GUERRA MONDIALE, SECONDA
La Wehrmacht del giugno 1941 era molto più potente di quella del 10 maggio 1940. La tregua relativa, regnata durante l’anno precedente sul teatro europeo delle operazioni, era stata utilizzata per motorizzare nuove grandi unità di fanteria. Così, i reggimenti Waffen S. S., che avevano partecipato alla campagna di Francia, erano stati trasformati in divisioni di due reggimenti portati e di un battaglione di carri. Incrementando poi la produzione tedesca, che a quest’epoca era relativamente poco danneggiata dalla RAF, utilizzando l’enorme bottino catturato sui campi di battaglia dell’occidente, sfruttando le industrie meccaniche e automobilistiche francesi, il numero delle divisioni corazzate era stato portato da 10 a circa 25. In totale, si può dire che l’OKW, alla vigilia dell’attacco, disponesse di almeno 60 grandi unità rapide, invece di 15 dell’anno precedente, delle quali 25 blindate, invece di 10. Il piano tedesco ci è già noto nelle sue linee essenziali: esso rappresentava un dispositivo intelligente e studiato con cura per aver ragione dello spazio russo. Hitler sapeva bene che, mano a mano che avesse avanzato nel territorio russo, il suo fronte si sarebbe fatto più largo. Ma la maggior larghezza, cioè il più ampio spazio, era l’arma più efficace che la Russia avesse potuto allora impugnare contro la Wehrmacht. Perciò il cancelliere aveva rifiutata la direttiva «n. 18» preparatagli dall’OKW.; questa direttiva poneva come obiettivo principale il raggiungimento, entro il 1° gennaio 1942, di una linea che doveva andare da Astrachan, lungo il Volga, fino a KazanÙ, quindi, includendo GorÙkji, doveva spingersi a Kotlas e alla remotissima Arcangelo. Hitler ebbe timore del grande spazio e, ispirandosi al Clausewitz, mise in primo piano l’obiettivo militare e in secondo piano quello geografico. Fu così che si passò dalla direttiva geografica n. 18 alla direttiva militare n. 21, cioè al «Barbarossa». Scopo essenziale di questa seconda direttiva era l’annientamento della massa organizzata dell’armata rossa; solo dopo conseguito un tale scopo, sarebbe stata stabilita la linea di difesa contro la Russia asiatica secondo il tracciato della direttiva n. 18, da Astrachan ad Arcangelo. Ma siccome l’esercito sovietico, avrebbe cercato di sottrarsi, mettendo dal suo lato gli immensi spazî della pianura russa, Hitler pensò di neutralizzare la manovra col progresso rapido dei Panzer.
Poiché l’elemento decisivo del piano stava nell’agganciamento massiccio del nemico, fino all’annientamento, una cura speciale fu data all’organizzazione delle armate corazzate e alla loro articolazione nell’ordine di battaglia della Wehrmacht. I Panzer furono raggruppati in quattro armate, comprendenti ciascuna dalle 5 alle 6 divisioni; ognuna di queste armate era integrata da 2 o 3 divisioni motorizzate, da reggimenti autotrainati di artiglieria pesante, lunga e corta, da formazioni di DCA, da reggimenti di pionieri, da truppe di trasmissione, da battaglioni di genieri ferroviarî, di costruttori e riparatori di strade e di ponti, da colonne rapide di trasporti. Su questi enormi complessi corazzati e motorizzati poggiava la riuscita del «Barbarossa»; erano essi che dovevano dare alla operazione la potenza e il ritmo capaci d’impedire all’offensiva di slittare nelle vaste pianure orientali, piombando alle spalle dei difensori e accerchiandoli per toglier loro il ricorso alla manovra della profondità. Per conseguire lo scopo, i Tedeschi, in Russia, più che in ogni altro luogo, applicarono con maggior energia e spregiudicatezza la dottrina dello Schwerpunkt, cioè del centro di gravità tattico della battaglia, per cui, una volta effettuata dai primi carri una breccia nel dispositivo nemico, si doveva procedere all’allargamento della breccia stessa, accerchiando le truppe battute che si trovavano a destra e a sinistra. Nel momento critico dell’attacco sopravveniva una seconda ondata di Panzer, che s’incaricava di procedere in avanti a tutta velocità, di evitare tutti i punti forti che non poteva far cadere rapidamente e di spingersi sempre più oltre. Dietro la seconda ondata di carri sfrecciava la fanteria motorizzata che, lavorando ad azione alternata con le unità corazzate, saldava le sacche di resistenza, completando l’avviluppamento delle armate sorpassate. Applicando sistematicamente questa tattica, i blindati tedeschi procedevano sempre avanti lungo le grandi strade ferrate, sorpassavano intere armate rosse e, come in Francia, gettavano la confusione alle loro spalle, «pensando di consegnare alle divisioni motorizzate che seguivano un nemico senza difesa e senza energia». La formidabile impresa dei Panzer era sostenuta dall’alto dall’aviazione, che era stata ripartita in tre Luftflotten, in corrispondenza alla tripartizione dell’armata. La 5ª Luftflotte del col. gen. Stumpf era addetta al settore del Heeresgruppe Nord del maresciallo von Leeb, la 1ª Luftflotte del col. gen. Keller era collegata al Heeresgruppe «Mitte» del maresc. von Bock, la 4ª Luftflotte del col. gen. Loehr al Heeresgruppe Sud del maresc. von Rundstedt (nel quadro di quest’ultimo gruppo d’eserciti combattevano i reparti italiani, romeni, ungheresi).
Il comando dell’armata rossa, in particolare Stalin, Timoèenko, Kapoãnikov, che ne costituivano in questa prima fase gli elementi preponderanti, si trovò dinanzi al drammatico problema della scelta del più efficace sistema di difesa. Sarebbe stato stolto ricorrere, come fecero Pietro il Grande e il Kutuzov contro Carlo XII e Napoleone, all’impiego della pura e semplice arma-spazio; la steppa poteva stremare il piede del fante, ma non era in grado di fiaccare, da sola, il cingolo e la ruota a motore. Una rottura potente e riuscita non era neutralizzabile, infatti, se non dopo parecchie centinaia di chilometri: se l’alto comando sovietico si fosse limitato a contare solo o prevalentemente sullo spazio, con due o, al più, con tre balzi Hitler si sarebbe portato sulla linea geografica Astrachan GorÙkij-Arcangelo. Più di 100 milioni d’abitanti, l’80% della produzione carbonifera, il 90% del petrolio, l’80% del ferro, l’80% delle industrie di guerra sarebbero andati perduti o sottoposti a minaccia mortale dall’aria. La Luftwaffe, infatti, avrebbe potuto martellare, secondo le previsioni delle direttive n. 18 e n. 21, i centri industriali degli Urali e dell’Ural. Cosa che sarebbe riuscita semplicemente rovinosa perché poteva risultarne compromesso l’ultimo grande complesso industriale di tutta l’URSS: l’Ural - Kuzneck- Kombinat (UKK). Questi pericoli potevano essere evitati solo tenendo lontani i Tedeschi da Mosca e da GorÙkij; ma per conseguire un tale scopo non v’era altra strategia che quella che avesse saputo combinare l’azione logorante del combattimento con la risorsa dello spazio. La direttiva strategica generale richiedeva quindi d’impegnare il nemico quanto più a lungo possibile, salvo, al momento critico, a sospendere il combattimento e a sottrarsi, facendosi scudo dello spazio.
Poiché questa strategia imponeva il combattimento fin dalle frontiere, l’alto comando sovietico s’era a lungo preoccupato, oltre che dell’addestramento, anche dell’armamento dei suoi uomini. L’armata rossa disponeva al 22 giugno 1941 di numerosi carri armati ripartiti in tre categorie: leggeri, medî, pesanti. Della prima categoria esistevano due tipi: il T 26 B (Vickers) di 8,5 t., con un cannone di 3,7,4,5 o 5,7 cm. e il BT 34 (Christie) di 10-12 t., con un cannone del primo tipo. Della seconda categoria, pare che ve ne fosse un solo tipo di 16-20 t., armato da un cannone di campagna di 7,62 cm.; infine, v’erano i carri della terza categoria, che costituirono una sgradevole sorpresa anche per l’OKW. Di questi giganti del cingolo ne esistevano, sembra, due tipi, il T 35, di 40 t., con un cann. di 7,62 e due cann. di 3,7 o 4,5 cm., e il K. V. (delle officine Klim Vorosilov di Leningrado, donde le iniziali) di 55 t., con un cann. corto di 15,2 cm.; fu in specie quest’ultimo mastodonte la maggior sorpresa per la Wehrmacht. Nonostante che i blindati delle tre categorie fossero numerosi, come abbiamo detto, nell’impiego risultarono di una manifesta inferiorità, perché di tipi troppo diversi e perché quelli pesanti erano poco veloci e poco protetti. Ma l’inferiorità dei carri russi era più ancora conseguenza dell’arretrata strategia dell’alto comando in fatto di blindati; nonostante le esperienze di due anni, lo stato maggiore sovietico non s’era di molto allontanato dalla concezione di guerra francese del 1940, e non aveva ancora al momento dell’invasione, una visione chiara di una strategia autonoma dei blindati. Si spiega allora perché i Russi, sul piano dell’organica, non si siano mai spinti alla concezione della grande unità corazzata, dotata di tutti i servizî e i mezzi di combattimento che le garantissero un’azione autonoma. Lo stato maggiore russo distingue i carri in tre categorie a seconda dell’impiego: «carri d’appoggio diretto della fanteria, carri d’appoggio lontano della fanteria, carri a grande autonomia». Con questa ultima categoria sembrerebbe di trovarci di fronte alle Panzer, ma è un’illusione, perché anche la terza categoria non ha funzione tattica autonoma; essa è concepita come una cavalleria strategica che, a somiglianza della divisione leggera meccanica francese, contando più sulla mobilità che sulla sua potenza, sfrutta con l’azione lontana il successo conseguito dalla fanteria. Siamo quindi ancora lontani dai metodi progrediti della Panzer germanica: perciò nella campagna d’estate del 1941, mancando della grande unità corazzata, i Russi si trovarono in condizioni d’inferiorità di fronte a un nemico che ne disponeva in copia di tutte le dimensioni: divisioni, corpi d’armata, armate.
Tuttavia, l’alto comando sovietico vide chiaro un aspetto della strategia dei blindati, quello del calcolo delle perdite spaziali e della collaborazione utile dei servizî e mezzi di ripresa dopo la rottura. Ogni grande azione a massa di carri guadagnava circa 500 km. di profondità; per questo il maresc. Stalin nel primo blitz del 1941 ebbe l’avvedutezza di disporre le riserve strategiche dietro la linea del suo nome e i corpi più importanti nelle regioni di Leningrado, di Mosca, di Charkov. Inoltre, i Russi, per primi, compresero che il debole dello Schwerpunkt risiedeva nello spazio di minor resistenza situato tra i blindati e la fanteria che seguiva. Quando i Tedeschi, avendo lanciato nel profondo del dispositivo nemico i cunei blindati, li avevano fatti ricongiungere a 150-200 km. alle spalle dei difensori, s’avvidero con meraviglia che costoro non s’arrendevano, ma che, attaccando con i proprî blindati le masse di fanteria nazista, sopravvenuta per l’assedio più stretto, costringevano i carri a tornare indietro e a trovarsi esposti ad attacchi alle spalle delle forze avversarie di riserva. Quando la situazione delle armate impegnate diveniva critica, l’alto comando sovietico ordinava la ritirata, più o meno profonda, a seconda dell’importanza del territorio da cedere e del maggiore o minore bisogno di ricostituzione delle unità provate. Talvolta venivano interposti spazî anche di 250 km., i quali esaurivano di per sé stessi le formazioni della Panzerwaffe, che giungevano alla fine della loro traiettoria prive d’essenza. Siccome poi le città piccole e grandi e le campagne erano state distrutte in virtù della tattica della «terra bruciata», i grandi complessi corazzati di Kleist, Guderian, Hot, Hoeppener rimanevano inchiodati al suolo in attesa dei rifornimenti. Il Comando sovietico ne approfittava per riorganizzare il suo dispositivo e contrattaccare quando possibile. I due fattori essenziali degli uomini e dello spazio, chiamati dallo stato maggiore russo a collaborare, costrinsero il nemico a subire ritardi sulla propria tabella di marcia, mentre le sue perdite si accumulavano oltre ogni previsione. Fu così che, di balzo in balzo ritardato, la Wehlmacht si presentò solo il 1° novembre 1941 al contatto del sistema difensivo di Mosca. Il fango e poi il freddo intervennero nella battaglia a potenziare la difesa organizzata dall’armata rossa per la capitale. Il 6 dicembre, dopo circa venti giorni di combattimenti sostenuti nelle più avverse condizioni di clima e di terreno contro un nemico sempre inflessibile e aggressivo, l’immane meccanismo della Wehrmacht concentrato contro Mosca cessò spontaneamente di funzionare; il maresc. Kapoãnikov, con mirabile percezione, intuì che il meccanismo offensivo nemico, al momento era entrato in crisi, e si gettò al contrattacco con le riserve strategiche, dando inizio alla prima controffensiva rossa d’inverno. A fine aprile 1942, quando venne il disgelo, si constatò che, contro le speranze dei Russi di consumare la distruzione totale dell’avversario, i bastioni a riccio delle «posizioni invernali» avevano generalmente tenuto con successo contro i più rudi attacchi. La Wehrmacht, allineata sul fronte di Staraja Russa Kiev-Vjazma -Kursk - Belgorod-Charkov - Tagan rog, si preparava alla seconda campagna d’estate, decisiva di tutta la guerra.
La sconfitta di Mosca aprì una grave crisi nell’OKW; i marescialli Brauchitsch, von Rundstedt, von Leeb furono esonerati dalle loro funzioni. La grave crisi di comando fu superata da Hitler che decise di fare uso del suo prestigio presso l’armata e assumere personalmente la direzione generale delle operazioni all’est. Ma sulle due rive dell’Atlantico i popoli compresero che, dopo la battaglia di Londra, quella di Mosca aveva salvato il mondo libero. (Per le operazioni militari v. anche Russia, in questa App.).
