Secolarizzazione
di Langdon Gilkey
Secolarizzazione
sommario: 1. Introduzione. 2. Genesi, natura e sviluppo dello ‛spirito secolare'. 3. La crisi: contraddizioni nella cultura secolare, ricomparsa della religiosità e avvento dell'ideologia. 4. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il tema della ‛secolarizzazione' abbraccia pressoché tutta la cultura occidentale moderna. Il processo di secolarizzazione, naturalmente, ha investito anche società diverse da quelle comunemente qualificate ‛occidentali': per esempio il Giappone, la Cina, la Turchia, l'Egitto e così via. Noi limiteremo però il nostro esame alle società occidentali, senza dimenticare d'altra parte che dovunque la cultura scientifica, tecnica e industriale dell'Occidente sia penetrata - e ci sono ben poche aree immuni da tale penetrazione - il processo di secolarizzazione è manifesto.
Pur con qualche specificazione, da tenere nel debito conto, l'evoluzione dell'Occidente moderno - intendendo con ‛moderno' il periodo che va dal 1500 al 1900 - si presenta in quasi tutti i suoi aspetti come l'evoluzione di una società ‛secolare'. Una descrizione adeguata del fenomeno della secolarizzazione dovrebbe quindi includere una descrizione dei mutamenti sociali, economici, politici e tecnologici - il cui risultato è appunto la società occidentale moderna -, come anche l'intera storia recente della scienza, dell'arte, della psicologia, della teoria sociale, della letteratura, della filosofia e della riflessione religiosa, che ha accompagnato la formazione ditale società. In quest'articolo ci concentreremo su questa seconda dimensione del processo di secolarizzazione: sullo sviluppo, sul carattere e sugli effetti - lo svolgimento - dello ‛spirito secolare', quel fondamentale atteggiamento o prospettiva nei confronti della vita che ha promosso la secolarizzazione (di cui è nel contempo il risultato) delle istituzioni sociali. Il nostro interesse, dunque, va alla secolarizzazione della ‛cultura' moderna piuttosto che alla secolarizzazione della ‛civiltà' o ‛società' moderna, all'atteggiamento generale cui si dà spesso il nome di ‛secolarismo' piuttosto che ai mutamenti istituzionali responsabili della formazione di una società secolare. Il processo, che è l'oggetto della nostra analisi, si è manifestato in alcune aree dell'Occidente - per esempio, nell'Europa settentrionale e nel Nordamerica - in modo più netto e radicale che in altre, anche se i suoi effetti sono visibili nei modelli istituzionali di comportamento e negli atteggiamenti verso la vita di tutto l'Occidente.
La dinamica fondamentale dei processi sociali non è di per sé evidente né c'è accordo circa la sua natura. I mutamenti nello ‛spirito' di una società sono forse prodotti (come diceva Marx) da mutamenti nelle strutture e nei modelli sociali di rapporti e di comportamento (‛modi e rapporti di produzione')? Ovvero i mutamenti negli atteggiamenti e nelle idee producono mutamenti nelle istituzioni, come la maggior parte degli intellettuali (inclusi i marxisti) crede? Ovvero, infine, c'è un processo d'‛interazione', nel quale nuovi atteggiamenti rendono possibili tipi nuovi di rapporti e strutture istituzionali, e nuovi modi di vita creano a loro volta mutamenti nei sentimenti e nelle idee? Il nostro assunto è che la terza soluzione prospettata è quella corretta: i modi di guardare al mondo hanno cioè effetti graduali sulle istituzioni sociali e quindi sugli sviluppi economici e politici, i quali, a loro volta, fanno emergere nuovi atteggiamenti verso la vita. Di conseguenza, noi ci interesseremo alla secolarizzazione ‛sociale' soltanto in quanto ha inciso sui modi di guardare al mondo, dando per scontato che gli ‛atteggiamenti secolari', che tenteremo di descrivere, hanno contribuito a porre le condizioni per la secolarizzazione delle strutture economiche, politiche e sociali e per i mutamenti che il ruolo e l'autorità delle istituzioni religiose hanno subito nella vita moderna.
In ogni modo, ci sono pochi dubbi che l'evoluzione delle società moderne ha comportato, sin dal Rinascimento, una graduale ‛liberazione' delle istituzioni sociali - economiche, politiche, giuridiche, morali, accademiche, professionali e persino familiari - dal controllo delle autorità religiose. Tutti questi aspetti della società, e le correlative espressioni istituzionali, sono in un modo o nell'altro divenuti ‛autonomi', hanno cessato di fondarsi sui principi religiosi, di essere guidati da norme religiose e di essere governati dall'autorità religiosa; al contrario, essi appaiono ora diretti, in ultima analisi, da principi e norme di carattere ‛secolare' o ‛naturale', siano tali principi o norme fatti risalire alla ragione, alla ‛natura', al costume, o semplicemente alla convenzione o preferenza. La religione - e con essa le comunità e le istituzioni religiose - ha perduto la sua centralità, in quanto non più rilevante per la guida della vita sociale. Non soltanto la religione è così divenuta una questione di scelta personale piuttosto che un bisogno pubblico, ma si è imposta la tendenza a confinarla nella sfera delle credenze personali, della pratica privata e dei modelli di comportamento morale individuale. Al pari della società, anche la religione si è secolarizzata: prodotto di cause ‛storiche', governata da principi e norme ‛razionali' o ‛naturali' e rivolta a mete mondane, la religione è diventata ‛privata', una questione di opzione o gusto personale. Dal canto loro, i capi religiosi hanno cessato di svolgere - in politica, in economia, nell'istruzione e sul terreno sociale - quel rilevante ruolo pubblico che una volta era stato senza contestazione loro riconosciuto.
Non desta quindi sorpresa che, agli occhi di molti commentatori della prima metà del Novecento, questi sviluppi nella maggior parte, se non nella totalità, delle società moderne avanzate siano apparsi presagire la graduale scomparsa della religione, come del resto mostravano l'indebolimento della sua tempra intellettuale, morale e spirituale, la perdita della sua presa - nell'ambito spirituale, psicologico come in quello dell'autorità - su larghi settori della popolazione, e quindi il suo relegamento a gruppi insignificanti estranei alla corrente principale della vita sociale. Dal Settecento alla metà del Novecento un importante aspetto dello spirito secolare è infatti consistito nel fatto che molti, se non la maggioranza, dei leaders intellettuali, sia borghesi sia comunisti, hanno dato per scontato che il prossimo stadio della moderna evoluzione avrebbe visto la fine virtuale della religione organizzata come fattore significativo nella società e l'avvento, sotto una veste o l'altra, di una società completamente secolare. Il nostro interrogativo è dunque: quali fattori istituzionali, intellettuali e spirituali nella nascita dell'Occidente moderno hanno alimentato questo processo di esautoramento della religione da quella posizione di dominio, nella sfera pubblica come in quella privata, che aveva occupato all'incirca sino al Seicento, e quali atteggiamenti hanno reso così diffusamente plausibile l'idea dell'imminente scomparsa della religione organizzata?
2. Genesi, natura e sviluppo dello ‛spirito secolare'
Passiamo dunque brevemente in rassegna i mutamenti sociali e istituzionali che hanno favorito la svolta da un'interpretazione religiosa (e dal dominio delle autorità, delle norme e delle mete religiose) a un'interpretazione secolare della vita.
1. L'immensa espansione del mondo conosciuto, quale si ebbe nel Quattro e Cinquecento attraverso le esplorazioni e i commerci, suscitò una nuova consapevolezza del pluralismo delle culture nel mondo. Modi di vita e credenze alternativi fecero la loro comparsa; di conseguenza, le tradizioni europee, e specialmente le tradizioni religiose, cessarono a poco a poco di essere considerate come ‛il' modo di essere uomini: un graduale processo di relativizzazione si era avviato.
2. Con il lento progresso - nell'Occidente - della tecnologia e dell'urbanizzazione, l'ambiente della vita umana subiva un mutamento decisivo. Uomini e donne non erano più direttamente dipendenti da un ordine naturale eterno, immutabile, ‛dato', al quale bisognava adattarsi (com'era il caso delle culture rurali, agricole e marinare). L'ambiente al quale dovevano ora adattarsi era invece costituito dai sempre mutevoli e relativi assetti prodotti dall'iniziativa umana. L'uomo aveva lasciato il mondo di Dio per un mondo umano, aveva cessato di partecipare a un ordine eterno per divenire il creatore di un ordine relativo e fluttuante.
3. Con l'accelerarsi dei mutamenti economici, politici e sociali, mutava la visione del mondo umano: delle istituzioni sociali, delle tradizioni, dei costumi. Le forme delle istituzioni costituenti l'ambiente sociale - Chiesa, Stato, classe, famiglia - non apparivano più immutabilmente ‛date' da un creatore trascendente e di autorità incontestata; essendo ora esperite come suscettibili di mutamento, non si presentavano più come espressioni ‛sacre', permanenti nel tempo, di un ordine divino eterno. Uomini e donne cominciavano invece ad avvertire che le istituzioni e le strutture sociali avevano carattere ‛storico'; erano il prodotto di forze geografiche, storiche e sociali, e costituivano pertanto un ordinamento relativo, temporale, e quindi secolare, e non già un ordinamento sacro imposto per l'eternità da Dio a questo mondo.
4. Infine, man mano che, attraverso la ricerca scientifica, uomini e donne conoscevano sempre meglio il loro mondo, scoprivano ch'esso non era né popolato di esseri spirituali né progettato da ‛Qualcuno' in funzione di scopi e bisogni umani. Diventava a poco a poco chiaro, invece, come ogni cosa nella natura, e la stessa esistenza umana, altro non fosse che il risultato dell'interazione di cause cieche, alla cui fortuita convergenza si dovevano sia l'ambiente relativamente benevolo sia le ammirevoli facoltà umane di vita, d'amore e di pensiero. La materia che segue ciecamente il suo corso casuale sembrava diventare ‛Dio', se con ‛Dio' intendiamo il mistero che ci ha prodotti, ci conserva e alla fine ci reclamerà. Vediamo quindi come tutti i fattori dominanti della vita moderna - l'ambiente sociale, la percezione dell'ambiente storico, la comprensione dell'universo circostante - abbiano contribuito a produrre un nuovo atteggiamento secolare verso il mondo e l'uomo stesso.
Come risulta dalle nostre ultime osservazioni, il fattore intellettuale cruciale nello sviluppo di quest'atteggiamento è stato forse la nascita, e il successivo dominio, della moderna scienza empirica e matematizzata. L'influsso della scienza moderna sui nostri atteggiamenti - la nostra visione di noi stessi, del nostro mondo, delle nostre possibilità, del nostro ‛destino' - come anche il suo impatto sulla nostra conoscenza e sul nostro dominio tecnologico del mondo, sono stati immensi; a essi dovremo fare continuamente riferimento. Quattro aspetti dell'effetto della nascita della scienza sui successivi atteggiamenti dell'uomo occidentale vanno ora, sia pur brevemente, passati in rassegna.
1. La scienza moderna ha mostrato con successo come l'intero universo esistente attorno a noi, dalla stella più immensa e più remota alla minima particella, debba essere compreso ‛matematicamente', vale a dire quantitativamente e non qualitativamente, e quindi come determinato da ‛leggi' e non da una qualche finalità, intrinseca o imposta. Il mondo è dunque rapidamente divenuto un sistema chiuso di interazioni deterministiche e impersonali: un mondo cieco, spoglio di sentimento e di pensiero, interminabilmente in moto, eppure armonioso e ordinato in tutto il suo corso. E giacché ciò che possiamo conoscere è sempre ciò che per noi è ‛reale', quest'universo necessitato e senz'anima rappresentava (su questo c'era l'accordo dei filosofi) le ‛qualità primarie', ciò che è ‛realmente reale'. È qui lampante la rottura non soltanto con l'occultismo, con la magia e l'astrologia, ma anche con il mondo aristotelico-tomistico, e anzi con ‛ogni' interpretazione teistica della natura come posta sotto la sovranità divina.
2. Con lo sviluppo della scienza diveniva chiaro anzitutto che la conoscenza scientifica deriva dall'esperienza ‛sensibile' (alla cui sfera è limitata) e, in secondo luogo, che le sue conclusioni possono essere convalidate (o falsificate) solo da una successiva esperienza sensibile (e condivisibile). Il canone epistemologico dell'empirismo, secondo il quale soltanto ciò che è conosciuto, e convalidato, nell'esperienza manipolata e attraverso un esperimento condivisibile può esser chiamato conoscenza, fu quasi universalmente accettato. Di nuovo, è lampante la rottura con pressoché tutte le forme della conoscenza, e quindi dell'autorità, religiosa tradizionale, si trattasse dell'autorità della Chiesa, della Scrittura o dell'esperienza religiosa personale.
3. La ricerca scientifica diveniva sempre più consapevole della sfida lanciata alle ‛verità' tradizionali, fossero quelle della religione, del costume sociale o della scienza precedente; ed era inoltre consapevole che persino le sue più importanti formulazioni erano a loro volta destinate a essere sfidate, criticate e quindi corrette. La verità che la scienza offriva non era perciò assoluta, definitiva o immutabile; aveva carattere ‛ipotetico', era un'asserzione provvisoria: controllata, certo, eppure soggetta a correzioni e perfezionamenti futuri. Quest'idea della verità come relativa, come un'approssimazione e non una conquista definitiva, come un processo che, proprio in quanto incompleto, conduce a ulteriori verità, compenetrò di sé, anche fuori della scienza, il più vasto mondo della cultura, venendo in tal modo a sfidare ogni pretesa, avanzata da autorità religiose, a una verità assoluta ed eterna.
