII, col. 478 - che Verona per esser di mazor utilità. El qual era a la villa, et è zonto questa notte").
Partì "aliegramente" e alla svelta: oscure le ragioni di tanto zelo, ma non è da escludere che il G. intendesse favorire in qualche modo il nipote Francesco Sommariva, già signore di Andros, i cui titoli gli erano contesi da Marco Zeno; sappiamo inoltre che un altro nipote ex fratre del G., Giovan Francesco, soggiornò a lungo a Costantinopoli, segno di precisi interessi della famiglia. A Cerigo il G. cadde ammalato per "grandissimo fluxo" e fu in pericolo di vita; il 22 luglio 1520 era a Candia, dove sarebbe rimasto tre anni. Ebbe modo quindi di assistere da vicino alla conquista ottomana di Rodi, nell'estate del 1522.
Le prime avvisaglie delle intenzioni di Solimano si erano avute nella primavera del 1521 e la Repubblica aveva mandato in Levante una squadra di quaranta galere, ma con l'ordine di intervenire solo se i Turchi si fossero rivolti contro Cipro. In effetti la cacciata dei cavalieri dall'isola trova scarsa eco nei dispacci del G. riferiti dal Sanuto: nel 1522 tutta Candia è in gran rumore; i rettori moltiplicarono i provvedimenti per la flotta, rafforzarono le difese (in particolare quelle di Retimo, dove il G. poté giovarsi della collaborazione di Gabriele Tadini da Martinengo), ma alla fine il provveditore sembrò preoccuparsi più della peste che infuriava sull'isola che dei danni inferti dai musulmani alla cristianità.
Nuovamente a Venezia il 20 sett. 1523, il 5 ottobre il G. entrò a far parte del Collegio dei savi sopra l'estimo, magistratura eccezionale cui solitamente erano chiamati i patrizi più doviziosi. Il 26 novembre venne eletto degli otto ambasciatori di ubbidienza al nuovo pontefice Clemente VII, ma se ne ritrasse, dichiarandosi "papalista" per via di un nipote che godeva di certi benefici ecclesiastici in Polesine. Poté finalmente godere di un poco di tranquillità, e nel marzo 1524 figura tra i protettori del nuovo ospedale degli Incurabili, voluto da Vincenzo Grimani e Gaetano Thiene. Ancora, la sua sensibilità religiosa e morale ci è testimoniata dal Sanuto qualche mese più tardi, allorché il G. faceva parte del Consiglio dei dieci. Scrive il diarista, in data 4 nov. 1524: "Io vidi una cosa notanda questa matina [e cioè che i capi dei Dieci] andono al canzello di le prexon et volseno veder et aldir tutti li presonieri […]. Et io ho anni 59, mai più viti far questo […]; siché meritano grandissima laude" (ibid., XXXVII, col. 137).
Il 17 dic. 1524 il G. fu eletto podestà di Padova; assunse la carica nell'aprile 1525 e la tenne sino al giugno dell'anno seguente, dividendosi fra il cumulo dei processi che non riuscì a espletare, la presenza ai dottorati dell'Università e soprattutto l'attenzione a possibili turbolenze filoimperiali conseguenti alla battaglia di Pavia.
Poi ancora una missione all'estero, che si sarebbe protratta per ben cinque anni. Il 9 apr. 1526 il G. fu infatti eletto ambasciatore in Francia, insieme con Lorenzo Bragadin, per rallegrarsi della liberazione del sovrano per la felice conclusione della Lega di Cognac. Dopo di che il solo G. sarebbe rimasto presso Francesco I come ordinario. I due lasciarono Venezia il 16 luglio, prendendo la via dei Grigioni, ma a Musso, sulla sponda occidentale del lago di Como, furono fatti prigionieri da quel castellano, Gian Giacomo Medici, che ne pretese il riscatto, adducendo crediti dovutigli dai collegati. L'incresciosa vicenda si concluse solo dopo alcuni mesi di prigionia e privazioni, e a novembre Bragadin e il G. poterono raggiungere Bergamo. Solo il G. proseguì poi il cammino in compagnia del segretario Girolamo Canal, mentre il Bragadin, ammalato, tornò a Venezia. Il G. giunse a Parigi attraverso la Svizzera il 7 febbr. 1527.