La guerra in Estremo Oriente. – Il 7 luglio 1937, in conseguenza dell’incidente del Ponte di Marco Polo era scoppiata la guerra cino-giapponese (v. App. I, p. 433 e in questa App.). Chang-Kai-shek, dinanzi alle preponderanti forze nemiche, decise di mettere fra sé e il nemico non solo dello spazio, come la Russia nel 1708-09 e nel 1812, ma lo spazio proprio della Cina, saturo cioè di una ingombrante e infida popolazione distribuita ovunque nelle campagne, nelle città e negli emporî commerciali. Come nei passati millennî, data l’autosufficienza, propria di quella economia quasi primitiva, l’aggregato nazionale cinese, preso nel suo complesso, non soffrì in misura irreparabile per le operazioni di guerra. Inoltre, il generalissimo cinese seppe mettere dalla sua parte, presentandosene come continuatore, Sun-Yat-Sen, il profeta di una profonda rinnovazione morale e di una straordinaria rivoluzione nazionale, l’uomo del quale il popolo cinese venerava la memoria come quella di un eroe quasi divino. Alle prese con un blocco così imponente, i Giapponesi, nonostante i loro clamorosi successi iniziali, non erano riusciti ad infliggere alla Cina danni letali. Conferivano alla resistenza del paese gli aiuti degli S.U., della Gran Bretagna, della Francia e dell’URSS; i rifornimenti delle prime tre potenze passavano di contrabbando attraverso i porti della Cina meridionale e, ancor più, attraverso la strada della Birmania e la ferrovia indocinese fra il Tonchino e il Kunming (Yün-nan); i rifornimenti dell’ultima potenza passavano attraverso le millenarie vie del Kansu e del Sin-kiang. Nella prima metà del 1939, il Giappone ritenne opportuno approfittare della situazione europea per tagliare alla Cina le vie di rifornimento.
Ma le nuove occupazioni nipponiche causarono allarmi e preparativi di carattere precauzionale fra le potenze maggiormente interessate al mantenimento dello statu quo in Cina, ma non sortirono i desiderati effetti risolutivi sul conflitto continentale. In conseguenza dello scoppio delle ostilità in Europa, diminuirono gli aiuti alla Cina da parte della Gran Bretagna, della Francia e della Russia, ma aumentarono quelli da parte degli Stati Uniti, cosicché la situazione nel paese aggredito continuò a rimanere senza uscita per i Giapponesi, nonostante i successi conseguiti da costoro nell’aprile-maggio 1940 lungo il medio corso del Yang-tse-kiang. Nel giugno riuscirono a stabilirsi infatti nel porto fluviale di J-Ciang, a soli 400 km. da Ch’ung-K’ing, non potendo occupare la temuta capitale, gli invasori si limitarono a stabilire nella nuova città occupata una base aerea, dalla quale bombardarono a più riprese Ch’ung-K’ing. Siccome, tuttavia, non riuscivano a ottenere alcun risultato diretto, si prefissero di tagliare le vie dei rifornimenti alla Cina. Lo schiacciamento della Francia offrì l’opportunità al Giappone d’insediarsi, fra il 14 giugno e il 22 settembre 1940, nell’Indocina per interrompere il traffico Hanoi Kunming, mentre l’indebolimento dell’Inghilterra consentì a Tükyü di concludere il 17 luglio dello stesso anno un accordo con cui Londra, sia pure soltanto per tre mesi, s’impegnava a sospendere i rifornimenti attraverso la via della Birmania. Ma gli Stati Uniti non potevano permettere che la Cina nazionalista fosse schiacciata, e sostenendo più efficacemente la Gran Bretagna, la indussero, alla scadenza del patto trimestrale del 17 luglio, a non rinnovarlo, accrebbero le forniture alla Cina, accentuarono la guerra economica contro il Giappone. La situazione si fece più pesante quando l’11 marzo 1941 gli Stati Uniti, promulgata la legge Affitti e prestiti, ne estesero i benefici anche alla Cina; s’aggravò ulteriormente alla fine del luglio 1941, allorché i Giapponesi, inasprendo i termini dell’accordo di Hanoi (22 settembre 1940), sbarcarono nuove truppe in Indocina. Questo fatto produsse la reazione degli S.U., dell’Impero britannico, dell’Olanda, che applicarono al Giappone le sanzioni sul petrolio.
Dopo l’occupazione del Man-chu kwo (1931), l’impero del Mikado s’era accinto alla realizzazione del memoriale del barone Tanaka, che rappresentava il trionfo delle direttive politico strategiche dell’esercito sulla marina, si ritenne possibile avanzare su terraferma contro la Cina, ed evitare forse l’urto sul mare con gli Stati Uniti. Il piano comportava l’occupazione della Manciuria e della Cina del Nord, una forte espansione in Siberia e verso le Indie. Una simile politica aggressiva si urtava in pieno contro la volontà americana di mantenere aperta la porta della Cina, compresa la Manciuria. Nel 1939-40 cominciò a imporsi, in Giappone, la constatazione che la Cina, contrariamente alle previsioni, aveva offerto una resistenza che l’armata non era riuscita in nessun modo a piegare e gli Stati Uniti, lungi dal mantenersi neutrali, erano intervenuti ad aiutare Ch’ung K’ing con forniture massicce. Anzi, s’era ormai formata fra gli esperti la convinzione che l’armata del Mikado difficilmente avrebbe piegato Ch’ang-Kai-shek, se il potere politico non fosse riuscito in qualche modo a imporre a Washington di modificare la sua condotta nei riguardi della Cina. Fu stimato che la via migliore allo scopo fosse quella di prepararsi alla guerra con gli Stati Uniti. Di qui l’avvicinamento sempre più stretto all’Asse Roma-Berlino e la conclusione (27 settembre 1940) del patto tripartito; era interesse dei contraenti obbligare in caso di guerra le potenze anglosassoni a suddividere le forze fra l’Atlantico e il Pacifico. Di qui l’accordo (13 aprile 1941) con l’URSS che allontanava dal Giappone la minaccia di vedere forze aeree americane installate su basi costiere sovietiche, dalle quali, con un raggio di soli 1200 km., l’intero Giappone, poteva divenire facile preda dell’aviazione da bombardamento. La Russia, dal canto suo, liberava così le forze dell’armata dell’Estremo Oriente, e il Giappone aveva mano libera nel Pacifico.
Il piano di guerra giapponese era estremamente semplice e mirava direttamente alla distruzione della flotta avversaria. Un simile risultato avrebbe dato di colpo la supremazia navale assoluta al Giappone che, sfruttando la sua supremazia aerea avrebbe potuto conquistare nel Pacifico sud-occidentale immensi territorî ricchi di risorse.
La decisione finale dei preparativi di guerra «venne presa di comune accordo e col pieno consenso di tutti i capi dell’esercito e della marina». I quali decisero di realizzare, tolta di mezzo la grande flotta americana, un primo piano di espansione, che includeva i territorî entro la linea congiungente le isole Kurili, Wake, Marshall, Bismarck, Timor, Giava, Sumatra, la Malesia e la Birmania. Tutta questa zona doveva essere fortificata, specie alla periferia, e nell’area di essa avrebbero potuto essere impiantate basi militari e aeroporti avanzati; così rinforzata, questa zona sarebbe stata protetta da una forza mobile d’assalto di corazzate e di portaerei, in posizione centrale. È questa la celebre concezione giapponese «del perimetro difensivo».
Il Comando supremo nipponico, eliminata gran parte o tutta la flotta nemica, contava in misura risolutiva sull’efficacia della propria difesa a oltranza dell’area occupata, la quale, offrendo bauxite, petrolio, gomma, zinco e tutti i metalli delle ricche riserve della Malesia e dell’Indocina, avrebbe potuto alimentare indefinitamente lo sforzo militare dei conquistatori. Per di più si faceva calcolo, nonostante il diverso parere di alcuni circoli politici e militari più sperimentati conoscitori degli S.U., sulla insufficiente «mentalità guerresca» del popolo statunitense e delle sue forze armate. Le condizioni psicologiche, si pensava, possono ottenere «influenze sostanziali» sulle decisioni di un governo a base democratica che, impegnato in una guerra lunga, si sarebbe visto a un certo punto impossibilitato a continuare un’azione offensiva contro un complesso così munito come l’area presidiata dai Giapponesi, e avrebbe dovuto addivenire a un compromesso consentendo ai Giapponesi di tenersi «una parte notevole dei territorî occupati».
Il 15 ottobre 1941, il «piano generale» del Comando fu messo a punto. Questo piano, operativamente, si articolava sul temerario attacco a Pearl Harbor. Il primo ordine di preparare l’attacco fu dato al principio del gennaio 1941 dal grande amm. Yamamoto, comandante in capo della 1ª e 2ª flotta (di gran lunga le più importanti delle sei in cui erano state divise le forze navali giapponesi). Furono tenuti presenti gli esperimenti del Capo May, in cui il gen. americano Mitchell nel 1922 dimostrò che i bombardieri potevano affondare le corazzate. Ben più, furono sfruttate le recenti esperienze dell’attacco di Taranto, adattandole alle esigenze dei bassi fondali (soli 14 metri) di Pearl Harbor. Dal 2 al 13 settembre gli ammiragli in comando si riunirono a Tükyü per armonizzare studî ed esperienze, e per concretare l’azione nei particolari. Il gran quartiere generale imperiale, formato dagli stati maggiori riuniti dell’esercito e della marina, dava la sua sanzione al piano elaborato, che costituì l’operazione «n.1», distribuita ai soli comandanti di squadra, il 5 novembre 1941.
Si trattava ora di concretare il piano operativo, cioè si trattava di far la guerra. Poiché nessuna delle personalità giapponesi, civile e militare, riteneva, nonostante tutto, impresa facile quella di cimentarsi con la potenza d’oltre Pacifico, il governo del principe Konoye, specie nei mesi di agosto e settembre tentò un accordo di compromesso, ma ci si dovette presto rendere conto che non era possibile chiudere vantaggiosamente la guerra cinese attraverso la mediazione e il crisma del presidente degli Stati Uniti. Il 18 ottobre era stato costituito il nuovo gabinetto, che comprendeva 7 generali e ammiragli su 14 ministri; e il gen. Tojo, nuovo capo, era un ufficiale austero, che rappresentava il clan militare più radicale e assertore di una più risoluta politica: egli era da lungo tempo convinto della necessità di guerra con gli Stati Uniti, e le vittorie tedesche lo incoraggiarono a prepararla. Non rimaneva che mettere a punto il suo scatenamento. Il 5 novembre, mentre inviava Kurusu come rappresentante speciale presso Roosevelt, distribuiva ai comandanti di squadra l’ordine dell’operazione «n.1». Due giorni dopo l’ammiraglio Yamamoto diramava l’ordine di operazione «n. 2», con cui informava che il giorno Y della prima operazione – l’attacco su Pearl Harbor – era l’8 dicembre.
La mattina di quel giorno, che corrisponde al mattino del 7 alle Hawaii, forze aeree navali e sottomarine, mirabilmente coordinate, «scatenavano l’inferno su Pearl Harbor»: la flotta americana con un colpo inatteso veniva messa fuori combattimento per qualche mese. Per di più il 10 dicembre, solo tre giorni dopo il disastro di Pearl Harbor, s’abbatté un’altra sciagura sugli Anglosassoni: due delle più belle unità britanniche a grande raggio d’azione, la Repulse di 29.000 t., rammodernata nel 1936, e la Prince of Wales di 35.000 t., entrata in squadra da pochi mesi – prive di ricognizione e della scorta di velivoli da caccia – venivano affondate da due attacchi di bombardieri in quota e da tre ondate successive di velivoli siluranti. La flotta britannica dell’Estremo Oriente era decapitata. «Da quel giorno, come disse Churchill, da S. Francisco ad Aden e a Città del Capo, per un raggio di 14.000 miglia, non esistevano forze capaci di misurarsi con la flotta nipponica. In questo immenso vuoto strategico i Giapponesi si ritagliarono l’area della loro prima espansione (per le operazioni di conquista in Malesia, Singapore, Birmania e in tutto il Pacifico sud-occidentale, v. pacifico). In soli quattro mesi, il Giappone aveva attuata la parte più importante del programma iniziale: l’entità dei successi raggiunti incoraggiò anzi i più audaci capi di Tükyü a considerare la possibilità di un’espansione oltre i limiti inizialmente stabiliti.
L’incursione aerea del 18 aprile 1942 sulla capitale nipponica e la sottovalutazione delle possibilità d’azione americana sospinsero l’alto comando nipponico ad estendere la profondità dell’area fino ad allora conquistata. Pertanto venne predisposto un nuovo piano di guerra, che stabiliva i seguenti obiettivi. Un’avanzata su Port Moresby e nelle isole Salomone con l’intento di conseguire il completo dominio strategico del Mar dei Coralli e quindi il controllo del golfo di Papua e dello Stretto di Torres: si voleva costituire al nord-est dell’Australia una situazione simmetrica a quella già costituita al nord-ovest col dominio sul Mar degli Arafura. In questo mare si trova Port Darwin, unica base militare nella Australia settentrionale. Conseguito il successo nelle Salomone e a Port Moresby, ci sarebbe dovuta essere un’ulteriore avanzata nella Nuova Caledonia, nelle isole Figi e Samoa. Con queste tre occupazioni l’Alto Comando nipponico mirava a provocare un’ interruzione delle linee di comunicazione fra gli Stati Uniti e l’Australia, e porre le premesse del terzo piano d’espansione che doveva vedere i giapponesi finalmente stanziati nella immensa «isola» del sud, temperata, ricca, vuota d’abitanti. Il secondo piano d’espansione contemplava anche la cattura delle Midway e quindi la minaccia ravvicinata alle Hawaii, che dipendevano interamente dallo esterno per il vettovagliamento e ospitavano 150.000 persone di origine giapponese, le quali avrebbero potuto dare man forte alla sollevazione di una quinta colonna. Infine v’era in bilancio l’occupazione almeno delle Aleutine occidentali, necessarie a diminuire la possibilità di minaccia dall’Alaska e a rafforzare le difese nel settore nord del perimetro difensivo.
La tabella oraria del nuovo piano stabiliva che le Salomone e Port Moresby dovevano essere occupate nel novembre 1942, la Nuova Caledonia, Figi, Samoa e Midway nel gennaio 1943, le Aleutine nel giugno 1942; il rafforzamento del limes, cioè del perimetro dell’immenso impero oceanico, doveva essere compiuto nel marzo del 1943. Dagli interrogatorî di ufficciali giapponesi risulta come molti fossero i dissensi suscitati dalla nuova politica d’espansione, che estendeva esageratamente la sua linea d’avanzata, imponeva alla flotta mercantile, già tanto gravata, un più costoso servizio di rifornimenti, indeboliva la stessa area di occupazione iniziale ritardando la costruzione delle fortificazioni programmate.