4. L'esperienza della scienza, infine, l'esperienza che gli scienziati venivano facendo della loro propria attività di ricerca, intensificò grandemente la coscienza della creatività umana. Come mostreremo brevemente, la scienza non solo fu causa che il mondo fosse esperito come radicalmente dissacrato e necessitato; essa stimolò un senso nuovo dell'autonomia e libertà creativa dell'uomo, della sua capacità di riplasmare questo mondo necessitato (paradossalmente, mediante la conoscenza delle strutture che governano la sua ‛necessità'), e di avviare in tal modo un incessante progresso nella storia umana. La scienza si presentava come la chiave del controllo umano sul mondo, su tutti quei ‛destini' (malattia, freddo, fame, povertà, e persino lo spazio e il tempo) che avevano condizionato la vita umana sin dai primordi e che uomini e donne potevano finalmente signoreggiare. La nuova scienza sembrava mostrare non soltanto che la religione tradizionale non meritava credito, le sue ‛verità' essendo miti prescientifici, ‛pseudoscienza'; insieme con le sue conseguenze tecnologiche, essa metteva in luce anche l'‛irrilevanza' della religione, il carattere vano e illusorio della salvezza da essa promessa in confronto con la ‛salvezza in questo mondo' e con i valori ‛veri' promessi dalla nuova conoscenza e dalle nuove tecniche. Uomini e donne erano ora sui iuris, perfettamente in grado, se liberati dalle pretese del dogma e dell'autorità religiosa, di diventare padroni del proprio destino e di creare un mondo migliore. Un'illustrazione eloquente di questa situazione può trovarsi per esempio in Ferkiss (v., 1969, pp. 20-21): ‟Che cosa si verificò - nella sfera della cultura - di tanto fondamentale da modificare la natura basilare dell'animale umano? [...] Il semplice fatto di disporre di un'infinita capacità di trasformare il mondo e se stesso [...], di un potere assoluto su se stesso e sul suo ambiente, pone l'uomo in una posizione morale radicalmente nuova". O in Dobzhansky (v., 1962, p. 347): ‟L'evoluzione non deve più essere necessariamente un destino imposto dall'esterno; è legittimo immaginare ch'essa venga controllata dall'uomo, secondo il suo discernimento e i suoi valori".
Ora, se la nascita della nuova scienza, con le sue immense promesse di nuove conoscenze e di nuove possibilità di controllo, forniva in gran parte allo spirito o atteggiamento secolare il suo contenuto ‛positivo', non c'è dubbio che lo slancio ‛negativo' gli era fornito dall'‛ambiguità' della religione nel periodo del suo dominio. Per molti intellettuali nel Rinascimento italiano, e ancor più nell'illuminismo in Francia, Germania e Inghilterra (specialmente in Francia), la religione era associata non soltanto con errori e superstizioni tradizionali e ormai logori, ma ancor più con immoralità, avidità, fanatismo e, soprattutto, con l'iniquità del privilegio. Non aveva forse la ‛fede assoluta' avallato le persecuzioni dell'Inquisizione e fomentato le cruente guerre religiose del tardo Cinquecento e del primo Seicento? Non godeva forse la religione organizzata di immense proprietà e ricchezze? E non usava forse il proprio potere, la propria immensa influenza per difendere, in nome di Dio, una distribuzione sommamente iniqua del potere e della proprietà? Se bisognava sfidare l'ancien régime con i suoi iniqui privilegi feudali, bisognava sfidare anche la base ‛religiosa' del vecchio ordine nel cristianesimo (come Marx ebbe a dire un secolo dopo: ‟L'inizio della critica è la critica della religione"); la speranza di poter mai attenuare il pregiudizio, la persecuzione e il conflitto sociale dipendeva dallo sradicamento della fede e dell'obbedienza cieca all'autorità religiosa. A molti spiriti responsabili la religione appariva, in questo primo periodo della cultura moderna, come una fonte di crudeltà e di immoralità piuttosto che di compassione e di virtù, come un'istigatrice d'ignoranza, di superstizione e di pregiudizi piuttosto che come un'ispiratrice di verità, di luce e di grandezza spirituale. (Per la nostra esperienza del lato ‛demoniaco' della religione, si pensi alla tragedia del culto del reverendo Jones negli Stati Uniti e alla politica dell'ayatollah Khomeini e degli altri leaders del ‛fondamentalismo' islamico nell'Iran). Di conseguenza, per molti l'unica speranza era l'allontanamento della religione dalla vita pubblica e la costituzione di una società su una base ‛neutra' (cioè secolare), comune a tutti gli uomini e donne di buona volontà: soltanto così le virtù sia pubbliche che private potevano essere liberate per l'autorealizzazione umana. Era dunque con sollievo e con rinnovata speranza che molti guardavano alla scomparsa della società religiosa e all'imminenza di un mondo secolarizzato. Con le sue pretese a un assenso e obbedienza assoluti, e con l'attaccamento ai suoi beni, al suo potere e al suo prestigio, la religione si era fatta sempre più ‛ambigua', causa di male altrettanto che di bene. Alla religione stessa risaliva pertanto, in larga misura, la responsabilità della veemenza dell'attacco secolare contro tutte le rivelazioni soprannaturali, come anche contro ogni autorità e meta soprannaturale.
È giunto il momento di analizzare in modo più preciso e adeguato gli elementi dello spirito secolare quale si era sviluppato nell'Occidente moderno. Anzitutto, è opportuno chiarire che cosa s'intenda con ‛spirito' di una cultura. Ogni epoca o età ha - ne siamo oggi consapevoli - il suo atteggiamento fondamentale verso la vita: verso la realtà, la verità, i valori. Un atteggiamento o ‛spirito' o magari ‛umore' siffatto può essere, per esempio, ottimamente illustrato a proposito del periodo ellenistico. Riscontriamo qui una certa visione coerente di ciò che è reale (eminentemente, lo spirito e ‛non' la materia), di ciò che è vero e del modo di raggiungere la verità (eminentemente, attraverso i concetti e il pensiero discorsivo, magari anche scettico), di ciò che è ‛buono' o rispettabile (eminentemente, le cose dello spirito e non della carne): è una visione che si esprime nelle filosofie e teologie dominanti e nelle opere letterarie dell'epoca, e dunque una visione presupposta da pressoché tutti i membri creativi della cultura. Non in una filosofia va quindi ravvisato lo sfondo, il fondamento delle filosofie e delle opere letterarie del periodo; si tratta piuttosto di un ‛umore' che conferisce a tutte le creazioni culturali di un'epoca quella particolare forma che contrassegna appunto la loro appartenenza a quell'epoca. Tali ‛umori' sono in genere prerazionali, non sono né tematizzati né concettualizzati: sono i pre-supposti del pensiero, che divengono oggetto di conoscenza soltanto per lo storico delle idee. ‛Spirito' o ‛umore' di una cultura è quindi quell'atteggiamento fondamentale verso la realtà, la verità e i valori, che caratterizza un'epoca e quindi la sua cultura, quel sistema di riferimento nei cui termini si esprime ogni aspetto creativo della vita, incluse la religione e la teologia. Il potere dello spirito di una cultura su tutte le espressioni creative può essere, come accennavamo, ottimamente esemplificato dalle teologie e filosofie religiose dell'ellenismo. Quasi senza eccezioni sia le filosofie religiose pagane (per esempio quella di Plotino) sia le eresie cristiane (per esempio, gnosticismo, arianismo, eutichianesimo) sia l'ortodossia cristiana (Origene, Agostino ecc.) si mostravano tutte egualmente partecipi degli elementi fondamentali del pensiero e dello spirito dell'ellenismo, del quale esemplificavano altresi le caratteristiche finalità spirituali. La cosa è particolarmente evidente nel fatto che le diverse eresie cristiane apparivano come eretiche appunto perché esprimevano lo spirito ellenistico ‛in modo univoco', sacrificando quindi i temi biblici e perciò non ellenistici; e, elemento fra tutti significativo, persino i teologi ortodossi - come Ireneo, Tertulliano, Atanasio, Cirillo di Alessandria ecc. -, che combattevano queste eresie come ‛pagane', facevano un uso coerente, per una formulazione comprensibile e appropriata del cristianesimo, di categorie ellenistiche, e ai nostri occhi, di persone cioè di un'altra epoca, ognuna ditali riformulazioni ortodosse trasuda l'atmosfera intellettuale e spirituale della tarda antichità.
La nostra tesi è che lo spirito secolare ha rappresentato in misura crescente il Geist della cultura postilluministica moderna; a esso rivolgeremo ora il nostro esame.
1. La caratteristica piu importante della visione secolare può essere indicata nel modo migliore con i termini ‛contingente' e ‛contingenza'. Tutto ciò che è, è contingente, semplicemente ‛c'è', e la sua esistenza è priva di ragioni, che appartengano all'ordine della necessità, della razionalità o a quello dei fini. Come dice il filosofo della scienza E. Nagel (v., 1956, pp. 7-9): ‟Cose ed eventi hanno ‛cause' ma non ‛ragioni'" e, poiché le cause hanno a loro volta altre cause, le cose nel loro complesso ‛semplicemente sono': il loro essere o esistenza non ha spiegazione; ovvero, come dice il filosofo G. Santayana (v., 1930, p. 94): ‟La materia è il vento invisibile che, soffiando senza ragione sul regno delle essenze, ne solleva alcune in una nube di polvere; e questo vortice noi chiamiamo esistenza". Dando voce per così dire ‛dall'interno' a questo senso moderno dell'esistenza, Heidegger (v., 1927) dice che noi siamo ‟gettati nell'esistenza", non siamo altro che mera effettività. Certo, come la cultura secolare sa bene, la nostra mente è in grado di individuare gli schemi ricorrenti di cause che legano gli eventi gli uni agli altri; ma, se ci chiediamo perché ci siano tali cause - e quindi perché il nostro mondo nella sua totalità esista e perché ‛noi' esistiamo - la risposta non può indicare se non altre cause, in un regresso all'infinito nella tenebra: nessuna ragione o fine possono essere addotti per alcuna causa nè per l'intera serie delle cause nè per noi stessi. Per ordinata che possa apparire nelle sue manifestazioni, l'esistenza - per gli uomini e donne moderni - emerge dunque alla luce dell'esperienza e della ricerca come se provenisse dalla tenebra; la sua fonte e il suo fondamento ultimi, il suo ‛perché' sono più che semplicemente misteriosi e oscuri: una tal fonte o un tal fondamento non esistono. La nostra finitezza non appare, come nell'epoca classica, all'interno di un più vasto ordine che la ragione speculativa poteva esplorare e conoscere o la fede religiosa rivelare, un ordine che potesse spiegarne, e quindi mitigarne, l'arbitrarietà. Il dato - tutto ciò che ci circonda - semplicemente appare; esso può essere descritto così come appare e si può tracciare una mappa del suo corso successivo, ma questo è tutto ciò che si può dire. Sia l'esistenza sia il pensiero cominciano e finiscono con il dato. L'esistenza è ‛contingente', nel senso ontologico o metafisico che non ha alcun fondamento, alcuna ragione necessitante o determinante; è quindi un ‛accidente' in mezzo a un universo di accidenti, un prodotto di cause non necessarie, e pertanto, dato che tali cause potevano esser diverse, potrebbe anche non esserci affatto. E chiaro che, in un siffatto mondo unidimensionale, se il dato si mostra ‛dominabile', l'esistenza può sembrare razionale e sufficientemente buona, e tale è effettivamente sembrata a generazioni di uomini e donne moderni; se invece il ‛dominio' del dato diventa difficile - in realtà impossibile - l'esistenza può essere percepita come assurda, e noi possiamo avvertire noi stessi come affatto estranei al suo corso cieco e crudele (come testimonia gran parte della letteratura del Novecento).
Il confinamento del pensiero al dato, all'esistenza quale appare ‛emergere dalla tenebra' è, naturalmente, strettamente connesso al canone dell'empirismo: tutto il pensiero sul reale deve basarsi sull'esperienza (sul dato nell'esperienza): non c'è infatti nient'altro su cui possiamo pensare. Due presupposti basilari della filosofia moderna (specialmente della filosofia linguistica e analitica) dipendono da questo carattere contingente di ogni realtà: a) tutte le asserzioni su ciò che ‛è' rappresentano proposizioni ‛fattuali' e ‛contingenti' (vale a dire non necessarie, su eventi contingenti tra altri eventi contingenti); b) tutte queste asserzioni riguardano l'esperienza sensibile, sono empiricamente verificabili. Non c'è dunque, evidentemente, alcuna realtà più vasta o più profonda che possa essere chiamata ‛necessaria', che trascenda in un modo o nell'altro il flusso delle cause e degli effetti contingenti, e possa quindi essere raggiunta e conosciuta da mezzi diversi da quelli della ricerca scientifica, empirica e condivisibile. Asserzioni ‛metafisiche' sulle ‛strutture universali e necessarie dell'essere' o asserzioni ‛teologiche' su un Dio trascendente il flusso degli eventi, sono di conseguenza impossibili. Sono ammissibili esclusivamente asserzioni sulla serie degli eventi contingenti attorno a noi. Tutto il resto è ‛soggettivo' o ‛emotivo', è informazione sul nostro foro interno ma non sull'universo circostante; non c'è altro che la natura che possa essere oggetto di considerazione scientifica: sul nostro io capriccioso si possono fare soltanto chiacchiere. Non desta quindi meraviglia che, in un'epoca secolare, sia la filosofia sia la teologia si siano mostrate inclini a ritirarsi nell'analisi del linguaggio e dell'esperienza immediata, ripudiando le loro precedenti pretese alla conoscenza e rinunciando quindi a tutti i loro ‛eccessi' o ‛fantasie' metafisiche. Che l'abbia espressamente voluto o no, la filosofia ha così interamente abbandonato la conoscenza e la comprensione del mondo reale alla ricerca scientifica.
Non era affatto una novità dire che il mondo attorno a noi è contingente e può esser conosciuto soltanto attraverso l'esperienza controllata del suo corso: l'avevano già affermato Aristotele e san Tommaso. La novità stava nell'affermare che ‛tutto ciò che esiste' è contingente, e pertanto che tutto ciò che possiamo conoscere proviene dalla ricerca empirica. In questa nuova concezione della contingenza, infatti, il fondamento assoluto e divino - di cui sia Aristotele sia Tommaso abbisognavano appunto per spiegare i ‛loro' mondi contingenti - svanisce, reso irrilevante e in realtà impossibile da tutto ciò che la nuova concezione della contingenza implica. Nel nuovo contesto secolare la contingenza non rinvia più al di là del contingente, a una dipendenza essenziale e radicale da una sfera di necessità o da un Dio; al contrario, essa indica appunto l'‛assenza' di un tale fondamento o fonte transfiniti, necessari e divini; indica il restringimento di tutto l'essere al flusso o processo della natura.