Di lì a poco tra Francia e Inghilterra venne stipulata la pace, ma contrariamente alle aspettative dei Veneziani quest'avvenimento non comportò, almeno per l'immediato, un più deciso intervento francese in Italia. Sopraggiunse così il sacco di Roma, mentre Venezia e la Francia si accusavano reciprocamente di inerzia, o addirittura di inadempienza rispetto a quanto previsto dai patti della Lega. Solo alla fine del 1527 Francesco I fu in grado di imprimere nuovo impulso al conflitto, affidando a Odet de Foix conte di Lautrec il comando delle operazioni nella penisola. Poi però, quando nel luglio 1528 il passaggio di Genova nel campo imperiale suggerì un'azione diretta contro A. Doria, la Repubblica, paga dell'acquisto dei porti pugliesi, si mostrò riluttante a inviare la flotta nel Mediterraneo occidentale, sicché il G. dovette fare ricorso a tutta la sua abilità e pazienza per sostenere le sfuriate del sovrano e giustificare il suo governo.
All'inizio dell'anno seguente si ventilava poi un intervento di Carlo V nel Mezzogiorno per risollevare le sorti delle sue armi; donde le pressioni del G. perché Francesco facesse lo stesso. Il 6 marzo 1529, in un decisivo colloquio, il G. prospettò al sovrano una situazione senza alternative: "Se Vostra Maestà non vien, Fiorentini volterà, Siena è imperial, Ferrara non so, Mantoa è cesarea, il papa sarà con Cesare, ma venendo Soa Maestà, tutti sarà constanti" (Sanuto, L, col. 67). La morte del Lautrec affossò però le speranze dei collegati e spianava la strada alla pace di Cambrai (5 agosto). Questo tuttavia non comportò il rientro in patria del G., tante volte richiesto, perché il suo successore, Andrea Navagero, ebbe il pessimo gusto di morire appena giunto a rilevarlo (8 maggio 1529). Pertanto Venezia attese le conclusioni del convegno di Bologna per inviare a Parigi un nuovo ambasciatore. A ragione, dunque, si lamentava il G. il 26 febbr. 1530, "che horamai ha 71 anni compidi, et non se pol più dir legation, ma relegation" (ibid., LIII, col. 111). Trascorse così ancora tutto un altro anno, seguendo il re nei suoi spostamenti, nelle cacce incessanti, riempiendo i dispacci autunnali con qualche frivolezza sulla nuova consorte, Eleonora d'Austria.
Solo il 23 maggio 1531 il G. poté presentarsi alla Signoria, dopo 57 mesi di servizio: i Savi votarono per tre volte se fosse il caso di lasciargli la collana d'oro donatagli da Francesco I, senza mai raggiungere il quorum richiesto. Divenne subito, questo sì, consigliere ducale per il sestiere di Dorsoduro (carica che avrebbe ricoperto nuovamente tra il febbraio 1535 e il gennaio 1536, e poi ancora dall'ottobre 1537 al settembre 1538 e, per lo stesso periodo, nel 1540-41); fu inoltre censore nel 1532, membro del Consiglio dei dieci dall'ottobre 1532 al settembre 1533 e, per lo stesso periodo, nel 1534-35; di zonte straordinarie dei Dieci fece parte nell'aprile 1538 e nel settembre 1542 (allorché vennero inquisiti A. Abbondio e N. Cavazza per il noto caso di spionaggio); inoltre, fu a più riprese savio del Consiglio (primo semestre 1533 - primo trimestre 1534, settembre 1534 - marzo 1535, marzo-settembre 1536, marzo-settembre 1537, settembre 1538 - marzo 1540, secondo semestre 1540, ottobre 1541 - marzo 1542), dimostrandosi costantemente favorevole a una politica conciliante con il Turco, tipica delle più ricche e prestigiose famiglie. Fu, ancora, riformatore dello Studio di Padova dal maggio 1534 al maggio 1536 e dall'ottobre 1538 all'ottobre 1540. Fu anche votato in concorrenza con il doge Pietro Lando (gennaio 1539), e il 30 apr. 1540 venne nominato procuratore di S. Marco de citra.