Ma ben più grave e sostanziale fu l’errore del Giappone per il fatto stesso di aver scatenato la guerra nel Pacifico. Infatti il 6 dicembre era finita in uno scacco l’offensiva tedesca contro Mosca, nello stesso giorno il maresc. Kapoãknikov lanciava il primo contrattacco; e poiché l’andamento dell’offensiva della Wehrmacht in Russia aveva perduto il ritmo travolgente, almeno fra il 16 e il 30 novembre, poiché era fallito il piano d’invasione dell’Inghilterra e gravi erano stati gli scacchi degli Italiani, come avvenne che, ciò nonostante, Tükyü si cacciasse nella mischia, commettendo un così pesante errore di calcolo? Gli è che i dirigenti di Tükyü furono vittime della concezione del perimetro difensivo, frutto d’incomprensione e d’orgoglio: d’incomprensione della sostanza morale dell’anima americana e del carattere globale della strategia di questa guerra (l’alto comando giapponese non seppe mai liberarsi, lo vedremo più tardi, della mentalità locale del suo conflitto, associato solo esternamente a quello dell’Asse), d’orgoglio, per l’esagerato apprezzamento delle proprie qualità militari, esasperate da uno sprezzo della vita sconosciuto agli Europei e agli Americani.
Gli Stati Uniti in guerra: ripercussioni in Estremo Oriente e in Europa. Sotto il colpo di Pearl Harbor si realizzò a un tratto la concordia nella Unione Americana. L’8 dicembre il Congresso votò lo stato di guerra col Giappone; la Germania e l’Italia l’11 dicembre dichiararono la guerra agli Stati Uniti, per i quali quindi, come scrisse il Morgenstern, «il conflitto col Giappone fu la porta di servizio per l’accesso alla guerra in Europa»). Siccome la Gran Bretagna subito dopo Pearl Harbor e prima degli Stati Uniti s’era posta sul piede di belligeranza col Giappone, il conflitto, come mai nel passato, s’era fatto mondiale. L’intervento degli S. U. fu l’episodio più saliente della guerra e ne costituì la maggiore forza determinante di vittoria. La politica del cash and carry («paga e porta via») e, ben più, degli Affitti e prestiti aveva cominciato a impegnare abbastanza largamente le risorse americane nella produzione bellica. Quando la guerra sopravvenne, l’organizzazione industriale della nazione giunse presto a soverchiare il vantaggio iniziale quantitativo dei nemici. La grande industria americana finì con l’armare ed equipaggiare le forze statunitensi in ogni parte del mondo con una larghezza senza riscontro nella storia dell’umanità, e contribuì in grandissima misura ad aumentare la forza delle altre Nazioni Unite.
Il 6 gennaio 1942 Roosevelt inviava un messaggio al Congresso, in cui esponeva la necessità di accelerare il ritmo della produzione in modo che nel 1943 si potessero costruire non meno di 125.000 aerei, di cui 100.000 da combattimento, 75.000 carri armati, 35.000 cannoni; entro il 1942 poi dovevano essere costruiti 8 milioni di t. di naviglio in confronto a 1.100.000 t. del 1941. S’imponeva di utilizzare queste immense risorse nel modo strategicamente più redditizio. A tal fine Churchill e Roosevelt s’incontrarono a Washington (dicembre 1941-gennaio 1942) per concordare una politica di cooperazione militare, alla quale doveva partecipare anche la Cina di Ch’ang-Kai-shek. Gli statisti anglosassoni, fin dal principio, ebbero chiaro il concetto della guerra globale e compresero che la via più rapida ed efficace per conseguire la vittoria era quella che portava prima allo schiacciamento della Germania e poi del Giappone.
La Germania infatti aveva concentrato, più di ogni altro paese, tutte le sue risorse sulle forze armate, godeva ancora del grande vantaggio iniziale derivante da anni di preparazione bellica, e soprattutto poteva contare sul potere di una tecnica, superiore sotto varî aspetti a quella anglosassone. In molte armi, come nei carri Tiger e Panther, nel cannone 88, antiaereo, anticarro e anti-uomo, negli apparecchi a reazione, nei sottomarini (mirabili quelli del tipo XXI), nelle telearmi, nell’aviazione senza pilota, nelle ricerche sull’esplosivo atomico, i Tedeschi rimasero superiori nella qualità agli avversarî sino alla fine della guerra. Per dedicare ogni energia alla creazione di armi di tipo già noto, ma di cui si aveva urgente bisogno, gli S.U. trascurarono durante l’intero corso delle ostilità l’indagine scientifica fondamentale e le conseguenti applicazioni nel campo della tecnica militare. La perdita di uno o due anni nel campo della ricerca scientifica, «può essere ben difficilmente compensata, seppure può esserlo». Si stimò pertanto essere cosa estremamente pericolosa portare lo sforzo principale di guerra prima contro il Giappone, perché, durante il lungo periodo di tempo necessario per imporre a Tükyü la resa incondizionata, la Germania, che controllava le strutture e l’organizzazione delle regioni più civilizzate del continente europeo, avrebbe avuto modo di realizzare appieno nella produzione industriale in serie quella superiorità già raggiunta nel campo sperimentale. Il Giappone, meno progredito nelle ricerche scientifiche, nello sviluppo tecnico e industriale, con un apparato produttivo enormemente inferiore al tedesco, con un impero disperso su decine di milioni di kmq., con popolazioni inadatte al lavoro specializzato, con una flotta mercantile insufficiente ad assolvere le sue funzioni logistiche, poteva essere lasciato da parte, senza eccessivo peridolo per gli Alleati, fino a quando questi portassero a termine la distruzione della Germania.
La decisione (metà gennaio 1942) di Churchill e Roosevelt, ebbe importanza capitale e contribuì in misura determinante alla vittoria delle Nazioni Unite. Al momento, però, contro la Germania s’allineavano le risorse militari di buona parte dell’Impero britannico e di tutta l’URSS, mentre non c’era a disposizione nessun nucleo di forze adeguato a contenere la marea giapponese. Si decise pertanto che tutti i mezzi immediatamente disponibili degli S.U., con un’aliquota della futura produzione, fossero impegnati in un’azione difensiva nel Pacifico, mentre la parte maggiore degli stanziamenti bellici, preventivati nel messaggio presidenziale del 6 gennaio, sarebbe stata concentrata in Inghilterra e in Africa, per alimentare le operazioni in atto e preparare quelle dell’avvenire.
Bisognava ad ogni costo impedire che il Giappone mettesse piede nell’Alaska, nelle Hawaii, in Australia, nelle Indie: erano i pilastri del sistema difensivo indo-pacifico. La Gran Bretagna doveva combattere in Africa e aiutare l’Unione sovietica e questa, mortalmente impegnata in Europa, non intendeva denunciare il patto d’amicizia concluso col Giappone il 13 aprile 1941. Pertanto la difesa del Grande Oceano ricadeva fondamentalmente su Washington che poteva giovarsi però dell’ausilio australiano, neozelandese e in parte inglese. La situazione geografica del Giappone assegnava al conflitto nel Pacifico il carattere prevalente di una guerra per il dominio del mare, ma questo a sua volta non poteva essere conseguito senza il controllo dello spazio aereo sovrastante. Gli Anglosassoni compresero per primi pienamente la fecondità del connubio aeronavale; i giapponesi, invece, compresero l’importanza del controllo aereo locale e del suo sfruttamento tattico, ma non si resero bene conto del rivoluzionamento strategico apportato dalle possibilità dell’arma aerea. Conseguenza di ciò fu che i Giapponesi non ebbero mai la possibilità di concentrare una larga parte delle loro forze aeree in qualsiasi determinato momento o in qualsiasi determinato luogo, né mai contemplarono nei loro piani strategici la possibilità di ottenere e mantenere un continuo e generale controllo del cielo. Fu così che l’alto comando di Tükyü intraprese una forma di guerra che avrebbe dovuto evitare: la guerra ad obiettivi limitati. Gli Americani, invece, pur dovendo aiutare a difendere l’India e la Cina, impostarono la campagna del Pacifico in modo che i varî fatti d’armi concorressero al fine di rendere possibile l’invasione del Giappone. Avendo gli Americani compreso, già prima che si combattessero le battaglie del Mar dei Coralli e di Midway, l’importanza dell’aviazione nelle operazioni navali, il programma d’espansione della flotta venne a comprendere un numero imponente di portaerei. Il 7 dicembre 1941 la marina americana contava solo sette navi portaerei di linea e una di scorta. Alla fine del 1943 ne erano entrate in squadra circa 50 di linea, mentre un gran numero di portaerei di scorta, indispensabili in Atlantico nella battaglia contro i sottomarini, erano state cedute alla Gran Bretagna. La marina che avesse posseduto una superiorità aerea indiscutibile si sarebbe aggiudicata la signoria del mare, anche se inferiore in potenza navale calcolata sulla base dell’antica strategia marittima. Uno dei primi problemi a cui si cimentò il comando navale degli S. U. fu quello di stabilire fra l’America e l’Australia una catena di basi – anelli di congiunzione nelle sue linee di comunicazione – che servissero come stazioni di rifornimento di combustibile e d’imbarco di truppe e come depositi di materiale.
La prova della perspicacia del comando supremo americano venne fornita dalle operazioni nel Mar dei Coralli, a nord-est delle coste australiane: infatti gli obiettivi dell’ammiragliato giapponese non poterono essere raggiunti e la sua flotta, non sufficientemente protetta dall’aviazione, fu messa in rotta, grazie a un vigoroso intervento aereo.
La Relazione dell’amm. King distingue quattro fasi nella guerra navale del Pacifico: fase puramente difensiva, difensivo-offensiva, offensivo-difensiva, fase puramente offensiva. La battaglia del Mar dei Coralli (7-8 maggio 1942) segna, con vantaggio per gli S. U., la conclusione della prima fase. La battaglia di Midway del 4-6 giugno 1942 fu battaglia fra portaerei e fu la dimostrazione, fino ad allora più probativa, dell’evoluzione della strategia navale. La flotta giapponese era nettamente superiore all’americana, ma, avendo perdute tutte e quattro le portaerei nella battaglia, l’amm. Yamamoto si vide costretto a rinunziare all’impresa contro le Midway. Risultava ormai chiaro che il destino delle flotte veniva deciso nell’aria, e pertanto contro una forza navale, anche inferiore, ma appoggiata da portaerei, la preponderanza di corazzate diventava inutile: nella guerra marittima le battaglie non potevano essere più considerate come battaglie navali, ma aeronavali. Il successo riportato a Midway sulle portaerei giapponesi dimostrava che gli Americani, principalmente per l’uso del radar, avevano compiuto grandi progressi negli attacchi aerei contro le navi e nell’organizzazione difensiva. Questa battaglia dimostrò anche la superiorità dell’aviazione imbarcata su quella basata a terra, in quanto che il successo fu assicurato dagli aerei dell’Enterprise, dell’Hornet e del Yorktown e non da quelli di Midway, i quali subirono danni paralizzanti, essendo la posizione degli aerodromi e dell’isola ben nota al nemico. Poiché la battaglia di Midway modificava considerevolmente il rapporto di forze dei due belligeranti, essa può essere veramente considerata come una «decisiva sconfitta subita dalla marina giapponese». La marina nipponica venne a trovarsi in condizione di poter ingaggiare il combattimento soltanto di notte o in prossimità della terra, dove poteva usufruire dell’appoggio delle forze aeree terrestri; non fu più in grado di minacciare le Hawaii, né le coste occidentali degli S. U. e, fatta eccezione per le isole Aleutine, le azioni belliche nipponiche dovettero circoscriversi al Pacifico sud-occidentale. A Midway fu quindi ristabilito l’equilibrio della potenza aeronavale nel Pacifico, e, come conseguenza, l’equilibrio della potenza navale assoluta fra gli Alleati e i Giapponesi. Se la battaglia nei cieli di Gran Bretagna rappresentò in occidente la Marna aerea della seconda Guerra, le battaglie del Mar dei Coralli e di Midway ne rappresentarono in Estremo Oriente la Marna aeronavale. A queste due battaglie seguiranno pochi mesi dopo quelle di el-‚Alamein e di Stalingrado, col risultato di contenere in settori diversi la comune minaccia. Degno della massima considerazione è il fatto che le due battaglie navali furono combattute «senza che le rispettive navi di superficie – come scrive l’amm. King – avessero sparato neppure un colpo di cannone». Dal punto di vista della tattica navale, la battaglia del M. dei Coralli e di Midway rappresentano una svolta nella storia della marina militare, segnando il predominio dell’arma aerea nella guerra sul mare.
Gli Angloamericani, avendo avuta fin dall’inizio la concezione unitaria della guerra, decisero di realizzarla creando, sullo scorcio del dicembre 1941, il «Comitato misto dei capi di stato maggiore», con sede a Washington. A partire da questa data, le forze americane e britanniche furono impiegate secondo le direttive dei capi degli stati maggiori riuniti (Combined Chiefs of Staffs). Questo ente considerava tutti gli oceani come parti di un mare mondiale e tutte le terre come regioni di un solo continente, e pertanto distribuiva le forze secondo le necessità e le urgenze, entro i limiti delle disponibilità e nell’ambito d’una strategia difensivo-offensiva in Estremo Oriente e offensiva in Occidente. Se la direttiva generale per le operazioni in Europa era di carattere offensivo, prima che gli S. U. avessero realizzato le loro possibilità di produzione sarebbe trascorso vario tempo, che andava utilizzato nel preparare di lontano le condizioni per l’assalto futuro alla «fortezza Europa». Fu così che si decise d’inviare nell’estate del 1942 i primi bombardieri americani in Gran Bretagna. La Luftwaffe, attivissima nella partecipazione alla guerra scatenata all’est, non fu in grado di ostacolare con efficacia l’istallazione delle forze aeree statunitensi, ripartite inizialmente in 67 basi. Ogni base comprendeva uomini e mezzi per mantenere in attività permanente circa 50 «Fortezze» e «Liberators». Queste prime forze costituirono l’8ª armata aerea, comandata al principio dal gen. C. Spaatz, e più tardi dal gen. Ira C. Eaker. Gli Americani inaugurarono i loro voli sull’Europa il 17 agosto. Mentre i Britannici si erano specializzati nel volo notturno, gli Americani si specializzarono nel bombardamento di precisione effettuato di giorno da grande altezza: furono così effettuati sulla Ruhr bombardamenti notevoli per la concentrazione nel tempo, il numero degli apparecchi impegnati (500 su Barmen e su Düsseldorf) e il peso delle bombe lanciate (3250 kg. circa). L’attività aerea, per la partecipazione crescente delle macchine americane, si sviluppava progressivamente nell’Europa occidentale, nel Mediterraneo e in Italia, senza che la difesa fosse in grado di contrastarla con particolare efficacia. Nell’estate del 1943 i bombardieri pesanti quasi cessarono il loro martellamento, perché dovettero spostarsi verso Sud, dove bisognava preparare e sostenere lo sbarco nell’Africa del Nord.