2. Alla completa dissacrazione del mondo naturale, concepito come una serie di eventi contingenti, sia pure in reciproca interazione, seguì poco dopo la dissacrazione egualmente radicale della storia, che si può esprimere nel modo più efficace con la nozione di ‛relatività'. Come effetto dello sbocciare della coscienza storica verso la fine dell'illuminismo, si giunse a comprendere che tutto quanto viene all'essere ed esiste emerge da un contesto storico ed è di conseguenza ‛inchiodato' al suo particolare posto nel processo degli eventi, in larga misura determinato da ciò che viene prima, plasmato da tutto ciò che lo circonda e infine destinato a essere sostituito da quanto seguirà. Ne discende che nulla nella storia è ‛a sé', assoluto, permanente; e nulla può avere sommo valore o somma autorità per tutti i tempi e luoghi. Tutte le cose che appaiono sono relative le une alle altre o, per dirla in termini filosofici, hanno ‛relazioni interne' al loro contesto immediato. Un risultato di questa interpretazione ‛contestuale' di tutto ciò che esiste è l'accento posto da tutte le filosofie moderne sul mutamento, sul processo e sul divenire piuttosto che sulla permanenza, sulla sostanza, sull'identità e sull'essere, e il fatto che le scienze sociali e psicologiche operano in massima parte in base all'assunto che ogni entità individuale deve essere compresa partendo dall'influsso ambientale. La spiegazione procede ‛naturalisticamente', disvelando la rete di relazioni all'interno della quale ogni entità o evento emerge, che si tratti di processi naturali, di eventi storici o di schemi di comportamento individuale.
Da questo senso della relatività di tutte le cose le une rispetto alle altre, sono derivate altre due conseguenze importanti. In primo luogo si fece sempre più chiaro che in nessun punto della storia osservabile c'è qualcosa di permanente o che rivesta un significato o autorità ultimi e universali. Le istituzioni, anche le monarchie e le Chiese, sorgono e cadono e mutano la loro forma; le filosofie, le idee politiche, le dottrine teologiche (anche i dogmi) sono espressioni adeguate all'epoca e al luogo, e perdono il loro rilievo e la loro autorità, se non il loro interesse, per un'altra epoca e cultura. Potrebbe forse il codice di Hammurabi, o anche quello di Mosè, essere promulgato oggi a Washington o a Roma? Come risultato di una siffatta relativizzazione, il sacro sembra svanire dalle vicende della storia come dai processi della natura: tutto è storico e nulla è ‛ultimo'; tutte le istituzioni sono storiche, mutevoli e limitate; ogni autorità è mutevole, fallibile e parziale; tutte le idee sono relative alla loro epoca. Un tale relativismo storico ha messo radicalmente in questione l'autorità religiosa tradizionale. Da un lato, abbiamo, per esempio, la ben nota definizione cattolico-romana, secondo cui le dottrine sono vere solo se sono state affermate e insegnate ‟semper, ubique et ab omnibus"; dall'altro, la coscienza storica moderna assicura che ogni espressione letteraria, filosofica o teologica, ogni concetto di qualsiasi sorta è relativo alla sua epoca e al suo linguaggio, alle sue categorie intellettuali, ai suoi presupposti basilari: e di conseguenza, nessuna specifica proposizione dottrinale può essere plausibilmente affermata ‟semper, ubique et ab omnibus", essendo inconcepibile che una qualsiasi proposizione, espressa in tempi differenti e differenti contesti, conservi il medesimo significato.
In secondo luogo, l'esperienza storica della relatività ha immensamente intensificato la consapevolezza del mutamento. Sia l'antichità sia il Medioevo avevano profondamente avvertito il mutamento. Senonché, il mutamento riguardava allora certi singoli particolari o esemplari di una data forma, e non già la forma stessa. Socrate e Marc'Aurelio potevano invecchiare e morire, non così l'‛uomo'; i re e le regine passavano, ma non la monarchia; una città o uno Stato sorgeva e cadeva, ma non la forma - o serie di forme - della città o dello Stato. Con l'avvento della coscienza storica, si comprese invece che le ‛forme' mutano, anzi, non solo mutano, ma si estinguono e sono sostituite da altre forme: la monarchia dalla democrazia; il mercantilismo dal capitalismo; la cultura agricola dalla cultura urbana, tecnica e industriale; l'intero complesso della cultura greco-romana da un insieme interamente nuovo di forme, caratteristico dell'età moderna. Ne discende che il pensiero stesso è relativo alla sua epoca; giacché sia le forme sia gli interessi del pensiero mutano, anche le forme di esperienza e di pensiero di periodi differenti sono ‛estranee' le une alle altre; nasceva così il moderno problema ermeneutico dell'interpretazione di testi antichi o remoti. Questo senso del flusso delle forme, oltre che degli individui, raggiunse naturalmente il suo apice quando, con Darwin, penetrò negli studi biologici: ora le specie stesse - una volta pensate come permanenti al pari della terra stessa (non le aveva Adamo nominate e Noè salvate?) - appaiono relative al loro contesto in mutamento, e quindi soggette a comparire, mutare e scomparire a seconda dei mutamenti del contesto. Tutte le cose che esistono, di qualsivoglia natura, emergono dal flusso e quindi vi ricadono, per essere sostituite da qualcosa di nuovo. Per molti era di conseguenza difficile vedere come le nozioni di una divinità ‛a sé', permanente, immutabile, o di un evento di rivelazione fornito di significato assoluto e universale e di autorità incondizionata potessero sopravvivere a lungo in questa nuova consapevolezza della relatività di tutte le cose e di tutti gli eventi.
3. Il terzo aspetto della prospettiva secolare, strettamente connesso a quello della relatività, è il senso della transitorietà, della caducità, della ‛temporalità' di tutte le cose. Tutto viene all'essere nel tempo, emergendo dal suo contesto; vi rimane per ‛il suo tempo', nella misura concessagli da tale contesto. Poi, quando il suo tempo è finito, si estingue e una nuova costellazione, adatta al nuovo tempo, nasce. Tutto ciò che esiste è dunque caratterizzato dalla temporalità, nulla dalla permanenza; nulla ‛è mai realmente'. Il tempo è in ogni cosa; l'essere è in verità il divenire, e il flusso è sovrano. Non c'è stata forse nell'età moderna alcuna importante corrente filosofica che non abbia posto l'accento sul processo, sul mutamento, sulla temporalità e sul divenire come propria categoria ontologica centrale: da Hegel, Schelling, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Alexander a Dewey, Whitehead, Heidegger; e ci sono stati pochi teologi (probabilmente per le stesse ragioni culturali) che non abbiano sottolineato il carattere ‛dinamico' del Dio biblico contro gli attributi ‛statici' del Dio greco.
Un importante risultato di quest'accentuazione del processo temporale o del flusso degli eventi, visti come caratteristiche basilari di ciò che esiste, della realtà, è stato un mutamento radicale nella percezione o comprensione dell'‛ordine' e del ‛significato'. Se tutto è flusso, se anche le forme delle cose appaiono e scompaiono, che specie di ordine è possibile nell'esistenza? E, corrispondentemente, che specie di significato è possibile nella vita, se nella vita nulla c'è di permanente, d'immutabile, di sacro, cui partecipare? Sembrerebbe che la risposta potesse suonare: ‟L'ordine e il significato (valore) reali possono essere trovati soltanto ‛al di là' del flusso", se non vi si fosse opposta un'altra e ancor più basilare caratteristica del secolarismo moderno: il rifiuto radicale di una sfera, o divinità soprannaturale, eterna e immutabile. In che modo, allora, lo spirito secolare poteva trovare ‛il' significato in un processo per sua natura essenziale mutevole e transitorio?
La risposta dell'età moderna - poiché essa aveva una risposta - fu che l'ordine e il significato appartenevano al ‛modello' del cambiamento nel tempo, alla forma o ordine del flusso stesso. Con tutto il suo senso della contingenza e della relatività, e con tutta la sua ostilità verso finalità divine o soprannaturali, la cultura moderna non ha mai concepito i processi di mutamento come apertamente arbitrari, senza scopo, assurdi, come affatto privi di direzione. Essa ha visto piuttosto i mutamenti delle epoche nella storia e, più tardi, i mutamenti delle specie nella natura come espressioni di un glorioso ‛modello', un modello chiaro e inequivocabile di evoluzione progressiva, di ‛ascesa'. Tutto compare e scompare e nulla permane; ma ciò che compare è immancabilmente superiore a ciò che è scomparso; ne discende che il movimento nel tempo verso il nuovo è esso stesso il luogo dell'ordine e del significato. La successione di forme - ognuna delle quali è sempre superiore alla precedente - è stata, in luogo della permanenza di un ristretto insieme di forme sacre eterne, il moderno principio ‛storico' del significato, principio esemplificato dapprima nella teoria del progresso storico, così caratteristica del Settecento e del primo Ottocento, quindi nella ‛legge dell'evoluzione', determinante tutti gli aspetti della realtà naturale e sociale, tipica del tardo Ottocento e del primo Novecento, e infine nel materialismo dialettico, diffuso ovunque si sia imposto il pensiero marxista. In tutti questi indirizzi, una consapevolezza profonda della radicalità del mutamento non implicava affatto l'idea di una successione storica priva di significato o ‛assurda', e quindi un contesto ultimo della vita umana che fosse in ultima analisi estraneo ai valori umani. Al contrario, la successione temporale delle forme crea un valore ‛sempre maggiore', giacché conduce a forme di vita più compiute, meglio adattate, più giuste. Il processo temporale e la ‛salvezza' - il superamento delle cause delle più profonde angosce umane - sono quindi categorie intrecciate o interdipendenti, anziché, come in molte altre culture, concetti separati e contrastanti.
4. Il quarto aspetto sembra essere in contrasto con gli altri tre, che mettono l'accento sul carattere arbitrario, ‛ciecamente naturale', relativo e transitorio dell'intera realtà; e particolarmente sembra in conflitto con quella profonda ‛fede' dell'età moderna - derivante dalla sempre più dominante tradizione scientifica - che tutto ciò che esiste è governato da leggi universali, da cause fisiche, da un ordine di ‛relazioni invarianti' obiettive e necessitanti, che la ricerca scientifica, con pazienza e acume, può gradualmente disvelare. Questo quarto aspetto consiste invece nell'insistenza sull'autonomia, sul quasi infinito potere creativo dello spirito umano, un potere realizzantesi nell'attività stessa dello spirito, che governa, guida e pone se stesso. L'autonomia, quale si è sviluppata nella cultura moderna, è l'inalienabile diritto di nascita e la facoltà che uomini e donne hanno di conoscere la loro propria verità, di decidere della propria esistenza, di creare il proprio significato e di stabilire i propri valori e, cosa tra tutte fondamentale, di costituire il proprio io come io. Elaborato a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, questo tema dell'autonomia ricevette una formulazione classica e compiuta nella definizione kantiana dell'illuminismo (Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, 1784): ‟Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della t u a p r o p r i a intelligenza! È questo il motto dell'illuminismo" (tr. it.: Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, in Scritti politici, Torino 1978, p. 141). Kant esortava la sua epoca a liberarsi dalla tutela altrui, specialmente delle cosiddette autorità, e a dimostrare la verità per la soddisfazione della ‟propria intelligenza". L'autonomia fu riaffermata con energia ancora maggiore dal romanticismo, con la sua insistenza sul fatto che ogni persona è unica e che, al fine di alimentare tale unicità - per diventare un io, come diceva Kierkegaard -, ognuno deve esperire ‛da sé' quanto è degno d'essere esperito: l'amore e la passione, il momento estetico, quello morale, quello religioso. Nel Novecento l'esistenzialismo, la psicoterapia e l'ideologia democratica hanno ulteriormente sviluppato questi temi: una persona (uomo o donna), se vuol essere una persona, deve autocostituirsi sulla base delle proprie decisioni. Di conseguenza, un io che non possa affermare se stesso mediante se stesso e per se stesso difficilmente può esser considerato un io; e l'ordinamento e il governo di una comunità sono legittimamente costituiti solo se sono scelti dal popolo e se il governo è il risultato di una libera discussione, di partiti formatisi liberamente e di libere elezioni.
I valori dell'odierna vita secolare dell'Occidente ruotano in massima parte attorno ai valori connessi con l'autonomia: libera scelta della professione, realizzazione delle proprie attitudini e facoltà, assenza di restrizioni nell'allacciare legami familiari o d'amicizia, scelta dello stile di vita e del modo d'uso dei propri beni, libero scambio di idee e speranze e così via. E nelle sue tipiche fantasie di una migliore esistenza nel futuro, la cultura secolare moderna sogna ancora un'accresciuta libertà: nuove possibilità di dominare le resistenze dell'ambiente naturale, nuove conquiste dello spazio e del tempo, nuovi modi di autoespressione sia nel lavoro sia nel tempo libero, nuova libertà dalla povertà, dal lavoro faticoso, dalle restrizioni di classe e di razza; ‛liberazione' al fine di diventare liberamente se stessi. Se lo spirito moderno ha sostenuto fermamente una credenza, è quella che uomini e donne debbano, riguardo a certi aspetti essenziali, vivere la propria vita in modo autonomo (se la vita dev'essere creativa e umana); e nel suo ottimismo ha creduto che uomini e donne avrebbero sempre più esercitato in futuro la loro libertà sulle forze cieche del destino - della natura, della malattia, degli anacronismi storici - per diventare quindi, infine, ‛padroni del loro destino'. Le nostre attuali ideologie - il capitalismo e il comunismo - divergono circa il modo di realizzare l'autonomia nella storia umana, non circa la possibilità o desiderabilità della sua realizzazione. Nel suo nucleo la cultura secolare, per quanto possa essere stata dominata dalla scienza fisica, e quindi dalle indagini sulla natura, non ha avuto affatto, dunque, un atteggiamento antiumanistico. I valori esaltati da questa cultura sono infatti incentrati sull'educazione, sul sostegno e l'incoraggiamento della persona umana. E chiave per lo sviluppo della ‛persona', conditio sine qua non di ogni autorealizzazione umana è l'autonomia, l'autocostituzione e autodirezione di tutte le facoltà umane: pensiero, volontà, amore. Infine, nelle speranze politiche e sociali che davano impulso alla cultura, si manifestava in larga misura la fiducia che l'esercizio della libertà umana avrebbe esteso il controllo sui ciechi e accidentali processi della natura e sulle strutture prive di intenzionalità - e quindi di finalità - della storia, che sarebbe alla fine stata ‛redenta'.