Il G. morì il 13 marzo 1543, dopo avere subito il dolore della morte dell'unico figlio superstite, Marino, mancato mentre era ambasciatore presso Carlo V. è sepolto nella chiesa di S. Sebastiano, a Venezia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia ven., 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, p. 476; Segretario alle voci, Misti, reg. 6, cc. 100r, 102r, 105r, 114r, 139r; Ibid., Elezioni in Maggior Consiglio, reg. 1, cc. 4-6, 79; Ibid., Elezioni in Senato, reg. 2/B, cc. IV, 2r-3v, 4r, 83r; Consiglio dei dieci, Parti criminali, reg. 5, cc. 1r, 171r; Senato, Secreta, Deliberazioni, reg. 56, cc. 1r, 56v; Senato, Terra, reg. 28, c. 149v; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di ambasciatori, b. 30, n. 257 (Ungheria, 1501); b. 8, n. 12 (Ferrara, 1507); b. 14, nn. 19-20, 24-48 (Inghilterra, 1515-18); b. 10, nn. 142-146, 149-153 (Francia, 1527-29); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, cc. 98r-99v; 2518/8 (19 lettere del G. a Francesco Contarini, inviato presso il Lautrec, 1528-29); Ibid., Bibl. nazionale Marciana, Mss. it., cl. VII, 820 (= 8899), Consegi, cc. 101r, 241r (dispacci dall'Inghilterra); VII, 1119 (= 7449) (lettere al Senato: un'ampia selezione è stata pubblicata da R. Brown, Four years at the court of Henry VIII…, I-II, London 1854); Oratio… domini Sebastiani Iustiniani oratoris Veneti habita coram… Vuladislao rege Pannoniae…, s.l. 1500; Calendar of State papers and manuscripts… Venice, II-V, a cura di R. Brown, London 1867-73, ad indices; M. Sanuto, Diarii, I-XXXI, XXXIII-LVIII, Venezia 1879-1903, ad indices; Erasmo da Rotterdam, Opus epistolarum, a cura di P.S. Allen - H.M. Allen, II, Oxonii 1910, pp. 514-517; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, I, Inghilterra, a cura di L. Firpo, Torino 1965, pp. 161-205 (un articolato sommario della relazione inglese); Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1501 ad annum 1525, a cura di E. Martellozzo Forin, Padova 1969, p. 441; Acta graduum… ab anno 1526 ad annum 1537, a cura di E. Martellozzo Forin, ibid. 1970, pp. 12, 15, 21; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III-VI, Venezia 1830-53, ad indices; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1855, p. 151; A. Reumont, Un'ambasciata veneziana in Ungheria. 1500-1503, in Arch. stor. italiano, III (1879), pp. 198-215; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1960, p. 248; C. Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia (1426-1575), in Storia di Brescia, II, La dominazione veneta (1426-1575), Brescia 1963, pp. 230, 234 s., 304, 333; P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, p. 42; A. Tamborra, Problema turco e avamposto polacco fra Quattrocento e Cinquecento, in Italia, Venezia e Polonia tra Medio Evo e Età moderna, a cura di V. Branca - S. Graciotti, Firenze 1980, p. 537; B. Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, I, Le Scuole grandi, Roma 1982, p. 253; B. Aikema - D. Meijers, Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna (1474-1797), Venezia 1989, p. 131; M. Bellabarba, Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le "Correzioni", i "conservatori delle leggi", in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzi - P. Prodi, Roma 1994, p. 803; M.E. Mallett, Venezia e la politica italiana 1454-1530, ibid., IV, Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di A. Tenenti - U. Tucci, Roma 1996, p. 304; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v.Giustiniani di Venezia, tav. II.