La seconda campagna di Russia. – Nell’attesa del giorno decisivo ci s’impegnò da parte dei due contendenti in un immenso sforzo di produzione, d’addestramento e di riorganizzazione, sforzo che non rimase troppo ostacolato dall’offensiva preventiva del maresc. Timoèenko su Charkov (12 maggio-14 giugno 1942). Hitler costituì un «Consiglio dell’armamento», presieduto da Speer, cui delegò i suoi poteri in materia d’economia e produzione bellica, e organizzò un «Consiglio dell’acciaio», incaricato delle questioni relative all’industria pesante. La Wehrmacht, verso cui venne convogliata tanta parte della produzione, si presentò al nuovo cimento ancora in piena ascensione. La Panzerwaffe subì trasformazioni considerevoli, suggerite dall’esperienza della prima campagna di Russia. In questa prima campagna la brigata di carri blindati, collaborando con la brigata di fucilieri portati, s’era tante volte incuneata con successo nel dispositivo nemico; ma spesso era anche avvenuto, specie nell’autunno del 1941, che, avendo i Russi scaglionato molto in profondità il loro dispositivo, le brigate tedesche non pervenissero più a sfondarlo, a causa delle intollerabili perdite subite. Il binomio Panzer-Stukas, con i successi folgoranti di due anni, aveva messo del tutto in ombra l’artiglieria e in particolare la fanteria. Ma le recenti esperienze imposero, di riorganizzare la divisione blindata su nuove basi, passando dall’unità tattica di tipo binario del 1938 alla nuova unità di tipo ternario del 1942.
La nuova Panzer di Guderian era costituita da un reggimento di carri e da due reggimenti di fucilieri portati. Uno di questi, sostenuto dagli Stukas, apriva il combattimento e, se riusciva ad aprire una breccia, sopravveniva il reggimento di carri, il quale aveva bisogno di essere fiancheggiato da un nuovo elemento fresco, cioè dal secondo reggimento di fucilieri portati, capace di combattere a piedi e di occupare e conservare il terreno conquistato contro il ritorno offensivo di nemici, i quali infatti non hanno mai mancato dicontrattaccare corpo a corpo i carri e di richiudere la breccia dietro di essi. Il totale dei carri della nuova divisione fu calato dai 500 del 1938-41 a 356-368; in compenso, oltre ai due reggimenti di fucilieri portati (invece di uno), i carri furono aumentati di peso e d’efficienza. I carri leggeri infatti passarono dai 23 del battaglione vecchio tipo ai 17 del 1942, mentre i medî salirono da 64 a 70 per battaglione; i carri pesanti rimasero raggruppati in una compagnia di 24 Mark IV, ma dalle 19 t. del 1939-41 si passò a 24-28 t., e il cannone corto di 7,5 cm. fu sostituito con uno lungo dello stesso calibro, ma tirante un proietto perforante di 6,5 kg. con velocità iniziale di 1000 metri.
La crisi dell’autunno 1941 era stata più che sensibile, perchè i Russi dopo la sorpresa iniziale, avevano organizzato difese di eccezionale profondità, concentrato grandi masse di artiglieria e trovato il punto debole nella tattica dello Schwerpunkt. Inoltre, i Sovietici con la politica della terra bruciata, con l’impiego delle mine, con le insidie così facili a tendere nei boschi contro i carri, col tempestivo intervento delle riserve, abbassarono a tal punto la curva di rendimento del binomio Panzer-Stukas, che l’OKW ritenne di dover rafforzare con espedienti logistici l’efficienza della nuova divisione ternaria. Conseguì lo scopo col progresso del materiale da trasporto dei battaglioni di fucilieri dei reggimenti motorizzati: sia il piccolo sia il grande Panzergrenadierewagen sono blindati, armati e provvisti di cingolo, e, potendo affrontare direttamente il fuoco, meglio dei reparti di fanteria motorizzata, offrono ai comandi delle nuove possibilità d’impiego. In queste mobili vetture corazzate i Panzergrenadiere intervengono sul campo di battaglia per sostenere da vicino i carri, distruggere tutti i punti d’appoggio, davanti ai quali i blindati rimarrebbero impotenti, prevenire il nemico sulle posizioni di riparo e stroncare in germe ogni suo tentativo di contrattacco. Questa fanteria «cingolata» non è più legata dalla ruota alla strada, né è costretta a saltare dagli autocarri a ogni intervento nemico; essa va per la campagna insieme ai carri armati e lavora con questi, non più, come nel 1939-41, ad azione in prevalenza alternata, ma sempre in prima linea e in piena concomitanza. Fu la prima rivincita della fanteria, di una fanteria che, molto diversamente da quella del 1914-18, era armata di tutte le armi mano a mano escogitate dalla tecnica, ma tuttavia, come l’altra, insostituibile nella lotta corpo a corpo, nel percorrere i terreni più impervî, nel completare la distruzione delle basi operative e di produzione del nemico, nel presidiare e difendere i territorî occupati.
Poiché i Tedeschi si sono convinti che «l’arma anticarro si drizza davanti al carro, come, durante l’ultima guerra, la mitragliatrice davanti alla fanteria», hanno particolarmente curato le compagnie anticarro, riarmate con 12 pezzi di 5 cm., e le congiunte compagnie di Sturmgeschütze automotori. Inoltre, dopo il largo impiego di artiglierie semoventi fatto con tanta efficacia dai Russi, l’OKW curò, molto più che nel 1940, l’artiglieria a cingolo, il cui tipo più diffuso era un cannone automotore corazzato di 24 t., del calibro 7,5 cm. a fusto lungo, e quindi in tutto simile al cannone del carro pesante della Panzerwaffe. Perché i blindati potessero affrontare con successo il passaggio dei grandi fiumi russi, l’OKW curò straordinariamente la copertura fornita dai meccanismi fumogeni.
I Russi, consapevoli che nell’estate si sarebbero decise, con le proprie, le sorti del conflitto, s’erano impegnati, in base alle esperienze del 1941, a rifondere l’armata con energia e metodo, riflessione e diligenza. Dato il mistero di cui i sovietici circondano le loro iniziative, gli elementi del nostro schema presentano incertezze. Si parla di un nuovo tipo di divisione corazzata per il 1942, con analogie organiche alla divisione blindata tedesca; la divisione comprende una brigata d’esplorazione, dalle 2 alle 4 brigate di blindati, un reggimento d’artiglieria, un battaglione di pionieri e uno di trasmissione: tutte le formazioni sono motorizzate. Ad onta di questa nuova articolazione organica, i sovietici, invece di divisione, hanno più spesso parlato di reggimenti di carri di rottura, di brigate meccaniche e di brigate blindate. Quando il comando sovietico si trovava in presenza di un sistema d’ostacoli anticarro e di fortificazioni betonizzate particolarmente potenti, faceva appello ai reggimenti di carri di rottura, su tre battaglioni, dotati dei carri più pesanti, al principio, dei Matilda e dei Churchill, poi, con migliori risultati, dei KW 1 nazionali di 44 t., con un cannone di 7,62 cm. Praticata la rottura, i reggimenti venivano ritirati dal fuoco: l’allargamento e lo sfruttamento del successo era riservato alle brigate meccaniche e alle brigate blindate. La brigata meccanica ha per nucleo un reggimento corazzato di tre compagnie, due di carri leggeri T-70, del peso di 9 t. con un cannone di 4,5 cm. e una di carri medî T-34 di 26 t. con un cann. di 7,62 cm. Questa brigata s’impadronisce dei punti più importanti del terreno, come nodi stradali, passaggi di fiumi, rilievi collinosi, e tiene in attesa dell’arrivo dei grossi. La brigata blindata comprendeva due battaglioni di carri leggeri T-70 e un battaglione di carri medî T-34; tre o quattro brigate riunite formavano il corpo blindato, direttamente dipendente dal comandante d’armata o di gruppo d’armata («fronte»). Poiché queste brigate erano state concepite per l’impiego in collegamento immediato con la fanteria, non potevano combattere se non entro la portata del fucile del fante. Inoltre elementi scelti di fanteria erano collocati nelle soprastrutture dei carri, in ragione di 6-10 uomini per il carro T-70 e 20-30 per il carro T-34; venuti a contatto col nemico, questi fanti portati saltavano a terra e, nascosti dalle masse dei blindati, partecipavano al combattimento con molto vantaggio dei compagni dei carri, «totalmente sordi e più che a metà ciechi». Queste brigate blindate formavano la riserva operativa del comandante d’armata, che le impiegava in sostegno delle divisioni impegnate nello sforzo principale o nello sfruttamento del successo conseguito dai reggimenti di rottura.
Il comando sovietico diede enorme importanza alla lotta anticarro e dotò le compagnie di fanteria di tre nuovi pezzi anticarro leggeri di 14 mm.; in corrispondenza a ogni divisione di artiglieria motorizzata, si trovava una brigata di mezzi anticarro con 72 pezzi di 7,62 cm., ripartiti su tre reggimenti. C’erano inoltre le brigate anticarro indipendenti, formate di un reggimento con pezzi di 4,5 e 7,62 cm. e di una batteria di 5,7 cm., il tutto su affusti a cingolo automotori. Le brigate anticarro comprendevano anche gruppi motorizzati di mortai e gruppi lancia-razzi; questi ultimi erano armati del cannone Khostikov, che poteva lanciare da 16 a 24 razzi simultaneamente con un procedimento d’accensione elettrica. Il maresciallo Voronov, il più grande artigliere russo, aveva riorganizzata radicalmente l’artiglieria. Nel reggimento d’artiglieria comune, collegato direttamente alla fanteria, si sostituisce man a mano il cannone di 4,5 cm. con il nuovo di 5,7 cm.; le divisioni autonome d’artiglieria, che appariranno in più larga misura nel 1943, sono costituite con brigate di 18 batterie di cannoni lunghi di 12,2 cm. e con brigate di 18 batterie di cannoni corti di 12,2 e 15,2 cm. La divisione blindata sovietica comprendeva, come abbiamo accennato, un reggimento d’artiglieria su due gruppi di cannoni di 7,62, motorizzati, e due gruppi di obici di 12,2 cm., anche essi motorizzati. Nella difensiva, tutti questi cannoni, insieme a mortai, lanciarazzi e a pezzi anticarro, schierati in profondità, formavano davanti ai blindati nemici vere muraglie d’artiglieria; nell’offensiva, permettevano di realizzare nei settori decisivi concentrazioni irresistibili di proietti.
Con le armi e i mezzi si è evoluta nei due campi anche la tattica. I Tedeschi hanno sostituito alla rottura su fronte ristretto (Schwerpunkt) l’urto su fronte largo, perché, avendo trovato i Russi armati più del previsto ed esperti della manovra a masse, era necessario dissimulare il piano strategico col far precedere l’urto da una concentrazione fluida. Siccome poi nel 1941 i Sovietici avevano individuato il punto debole del dispositivo d’attacco nazista nell’intervallo fra i Panzer e le fanterie che li seguivano, l’OKW, decise di spingere innanzi le unità blindate disposte in triangolo o in quadrato (tattica del «pugno blindato» Mot-Pulk), sostenute da tutte le armi necessarie: difesa anticarro e antiarea, artiglieria a cingolo automotrice, fanteria motorizzata e unità di Panzergrenadiere, munizioni, vettovagliamento e officine mobili di riparazioni. Questi poderosi complessi, appoggiati dall’aviazione, avanzavano gli uni accanto agli altri evitando i punti più forti, dei quali s’incaricavano unità speciali delle retrovie. I Russi si difesero applicando sostanzialmente la tattica del 1941: evitarono le grandi battaglie d’accerchiamento spendendo, quand’era necessario, lo spazio, ma s’impegnarono a difendere con accanimento i più importanti centri ferroviarî, stradali, le città trasformate in difese «a riccio», contrattaccando tutte le volte che sembrava vantaggioso e che le forze impegnate potevano poggiare col grosso su ostacoli naturali e su solide posizioni fortificate.
Il piano di Hitler mirava, attraverso una gigantesca offensiva in direzione sud-nord, alla disgregazione del dispositivo nemico e quindi in definitiva alla realizzazione del piano «Barbarossa». Dal punto di vista operativo, invece, v’era grande differenza fra la prima e la seconda edizione del vecchio piano. Mentre nel 1941 la Wehrmacht avanzò contemporaneamente al nord, al centro e al sud con i tre gruppi d’eserciti di von Leeb, von Bock, von Rundstedt, nel 1942 lo sforzo di gran lunga più importante doveva cadere sul gruppo di armate (Heeresgruppe) sud; in seguito, qualora lo svolgimento delle operazioni lo avesse consentito, il gruppo d’armate nord avrebbe partecipato anch’esso alla seconda campagna d’estate. Il gruppo sud avrebbe dovuto distruggere le armate sovietiche distribuite fra il Mar d’Azov e la regione di Kursk, eliminare lo schieramento frontale nemico, spingersi su Voroneû, sfondare tra Voroneû e Kaãalinsk, sul vertice della grande ansa del Don (di fronte a Stalingrado), quindi, risalito il Volga fino a Kujbyèev, con un grande movimento di conversione, abbattersi sulla regione fra Pensa e GorÙkij per marciare verso Mosca, presa da tergo: le armate russe sarebbero state costrette a combattere a fronte rovesciato senza aver più contatto con gli Urali, il Caucaso, il Caspio e l’Iran, e forse nemmeno più con la ferrovia di Murmansk. La fase finale di questa immensa operazione d’accerchiamento e d’annientamento si sarebbe conclusa con l’intervento del gruppo nord del maresciallo von Küchler, il quale avrebbe dovuto conquistare Leningrado, ristabilire le comunicazioni germano-finlandesi attraverso l’istmo di Carelia, quindi convergere intorno a Jaroslav, sull’alto Volga, dando la mano a von Bock nella piana di GorÙkij. Terminata la campagna dell’est con una simile gigantesca manovra a tenaglia, il grosso delle truppe tedesche si sarebbe spostato verso occidente per presidiare in modo adeguato il vallo atlantico, frustrando con ciò l’apertura del secondo fronte da parte degli Anglo-americani, che si sarebbero piegati a un compromesso, vantaggioso per la Germania.