Di fatto, e la cosa è abbastanza sorprendente, strettissima era la relazione tra l'ascesa della scienza al dominio e la convinzione dell'autonomia come carattere essenziale dello spirito umano. Ciò non è dovuto soltanto al fatto che la scienza dipende da un'atmosfera (che a sua volta incoraggia) di libera critica, discussione e sperimentazione; assai più, è stata l'‛autoconsapevolezza' della stessa comunità scientifica a produrre l'acuta coscienza moderna del potere creativo, e persino della trascendenza, dello spirito umano. Il senso moderno della libertà e dell'iniziativa dell'io, del suo potere su tutte le forze condizionanti dall'esterno, e quindi della sua autonomia, è derivato dalla comunità scientifica. Non erano, queste, ‛conclusioni' della ricerca scientifica; piuttosto, era la stessa ripetuta esperienza della ricerca che manifestava aspetti per l'innanzi ignoti della trascendenza e creatività umana. Nell'esperienza del ‛dubbio critico' nei confronti dell'autorità delle idee tradizionali; nell'esaltazione per la comparsa - nell'immaginazione creativa - di ‛nuove ipotesi'; nell'esperienza di ‛manipolazione' delle condizioni iniziali e dell'ambiente stesso; nel trascendimento del tempo sperimentato nella ‛predizione' e nella susseguente ‛convalidazione' delle nuove ipotesi, e soprattutto nell'esperienza di ‛trasformare' il mondo dato attraverso l'applicazione di nuove conoscenze (come diceva Bacone: ‟la conoscenza è controllo e il controllo è potere"), la comunità scientifica esperiva in modi nuovi l'autonomia e la trascendenza dell'io umano. La cultura moderna si è così trovata in possesso di una fiducia nella realtà e nel potere della libertà creativa dell'uomo: libertà - sconosciuta in tale misura in passato - del pensiero, della volontà, del desiderio, quale l'affermava in modo implicito la prima Critica kantiana e poi in modo esplicito l'idealismo successivo: lo spirito ‛forma' il suo mondo, anzi in realtà ‛crea' il mondo.
Lo stesso discorso può farsi per gli altri tre elementi dello spirito secolare: il senso della contingenza, della relatività e transitorietà ‛faceva spazio', per così dire, in modi affatto nuovi all'esercizio della libertà umana. Soltanto in un mondo contingente, relativo e temporale sono realmente possibili ‛nuove' combinazioni di cose, la comparsa di novità per l'innanzi ignote. Ormai, ogni parte dell'ambiente è sostituibile e quindi l'intero ambiente, sia naturale sia sociale, è potenzialmente ‛malleabile'. Se sono fatte di elementi separabili, e quindi mobili, le montagne possono essere spianate; se le istituzioni sono storiche, derivate da certi fattori e plasmate da altri, possono essere ‛ri-formate' e persino sostituite. La libertà umana giunse a sentirsi come trascendente rispetto alla natura e alla storia, e ciò non era più tanto il risultato della tradizionale fede religiosa in un Dio libero, sovrano su tutte le cose, ma piuttosto, al contrario, della dissacrazione radicale della natura e della storia, e dell'affermarsi del potere umano di conoscere e di riplasmare sia l'una che l'altra.
Insomma, l'immagine che può trarsi dalla nostra descrizione dello spirito secolare è quella che mostra l'esistenza umana come inserita in un contesto contingente, relativo e temporale in cui non appare - né sul piano di una struttura razionale eterna nè su quello di una sovrana volontà divina - alcun ordine, alcuna coerenza o significato ultimi; un contesto quindi nel quale uomini e donne sono costretti, o messi in grado di creare, con le loro facoltà, qualsivoglia significato della vita su questa terra. Ciò che possiamo conoscere - e di cui possiamo parlare in modo sensato - è soltanto il mutevole mondo, sociale e naturale, che ci circonda, e magari il mondo interiore della nostra psiche; ciò che noi possiamo fare è confinato ai mondi della progettazione, della politica, dell'economia e della cultura; ciò su cui si esercita la nostra valutazione sono le nostre relazioni con la natura, i prodotti della nostra operosità, le opere d'arte che noi creiamo o di cui godiamo, le riforme che possiamo attuare nella vita storica e, infine, le relazioni che possiamo intrattenere con gli altri. Quale che possa mai essere, il luogo della realtà della conoscenza e del valore sta comunque nell'immediato, nell'hic et nunc, in ‛questo' mondo, che noi possiamo percepire e manipolare. E ogni linguaggio che sia intelligibile e dotato di significato in un mondo siffatto è un linguaggio ‛unidimensionale', che si riferisce unicamente alle connessioni delle cause naturali, storiche e psicologiche che ci circondano e di cui siamo l'effetto, e non a una qualche dimensione della realtà che si situi al di là del regno della contingenza, della relatività e della transitorietà. In tale regno i ‛simboli', che si riferivano una volta a un mistero trascendente l'intelletto ordinario, sono ridotti a ‛segni', che rinviano non a una trascendenza al di là di se stessi, ma unicamente ad altri eventi o entità contingenti in una sequenza unidimensionale. Una mentalità siffatta non conosce un altro mondo sacro al di là di ‛questo', che è l'unico - nè ne avverte il bisogno - ed è concorde nell'affermare che un discorso riferentesi - sia nei termini del pensiero filosofico sia nei termini della fede religiosa - a un mondo diverso è irreale e privo di significato. Nella sua veste più cruda lo spirito secolare è esplicitamente materialistico, edonistico e rivolto al successo e al potere mondano; nel suo aspetto migliore, ha sviluppato un sano amore per le gioie della vita e, nella sua progrediente dimensione umanitaria, un compassionevole interesse per l'altrui benessere, associato a un'appassionata devozione per la giustizia su questa terra, nel tentativo di portare concretamente la prosperità nell'intero mondo storico, di assicurare un incremento di libertà, di rafforzare l'individualità e la dignità e di diffondere fra tutti, uomini e donne, i beni prodotti dalla tecnologia e dall'industria.
La cultura secolare esordì mostrando uno straordinario ottimismo circa se stessa e il suo futuro, come indica il suo ‛mito' guida, l'idea di progresso. I vecchi valori, credenze e istituzioni si trovavano ora relativizzati e assoggettati a critica; uomini e donne, liberi da logore tradizioni, potetevano realizzare le loro immense capacità potenziali. Inoltre, la natura, la storia e l'uomo stesso apparivano modificabili da un agire guidato dall'intelligenza e dall'istruzione. Uomini e donne sapevano ora svelare i fattori dinamici che plasmano gli eventi naturali, sociali e persino psicologici, e sapevano quindi anche come riplasmarli in forme più adeguate. La società si era fatta gradualmente più aperta a nuove idee, nuovi valori, nuove tecniche. Ora che l'‛autonomia' - lo spirito creativo - aveva scoperto i suoi poteri e le sue mete più care, che cosa poteva impedire il conseguimento dei nostri propositi, la realizzazione del ‛bene' che tutti con tanta evidenza desideravamo?
Estremamente diffuse nel tardo Ottocento e nel primo Novecento, queste convinzioni davano a una cultura secolare che credeva nella creatività - priva di ambiguità - dell'intelligenza istruita e delle intenzioni morali una fiducia immensa: il mutamento era la legge della vita, e i suoi risultati erano sempre più positivi. La scienza e la tecnologia avrebbero dato all'umana volontà una conoscenza e un potere sempre maggiori; se, quindi, l'istruzione e con essa lo spirito liberale potevano raggiungere una diffusione universale, che cosa sulla terra poteva impedire la fondazione dell'Utopia in un prossimo futuro?
Il Novecento ha tuttavia mostrato come fossero precari l'ottimismo, o anche la semplice fiducia, della cultura secolare. L'intelligenza istruita ha prodotto i condizionatori d'aria come le armi atomiche; la tecnologia sembra incline a spogliare la terra altrettanto che a inventare congegni utili; e l'intelligenza sociale sembra complicare anziché risolvere, o semplicemente spiegare, i nostri più profondi problemi sociali e politici. La Germania, il paese più ‛avanzato' d'Europa, quello in cui più alto era il livello dell'istruzione, della scienza e dell'arte, si è trasformato quasi da un giorno all'altro in un demoniaco flagello della civiltà. Come conseguenza, la vecchia fiducia nell'intelligenza scientifica e tecnologica della civiltà e nella buona volontà dell'uomo moderno si è radicalmente dissolta.
Perdendo la sua fiducia nell'autonomia, lo spirito secolare tende a passare dall'ottimismo a un'autentica disperazione. La contingenza, la relatività e la transitorietà di tutte le cose rivelano ora l'altra faccia: l'indifferenza per il valore; la dissennata eliminazione delle forme creative e persino della forma umana; la possibilità di una disarmonia, di un non adattamento e di un'estinzione radicali; l'inclinazione verso l'‛assurdo'. Diventa possibile considerare l'intero flusso temporale, e quindi la stessa storia umana, come un accidente privo di significato, come un momentaneo, evanescente lampo di luce in un universo per il resto buio e freddo. Se uomini e donne sono realmente sui iuris in un mondo siffatto, e se, a quanto sembra, non sanno dominarsi quanto occorre per non distruggersi l'un l'altro, allora quale speranza può mai esserci? Una cultura secolare che perda la sua fede nella saggezza dell'intelligenza scientifica e nelle intenzioni morali perderà presto la fede in se stessa. La filosofia, la letteratura, il teatro e l'arte del Novecento rispecchiano pienamente questa nuova faccia del mondo secolare; e, in mezzo alla sorpresa della maggior parte di noi, si sono fatti improvvisamente manifesti la rilevanza e il valore di una fiducia religiosa in un potere al di là dei nostri poteri, in una bontà che superi la nostra ambiguità.
Abbiamo descritto lo spirito secolare in quella che potremmo chiamare la sua forma ‛avanzata' o ‛estrema', fiorita nell'Ottocento e nel primo Novecento. Ovviamente, un siffatto senso di separazione radicale di un universo cieco dalle aspirazioni, dai desideri, dalle intuizioni, dai canoni e norme dell'umana esistenza non è giunto sulla scena del mondo occidentale in questa forma radicale; si è piuttosto sviluppato gradualmente a partire dal Seicento sino all'attuale forma estrema. Poiché il processo di tale sviluppo è praticamente coestensivo con la storia della cultura occidentale a partire dal Rinascimento, ci concentreremo soltanto su due temi interrelati: la graduale scomparsa del senso di un ordine o finalità ultimi e sacri nell'esistenza, e la riduzione della ragione a strumento puramente tecnico.
Quando, circa tre secoli or sono, lo spirito secolare fece la sua prima comparsa con la critica illuministica di una rivelazione metarazionale e di un essere trascendente la portata del pensiero umano, sopravviveva tuttavia in Cartesio, Leibniz e Spinoza (cfr. specialmente Cartesio, Discorso sul metodo e Meditazioni; Leibniz, Monadologia e Teodicea; Spinoza, Etica, soprattutto la prima parte), nei deisti, e persino nei philosophes francesi, il senso di un ordine razionale ultimo nella natura, corrispondente ai modi del nostro pensiero e in grado di dare forma e coerenza alla vita umana. Il ruolo della natura in quanto esemplificante un ordine razionale e morale, e visto quindi come il fondamento delle speranze e dei propositi umani, può trovarsi eccellentemente illustrato, per esempio, in questo squarcio un po' stravagante del barone d'Holbach (Système de la nature, 1770, VII): ‟O Natura, sovrana di tutte le creature! e voi, sue venerabili figlie, Virtù, Ragione e Verità! Rimanete per sempre le nostre riverite protettrici! A te spettano le lodi del genere umano [...] mostraci, o Natura, ciò che gli uomini debbono fare [...] bandisci l'errore dalle nostre menti, la malvagità dai nostri cuori, la confusione dai nostri passi; fa' che la conoscenza estenda il suo salutifero regno, che la bontà dimori nelle nostre anime e la serenità nei nostri petti".
Una tale credenza in un ordine obiettivo e razionale fu scossa dal più radicale atteggiamento dell'empirismo inglese, culminante in Hume, e dal Kant ‛critico' (cfr. soprattutto l'Essay concerning human understanding e i Dialogues concerning natural religion di Hume e la prima Critica kantiana). Divenne chiaro che l'argomentazione razionale non poteva né fondare né esplorare questa sfera di coerenza ultima, sebbene altri aspetti dello spirito (gli affetti, la fede o la coscienza morale) potessero oltrepassare la sfera dell'esperienza sensibile, cui la ragione era confinata. Nelle filosofie romantiche, basate su questi altri aspetti dell'esperienza, l'attacco a una divinità trascendente continuava. Con Hegel, Schelling e Schleiermacher il divino scendeva dal suo cielo immutabile, autosufficiente e separato per intrecciarsi al sistema delle realtà finite nel tempo e nello spazio. Un ‛assoluto' rimaneva tuttavia, ma era sempre concepito come la totalità o l'unità dei particolari dell'esperienza, e quindi come immanente nell'immediato e non separabile da esso.
Con l'ulteriore sviluppo, nella seconda metà dell'Ottocento, di forme di pensiero evoluzionistiche, anche quest'assoluto immanente si dissolve. Tutto ormai s'immerge nel processo, tutto muta e si evolve; noi siamo in un mondo in fluttuazione incessante, dove le forme stesse sono fluide e il processo soltanto è reale. Eppure, la visione ottocentesca del divenire totale non rappresenta affatto la fine della strada ‛secolare'. All'interno del flusso una struttura durevole di coerenza e di significato permane, abbastanza dominante da guidare i processi di mutamento verso un incremento di valore e magari verso una divinità. Questo principio di coerenza e di significato è per lo più concepito, come abbiamo notato, come l'universale legge del progresso o dell'evoluzione, o anche come l'evolventesi Divinità del processo, che in ciascuna epoca integra in un'armonia crescente le realtà finite, contingenti e transitorie dell'esperienza ordinaria (v. Alexander, 1939 e 1950; v. Whitehead, 1929, libro 5).