Perché un tale piano riuscisse, il cancelliere organizzò a sud un’immensa armata alle dipendenze di von Bock, costituita da 80 divisioni di fanteria e 20 corazzate, ossia il 40% delle forze dell’Asse in oriente le quali ammontavano a 240 divisioni, comprese le italiane, romene, ungheresi, finlandesi. L’Heeresgruppe sud, con i suoi due milioni di combattenti e i suoi 7000 carri indivisionati, era sostenuto da una potente aviazione tattica di non meno di 3000 aerei di prima linea, fra i quali le prime eccellenti formazioni di cacciatori Focke Wulf F.W. 190 e di bombardieri in picchiata Dornier DO 217. Il 3 luglio 1942 questo complesso si mise in movimento e scompaginò profondamente il dispositivo russo. Non rimase ai Russi che il seguente lineare piano di difesa: tenere prima di tutto il pilastro di Voroneû, per evitare l’avvolgimento diretto di Mosca dall’est, e indietreggiare fino al bassoVolga e al Caspio, pur di evitare a ogni costo le battaglie d’accerchiamento. La difesa elastica, l’usura dello spazio, l’allungamento delle retrovie, la politica della terra bruciata, la guerriglia, la minaccia delle armate del Caucaso sul fianco meridionale del fronte nemico di penetrazione (il Caucaso e la destra del Volga dovevano essere tenuti a ogni costo) avrebbero fatto sentire sugli invasori il loro peso rovinoso. Intanto Stalin e il suo alto comando, per difendere il Volga e il caposaldo di Stalingrado, venivano ammassando dietro il massimo fiume russo le riserve strategiche, in attesa di eventi.
Uno dei fattori più esiziali per la seconda campagna tedesca fu l’esagerato apprezzamento che Hitler e l’OKW fecero dei loro grandi successi. Il 25 luglio l’armata di von Bock occupava Rostov; i nazisti potevano per la prima volta con forze massicce raggiungere il Caucaso. Il miraggio di Baku, di Tiflis, dell’Êràn, che già altre volte si era affacciato alla mente di Hitler, divenne irresistibile e, contro i principî della concentrazione delle forze e della convergenza degli sforzi, una parte del gruppo d’armata del Sud fu lanciata alla conquista del Caucaso. Il piano iniziale aveva scelto bene i suoi obiettivi: puntare su Stalingrado e risalire il Volga fino a Kujbyèev per marciare quindi su Mosca. Il Volga rappresentava per la Russia il 60% circa di tutto il suo traffico interno per via d’acqua, il collegamento dell’armata rossa col Caspio, col Caucaso, con l’Êràn, col golfo Persico; la perdita di esso avrebbe significato per l’URSS, la rinuncia alla quasi totalità del petrolio, la riduzione delle vie per gli approvvigionamenti anglosassoni al solo itinerario di Arcangelo e di Murmansk. Per evitare la sconfitta, Stalin doveva sostituire sul Volga, presso Stalingrado, Saratov o altrove, alla difesa elastica, la resistenza ad oltranza. Era ciò che desiderava Hitler, determinato a imporre all’inafferrabile avversario una grande battaglia d’annientamento. Ma perché il piano «Barbarossa» riuscisse sul Volga, bisognava concentrare intorno al gomito di Stalingrado tutta l’armata di von Bock. Però i successi strepitosi conseguiti fra il 3 e il 25 luglio, nonché nella prima decade d’agosto, fecero credere a Hitler che avrebbe potuto dispensarsi dal rispetto dei supremi principî della strategia. Di qui la decisione presa il 24 luglio di sottrarre alle 80 divisioni di fanteria e alle 20 corazzate di von Bock, dirette verso stalingrado, la 1ª armata corazzata forte di 5 divisioni blindate, la 11ª, la grande Panzerarmee «Viking» dei Waffen S. S., una parte dell’armata romena e il corpo alpino italiano (divisioni «Cuneense», «Julia», «Tridentina»), ossia un buon terzo del Gruppo sud, com’era costituito al 3 luglio 1942, per lanciarlo alla conquista del Caucaso. La Wehrmacht si trovò in tal modo a perseguire simultaneamente due obiettivi divergenti e separati l’uno dall’altro da distanze così enormi e tanto disservite da vie di comunicazione, che fra le due sezioni di quella ch’era stata l’unica grande armata di von Bock si resero impossibili gli scambî degli uomini e dei mezzi. Così i due tentacoli di penetrazione finirono con l’indebolirsi.
Stalin si difese disponendo le sue riserve strategiche dietro il Volga e nei contrafforti del Caucaso, in attesa che la situazione evolvesse a suo favore. Man mano che ci si avvicinava ai margini della grande ansa del Don, sul Don e fra il Don e il Volga la resistenza russa si faceva sempre più accanita, culminando a Stalingrado. Il 7 settembre, 130° anniversario della battaglia di Borodino, Stalin lanciò l’ordine di non più indietreggiare. L’eroismo dei difensori sfrutta le rovine betonizzate di Stalingrado per opporre la più ostinata resistenza; poiché mancano di Tanksdozer per sbarazzare le strade dalle ostruzioni di ferraglie e mura abbattute, i Tedeschi non possono più impiegare i carri, spezzando il funzionamento della combinazione Panzer-Stukas, in parte ancora preponderante nella battaglia. Già sono state trasferite 22 divisioni dall’occidente e, in conseguenza del fatale indebolimento dell’armata di von Bock l’OKW non è in grado di alimentare, dopo 80 giorni di combattimenti fra i più accaniti di tutta la guerra, il tragico molino di Stalingrado. Von Paulus vuole ripiegare entro la grande ansa del Don, ma Hitler si oppone; egli stima impossibile, dopo tante perdite, l’eventualità di un contrattacco generale dell’armata rossa.
Ma Stalin viene organizzando la controffensiva, preparata minuziosamente e con mezzi considerevoli. Le officine nazionali lavorano in pieno, e da sole producono più di quello che si consuma a Stalingrado: le forniture degli Anglosassoni, nonostante il pericolo sottomarino, seguono una curva ascendente; il 12-15 agosto, nella conferenza di Mosca fra Stalin, Churchill, Harriman (rappresentante personale di Roosevelt), viene decisa l’apertura prossima di un fronte in Africa e più tardi in Europa; alla 6ª armata di von Paulus è venuto ormai del tutto meno il respiro strategico: le condizioni per una vera e propria controffensiva si profilano favorevolmente. Stalin ha incaricato della preparazione e direzione di questa le menti di guerra più esperte: Ûukov, vincitore di Mosca, Vasilevskij, aggiunto del capo di stato maggiore, il maresciallo Kapoãnikov, il gen. N. Voronov, il geniale tecnico e tattico dell’artiglieria russa, i generali dell’aviazione A. A. Novikov e F. J. Falaleev.
Il piano russo mirava in un primo momento a liberare Stalingrado con due operazioni convergenti su Kalaã, alle spalle di von Paulus; la 6» armata tedesca, con le comunicazioni tagliate e isolata, doveva essere scompaginata e quindi serrata da presso fra i due gomiti del Volga e del Don. In un secondo momento, un terzo aggruppamento strategico avrebbe passato il Don a Boguãar, a monte di Serafimoviã, per coprire le operazioni d’annientamento nella sacca di Stalingrado contro ogni tentativo dell’OKW per liberare gli assediati. Infine, con l’aiuto di un quarto aggruppamento strategico, proveniente dai colli Ergheni, via Kotelnikovo, ci si sarebbe incamminati verso il sud per giungere al più presto a Rostov, allo scopo di tagliare la strada a tutto il gruppo d’armate tedesche del Caucaso. La controffensiva sovietica, lanciata il 19 novembre, aveva già raggiunto i suoi primi gloriosi risultati il giorno 23: la sesta armata tedesca si trovava prigioniera tra il Don e il Volga. Dopo questo successo iniziale cominciò a svilupparsi la vera e propria controffensiva d’inverno, che riportò i Tedeschi nel marzo 1943 sul medio Donec.
Poiché le campagne di Russia avevano posto fine al periodo delle guerre-lampo per dare inizio alla forma più grave di guerra d’esaurimento, quella dinamica, la vittoria sarebbe rimasta con probabilità agli Anglo-Russo-Americani, cioè alla coalizione più ricca di forze potenziali. Tanto più che già il decorso degli avvenimenti bellici mondiali nel 1942 descriveva una curva discendente per il triangolo Berlino-Tükyü-Roma, e una ascendente per le Nazioni Unite. Infatti, negli altri settori del teatro mondiale si erano già avute le vittorie americane nel Mar dei Coralli (7-8 maggio), di Midway (4-6 giugno), lo sbarco di Guadalcanal del 7 agosto, seguito dalla lunga campagna navale delle Salomone (9 agosto-30 novembre 1942), decisiva per le comunicazioni Stati Uniti-Australia e quindi per l’intera guerra nel Pacifico. S’era combattuta e vinta in Cina la campagna del Che-kiang-Kiang-si, culminata l’8 agosto 1942 con la riconquista da parte dei Cino-Americani di Chu-Hsien, la più grande base statunitense nel continente asiatico. Infine, il 23 ottobre fu sferrata l’offensiva di el-Alamein e l’8 novembre si compiva, quasi senza resistenza, lo sbarco alleato nel Nord-Africa. L’astro del Tripartito declinava su tutte le terre e su tutti i mari.
La battaglia dell’Atlantico. – Scopo dello stato maggiore della marina germanica – come si è detto – era quello di concentrare gli sforzi, specie sull’arma subacquea, per tagliare le comunicazioni della Gran Bretagna. Sommergibili, aerei, mine e forze navali di superficie vennero utilizzati con coordinato criterio d’impiego per conseguire tale scopo. Siccome ai sottomarini era stato affidato il compito principale, per potenziarne l’azione, un’aliquota di forze aeree agiva in correlazione con loro. L’azione delle navi di superficie nella battaglia al traffico aveva tatticamente un carattere di diversione.
Siccome Hitler, nella prima e seconda fase iniziale della battaglia dell’Atlantico, confidava ancora di poter evitare un conflitto davvero mondiale, l’attacco al traffico venne piuttosto contenuto, e si diede maggiore impulso alle operazioni preliminari, dopo le quali sarebbe cominciata la vera battaglia per le comunicazioni. Se, tuttavia, nella prima e seconda fase i Tedeschi ottennero dei successi, ciò non si deve alla sorpresa strategica, ma al fatto che nel 1940 i convogli disponevano di scarsa protezione. La piega presa dagli avvenimenti dopo la campagna in occidente, la caduta della Francia e il fallimento della battaglia aerea d’Inghilterra non lasciavano più dubbî sul carattere totale della guerra, cosicché fu dato il maggiore impulso agli studî e alle esperienze dell’offensiva sottomarina. Il crollo della Francia dava alla Kriegsmarine basi preziose per l’attacco e l’ecogoniometro, che la Gran Bretagna aveva fornito alla marina francese; i Tedeschi realizzarono alta velocità in superficie (18 nodi); diedero alle loro nuove navi subacquee un raggio evolutivo di 300 metri, siluri con acciarino magnetico e motori elettrici per evitare la visibilità della scia; escogitarono infine nuovi criterî d’impiego e una nuova tattica, che fu quella della « muta», consistente nella concentrazione di numerosi sommergibili contro un convoglio. Per localizzare i convogli furono messi a disposizione dei sottomarini, dei velivoli Focke Wulf 200 a grande raggio d’azione, realizzando, dopo tenaci sforzi, una eccellente cooperazione aerosottomarina, che diede di colpo alla Kriegsmarine uno strumento temibile per la guerra al traffico. Sul piano tattico, per la migliore resa con l’impiego a «muta», fu costituito, dopo il novembre 1940, a Lorient un comando centrale che, raccolti tutti i ragguagli, impartiva ordini ai sottomarini per guidarli nelle migliori condizioni alla presa di contatto preavvisando agli U-Boote i dati di localizzazione dei convogli fino a 3-4 giorni prima dell’arrivo nella zona d’attacco prescelta. Infine, per costringere gli Inglesi a disperdere le forze di scorta, dopo la deviazione del traffico del Mediterraneo per il Capo di Buona Speranza, squadriglie di sottomarini furono mandate a operare nella zona di sierra Leone e più tardi, nel 1942 e 1943, al Capo e oltre, fino ad Aden e allo Stretto di Malacca.
Contro l’attacco coniugato delle navi subacquee e di superficie gli Inglesi si difesero con energia e perseveranza. A causa dei suoi imponenti mezzi aeronavali e dell’inferiorità detta delle forze tedesche, riuscì più facile all’ammiragliato aver ragione della minaccia della guerra di corsa; e siccome Londra, naturalmente, si preoccupava anche dei pericoli potenziali, temendo di veder la marina francese consegnata a Hitler, il 3 luglio 1940 ordinò che le più grandi navi della flotta ex-alleata del Mediterraneo (Bretagne, Provence, Dunkerque) fossero affondate o danneggiate davanti a Mers-el-Kebir. Quando nell’ultima decade del maggio 1941 il comando della marina germanica decise di rinforzare la guerra di corsa con l’interverito della corazzata Bismarck (35.000 t., VIII 380 mm.) e dell’incrociatore Prinz Eugen di 10.000 t., designate a prendere il posto dello Scharnhorst e del Gneisenau, quelle due navi vennero subito impegnate dalla Royal Navy. Il Bismarck fu affondato dall’azione congiunta di navi e di aerei, il Prinz Eugen, più fortunato, poté sfuggire e raggiungere il Gneisenan e lo Scharnhorst nel porto di Brest. Il 26 dicembre 1943 quest’ultima nave, nell’intercettare un convoglio diretto a Murmansk, fu attaccata da incrociatori di scorta e poi affondata dalla corazzata Duke of York mentre tentava di raggiungere la base di Alten Fjord. Il 3 aprile 1944, la corazzata Von Tirpitz, gemella del Bismarck, fu attaccata e messa fuori combattimento da 42 lanciatorpedini della Fleet Air Arm mentre si trovava alla fonda nell’Aalten Fjord: la disfatta della marina di superficie tedesca era con ciò definitivamente consumata.
La lotta contro gli U-Boote fu più faticosa e drammatica. A principio l’ammiragliato organizzò i convogli con criterî affini a quelli della prima Guerra mondiale ma il sistema non riuscì efficace. Il rafforzamento delle misure difensive inglesi, conseguito in specie con l’impiego di aerei, rese troppo costosi agli U-Boote gli attacchi contro il traffico a nord-ovest delle isole britanniche. Non potendo operare a occidente, all’incirca del 55° meridiano O, per non avere complicazioni con gli Stati Uniti, l’amm. Doenitz lanciò le sue «mute» nella parte centrale dell’Atlantico nord, dove il vecchio naviglio antisommergibile di scorta e gli stessi aerei a grande raggio (per quel tempo) non potevano giungere per insufficienza d’autonomia. In questo spazio vuoto fra Terranova, Groenlandia e Islanda gli attacchi delle «mute» furono particolarmente fruttuosi. Nella seconda metà del 1941 si pervenne a eliminare il pericolo nella parte centrale dell’Atlantico nord con la realizzazione delle navi portaerei di scorta, col munire di reti parasiluri le navi destinate a occupare le posizioni esterne dei convogli, con l’entrata in servizio di nuove fregate a grande autonomia, col sistema di rifornire in mare il naviglio di scorta meno efficiente, accrescendone l’autonomia. Questo insieme di procedimenti difensivi, e il crescente impiego di cacciasommergibili e degli aerei operanti sul mare, determinò in misura sostanziale il fallimento delle «mute».
L’intervento degli Stati Uniti in guerra favorì inizialmente l’amm. Doenitz, che, ottenuta libertà d’azione, lanciò le sue «mute» nelle acque nordamericane, dove la flotta mercantile nemica, colta impreparata, subì per alcuni mesi gravi perdite. Ma col crescere della disponibilità dei mezzi protettivi si organizzarono su più larga scala i convogli, e nell’estate del 1942 i più progrediti sistemi difensivi americani venivano adottati anche dagli Inglesi. Con il largo uso del radar furono localizzati gli U-Boote, anche di notte, quindi illuminati con un proiettore potente e attaccati in condizioni divenute uguali a quelle del giorno. L’amm. Doenitz superò il pericolo con l’aumentare l’armamento dei sottomarini contro gli aerei, mettendo quelli in grado di sostenere con questi il combattimento in superficie. S’impose allora agli Angloamericani l’impiego di potenti velivoli, capaci di neutralizzare gli U-Boote attrezzati per la guerra antiaerea; di qui, dall’agosto 1942, il dislocamento nelle basi di Terranova, Islanda, Inghilterra di squadriglie di Liberators a grandissimo raggio d’azione. Quantunque la situazione migliorasse per gli Angloamericani, tuttavia essi, dopo lo sbarco nell’Africa del Nord, avevano bisogno di molto naviglio sia per alimentare lo sforzo bellico in Algeria e Tunisia, sia per preparare lo sbarco di gran lunga più importante nell’Europa nord-occidentale. Nonostante l’economia di tonnellaggio realizzata dopo la riapertura del Mediterraneo, e l’incremento delle costruzioni americane, nell’incontro di Casablanca fra Roosevelt e Churchill (14-24 gennaio 1943), fu stabilito d’intensificare la lotta contro i sommergibili, i quali, causando perdite grandi, «ritardavano le operazioni e prolungavano il conflitto».
Ma Hitler rispose alle decisioni di Casablanca con l’incremento della guerra sottomarina: grande sviluppo fu dato ai mezzi tecnici, capaci di accrescere in misura sorprendente l’efficienza degli U-Boote (misure e strumenti – metox – per contrastare la radiolocalizzazione; tecnica delle riparazioni alle avarie anche in immersione). Gli Alleati risposero con l’aumentare il numero dei bombardieri a grandissimo raggio, stanziati nel Canada, Terranova, Islanda, Scozia, Irlanda: la copertura aerea era assicurata ai convogli per tutto il percorso transatlantico. Fu di molto accresciuto il numero delle portaerei di scorta dei gruppi navali di protezione diretta e di quelli della protezione indiretta che, in correlazione all’offensiva aerea, accorrevano al momento del bisogno. Fu impresso maggior vigore ai provvedimenti controffensivi con l’impiego di gruppi navali cacciasommergibili, con la posa di mine nelle zone di addestramento degli U-Boote e alle loro basi, con azioni aeree contro le medesime e contro le industrie per la loro costruzione. Nell’aprile del 1943 gli apparecchi radar anglosassoni neutralizzarono i metox tedeschi, impedendo a questi di percepire le proprie emissioni. Per la maggior portata dei nuovi apparecchi radar, gli U-Boote, localizzati a enorme distanza, si vedevano all’improvviso attaccati da aerei e da gruppi navali di sostegno. Siccome gli aerei, per la maggior tempestività dell’intervento, costituivano il pericolo più temuto, Doenitz rinforzò negli U-Boote l’armamento contraereo e ordinò che i sottomarini navigassero in superficie a gruppi per collegarsi in formazione compatte contro gli aerei. Il comando alleato rispose con l’aumento delle riserve aeree e con l’impiego a stormi dei velivoli, dotati di armi con proiettili a maggior capacità di perforazione e poi anche di proietti-razzo. Entro la seconda metà del 1943, nonché per quasi tutto il 1944, gli Alleati conquistarono il predominio dell’Atlantico: fattore che risultò decisivo per l’alimentazione delle truppe in Africa, in Italia e quindi per lo sbarco in Europa.
Ma alla fine del 1944 la realizzazione dello Schnörkel – un tubo, che, affiorando, consentiva l’aspirazione dell’aria per la marcia dei motori Diesel e per la respirazione degli uomini – consentì ai sommergibili tedeschi di abbandonare la tattica dell’attacco in superficie e di effettuare la navigazione subacquea ad alta velocità, rimanendo mesi interi sotto le acque. Tutto ciò realizzava una evoluzione radicale nella guerra sottomarina, tanto più temibile in relazione alla costruzione da parte tedesca di nuovi meccanismi subacquei monoposti e biposti, di nuove armi, quali i siluri acustici, guidati sulla nave bersaglio dal rumore delle eliche, di siluri a percorso curvilineo per aver la maggior probabilità di colpire navi di convoglio. Inoltre l’amm. Doenitz contava di far entrare in servizio entro il 1945 gli U-Boote XXVI di 775 t., con velocità in immersione di 25 nodi e in superficie di 14, e i ben più temibili del tipo XXI (immersi, 18 nodi e in superficie 16), di 1600 t. e con autonomia di 22.000 miglia, immersione fin’oltre i 250 metri, respiranti sotto l’acqua mercé lo Schnörkel, insensibili al radar, come all’asdic, e tiranti delle torpedini acustiche, che, zigzagando, si autodirigevano verso il bersaglio. Però vascelli del tipo XXI non furono mai in operazione prima della fine della guerra e vascelli del tipo XXVI non furono nemmeno costruiti; e quanto ai sottomarini di crociera muniti di Schnörkel, questi non riuscirono a evitare di essere sopraffatti dalle mute degli aerei e degli scortatori alleati. Gli è che la produzione industriale era divenuta uno dei fattori capitali della guerra, e i progrediti sommergibili della Kriegsmarine furono sopraffatti, come i carri Tiger, Königstiger, Jagdpanther lo erano stati dagli Sherman, a quelli inferiori ma molto più numerosi. Infine, dopo la battaglia delle Ardenne (16 dicembre 1944-30 gennaio 1945), la Germania era sospinta all’orlo della catastrofe, cosicché la ripresa estrema degli U-Boote muniti di Schnörkel e utilizzanti una nuova tattica, ebbe breve durata. Circa dieci mesi dopo la disfatta nella guerra da corsa, la marina tedesca veniva sconfitta anche nella guerra sottomarina.
Più volte Churchill durante il conflitto aveva richiamato l’attenzione del mondo libero sull’importanza vitale della battaglia dell’Atlantico, senza dubbio la più importante di tutta la guerra: essa però aveva funzione di mezzo e non valore di fine, in quanto che quel vasto insieme d’operazioni non assicurava «direttamente» il successo, ma creava le condizioni per conseguirlo. Gli Alleati, quindi, avevano guadagnato con la battaglia dell’Atlantico le premesse della vittoria, ma non la vittoria.
La campagna di Cirenaica e la fine della guerra in Africa. – Una volta posta la lotta in Africa sul piano della guerra in Europa, non era difficile prevedere che, dopo l’insuccesso finale di Wavell, il successore, mettendo a profitto il dominio delle comunicazioni marittime e aeree e le prime risorse dell’America, avrebbe accumulato in Egitto i mezzi per una nuova offensiva, col fine di distruggere le forze dell’Asse in Africa e di occupare tutta la Libia. Data l’impreparazione iniziale in fatto di costruzione di blindati, alla Gran Bretagna occorrevano dai due ai tre anni per mettersi al livello della tecnica tedesca: pertanto al novembre 1941 l’8ª armata disponeva di un corpo d’armata corazzato (costituito per la prima volta nella storia militare dell’impero britannico) dotato solo di Stuart, Crusader, valentine, Matilda, cioè di carri medî e anche pesanti (rispettivamente di 13,18,16, 26 ÷ 28 t.), ma armati da cannoni di soli 3,7 cm.: situazione balistica di svantaggio rispetto ai cannoni di 5 e di 7,5 cm. dei Mark III e Mark IV tedeschi. Elementi all’attivo dei Britannici erano la quantità del materiale, che poteva affluire in Egitto attraverso la lunga ma sicura via del Capo, e la geniale escogitazione tattica dei battaglioni di carri d’assalto, destinati ad assicurare il loro diretto appoggio alle grandi unità di fanteria. Anche in occidente la fanteria tornava a inserirsi nella prima schiera e a imporsi ai grandi complessi meccanizzati per le sue indispensabili attitudini e il suo specifico «potere d’attacco». Dal punto di vista strategico, poi, gli Inglesi si assicurarono un altro vantaggio: la sorpresa. La via dei rifornimenti dell’Asse era breve, ma pericolosa: circa un terzo buono dei trasporti veniva affondato; in conseguenza i preparativi di Rommel erano in ritardo, cosicché il gen. sir A. Cunningham con la sua offensiva lo prevenne e lo sorprese. Gli elementi esposti concorrono a spiegare lo strano andamento di questa terza battaglia di Cirenaica, tutta intessuta di mezzi scacchi e di mezzi successi. In definitiva, Rommel, avuta coscienza che, persistendo nella lotta fra Tobrùch e Sêdê-Rezegh, si sarebbe prestato al giuoco del nemico, desideroso d’imporre una guerra d’usura, insostenibile per l’Asse, decise l’abbandono della Cirenaica.