Quando però dal pensiero ottocentesco passiamo a quello più tipicamente novecentesco, anche questo senso di una teleologia immanente, di un vincolante principio di coerenza pur nel mutare dell'ambiente, scompare. Le filosofie (empirismo, naturalismo moderno, filosofia linguistica e analitica, esistenzialismo e fenomenologia) - per differenti che possano essere sotto tutti gli altri aspetti - concordano nel dipingere una disarmonia tra esistenza umana e ambiente, ovvero semplicemente rifiutano di discutere la relazione tra l'una e l'altro. Nel naturalismo l'universo circostante è mera ‛natura', fertile e infinitamente molteplice ma cieca e priva di finalità, ‛natura' che possiamo rappresentarci unicamente in chiave scientifica. Di conseguenza mentre la natura - in modo evidente sebbene non intenzionale - sostiene l'esistenza e la sopravvivenza della sua prole umana, la ricerca del significato, il bisogno di ordine e di amore che caratterizzano uomini e donne non trovano nè rispecchiamento nè controparte nel mondo circostante. Non esiste quindi un ‛significato ultimo' del sistema delle cose; dobbiamo contentarci dei nostri ‛piccoli significati' nell'esistenza concreta, del molteplice mondo di entità finite nel quale ci troviamo e che la nostra intelligenza critica può guidare verso le nostre proprie finalità (v. Dewey, 1920, specialmente capp. 1, 4, 5 e 7; v. Krikorian, 1946, specialmente capp. 1 , 2, 12 e 15). Pressappoco la stessa visione di fondo sottostà alla maggior parte dell'odierna filosofia linguistica, sia nella sua forma neopositivistica sia in quella analitica, sebbene l'accento batta qui appunto sul linguaggio e non sull'ontologia. Questa separazione tra interiorità e pensiero dell'uomo e universo circostante raggiunge il suo apice nell'esistenzialismo. K. Löwith ha espresso con grande efficacia questo senso di alienazione dall'universo, così caratteristico dello spirito moderno e in primo luogo dell'esistenzialismo: ‟È sullo sfondo di una natura qual è concepita dalla scienza naturale moderna che l'esistenzialismo stesso e venuto all'esistenza: la sua esperienza basilare non è infatti la storicità ma la contingenza dell'esistenza umana entro la totalità del mondo naturale [...]. C'è un intimo rapporto tra l'esperienza nuda, ‛effettiva', assurda, gettata nel mondo e l'anonimità del mondo stesso in cui ci accade di esistere [...]. E, certo, come ci si potrebbe sentire a casa in un universo concepito come il risultato casuale di probabilità statistiche e di cui si dice sia venuto all'esistenza attraverso un'esplosione? Un tale universo non può ispirare fiducia e simpatia, nè può dare orientamento e significato all'esistenza umana in esso" (v. Löwith, 1966, pp. 24, 25, 28).
L'ambiente oggettivo è non soltanto cieco, meccanico e inesorabile; esso è ‛assurdo', ed è tale perché affatto antitetico a tutti gli aspetti, caratteri e compiti importanti dell'essere umano. A. Camus ha espresso con estrema potenza questo senso esistenzialista di radicale irrazionalità e assurdità (per gli uomini) del mondo e il conseguente estremo senso di alienazione: ‟In questo universo indecifrabile e illimitato, il destino dell'uomo assume ormai un senso proprio. Un popolo di irrazionali si è levato e lo circonda fino al suo ultimo termine. Nella sua chiaroveggenza rinata e adesso ordinata, il senso dell'assurdo si fa luce e si precisa [...]. Il mondo, in sé, non è ragionevole; è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell'uomo" (v. Camus, 1944; tr. it., p. 23); ‟L'assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo" (ibid., p. 28). L'esistenzialista, quindi, tronca deliberatamente il legame tra sé e l'ambiente oggettivo; egli è solo non soltanto di fronte a Dio ma anche di fronte all'intero universo. Un ordine oggettivo in cui la vita umana fosse inserita, per una concezione siffatta (sulla quale Kierkegaard e Nietzsche concorderebbero) annienterebbe la libertà e distruggerebbe la possibilità di diventare, per decisione e volontà propria, quell'essere autentico che ognuno di noi potenzialmente è (v. esistenzialismo).
Come può già vedersi, una parallela ‛riduzione' colpisce la portata e la ricchezza della ragione. Inizialmente, alla ragione - come abbiamo brevemente illustrato - era attribuita non solo la capacità di esplorare, con la speculazione, l'intero ambito dell'universo (anche di dimostrare Dio e quindi di ‛pensare' i pensieri di Dio dopo di lui); essa era anche in grado di raggiungere una visione coerente dei fini dell'attività costruttiva e delle norme che governano l'esistenza creativa dell'uomo (cfr. specialmente l'Etica di Spinoza). Anche i fisiocrati francesi consideravano la natura come razionale: v'era cioè in essa una coerenza fondamentale che s'accordava con le leggi della mente umana; più ancora, per loro, la natura e la ragione erano insieme la fonte e la base delle norme sia politiche sia morali: si pensi per esempio al diritto naturale, così importante per la teoria rivoluzionaria. Con il Novecento, la ragione diventa invece esclusivamente logica e analitica, come nella filosofia contemporanea, o descrittiva e predittiva, come nella scienza. Nell'un caso come nell'altro, la ragione non può essere prescrittiva o normativa, salvo che riguardo alle proposizioni. Di conseguenza, la nostra affermazione dell'esistenza di finalità particolari e - appunto su tale base - i nostri giudizi normativi esprimono unicamente i nostri desideri interiori, le nostre ‛preferenze', e hanno quindi un'efficacia unicamente emotiva. La ragione viene allora considerata capace, attraverso la ricerca scientifica, di fare affermazioni contingenti su ciò che obiettivamente ci circonda, di analizzare i concetti astratti e le loro interrelazioni, e di creare, organizzare e criticare sistemi e processi strumentali, meccanici o umani. Riconoscendo tali capacità alla ragione, si dissociano nel contempo da essa gli aspetti intuitivi, immaginativi, morali, politici, estetici e religiosi dello spirito creativo, che diventano di conseguenza ‛irrazionali', oltrepassando la sfera del pensiero discorsivo o addirittura quella del linguaggio. In una prima fase, notavamo una costante alienazione dell'umano dall'universo e la conseguente accresciuta importanza dell'autonomia, dei decisivi poteri creativi, razionali e morali, dello spirito. Ora - come risultato, ironia della sorte, dello stesso processo - gli effetti sono radicalmente opposti: la ‛riduzione' e lo ‛smembramento' dei poteri creativi dello spirito; una scissione della ragione dalla sfera morale, estetica, emotiva, religiosa, e anche dall'immaginazione speculativa. Di fatto la conoscenza dell'umano può ormai essere solo ‛oggettiva', una conoscenza di uomini e donne che escluda a priori ogni autoconsapevolezza del soggetto, e pertanto una conoscenza di uomini e donne come meri oggetti privi di interiorità o soggettività. Se la conoscenza definisce ciò che per noi è ‛reale', l'esistenza dello ‛spirito' - per gli uomini e donne moderni - è ab initio assai dubbia, e ciò in una cultura che ha posto la sua creatività e le sue speranze nell'‛umanesimo', cioè unicamente nella realtà, nel potere e nelle capacità dello spirito umano, nell'intelligenza disinteressata, nell'impegno costante al raggiungimento dell'eccellenza umana!
L'atteggiamento generale della cultura secolare verso la religione è ormai chiaro. Per molti intellettuali, le credenze tradizionali della religione diventavano inattendibili, irrazionali e persino prive di significato, comunque affatto incongrue rispetto al ‛mondo reale' fatto conoscere dalla scienza; esse erano quindi spiegabili soltanto come ‛proiezioni', analizzabili in termini sociologici, economici e psicologici. Inoltre, per l'ottimistica fiducia secolare nel progresso la religione diventava inutile, anzi nociva, in quanto distoglieva l'attenzione dal benessere degli altri esseri umani in direzione del soprannaturale, obbligava all'osservanza di norme anacronistiche impedendo così la soluzione pratica e tecnica dei nostri problemi più profondi. Nel nome dell'umanismo, come anche in quello della scienza, la modernità per più d'un secolo ha considerato la religione come un aspetto inutile e superfluo del nostro passato, comprensibile in epoche di ignoranza, di debolezza, ma inescusabile in un'epoca come la nostra, dominata dalla scienza, dalla tecnologia e dalla democrazia (o dal socialismo). Così si esprimeva per esempio L. Feuerbach, uno dei portavoce più eloquenti del secolarismo ottocentesco (Vorlesungen über das Wesen der Religion, 1851, III): ‟Lo scopo delle mie lezioni, come dei miei libri, è di trasformare i teologi in antropologi, gli amanti di Dio in amanti dell'uomo, i candidati all'al di là in studiosi di questo mondo, i lacchè religiosi e politici di monarchi e signori celesti e terreni in cittadini di questa terra, liberi e fiduciosi in se stessi. Il mio scopo è quindi lungi dall'essere negativo; e io nego solo per affermare [...]. Certo, dalla mia dottrina segue che non c'è Dio, non c'è un essere astratto, disincarnato, distinto dalla natura e dall'uomo e arbitro a suo piacimento del destino del mondo e dell'umanità; ma questa negazione è semplicemente la conseguenza di un'intuizione dell'essenza di Dio, dell'aver compreso che Dio non denota altro se non, da un lato, l'essenza della natura e, dall'altro, l'essenza dell'uomo". Incidentalmente, vorrei azzardare l'ipotesi che l'avversione, così energicamente espressa da Feuerbach, per ogni religione rivelata, e quindi assoluta, per norme e autorità religiose incontestate è la ragione più profonda per la quale il nuovo Iran scuta si oppone con tanta violenza all'Occidente. Al pari di tante altre culture tradizionali non occidentali in questo secolo (come quelle della Cina, del Giappone e dell'India), l'Iran sta sperimentando una reazione violenta contro gli invadenti e corrosivi ‛acidi della modernità', che accompagnano la diffusione della cultura secolare occidentale.
Ciò che sinora non è apparso in modo evidente è l'effetto devastante che lo sviluppo della cultura secolare ha avuto sull'umanismo stesso e, per riferirci in particolare alla sfera accademica, sulle discipline umanistiche. Come è ormai evidente, per una cultura secolare sviluppata lo studio e la riflessione sull'arte, sulla letteratura, sulla storia, sull'etica e sulla metafisica, sulle religioni di altre culture, difficilmente possono essere considerati ‛conoscenza' del mondo reale (l'unico rilevante) sia naturale sia sociale, appunto perché non hanno carattere di ricerca scientifica né sul mondo naturale nè su quello sociale. Certo, questi studi possono ben informarci sulle bizzarrie e la molteplicità della fantasia, dei sogni, delle preferenze emotive dell'uomo, ma, come ha detto un filosofo della scienza, Hempel, ‟essi non hanno valore teorico", non sono ‟conoscenza" e non rivestono quindi che una secondaria importanza (v. Hempel, 1959). Inoltre tali studi, come le arti stesse, hanno scarso valore ‛pratico' e sono quindi privi di una vera importanza nei confronti di questioni socialmente importanti, come quelle riguardanti la progettazione di macchine, la medicina, l'economia, l'organizzazione della produzione e della distribuzione, la finanza e la politica. Le discipline umanistiche non sono quindi altro che aspetti della sfera ‛privata', materia di gusto; hanno importanza - al pari delle arti - per coloro cui piacciono, ma dubbio è il loro significato per quell'addestramento scientifico, tecnico e professionale cui l'uomo moderno e socialmente utile dovrebbe dedicarsi. Ciò di cui abbisogniamo, nell'odierno mondo tecnico e industriale, sono gli ‛esperti', non ‛persone intere'; l'istruzione che, nella prospettiva umanistica, doveva produrre l'eccellenza umana, è stata uno strumento per l'abbandono di una cultura aristocratica, orientata sul tempo libero. Per questa ragione - e perché l'interesse di governi e imprese è rivolto in modo esclusivo alla scienza, alla progettazione, all'economia, alla sociologia e alla psicologia non si può certo parlare di un semplice trapasso, nella cultura secolare, da un'istruzione ‛religiosa' o ‛classica' a un'istruzione moderna ‛liberale'. In realtà, è accaduto piuttosto, nel campo dell'istruzione superiore, che l'indirizzo umanistico sia stato rapidamente sostituito da un indinzzo tecnico e professionale, come può mostrare qualsiasi ricerca - per il periodo, diciamo, dal 1910 al 1980 - sugli stanziamenti, rispettivamente, per l'istruzione scientifica e per quella umanistica. Potremmo dire, in estrema sintesi, che, man mano che lo sviluppo di una moderna, tecnologica, cultura consumistica di massa minacciava, nella nostra società avanzata, di svuotare le persone umane e di dissolvere i loro legami comunitari, sul piano accademico si verificava una correlativa riduzione dello studio delle discipline umanistiche a favore di una formazione scientifica, tecnologica e professionale, a favore cioè di un addestramento ad abilità scientifiche e tecniche per un'utile partecipazione alle istituzioni della società.
È giunto il momento di riassumere la nostra descrizione dello spirito secolare, cioè del più diffuso atteggiamento delle classi medie e superiori, quelle classi di accademici, di professionisti, di uomini d'affari e di tecnici che guidano le società avanzate dell'Occidente. Vogliamo anzitutto notare l'immensa ‛creatività' di questa cultura, alla quale si deve molto, se non la massima parte, di quanto nel mondo moderno - anche alle persone ‛religiose' appare fornito di valore. Gli ideali di tolleranza e obiettività in campo politico, morale e religioso - ideali fondamentali per una società democratica o libera - sono stati i suoi doni più evidenti; la critica del sapere e delle autorità tradizionali - fondamentale per la realizzazione individuale - è stato un altro. Anche l'apprezzamento per le nuove idee e la fiducia nel futuro - di fatto, l'apertura al futuro per il miglioramento su ogni fronte - si devono a questa cultura. Infine, ed è la cosa più importante, l'interesse umanitario per la riforma e il miglioramento della vita sociale, politica ed economica, delle relazioni nella famiglia e tra i sessi - insomma l'intera concezione della ‛riplasmazione' del mondo sociale al fine di renderlo più abitabile per gli uomini - deriva non soltanto dalla concentrazione su questo mondo, ma anche, e in modo peculiare, dall'accentuazione ‛secolare'. Se non si fossero considerate le istituzioni come relative, transitorie, e dunque trasformabili, l'impegno e la fiduciosa speranza di riplasmarle non avrebbero potuto mai imporsi. La spinta all'amore e al servizio - di origine ebraico-cristiana - avrebbe preso, come già in passato, la via del servizio e della vocazione religiosi, del ritiro in comunità separate, della filantropia o del Dienst nella propria professione entro la società. Solo quando si comprese la plasmabilità del mondo sociale, il Dienst poté essere concepito come un impegno riformista o rivoluzionario, dedicato alla trasformazione delle istituzioni. La maggior forza positiva della moderna società secolare - la sua ricerca della giustizia e del benessere qui sulla terra - appare quindi come il risultato diretto della cultura scientifica e secolare che siamo andati descrivendo, come anche del retroterra ebraico e cristiano di tale cultura. Non è un caso che le rivoluzioni americana, francese e russa siano seguite a un'epoca di critica scientifica delle idee tradizionali, di manipolazione scientifica dei dati dell'esperienza, d'innovazioni nelle ipotesi scientifiche e di riplasmazione tecnologica dell'ambiente. Qualunque critica possano avanzare contro lo ‛scientismo' della cultura secolare, la religione e il pensiero umanistico dovrebbero serbare la consapevolezza degli influssi positivi della scienza e adoperarsi per preservare i suoi ‛valori', così importanti per la vita creativa.