Nel frattempo l’entrata in guerra del Giappone costrinse l’alto comando britannico a stornare verso Singapore la maggior parte dei rinforzi destinati in Africa e a lasciar partire per l’Estremo Oriente il grosso degli effettivi australiani. Inoltre, l’11 novembre 1941 la portaerei Ark Royal veniva silurata a Gibilterra, il 26 fu colpita da siluri la corazzata Barham davanti a Tobrùch, il 10 dicembre affondavano a Capo Kuantan le corazzate Repulse e Prince of Wales, il 18 dicembre nella rada d’Alessandria i mezzi d’assalto italiani mettevano fuori combattimento le corazzate Valiant e Queen Elizabeth. La Luftwaffe, intraprendendo un’energica azione neutralizzatrice di Gibilterra, consentì all’Asse di concentrare grandi forze in Africa. Al 27 maggio 1942, cioè al momento dell’inizio della quarta campagna di Cirenaica, Rommel disponeva di due divisioni Panzer (15ª e 21ª), e due corazzate italiane («Ariete» e «Littorio»), non molto efficienti, ma comunque apprezzabili, di tre divisioni motorizzate (la 90ª tedesca e le «Trieste» e «Trento» italiane), di due divisioni di fanteria («Pavia» e «Brescia»). A questo potente complesso la Gran Bretagna ne contrapponeva uno equivalente per massa e numero, ma non per efficienza, in quanto che i nuovi cannoni anticarro del modello di 5,7 cm. e i Gunhow (i nuovi pezzi di artiglieria divisionaria di 8,76 cm.) al momento dell’offensiva erano per la più parte in viaggio o sbarcavano allora a Suez. I carri General Grant che si trovavano in linea non fecero buona prova, trattandosi della realizzazione recentissima di un modello americano, vecchio di circa cinque anni. Inoltre, mentre si attendeva l’arrivo di nuove squadriglie di Spitfire e di Mustang, predominavano nella RAF i caccia Hurricane, Curtiss-Warhawk, Kittyhawk senz’altro inferiori ai Messerschmitt ME 109 G e anche ai Breda italiani. Data la loro netta superiorità aerea, i Tedeschi impegnarono la maggior parte dei cannoni 88 DCA contro i carri, dando potente man forte al lavoro degli Stukas (Junkers JU 87 e 88). Se a tutto questo s’aggiunge il vantaggio di una direzione strategica spregiudicata, audace e geniale come quella di Rommel si spiega perché le forze dell’Asse si portassero così rapidamente da Bir-Hachéim ad el–‚Alamein. La brevità dell’istmo (65 km.) che separa il Mediterraneo dalla depressione di el-Qattara, l’impossibilità di prendere la posizione se non frontalmente, l’allungamento delle comunicazioni di Rommel, costretto con 400 km. di deserto alle spalle a dover rifornire 12 divisioni, di cui 4 blindate e 3 motorizzate, l’avvicinamento dei Britannici alle proprie basi, l’arrivo a favore di costoro di rinforzi importanti (fra cui le nuove armi in viaggio), il dominio del cielo conquistato dalla RAF rinsanguata, le scarse forze rimaste a Rommel dopo i combattimenti (l’Afrika Korps disponeva a fine giugno di soli 4.400 uomini, 18 cannoni, 27 carri, 23 pezzi DCA e alcuni Gunhow presi al nemico) e l’insufficienza di carburante spiegano l’arresto definitivo dell’Asse quasi alle porte di Alessandria. Churchill, di ritorno dalla conferenza di Mosca del 12-15 agosto 1942, procedette personalmente a un rimaneggiamento del comando, che fu conferito per il Medio Oriente a sir H. Alexander e per l’8ª armata a B.L. Montgomery; l’Air Chief Marshal Tedder rimase a capo della RAF del Prossimo e Medio Oriente, e all’Air Vice-Marshal sir A. Coningham fu affidato il comando dell’aviazione tattica dell’8» armata. Insomma fu organizzato un comando atto a risollevare le fortune dell’impero britannico e a realizzare il piano strategico per l’Africa, stabilito nel giugno 1942 fra Roosevelt e Churchill a Washington. Alla vigilia dell’offensiva, l’8» armata era rinnovata quasi radicalmente nell’armamento e in parte nell’organizzazione. Fatta eccezione per i 180 carri General Grant, di scarso valore, gli altri 680 erano quasi tutti General Sherman (di costruzione americana) del peso di 31 t., corazzatura 40-90 mm., un cannone di 7,5 cm. e una preziosa mitragliera antiaerea di 12,7 mm., e Churchill di 35 t., blindaggio 40-110 mm. e un cannone di 5,7 cm. Questo complesso corazzato, capace di misurarsi con i poderosi Mark IV, era fiancheggiato da un parco d’artiglieria di prim’ordine: 1.200 cannoni di 8,76 e 7,7 cm., di batteria e anticarro. L’aria era del tutto dominata dagli Anglosassoni che possedevano un eccellente materiale da caccia, Spitfire e Mustang, da bombardamento leggero, Hurrybomber e Kittyhawk, e da bombardamento medio, Beaufighter, Boston, Marauder, Mitchell. In conseguenza del predominio aereo, che potenziava quello navale, i rifornimenti dell’Asse si facevano sempre più precarî; inoltre, per colmare la lacuna della debole caccia, i pezzi tedeschi da 88 mm. dovettero rinunciare al compito anticarro per quello antiaereo e gli Stukas, senza scorta di cacciatori, furono perduti per la battaglia terrestre, compromessa dalla crisi del binomio Panzer-Stukas. Per di più, siccome i carri Sherman si difendevano da soli contro i picchiatori con la mitragliera pesante di 12,7 mm., l’aviazione tattica di Coningham poteva moltiplicare su altri bersagli le sue missioni di guerra. Gli Italo-Tedeschi, abbandonato ogni progetto offensivo, si erano tuttavia così efficacemente asserragliati sui 65 km. dell’istmo di el-‚Alamein con la DCA, con i pezzi anticarro di 7,5 e 5 cm., con campi minati densi e profondi (senza pari sul teatro africano) che gli Alleati non avrebbero potuto conseguire la vittoria, ad onta della loro netta preponderanza, senza la messa a punto di una eccellente unità tattica: la nuova divisione di fanteria. Questa divisione, oltre ad essere armata di fucile mitragliatore (Bren-Gun) e di mortai leggeri di 5,2 cm. nei suoi tre battaglioni di fanti, era dotata di gruppi lancia-mine di 8,1 cm., di potenti gruppi antiaerei e anticarri, di ben 36 batterie di artiglieria (contro 15 dei Tedeschi e dei Russi), di una brigata di carri Churchill, destinata in ogni circostanza a collaborare direttamente con la fanteria. Queste mirabili divisioni permettevano nel combattimento le combinazioni più varie ed efficaci, costituendo la soluzione tattica dell’avvenire. L’impiego di carri capaci, specie per la consistenza numerica, di misurarsi con quelli tedeschi, l’aumento notevole della massa d’artiglieria, il perfezionamento dei mezzi di lotta anticarro conseguito con i campi minati e le bombe a carica cava, il passaggio della superiorità aerea dai Tedeschi ai loro nemici misero in crisi in Africa, più tardi in Europa, la combinazione Panzer-Stukas, che declinò in occidente forse più rapidamente che in oriente, e impose all’OKW di estendere presto all’ovest le riforme organiche e tattiche elaborate per l’est. Dopoché le posizioni avversarie furono «ammorbidite» dal fuoco delle artiglierie, le divisioni d’attacco di Montgomery, fra il 23 ottobre e il 2 novembre, lanciarono innanzi le loro formazioni di fanteria e genio e i loro scaglioni di attacco fanteria-carri per compiere il tremendo lavoro di penetrazione nella cintura di campi minati e di cannoni anticarro organizzata dall’Asse lungo l’istmo di el-‚Alamein. Quando alle ore 14 del 2 novembre la 51ª brigata di fanteria annunciò di aver superato l’ultimo campo di mine, il destino dell’Afrika Korps era segnato: nessun altro sistema di difesa mobile e immobile si trovava in Africa capace di arrestare l’8ª armata, virtualmente padrona del litorale fino alla Tunisia.
Il colpo di grazia all’Asse in Africa fu dato dal contemporaneo sbarco degli Alleati in Marocco e in Algeria. Per la prima volta si parlò di questo sbarco nel gennaio del 1942 a Washington. In luglio cominciarono a concretarsi i preparativi per una spedizione nell’Africa nord-occidentale, «in congiunzione con un’avanzata dell’8ª armata britannica». L’operazione mirava all’apertura del Mediterraneo, all’eliminazione dell’Asse dall’Africa, alla cessazione della costante minaccia di attività tedesche nel Marocco e a Dakar. Allorché, fra il 12 e il 15 agosto, Churchill si recò a Mosca per promettere a Stalin il fronte africano e quindi quello francese, il piano era in via di realizzazione.
Lo sbarco (operazione «Torch») doveva essere eseguito al principio dell’autunno, ma fu poi necessario rimandarlo a novembre. Perché l’operazione «Torch» riuscisse era necessario circondarla della massima segretezza. La situazione in Atlantico, pur non essendo grave come quella del 1917, dava però molte preoccupazioni agli Anglosassoni: la flotta subacquea germanica nell’autunno del 1942 era in pieno sviluppo, le sue perdite lievi, i successi contro il traffico promettenti. Al momento in cui dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra partivano i convogli, operavano in mare circa cento sommergibili. L’alto comando della Kriegsmarine raccolse voci di possibili sbarchi americani a Dakar e si preparò a fronteggiare la minaccia col dirigere in quelle acque circa 60 sommergibili. Il 19 ottobre cominciarono in varî punti dell’Atlantico i movimenti; quattro giorni dopo cominciava l’offensiva di el-‚Alamein, l’8 novembre gli Alleati sbarcavano nell’Africa del nord. Allorché il comando centrale degli U-Boote seppe dello sbarco, ordinò il concentramento dei suoi mezzi presso lo stretto di Gibilterra, ma, a causa dell’aviazione che aveva le basi nella rocca, i sottomarini inflissero pochi danni e subirono molte perdite. Il fallimento dell’azione contro il piano «Torch» fu una delle più gravi deficienze nella condotta di guerra della Germania e un caso gravissimo e irrimediabile d’insuccesso strategico.
L’armamento del corpo di sbarco era sostanzialmente affine a quello dell’8ª armata; si deve però aggiungere che l’organizzazione anticarro americana non trovava a quel tempo riscontro presso nessun altro esercito per numero ed efficienza di armi, fra le quali il tipo di gran lunga più efficiente era il bazooka, arma leggera, semplice che veniva posta anche fra le mani del fante; colpiva a soli 100-150 m. dal bersaglio ed era la sola che avesse efficacia anche contro i Mark IV, riuscendo a mandarli letteralmente a pezzi. Negli specifici rapporti di forze che si determinarono dopo l’8 novembre, non rimase al gen. von Arnim che sfruttare in Tunisia il terreno favorevole alla difesa, al solo fine di ritardare la catastrofe.
Da un punto di vista astrattamente strategico, la decisione dell’OKW di creare la testa di ponte tunisina può essere censurata: «la Tunisia era una trappola», scriveva il gen. Marshall nel suo III Rapporto biennale, «nella quale il comando tedesco continuava a rovesciare grandi quantità di uomini e di materiali». Ma trova la sua giustificazione da un punto di vista più concreto. Era chiaro che, cacciando l’Asse dall’Africa, con la caduta della Tunisia, sarebbe stata colpita crudelmente la Germania e percossa a morte l’Italia con gravi ripercussioni sull’intero sistema difensivo del continente, mettendo le Nazioni Unite in condizione di lanciare attacchi più diretti contro il lato meridionale della fortezza europea: eventualità che Hitler cercava appunto di evitare o quanto meno di ritardare, perché proprio nella seconda metà del 1942 nuove e potentissime armi terrestri, sottomarine e aeree erano in progetto o in via di costruzione. Pertanto era d’importanza vitale guadagnar tempo in Tunisia e in Russia.
Si è anche rilevato che nella condotta generale della guerra in Africa l’OKW non ha compreso l’importanza del Mediterraneo e dell’Africa nell’economia del conflitto. Certo, se si vuol intendere che l’alto comando tedesco non ha mostrato né genio, né gusto per la guerra aeromarittima e intercontinentale, si asserisce cosa ovvia: ma ciò non toglie che, nella specie, Hitler e l’OKW abbiano compresa l’importanza del Mediterraneo, dell’Africa, del Prossimo e Medio Oriente, almeno ai fini immediati della conquista. Il «piano generale delle operazioni» dell’8 agosto 1941 mostra, infatti, come il comando tedesco fosse determinato a ultimare la campagiia nel Mediterraneo appena piegata la Russia. «Se dopo la conclusione della campagna in oriente riusciremo a convincere la Turchia ad allearsi con noi è previsto un attacco contro la Siria e la Palestina, in direzione dell’Egitto. Bisognerà pertanto preparare le forze necessarie ed assicurarsi che la Turchia con l’aiuto della Germania provveda a rendere praticabili i passi del Caucaso e a migliorare le condizioni dei mezzi di comunicazione in Anatolia... Se la Turchia rifiutasse, attaccheremo in direzione sud, attraverso l’Anatolia, anche se essa non ce ne darà il permesso». Il Golfo Persico e il canale di Suez, dove i vincitori del Caucaso avrebbero atteso la flotta del Giappone (nel frattempo intervenuto) e si sarebbero riuniti con i commilitoni dell’Afrika Korps, dovevano costituire gli obiettivi finali della campagna del sud-est, assicurando l’accesso diretto al Medio Oriente e all’India. In ogni caso però Hitler si rifiutava a qualunque impegno in grande se prima non si fosse liberato dalla Russia di cui temeva l’aggressione. Anzi, un’eventuale espansione militare verso l’Egitto, gli stati arabi e l’Êràn, territorî d’alto interesse sovietico, non avrebbe fatto che accentuare, secondo il suo pensiero, l’ostilità della Russia verso una Germania indebolita dalla dispersione delle forze fra il Nilo e l’Indo.
L’Asse era stato battuto in Africa per la preponderanza dei mezzi per una più avanzata ed avveduta strategia, per una superiore tattica di fanteria mista, per il peso delle crescenti perdite in mare, per l’usura dinamica del flusso e riflusso del fronte di battaglia nocivo anche nel deserto, come in Russia, alle potenze meno ricche di risorse potenziali.
La campagna d’Italia. – Compiutasi con buon successo l’operazione «Torch» con la conquista di tutto il nord Africa, i dirigenti della politica e dell’attività militare alleata si riunirono a Washington fra il 12 e il 27 maggio 1943 (conferenza «Trident») per la messa a punto più concreta dei piani strategici fino alla conclusione del conflitto. Per ciò che riguarda più da vicino l’Europa, il Mediterraneo e l’Italia, si constatò che, essendo scopo precipuo quello di distruggere le forze della Germania e d’invaderla, riusciva «impossibile forzare l’entrata in Germania partendo da sud», a causa delle Alpi e della facile previsione di una valida ed accanita difesa della Wehrmacht sull’Appennino tosco-emiliano (futura linea «Gotica»), sul Po e sulle Alpi stesse, che avrebbe finito col dissipare le risorse degli Alleati destinate all’azione di attraversamento della Manica. Perciò l’eventuale operazione contro la penisola italiana vera e propria era concepita dal Reparto operazioni dello stato maggiore statunitense come una imponente diversione, intesa a provocare il collasso della resistenza italiana e a tenere impegnate «divisioni tedesche, che altrimenti avrebbero potuto operare contro l’esercito russo e più tardi contro le forze alleate in Francia».
Entro le grandi linee di questo quadro strategico (tratteggiato a Washington dai comandi alleati), le operazioni contro l’Italia si svolsero come segue. Innanzi tutto parve utile, conquistato il nord Africa, «effettuare qualche passo intermedio» prima di intraprendere direttamente sbarchi in Italia. Questa fase «intermedia» fu contemplata dai capi alleati già alla conferenza di Casablanca (14-26 gennaio 1943), quindi sensibilmente prima della conferenza «Trident di Washington (maggio 1943). Caduta la Tunisia, si decise alla conferenza «Trident» di lasciare il gen. Eisenhower libero di sfruttare qualunque occasione favorevole gli si presentasse in Mediterraneo prima dell’invasione dell’Italia. In una conferenza tenuta ad Algeri (29 maggio-3 giugno) fra Eisenhower, Churchill, il maresc. sir Alan Brooke, capo di stato maggiore imperiale e il gen. Marshall, l’accordo definitivo cadde sulla Sicilia. Con questa operazione si mirava anche ad assicurare le vie di comunicazione con il golfo Persico e l’URSS, attraverso il Mediterraneo.
Nella notte dal 9 al 10 luglio venne sferrato l’assalto anfibio alla Sicilia (operazione «Husky»). Nelle forze in presenza lo squilibrio era maggiore del consueto: contro 8 divisioni di fanteria, 3 blindate e 2 di paracadutisti – la più geniale e temuta escogitazione tattica della guerra – non vi era che un distaccamento della Wehrmacht di 70.000 uomini circa, inquadrati nella 15ª Panzer (con un solo battaglione di carri pesanti in organico), nella «Hermann Göringe nella 29ª Panzergrenadiere; la 6ª armata italiana del gen. Guzzoni, per l’armamento e il morale, non poteva essere considerata come una moderna grande unità combattente. Ma il punto delicato per gli Anglo-sassoni era quello di mettere a contatto immediato del nemico le proprie forze in misura massiccia e in modo da assicurare alla fanteria, fin dalla fase iniziale dello sbarco, l’appoggio meccanico necessario a superare la crisi temuta delle prime ore e dei primi giorni. Di qui una vasta e sorprendente organizzazione di mezzi anfibî per il trasporto di carri e di truppe: trasporti piccoli LCM (Landing Craft Motor) e medî LCT (Landin Craft Tank), che avevano il fondo piatto e un ponte levatoio in modo da poter giungere bene a riva e consentire al più presto e con mezzi proprî lo scarico dei carri da 16 t. e anche di quelli da 40 t., cioè gli Sherman e i Churchill. I trasporti grandi LST (Landing Ships Transport) erano navi di 3.000-5.000 t. che portavano un battaglione di fanteria al completo con tutti i mezzi meccanici, ovvero 40-60 carri con 250-500 uomini. Perché così grandi operazioni anfibie riuscissero, erano necessarie complesse catene di previsioni e una mirabile cooperazione delle armi di terra, mare e aria. Un contrattempo di una qualche portata, poteva avere conseguenze incalcolabili. L’operazione poi aveva una portata più generale perché, in base all’esito, dovevano essere confermati, modificati o annullati gli ordinativi di circa 60.000 esemplarî dei ricordati trasporti, necessarî per l’apertura del secondo fronte in Francia. Dinanzi a forze così preponderanti, la Wehrmacht, conformemente alla tattica utilizzata in Tunisia, intraprese una ritirata aggressiva, allo scopo di guadagnare tempo e d’imbarcare le truppe.