La cultura secolare è sorta, ed è poi vissuta, in consapevole antitesi alle culture fondate sulla religione e sul mito, quelle cioè fondate su tradizioni non controllate, su autorità non contestate, su asserzioni inverificabili circa la realtà e sulla fede assoluta nei propri presupposti basilari. Anche per i loro critici secolari, i ‛miti religiosi' risultavano ancora abbastanza comprensibili nelle fasi arcaiche, quando gli uomini ignoravano ancora il funzionamento della conoscenza, quando cioè la loro conoscenza era scarsa e spesso irrilevante, e quindi debole il loro potere di controllare e riplasmare la natura e la società. In una tale fase arcaica (e ‛fase arcaica' e una tipica etichetta usata per le culture non occidentali) i beni erano precari e accidentali, frutto della fortuna o del caso; di conseguenza, la vita umana era impregnata di profonda paura e angoscia. Non c'è da meravigliarsi che, per sentirsi sicuri in un ambiente estraneo e spesso ostile, questi uomini spaventati abbiano popolato il loro mondo di dei, l'abbiano strutturato (in una fase successiva) sulla base di un ordine razionale assoluto, l'abbiano fornito di norme ultime e abbiano infine governato in conseguenza la loro vita incerta e rischiosa (v. religione). Ma ora che sappiamo come conoscere ‛veramente' il nostro mondo, e possiamo scacciare le nostre paure attraverso il nostro nuovo potere di controllarlo, i miti risultano inutili e il linguaggio simbolico che li caratterizza perde rilievo e significato. Ne deriva che sia la metafisica sia la teologia diventano anacronismi - al pari delle ‛pseudodiscipline' sorelle, l'alchimia e l'astrologia - tipici di un'età d'ignoranza e di superstizione.
La moderna cultura secolare considerava dunque se stessa come un ulteriore e più avanzato stadio dello sviluppo storico dell'umanità, come una fase di progresso distinta non soltanto dalle società primitive e arcaiche del remoto passato, ma anche dalle società prescientifiche dell'Occidente feudale e rinascimentale. Questo quadro di una storia progrediente, che si sviluppa attraverso la graduale accumulazione di conoscenze e di tecniche per raggiungere le sue forme paradigmatiche con l'avvento della scienza moderna, forniva alla cultura secolare gli elementi sostanziali della sua autocomprensione e della sua collocazione nell'universo delle cose. Si credeva che, dopo secoli di erronee interpretazioni religiose e metafisiche in termini di trascendenza, immutabilità, eternità, ora la realtà si desse a conoscere quale effettivamente era: temporale, mutevole, fitta di interrelazioni; e che il significato dell'esistenza, e quindi della vita umana - una volta trovato erroneamente nella ricerca della trascendenza divina - potesse ora essere realizzato ‛secolarmente' qui sulla terra, attraverso lo sviluppo tecnologico e industriale e le riforme politiche e sociali.
Com'è evidente, la cultura secolare si considerava scientifica, improntata a un tenace e pragmatico realismo, libera da fedi religiose non controllate e da speranze sentimentali. L'ironia della sorte è che la profonda, pressoché inconscia fede di questa cultura empirista nell'avanzamento della civiltà, nella scienza come forma paradigmatica del conoscere in tutte le aree dell'esperienza, nelle illimitate possibilità dello sviluppo tecnologico e nei benefici effetti di un'intelligenza sempre più istruita e addestrata: questa fede, sebbene generata da una cultura scientifica, gettava le basi di un nuovo ‛mito', questa volta moderno, il ‛mito del progresso'. E questo mito, come i miti precedenti, dava alla vita dell'Occidente moderno la sua ‛sostanza spirituale', dava forma alla sua identità o ‛autocomprensione', plasmava la sua istruzione e le sue professioni, guidava le sue decisioni fondamentali e sosteneva infine la sua fiducia nella storia e quindi le sue speranze (v. progresso).
3. La crisi: contraddizioni nella cultura secolare, ricomparsa della religiosità e avvento dell'ideologia
Se l'immagine della cultura secolare da noi delineata fosse stata sottoposta a un uomo o donna ‛moderni' dell'inizio del nostro secolo, sarebbe stata probabilmente accolta con un'approvazione entusiastica, e considerata come un quadro empiricamente fondato, veridico e affatto realistico della società occidentale contemporanea e delle sue legittime speranze. A chi invece lo guardi oggi, questo medesimo autoritratto della nostra cultura secolare appare irrimediabilmente ingenuo, evidentemente impreciso in vari punti e, soprattutto, idealistico, ultraottimistico e quindi ingannevolmente lusinghiero per quanto riguarda le strutture e forze fondamentali della vita moderna. Questa visione di noi stessi ci sembra oggi il frutto anacronistico di un obsoleto mito ‛religioso' ottocentesco e, come la maggior parte di tali miti, ci sembra offuscare anziché illuminare la realtà. Questa rotazione di 180° dell'asse culturale è stata rapida: un disincantamento diffuso riguardo alla realtà e alle prospettive della nostra cultura ebbe inizio in Europa con la prima guerra mondiale, si estese agli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale e si è intensificato senza sosta negli ultimi tre decenni. Naturalmente, anche assai prima del 1914 uomini come Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Marx, Baudelaire e Freud avevano avvertito l'imminente disintegrazione della cultura europea, sebbene Marx e Freud (quest'ultimo almeno occasionalmente) avessero accarezzato la speranza di un ‛salto' progressivo fuori della disintegrazione; e non è privo di significato che queste voci ammonitrici, passate quasi inavvertite in mezzo al frastuono progressista dell'Ottocento, abbiano acquisito il posto centrale nell'autocomprensione del nostro secolo.
Ironia della sorte, accade oggi che la cultura secolare, ancora dominante sebbene vacillante, si trovi forse in maggiori difficoltà e più minacciata nel suo futuro di quanto non siano le tradizioni religiose, che una volta aveva con tanta condiscendenza considerato ormai allo stremo. Nell'ultima parte di quest'articolo il nostro compito sarà dunque quello di passare in rassegna le contraddizioni e i dilemmi che, emersi all'interno della cultura secolare, hanno condotto a un mutamento radicale nella valutazione delle sue presenti condizioni, e quindi delle sue possibilità future, e hanno offerto il destro a critiche severe dei suoi presupposti fondamentali. Così facendo, potremo forse mostrare che, come un'interpretazione e una critica ‛secolari' della religione e della cultura ‛religiosa' si dimostrarono insieme vere e utili, aprendo la strada a una riforma della religione e a una sua maggiore autonomia, allo stesso modo un interpretazione ‛religiosa' o ‛teologica' della scienza e della cultura scientifica può oggi gettar luce su alcuni dei loro profondi dilemmi e sulla loro possibile soluzione.
Giacché la scienza empirica e matematizzata è stata la principale forza creativa che ha plasmato la società occidentale moderna, non può sorprendere che molti dei dilemmi e contraddizioni che emergono oggi nella società abbiano le loro radici nella scienza, come del resto era stato il caso della religione nella società premoderna. La prima contraddizione concerne il ruolo e lo status dell'autonomia umana. Come abbiamo notato, l'esperienza cosciente della ricerca scientifica fu la fonte più importante dell'acutissima coscienza moderna dell'autonomia e trascendenza della mente e del volere umani; e la fiducia nell'‛intelligenza istruita', fiducia generata dall'esperienza della scienza al suo sboccio, fu basilare per la fiducia di questa cultura in se stessa e nel suo futuro. Senonché, la ricerca scientifica, paradossalmente, si è dimostrata incapace di scoprire una qualsiasi traccia di una tale intelligenza e libertà autonome. Tutto ciò che le ricerche ‛scientifiche' sugli esseri umani sembra siano state capaci di scoprire è l'esistenza oggettiva di esseri bipedi privi di interiorità e capacità di autodirezione, che reagiscono in modi immutabili a dati stimoli: entità condizionate unicamente da forze esterne e governate quindi da leggi universali (come ha detto una volta Tillich, ‟spazi vuoti attraverso i quali passano forze aliene"). Come ha detto un neurologo, e proprio dopo aver illustrato entusiasticamente ciò che potremmo fare (se ‟noi volessimo e se avessimo maggiori fondi") con tutte le nuove scoperte della neurologia, nei nostri esperimenti non troviamo traccia di ciò che filosofi e teologi hanno chiamato ‛libertà'". Ironia della sorte, la creatività spirituale, prerequisito della scienza e ripetutamente esperita nella concretezza della ricerca -, non è ‛conosciuta', e non può esserlo, dalla ricerca scientifica. Giacché quel che pensiamo di poter conoscere determina per noi in qualche modo quel che consideriamo come ‛reale', non c'è da meravigliarsi che la ‛qualità di persona', l'‛autonomia' e la ‛libertà' le caratteristiche basilari dell'essere umano abbiano uno status intellettuale precario in una cultura scientifica; così come ‛essere' un uomo è diventato esistenzialmente precario in una cultura industriale, tecnologica, urbana. Questa contraddizione mostra quindi che quel che ‛conosciamo' (in questo caso, attraverso la consapevolezza di noi stessi) è più vasto di ciò che conosciamo attraverso la ricerca obiettiva e che, se il metodo scientifico è considerato come l'unico accesso conoscitivo al reale, allora solo ‛oggetti' popoleranno il mondo reale (e in definitiva il ‛nostro' mondo reale) e i ‛soggetti' della ricerca scientifica andranno di conseguenza incontro a un fraintendimento radicale.
Una contraddizione ancora più grave si è rivelata riguardo alla natura, all'oggetto fondamentale della ricerca scientifica. Essenziale per lo sviluppo della scienza, come abbiamo notato sopra, è stata l'‛oggettivazione' di tutto quanto la scienza imprendesse a studiare. Nel caso della natura, ciò ha significato non solo la soppressione di ogni finalità divina ma anche l'eliminazione delle caratteristiche qualitative degli oggetti naturali, della loro unità e facoltà interne, della loro peculiarità e profondità, e della necessaria integrità dei sistemi naturali in quanto ‛cose per se stesse' oltre che per noi. La natura è stata così trasformata in un sistema interconnesso di oggetti quantitativi, omogenei, calcolabili e manipolabili, le cui funzioni e possibilità sono comprese unicamente dal punto di vista della loro congruenza con i nostri fini e bisogni. A proposito del rapporto tra meccanicizzazione della natura e uso della natura per scopi umani, così si esprime per esempio J. Dewey (v., 1920): ‟L'esclusione di fini e forme dall'universo è sembrato a molti un impoverimento ideale e spirituale. Considerata come un insieme di interazioni meccaniche, la natura sembra perdere significato e finalità [...] ma solo quando i fini furono banditi dalla natura gli scopi divennero, nelle menti umane, importanti come fattori capaci di riplasmare l'esistenza. Un mondo naturale che non abbia la sua ragion d'essere nella realizzazione di un insieme fisso di fini è relativamente malleabile e plastico; può essere usato per questo o quello scopo. Che la natura possa essere conosciuta mediante l'applicazione di formule meccaniche, è la prima condizione per volgerla alle necessità umane". E poiché la natura è ‛conosciuta' solo attraverso la manipolazione che di essa facciamo, essa diviene ‛reale' per noi solo per la nostra manipolazione.
Ora, come la crisi ecologica ci ha svelato, questo atteggiamento secolare verso la natura si è rapidamente dimostrato fatale. Le capacità tecnologiche dell'uomo sono cresciute a dismisura, e sono ora in grado di dominare la natura quasi a piacimento; gli scopi umani si sono rivelati in larga misura scopi di sfruttamento, di abuso - piuttosto che di uso - delle risorse naturali, e i bisogni umani si sono dimostrati, alla lettera, illimitati, capaci ormai di consumare in breve tempo tutte le risorse esistenti. Il risultato è stato un consumo in progressiva espansione, lo sfruttamento e l'inquinamento dell'ambiente, che minaccia risorse insostituibili (l'acqua e l'aria di cui viviamo) e i vulnerabili sistemi da cui dipendono la facoltà riproduttiva e l'integrità della natura. Avuto dalla tecnologia il potere necessario, abbiamo fatto della natura un semplice ‛oggetto' non soltanto della ricerca ma dello sfruttamento, una ‛funzione' degli scopi umani, che si sono rivelati scopi di rapina piuttosto che di uso avveduto: ne abbiamo fatto, in breve, una vittima della nostra insaziabile voracità. Poiché, d'altra parte, noi stessi dipendiamo dai sistemi naturali che minacciamo, è apparsa una singolare serie di paradossi. Lungi dal trasformare beni incerti in valori durevoli, come prometteva Dewey (v., 1920), l'applicazione dell'intelligenza scientifica ha minacciato molte risorse naturali d'importanza cruciale e ha spesso trasformato il giardino della natura in un deserto umano. Anziché rendere la vita più sicura, l'inarrestabile accumulazione di capacità tecnologiche sembra, in definitiva, metterla in pericolo. In luogo di costituire il paradigma della sopravvivenza, l'homo faber, ora armato della tecnologia, sembra stia predisponendo (come i dinosauri) la propria estinzione. I talenti più creativi della cultura moderna - le nostre capacità scientifiche e tecnologiche - sembrano costituire oggi il principale pericolo e quindi, bizzarramente, le nostre maggiori passività. E, infine, la vittoria sul fato e sul caso, promessa un tempo dall'intelligenza istruita e dalla capacità tecnica, sembra comportare la nostra sottomissione a un nuovo fato da noi stessi creato, il fato rappresentato da un incontrollabile progresso tecnologico, sfociante in nuovi e sempre più minacciosi poteri umani.
Per quanto ironico possa sembrare, tutti questi paradossi mostrano che la moderna cultura secolare, nella sua esaltazione dell'intelligenza in quanto indagatrice obiettiva, ha trascurato la profonda ‛ambiguità' del soggetto umano, anche di un soggetto caratterizzato da un'intelligenza istruita e da una volontà idealizzata. Nell'entusiasmo per la conquista della natura e il superamento delle difficoltà oggettive, esterne, gli uomini e donne moderni hanno dimenticato la dura difficoltà di essere pienamente umani, di divenire persone reali, e la soggezione profonda del volere umano all'interesse personale, all'egocentrismo, alla propria sopravvivenza e al proprio benessere. Questi problemi ‛interiori' sono stati pressoché ignorati, considerati come rilevanti unicamente per una cultura arcaica, che fosse priva sia di metodi di ricerca sia di tecniche di controllo. Senonché, la semplice realtà ci dice che l'accrescimento delle conoscenze, sfociato in nuovi poteri tecnologici, ha permesso di rendere più efficaci le minacce sia dell'uomo contro l'uomo sia dell'uomo contro la natura: il risultato è che i problemi ‛interni' del ‛soggetto' sono divenuti più cruciali che mai. La cultura secolare cominciò la sua carriera affermando che troppo tempo gli uomini avevano dissipato nell'introspezione, nello sviluppo interiore, nell'educazione morale e nella meditazione mistica, e troppo poco ne avevano speso nella soluzione dei problemi concreti ‛qui e ora'; e, coerentemente, la cultura secolare proseguì il suo cammino concentrandosi sullo sviluppo scientifico, tecnologico e industriale, e manifestando un disinteresse sempre più accentuato per le discipline umanistiche e per la religione. Si potrebbe dire che, durante la carriera della cultura moderna, sia stato condotto un esperimento su grande scala per controllare l'ipotesi secolare e che da tale ‛controllo' l'ipotesi sia uscita interamente falsificata. I detentori dei nuovi immensi poteri si sono rivelati non intelligenze ‛obiettive' con preoccupazioni fraterne, ma egoistici, e quindi pericolosissimi, predatori; nuovi dilemmi sociali, politici e ideologici hanno investito quelli che non sono affatto problemi meramente tecnici e invocano una riflessione ponderata e un'azione responsabile. È insomma evidente che il bisogno primo della cultura contemporanea è l'educazione umanistica di uomini responsabili, assai più che l'addestramento tecnico di ‛esperti competenti'. Un teologo potrebbe aggiungere che, in questo processo, anche la tesi ‛umanistica' è stata del pari controllata e falsificata. In altre parole, il decorso della cultura secolare ha anche mostrato che la fede nell'intelligenza e nel volere umani come valori ultimi, e quindi l'esclusiva concentrazione su di essi, tendono in definitiva, nonostante tutta la bontà delle intenzioni, a disintegrarsi in un ‛antiumanismo', vale a dire in un'interpretazione angustamente oggettiva dell'intelligenza e in una visione impoverita delle facoltà umane, ristrette alla competenza tecnica. È questa una comprensione angusta dell'umano, che esclude sia l'intuizione sia l'impegno morale, e ancor più le virtù dell'umiltà e della fiducia nella grazia, capace di portare i peccati dei singoli come la tragedia della storia.
Il fenomeno forse più cospicuo - e diffusamente avvertito, anche se non fatto oggetto di riflessione consapevole - è stato l'abbandono della sostanza spirituale o religiosa della cultura - la sua fiducia nel progresso - e quindi del suo corroborante ottimismo circa il proprio futuro. Per la massima parte degli uomini e donne moderni, la cultura secolare ha rappresentato la comparsa nella storia della vera ‛meta' della storia stessa (o almeno del suo preannuncio), del tipo di civiltà che aveva avuto i suoi albori già in Mesopotamia e in Egitto: la civiltà scientifica, tecnologica, industriale, democratica, ‛libera' e (su questo c'era disaccordo) capitalistica o socialista. Così, mentre considerava se stessa come di gran lunga superiore alle epoche precedenti nella realizzazione dei veri valori, la cultura secolare assumeva che tali valori, che ‛essa' aveva realizzato, sarebbero stati bensì incrementati in futuro, ma non ripudiati e sostituiti. Sviluppare e perpetuare se stessa equivaleva dunque a contribuire all'edificazione di un futuro migliore per tutti gli uomini e donne a venire. La natura poteva essere stata dissacrata e oggettivata, il cielo sfidato, preso d'assalto e reso deserto; ma la ‛storia', per la moderna cultura secolare, forniva un ambiente in cui gli uomini e donne dell'Occidente si sentivano con agio e sicurezza a casa loro: la loro cultura e i loro valori sarebbero progrediti nel tempo sino alla realizzazione dell'identità ultima tra essere e dover essere.
Sono proprio questa ‛fede' profonda e questo ‛mito del progresso' che gli sviluppi, le contraddizioni e i dilemmi della moderna cultura secolare hanno man mano dissolto. Come già era accaduto alle pretese della Chiesa medievale e alla sua fede, ‛controfatti' hanno preso a emergere a ritmo crescente, con il risultato di demolire l'antica fiducia nell'intelligenza scientifica, nel progresso tecnico, nell'organizzazione razionale e psicologica: cioè nell'accumulazione delle conoscenze e delle competenze. Ci si consenta a questo punto un esempio. Per i leaders del primo illuminismo la ‛medicina scientifica' era stata il paradigma di quelle nuove scienze che avrebbero scacciato la sofferenza, dando luogo a un'era di accresciuto benessere per gli uomini (v. Gay, 1969, cap. I, sez. 2). Ora, non si dice, credo, nulla di nuovo affermando che non esiste oggi professione o disciplina più aspramente criticata della scienza medica, e ciò per svariatissime ragioni: l'ignoranza di molti medici in materia di assistenza sanitaria e specialmente di alimentazione, la loro arroganza professionale, soprattutto il livello dei loro guadagni, per tacere del loro rifiuto corporativo di un assetto più democratico (e quindi meno lucrativo) dell'assistenza sanitaria. Se l'ascesa e la glorificazione della scienza medica furono il principale segno del predominio della scienza nell'illuminismo, l'attuale nadir del prestigio medico segnala del pari l'indebolimento della presa della scienza applicata sull'opinione pubblica.
Che sia a causa delle terrificanti armi in nostro possesso o dell'inquinamento o della diminuzione delle risorse naturali - persino l'ozono sta diminuendo -, il futuro si presenta oggi ricco più di minacce che di promesse: si presenta di fatto, e ciò sia detto su basi meramente secolari, con colori schiettamente apocalittici. La conoscenza e il potere promessi dalla cultura secolare sono bensì arrivati, ma, in luogo della ‛salvezza', hanno prodotto una situazione di pericolo universale; in luogo della serenità, l'angoscia; in luogo della pace, modi più cruenti di conflitto. Si spiega così come l'atteggiamento di molti giovani d'oggi verso il futuro, e quindi verso le loro stesse possibilità future, sia in netto contrasto con le certezze della generazione dell'autore (anni venti e trenta), per tacere di quelle delle precedenti generazioni nel Sette e Ottocento. Gran parte della gioventù contemporanea avverte, non senza qualche giustificazione, la possibilità che non ci sia affatto un futuro, che una devastante guerra può scoppiare - con tutta probabilità nel corso della loro vita - distruggendo ogni traccia della storia conosciuta; e che, anche in assenza di una tal guerra, una crisi ecologica incombe minacciosa sull'orizzonte. Ora, tali aspettative si basano non su profezie religiose - sebbene in qualche gruppo possano assumere questa forma - ma su tendenze strettamente secolari. Una tale visione apocalittica secolare è, penso, qualcosa di nuovo nella storia; e ritengo che i suoi effetti (nel bene e nel male) sugli umori come sulla linea di condotta della cultura secolare saranno immensi.
Potremmo dire, con un'espressione di A. J. Toynbee (v., 1934-1954, vol. I, p. 53, vol. IV, pp. 2-5), che la nostra cultura secolare sta sperimentando un time of troubles, un periodo in cui le sue strutture sociali e istituzioni centrali, nonché i suoi presupposti teorici e pratici, sembrano creare difficoltà anziché risolverle, e quindi un periodo in cui i problemi si aggravano diventando intrattabili e in cui, di conseguenza, le certezze fondamentali (i ‛miti') favoriscono la disintegrazione anziché il rafforzamento e la crescita. Non era questa la situazione nel Seicento, nel Settecento e nell'Ottocento; era invece questa nell'età ellenistica, al tramonto della civiltà greco-romana, e anche alla fine dell'età medievale; e tale sembra, quasi certamente, la nostra situazione presente. In periodi del genere si assiste a una diffusa ricomparsa del sentimento religioso, spesso in forme estranee alle tradizioni religiose costituite.
La ricomparsa della religiosità non ha nulla di sorprendente, salvo che per la mentalità secolare; in periodi come questi, sconvolti da problemi insolubili, le istituzioni e i ruoli vacillano, le norme e le certezze abituali si dissolvono, la sicurezza personale e sociale è minacciata. Gli individui sentono nella loro vita questa ‛instabilità delle fondamenta', anche se non ne sono consapevoli sul piano della riflessione. Per innumerevoli persone il pur familiare mondo circostante, dal quale dipendono, appare come un incubo che si va svolgendo davanti ai loro occhi. Tali periodi di generale angoscia e incertezza fanno sorgere quegli interrogativi circa la sicurezza, il ‛senso' e il futuro, che caratterizzano il sentimento religioso, e sollecitano quella ricostituzione o ristrutturazione di un mondo lacerato e precario, che è l'opera di ogni autentica religione: sollecitano cioè la rivelazione o manifestazione di un nuovo e più profondo rapporto con una realtà ultima e permanente, una nuova verità sulla realtà e sulla vita, un nuovo modo di essere uomini, un nuovo tipo di comunità e un nuovo insieme di speranze per il futuro. L'ultima cosa di cui la cultura secolare avrebbe immaginato di essere essa stessa la causa è la comparsa, e il bisogno, di nuove e diffuse forme del sentimento religioso. Essa ravvisava in se stessa un fattore di riduzione dell'angoscia e di aumento della sicurezza; e si concepiva in contrapposizione frontale al sentimento religioso anziché, come già in altre epoche di declino, come ispiratrice di una sua rinascita.
Il nostro tempo ha visto, nella cultura progredita dell'Occidente, la ricomparsa del sentimento religioso in molte forme inattese, una ricomparsa che per le comunità religiose, le autorità religiose e i teologi è stata quasi altrettanto sgradita della critica secolare della religione! Si pensi per esempio alla crescita sbalorditiva di forme conservatrici, ‛fondamentaliste', di protestantesimo negli Stati Uniti, o dei gruppi ‛carismatici' nelle comunità cattoliche: né le une né gli altri erano nei voti delle rispettive Chiese, che non hanno loro fornito alcun incoraggiamento. Parallelamente, si è avuta, almeno a partire dall'ultimo decennio, la comparsa, e vigorosa espansione, di forme religiose provenienti dall'Islam, dall'India e dal Giappone (sufismo, yoga e zen) nelle classi medie colte del Nordamerica e dell'Europa. Per la sua diffusione tra la popolazione, per la profondità dei suoi effetti sulla vita della gente e per la sua persistenza questo ‛movimento missionario', che penetra nella - anziché provenire dalla - nostra cultura, è senza confronti nell'Occidente, da quando, in età ellenistica, le comunità romane scandalizzate assisterono alla diffusione dei ‛culti' provenienti dal Vicino Oriente e dall'India. Infine, non v'è dubbio che l'interesse per l'‛occulto' in tutte le sue svariate forme - astrologia, chiromanzia, tarocchi, comunicazione medianica, demonologia e così via - e rinato e conosce anzi oggi una diffusione maggiore che in qualsiasi altra epoca dall'inizio dell'illuminismo. A quanto sembra, una cultura industriale e tecnologica crea bisogni individuali che non possono essere placati né dalla prosperità né dalle figure professionali ufficiali né tanto meno dalla conoscenza scientifica. Tali bisogni sono di varia natura: riguardano l'identità personale, il senso della realtà e unità della persona, l'appartenenza comunitaria, la vocazione e il significato ultimo della propria vita, la certezza delle credenze, l'incontro con la ‛realtà', anche con la realtà divina, e così via. In ogni caso, si sente che si tratta di bisogni terribiimente importanti, e di bisogni che la cultura secolare suscita anziché soddisfare. Se interroghiamo i membri di questi nuovi gruppi religiosi sulla ‛credibilità' della fede religiosa in un'epoca scientifica o sul ‛significato del linguaggio religioso' o sulla ‛realtà del divino', essi considereranno tali domande sciocche e antiquate, frutto di un punto di vista astrattamente intellettualistico (‛accademico'), che smarrisce l'esperienza reale e quindi la vita autentica; e cercheranno - proprio come il rappresentante del secolarismo nei confronti delle persone religiose di trarci fuori da tali illusioni secolari (nient'altro che ‛maya') verso una più profonda comprensione di ciò che è reale e vero.
Correlativamente alla comparsa, nella vita personale, di nuovi movimenti religiosi, c'è stata la comparsa, nella vita pubblica, dell'ideologia. Non è un caso che sia il termine ‛ideologia' sia la realtà da esso designata emergano dopo le rivoluzioni americana e francese, uno dei cui effetti era stato quello di rimuovere la religione dal centro della vita pubblica e quindi appunto di secolarizzare quest'ultima (v. specialmente Gouldner, 1976, soprattutto capp. 1 e 2; v. anche Lenk, 1970). Con ‛ideologia' intendo qui un sistema globale di idee, concetti o simboli che dà espressione unitaria e coerente a una visione o interpretazione dell'intera realtà, che ordina la realtà cosi da esprimerne il senso la vittoria del bene sul male nell'esistenza; e che, se adottata, unifica una comunità, dando alla sua vita, alle sue istituzioni e ai suoi ruoli sociali forma, direzione e finalità. A un'ideologia, infine, si partecipa - e si deve partecipare - con assenso intellettuale, impegno personale e responsabile obbedienza. Un'ideologia è una Weltanschauung con un ruolo o funzione sociale; essa interpreta la totalità dell'esperienza per una comunità: dà a essa la sua identità, le sue finalità, le sue speranze, e quindi la sua forza e slancio unificanti. Come nel caso di una religione tradizionale, la forza di un'ideologia, e pertanto l'universale adesione a essa, sono assolutamente necessarie per la vita di una comunità. Ne discende che sia l'‛eresia' sia l'‛apostasia' - come in molte comunità religiose - sono considerate pericolose per la comunità e severamente vietate; se compaiono, sono punite con la persecuzione e il bando.
Nell'Occidente secolare, il fascismo e il nazismo hanno funzionato in questo modo sino alla loro rovina; anche il marxismo funziona in questo modo, non però dove vive tra singoli intellettuali come una personale, sebbene militante, ‛filosofia politica', ma dove ha conseguito il dominio sociale come struttura simbolica che tiene insieme l'intera comunità. E in tutti i paesi occidentali, ma forse specialmente negli Stati Uniti, c'è attualmente una latente, implicita prospettiva nazionalista-capitalista, il cui contenuto è costituito in gran parte dalle concezioni secolari sopra descritte: una prospettiva pronta a trasformarsi in ogni momento in un'ideologia esplicita di tipo semifascista.
La moderna società tecnologica e industriale, mancando del centro spirituale fornito dalle religioni tradizionali, ha dunque prodotto ideologie secolari, che funzionano pressappoco come le religioni, di cui hanno tutte le caratteristiche ben note: la pretesa alla ‛definitività', la promessa di soluzione del conflitto tra bene e male, l'offerta del ‛senso', la richiesta dell'assenso, impegno e obbedienza, la paura dell'eresia e della devianza, la comparsa di dogmi e di autorità assolute. Le ideologie non sono religiose nel senso usuale della parola, e certamente non hanno necessariamente a che fare con il divino; che però posseggano molte delle caratteristiche significative delle religioni, è cosa che non può essere messa in dubbio. Esse sono quindi segno della ricomparsa della religiosità al centro della vita pubblica secolare, un evento che nessuno studioso ‛secolare' (salvo forse A. Comte) avrebbe immaginato possibile.
Come sono comparsi ‛culti' per riempire il vuoto nella vita personale creato da una società industriale urbana, così sono comparse le ideologie per riempire il vuoto lasciato nella vita pubblica dall'arretramento delle religioni tradizionali. Ogni cultura abbisogna - per prosperare o anche soltanto per sopravvivere - di saldi e radicati fondamenti spirituali: un senso profondo di ciò che è reale, di ciò che è vero, di ciò che ha valore. Nel caso della cultura moderna, questi fondamenti spirituali sono stati rappresentati dall'idea secolare del ‛progresso' quale l'abbiamo descritta: l'idea di una realtà temporale e mutevole, che la scienza può comprendere e conoscere, e di un processo il cui significato progressivo si disvela, nel corso del tempo, con la realizzazione di una società autentica e quindi di uomini autentici. Quest'idea ha ricevuto svariate forme specifiche nelle due ideologie dominanti della nostra epoca: l'ideologia liberale, democratica e capitalistica del ‛progresso' e l'ideologia marxista. Entrambe hanno fornito, e tuttora forniscono alla cultura secolare, i suoi fondamenti ‛religiosi': un fatto che non era nelle aspettative di questa cultura (che infatti non si è dimostrata disposta ad ammetterlo), ma che è tuttavia facilmente riscontrabile nella realtà effettiva, se non nella teoria, della società secolare (v. Ideologia).
Una caratteristica delle ideologie notata sia da Napoleone sia da Marx è che si tratta di sistemi di idee o concetti ‛faziosi', che, sotto la pretesa a una validità e rilevanza universali (cioè sotto la pretesa alla ‛scientificità') mascherano un'avidità di potere, di sicurezza e di dominio: da parte di una classe, di una nazione o, in questo caso, di una cultura nel suo insieme (v. Gouldner, 1976; v. Lenk, 1970). In questo senso - al pari del capitalismo e del comunismo, entrambi sua prole - la cultura secolare è stata essa stessa ideologica, e le sue ‛verità' sono state più ‛faziose' che ‛obiettive'. Come abbiamo notato, la concezione secolare ha raffigurato la natura come oggettiva, intrinsecamente non qualitativa; mancante di interna profondità, di integrità e quindi di valore, e pertanto come un oggetto adatto per gli scopi umani. Una tale concezione è in realtà una maschera ideologica, un'interpretazione giustificativa dello sfruttamento. Il carattere ‛ideologico' della scienza empirica moderna in quanto ‟razionalizzazione del dominio umano sulla natura", e in ultima analisi del dominio dell'uomo sull'uomo è stato analizzato, tra gli altri, da H. Marcuse (v., 1964, specialmente capp. 6 e 7). A sua volta, una cultura scientifica studia le sue proprie istituzioni sociali ‛empiricamente', badando esclusivamente alla loro realtà attuale, alle strutture, modelli di comportamento, norme e mete quali appaiono qui e ora. Se si tratta di una società capitalistica, la sua sociologia ‛scientifica' e la sua teoria politica ed economica rifletteranno quindi unicamente - con ciò tacitamente accettandole - le istituzioni capitalistiche. Di conseguenza, non esiste la possibilità di avanzare una critica di fondo della struttura istituzionale e normativa globale della società; e lo stesso vale, naturalmente, per la scienza sociale ‛socialista'. La scienza sociale empirica sembra funzionare in entrambi i casi come un'ideologia giustificatrice dello status quo; il carattere ‛ideologico' della scienza sociale empirica è stato sottolineato da molti critici interessati alla ‛riforma' delle istituzioni altrettanto che alla loro ‛descrizione', come per esempio E. Bloch (v., 1954-1959), J. Habermas (v., 1963) e la Scuola di Francoforte (v. Jay, 1973).
Infine, posta dinanzi ad altre culture, specialmente ad altre culture ‛religiose' (Islam, India, Cina, Giappone), la cultura secolare le prende in esame ‛oggettivamente', vale a dire come culture che ‛proiettano' nelle loro religioni i propri bisogni economici, sociali e psicologici. Guarda dunque a esse con condiscendenza, come culture premoderne, prescientifiche, ignare della vera natura della realtà esterna, concentrate su questioni religiose ‛irreali' e su soluzioni vane, culture insomma ‛primitive', destinate a essere soppiantate dall'evidente superiorità della nostra cultura secolare. Questa condiscendenza di fondo, e virtuale intolleranza, è considerata come ‛scientifica' e dunque come ‛oggettiva'; è da notare come non ci sia gran differenza tra questo atteggiamento e l'esplicito atteggiamento ideologico di molti dei primi missionari cristiani, che consideravano le altre fedi come ‛idolatrie' e quindi, in quanto ‛pagane', inutili per la vera salvezza, meritevoli soltanto di essere sostituite dall'unica vera fede. Nei suoi atteggiamenti verso le altre culture, la cultura secolare si è dimostrata tutto fuorché obiettiva e tollerante; anche nei casi più ‛liberali' è stata profondamente ideologica nella pretesa alla propria definitività, nella sua mancanza di rispetto per altre forme di vita culturale e religiosa e nella sua indisponibilità a dare ascolto a voci differenti. W. Cantwell Smith, lo storico dell'Islam e illustre filosofo della religione, ha sottolineato il carattere ideologico del rapporto tra moderna cultura secolare e altre culture, fondate su basi religiose tradizionali. A suo avviso, l'insistenza della cultura secolare sul valore dell'oggettività e sull'autorità e validità assolute dell'approccio scientifico anche alla sfera religiosa, insistenza associata all'interpretazione dominante delle religioni come essenzialmente ‛sistemi di credenze' privi di garanzie empiriche, è servita come base per un agevole predominio occidentale su queste culture. Questa interpretazione, infatti, spogliando le prospettive religiose non occidentali della ‛trascendenza' e quindi del ‛senso di realtà e validità', preparava la via alla supremazia della nuova visione secolare del mondo (v. Cantwell Smith, 1979).
Un altro grave problema di una cultura che si proclami ufficialmente secolare, che limiti cioè la discussione e critica razionale alle questioni scientifiche e tecniche, è che fenomeni religiosi inevitabili, come forme di fondamentalismo e ‛culti' personali, fioriscono, per così dire, nell'ombra, sottraendosi alla critica razionale, e quindi anche morale e religiosa. Come l'evoluzione della nostra società secolare mostra, la religiosità non scompare, bensì prospera ‛fuori' degli angusti confini intellettuali che caratterizzano le accademie ufficiali della cultura secolare. E alla fine la religione ritorna al centro come ideologia predominante (come, verso la metà del secolo, in Italia, Germania e Giappone, nell'Unione Sovietica attuale e chissà, in futuro, negli Stati Uniti); essa governa e dirige allora, per i propri fini, il potere tecnico e industriale della cultura. Cercare di eliminare la dimensione religiosa della vita non può voler dire sradicarla; significa soltanto incoraggiarla a diventare demoniaca, a ricomparire in forme autodistruttive.
4. Conclusione
La nostra analisi, se valida, sembra contenere una ‛morale' circa l'ascesa e il declino della cultura secolare dell'Occidente. Ci sono pochi dubbi che le forze sociali e intellettuali che hanno creato, sorretto e diffuso questa cultura - la scienza, la tecnologia e l'industrialismo - si stiano scontrando con contraddizioni di fondo, logoranti se non autodistruttive. Che la cultura occidentale nel suo insieme abbia negli ultimi decenni sofferto una grave perdita di potere e d'influsso, è un'altra cosa di cui difficilmente si può dubitare (si pensi soltanto al profondo mutamento intervenuto nell'equilibrio politico mondiale dopo la seconda guerra mondiale). È difficile infine avanzare ragionevoli dubbi sul fatto che sia l'Oriente sia l'Occidente stanno perdendo la loro maschera ideologica. Cade qui opportuno un cenno sul curioso destino dei due ideali sociali fratelli della cultura secolare. Entrambi sembrano aver tralignato dal loro intento originario, ed essersi di conseguenza svuotati di contenuto, dovunque abbiano raggiunto il dominio sociale (ancora una volta, ricordando in ciò le religioni costituite). Gli ideali delle libertà o dei diritti individuali, di libere elezioni, di iniziativa individuale - ideali che nel Sette e Ottocento avevano stimolato le forze rivoluzionarie in Francia, in America e poi dappertutto nel mondo - funzionano oggi in America (del Sud e del Nord) e in Sudafrica come un'ideologia del privilegio economico, e si sentono come slogan nei circoli sportivi e nei luoghi di villeggiatura, quando non siano usati dalle giunte militari. Corrispondentemente le idee marxiste, dovunque siano dominanti, sembrano funzionare da giustificazione ideologica del dominio del Partito o dell'Unione Sovietica (si pensi alle lotte degli operai polacchi). Si direbbe che soltanto nelle prigioni, in cui si rinchiudono gli oppositori, queste ideologie si mantengano vitali e genuine: tra i marxisti rivoluzionari nell'America Centrale e nel Sudamerica, e tra i dissidenti liberali e democratici nell'Europa orientale e in Russia.
Se un mutamento culturale, anche radicale, può esser visto nel suo farsi, l'effettivo declino e disintegrazione di una cultura possono essere affermati con certezza soltanto ‛dopo' il loro verificarsi. Possibilità di rinnovamento esistono sempre, ad onta delle difficoltà e ad onta della necessità di profonde autocritiche e revisioni. Non sarebbe quindi saggio - né è mio desiderio farlo - affermare perentoriamente, o predire, che la fine della cultura occidentale postilluministica, ‛moderna', incombe su di noi. Ciò che si può dire è che il carattere ‛secolare' di questa cultura ha ormai raggiunto un'impasse. La sua fede assoluta nella ricerca scientifica e nell'intelligenza scientifica in quanto fonti esclusive dei paradigmi definitivi della conoscenza e della ragione; la sua convinzione che l'accumulazione di beni, e quindi un crescente tenore di vita attraverso l'espansione industriale, debba essere la meta di ogni politica; e, infine, la sua certezza che i principali problemi della comunità possano essere risolti semplicemente mediante riforme politiche, sono tutti elementi che si rivelano ormai bisognosi, in modo grave e urgente, di una riconsiderazione. Certamente, la scienza, la tecnologia, la produzione industriale e le riforme politiche sono, in sé e per sé, elementi immensamente creativi, frutti positivi (al pari della religione) della creatività umana sia intellettuale sia pratica; ma, come mostra la storia della cultura, la loro assolutizzazione li rende (proprio come nel caso della religione) sempre più ambigui e distruttivi: se diventano - come sono diventati - una ‛religione', cominciano a dispiegare un effetto disgregativo e finiscono con l'annientare tutto ciò che avevano creato.
È possibile - come una saggia, anche se liberale, tradizione religiosa ha per lungo tempo sostenuto - che l'ambiguità di questi aspetti creativi della cultura moderna potrà diminuire se sarà possibile raggiungere una più profonda autocomprensione e un più saldo fondamento spirituale. Una più ampia interpretazione del ‛conoscere', tale da includere l'immaginativo, l'intuitivo, l'artistico, il normativo e il religioso, è necessaria se la ragione scientifica e tecnica non vuole autodistruggersi; un nuovo rapporto spirituale con la natura deve fiorire, se vogliamo vivere creativamente in essa in quanto portatori di una cultura tecnologica e industriale; è infine necessaria una nuova comprensione dell'ostinata soggezione dell'io dell'uomo (anche dell'io intellettuale moderno) ai suoi interessi egoistici, come anche una nuova fiducia in una finalità e in un potere - nella storia - che non dipendano da noi.
È stato a lungo sostenuto, dalle tradizioni religiose che sono venute a patti con l'ambiente secolare, che gli aspetti creativi della secolarizzazione non esigono, né implicano affatto un rifiuto della religione. Al contrario, essi esigono una qualche base religiosa (o ‛teonoma'; v. Tillich, 1951, pp. 83-94; e 1948, capp. III, IV e XIV), senza la quale, lasciati cioè alla loro base meramente umana, vanno incontro all'autodistruzione. A sua volta la religione, per liberarsi dalle sue proprie potenzialità demoniache ed essere creatrice di valore, ha bisogno dell'elemento secolare, cioè della continua critica da parte della ragione scientifica, morale e artistica. Questa prospettiva, che l'autore condivide, sembra essere stata ‛verificata' non tanto da nuove argomentazioni teologiche e filosofiche quanto dagli stessi sviluppi storici della nostra cultura secolare. Ciò di cui abbisogniamo, quindi, è una ‛reintegrazione' di queste dimensioni religiose, recentemente rinvigoritesi, nella vita scientifica, tecnologica, politica, sociale e artistica, in modo tale che gli elementi secolari acquistino una profondità religiosa e si avvalgano della critica morale e religiosa, e le dimensioni religiose, dal canto loro, ricevano l'incessante apporto della critica e della cooperazione della creatività secolare.
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