L’operazione «Husky» accelerò precipitosamente il disastro politico dell’Asse. Sotto l’impressione, più che giustificata, dell’imminenza della catastrofe militare Vittorio Emanuele III si decise al colpo di stato del 25 luglio, sostituendo Mussolini con Badoglio. Poiché il nuovo governo era deciso a uscire dalla guerra, Badoglio stabilì dei contatti col gen. D. Eisenhower per negoziare la resa, senza che la Germania ne venisse a conoscenza. Il colpo di stato del 25 luglio ebbe il suo peso nella convocazione della conferenza di Quebec (in codice «Quadrant») e sulle sue decisioni. In merito alle quali è necessario tener presente che dalla conferenza di Casablanca si trovarono sempre in contrasto le vedute di Churchill e di Rooselvelt. Il primo intendeva trasferire lo sforzo principale d’invasione cioè l’«Overlord», dalla Manica alla Balcania, per evitare l’insediamento della Russia nell’Europa centrale; il secondo si opponeva ad una simile traslazione dell’epicentro bellico, specialmente per non dispiacere a Mosca: all’apertura della conferenza di Quebec, il punto di vista di Roosevelt aveva ormai finito col prevalere. Tuttavia, durante i primi otto mesi del 1943 rimase non del tutto definito un altro problema: compiuta l’operazione «intermedia» della conquista della Sicilia, in quale zona del Mediterraneo avrebbe dovuto aver luogo la grande azione diversiva progettata dagli stati maggiori riuniti di Washington? Churchill, molto pensoso dell’avvenire dell’impero britannico nel dopoguerra, propendeva sempre per la Balcania con la segreta speranza di farvi slittare presto o tardi anche l’«Overlord»; tale slittamento cercherà di provocarlo per l’ultima volta, ma invano, alla conferenza di Öeheràn. Non già che Churchill avesse qualcosa da eccepire all’azione in sé stessa di diversione in Italia: anche dopo avviata una tale impresa (nonché prima d’avviarla), egli tendeva solo in una forma qualsiasi a convogliare forze sostanziali alleate in Balcania. Come abbiamo visto, Roosevelt, i suoi consiglieri militari e i capi di stato maggiore riuniti inclinavano invece, senza secondi fini, per le operazioni in Italia. Gli eventi successivi al 25 luglio costituirono il fatto nuovo che fece senz’altro polarizzare sulla penisola italiana la strategia alleata. Alla conferenza di Quebec, infatti, si riconobbe concordemente che la situazione politica aveva creato all’improvviso «impellenti ragioni a favore dell’invasione d’Italia».
Nacque così l’operazione «Valanga», che doveva determinare il collasso dell’Italia, l’impegno di numerose divisioni tedesche a sud delle Alpi e il possesso di aeroporti dai quali battere con facilità la Germania e la Balcania. Fu però precisato anche che l’operazione «Valanga», da condurre nella penisola stessa, non doveva interferire con l’operazione di gran lunga più importante: l’«Overlord», cioè con lo sbarco in Normandia. A tal fine Eisenhower, alla vigilia dello sbarco di Salerno, «ricevette ordine di coordinare i suoi piani alle necessità dell’operazione «Overlord». Il che significò che, proprio al momento d’impegnare le sue forze in una campagna su vasta scala in Italia, la 1ª divisione, la 9ª e la 2ª divisione corazzata americana, che avevano combattuto in Sicilia, avevano già iniziato il movimento verso il Regno Unito. Più tardi la 82ª divisione aerotrasportata fu ritirata dalla lotta di Salerno e inviata in Inghilterra. Altra notevole conseguenza dell’aver subordinato l’operazione «Valanga» a quella «Overlord» col ricordato allontanamento di poderosi complessi armati dal Mediterraneo al Regno Unito, fu che le forze italiane, numerose, ma disarmate materialmente e moralmente, una volta annunciato l’armistizio (8 settembre), rimasero sopraffatte entro 48 ore dalla Wehrmacht, e la 5ª armata di Clark, sbarcata lo stesso giorno con forze insufficienti a Salerno, evitò una seconda Dunkerque grazie alle artiglierie della squadra navale del vice amm. Hewitt.
La mutata situazione nei rapporti di forze fra gli Alleati e i Tedeschi in Sicilia e a Salerno si spiega col fatto che il Comando germanico, venuto in sospetto, dopo il 25 luglio, di una possibile defezione dell’Italia fece studiare in ogni dettaglio le misure da attuarsi nel caso di tale defezione. Venne decisa in tal modo operazione l’«Alarico», per realizzare la quale, Hitler ordinò a numerose forze di raggiungere l’Italia, dove, dallo sbarco di Salerno allo schieramento sulla «Gustav», si radunarono circa 24 divisioni, di cui 14 nel nord (armata B), fuori della zona di combattimento, e 11 a sud (rmata A), in azione. Al momento dello sbarco, contro le 36ª e 45ª divisioni di fanteria e 1ª Armoured americane, sbarcate nella regione di Eboli, e contro la 1ª, 46ª, 58ª e la 7ª blindata inglesi, attestatesi nella regione di Salerno, i Tedeschi contrapposero, oltre la 15ª Panzer, la «H. Göring» e la 29ª Panzergrenadiere di Sicilia, anche le 16ª e 26ª corazzate, la 15ª motorizzata e la 1ª paracadutisti. Di qui la crisi dello sbarco, aggravata dalla scarsa protezione aerea, seguita dall’aggressiva ritirata tedesca, conclusasi con l’intasamento del fronte sulla linea «Gustav». Fu allora che l’armata A del gen. Kesselring, la quale avrebbe dovuto compiere soltanto una ritirata manovrata fino alla «Gotica», dove sarebbe stata assorbita dall’armata B, assunse un’esistenza definitiva, rendendo superflua invece la funzione delle truppe di Rommel nella valle padana e nell’Appennino tosco-emiliano. Così, lo svolgimento delle operazioni fece prevalere presso Hitler la tesi di Kesselring (difesa della «Gustav») su quella di Rommel (difesa della «Gotica»). Infine, la situazione degli Alleati s’aggravò perchè costoro, invece di concentrare gli sforzi tra Eboli e Salerno, dove si trovava il grosso nemico, fecero compiere all’8ª armata un tentativo d’avvolgimento con un’ala sola (schema di Leuthen) attra-verso l’Appennino, cioè attraverso un terreno che si prestava mirabilmente alla difesa e sul quale l’impiego di molti tipi di carri doveva rivelarsi assolutamente inadatto.
Le circostanze metereologiche, congiurando con le difficoltà di un sistema montano come l’Appennino, contribuirono inoltre a sbarrare il passo agli Alleati sulla linea Gustav. Contro la quale s’infranse anche lo sforzo della più alta espressione tecnica e tattica della guerra, cioè del Combat command delle Armoured americane. Eisenhower si rese conto che le sue unità d’impiego altamente meccanizzate e motorizzate, e sprovvedute di ogni mezzo di trasporto ippomobile (a parte alcune migliaia di muletti frettolosamente requisiti in Sicilia e nell’Africa del nord), non erano atte a cimentarsi con gli ostacoli della guerra di montagna, e che occorreva che il governo d’Algeri, al quale subito si rivolse, costituisse un corpo di fanteria con le caratteristiche utili per le necessità tattiche del 15° gruppo d’armate. Nell’attesa dell’arrivo di questo corpo speciale, furono esperiti più tentativi per far saltare il chiavistello strategico, che chiudeva agli Alleati la via di Roma. Ma né l’intervento del 2° corpo d’armata polacco (gen. Anders), né lo sbarco d’Anzio, di cui Clark ebbe timore di sfruttare la sorpresa iniziale, né lo spietato bombardamento del 15 marzo, che ridusse Cassino a un cumulo di rovine, riuscirono a vincere la resistenza dei gen. Vietinghoff e Kesselring. Anzi, le rovine di Cassino finirono, come quelle di Stalingrado, col favorire la difesa, perché gli ostacoli accumulati dai bombardamenti impedirono l’uso dei carri, spezzando sia il tandem aero-carri che quello fanteria-carri.
Deciso a superare il punto morto della «Gustav», che era riuscita a dare alla guerra in Italia un andamento di stile 1918, il gen. Alexander accumulò dal 15 marzo al 10 maggio gli effettivi di 16-17 grandi unità, appoggiate da 600 batterie di 2.400 cannoni di tutti i calibri. Su di un fronte d’attacco di 40 km., l’11 maggio, all’inizio dell’offensiva si trovavano allineati un pezzo ogni 12 metri: una concentrazione quale raramente s’era verificata nella prima Guerra mondiale, cui molto veniva rassomigliando la grande operazione contro la «Gustav». Il presupposto indispensabile per l’intervento delle unità destinate alla manovra sul tergo e allo sfruttamento del successo in profondità fu offerto dall’impiego delle quattro divisioni del CEF (Corps expéditionnaire français), comandato dal gen. Jouin. Il quale, nella sua memoria del 4 aprile 1944, aveva proposto una manovra di sorpresa da realizzare mediante un «Corpo di montagna» atto a provocare la crisi della difesa. Il CEF si sarebbe abbattuto improvviso sulla poderosa catena degli Aurunci e sulla cresta del Monte Petrella, così scosceso che i Tedeschi s’erano dispensati dal fortificarlo, per dirigersi sugli Ausoni e le paludi Pontine, mentre con la destra avrebbe operata una conversione a oriente per incontrarsi con la 3e divisione polacca, sboccante dalle pendici occidentali di Monte Cairo e la 4e divisione indiana, movente a valle del iiriccio» di Cassino. I tre gruppi del CEF, la 3a divisione polacca e la 4a indiana, procedendo a ritmo rapido in modo che i Tedeschi non potessero presidiare a tempo la linea «Hitler», dovevano darsi la mano nell’alto Liri, cioè alle spalle della «Gustav» e della stessa «Hitler». Così, dalle ore 23 dell’i I maggio, con l’azione di fuoco lontana, cominciò ad attuarsi un tema tattico, proprio della prima Guerra mondiale, che solo però poteva offrire, in conseguenza di un’infiltrazione profonda della fanteria, la possibilità d’impiego ai mezzi proprî del conflitto nuovo.
Come aveva insegnato in più circostanze la strategia dei blindati, ciascuna grande offensiva riuscita imponeva alla difesa la perdita di 400-500 km. di terreno per assorbire il colpo: a Kesselring, pertanto, non rimase che impegnare combattimenti di rallentamento e organizzare, con l’aiuto del terreno favorevole, una delle sue consuete ritirate aggressive per raggiungere la linea «Gotica» senza compromettere la compagine dell’Heeresgruppe d’Italia. Favorì poi in modo particolare il disegno di Kesselring il ritiro imposto al 15° gruppo d’armate alleate di ben 7 divisioni di fanteria, necessarie all’operazione «Anvil». Al di là delle speranze degli Italiani e delle suggestioni della BBC, si realizzavano nella loro consapevole freddezza i piani a lungo meditati a Washington nell’Ufficio operazioni degli S. M. Riuniti. Poiché l’Italia non offriva l’ambiente adatto alle avanzate folgoranti delle armate corazzate, fu scelta in specie come campo di battaglie d’usura e di condensazione delle forze del Reich.
Nonostante il largo avviamento di truppe alleate verso altri teatri di guerra, il 10 settembre 1944 il maresc. Alexander tentò invano di espugnare la «Gotica» per irrompere nella valle del Po. Ancora una volta il terreno, le condizioni meteorologiche e la resistenza tedesca frustrarono i disegni degli Alleati, che per più mesi svolsero una costosa opera d’infiltrazione nella linea nemica. Intanto la crisi morale, che aveva investito le file della Wehrmacht in occidente, specie dopo il fallimento dell’offensiva delle Ardenne (16 dicembre 1944-30 gennaio 1945), accentuandosi, era dilagata fra le truppe in Italia. Ormai Kesselring, passato a comandare nell’ultima decade di marzo il fronte renano, si era convinto, che «per la Germania non esistevano più possibilità di ripresa»; egli non credeva più nemmeno alle «armi segrete» e incoraggiava il gen. Vietinghoff, su cui esercitava poteri decisivi di persuasione, a intavolare trattative di resa. In questo stato d’animo, con forze nettamente inferiori, specie nell’aria, dove la Luftwaffe era scomparsa, si comprende come, fra il 9 e il 24 aprile, la 14ª armata tedesca si ritrovasse più che sconfitta, disintegrata. Al successo della campagna contribuirono validamente con le forze regolari italiane quelle partigiane (v. resistenza, in questa App.).
Lo sbarco in Normandia e la guerra in Europa: A) Il fronte occidentale.– L’idea del ritorno di forze alleate in Europa ebbe origine a Dunkerque. Da quel momento, il più oscuro della storia britannica, malgrado i numerosi scacchi successivi, le autorità politiche e militari inglesi risolvettero di ritornare un giorno in Francia per vendicare le disfatte del 1940. Ma più che di una decisione, ancorché soltanto generale, si trattava di una reazione morale, di un sentimento di fierezza, necessarî tuttavia perché fosse convertita un giorno l’ora della disperazione in quella del coraggio e della ricostruzione. Il primo orientamento generale, ma positivo, verso l’idea di sbarchi in forza in Europa, s’ebbe a Washington, a fine dicembre 1941, durante la prima fase della lunga conferenza di Churchill con Roosevelt. Ma l’idea dell’assalto contro l’Europa hitleriana fu concretata per la prima volta nell’aprile 1942 dai comandi militari anglosassoni. Poco dopo, durante la conferenza di Washington del giugno 1942, quando cadeva Tobrüch e s’addensava la minaccia sulla Russia, oltre che sull’Egitto, Roosevelt e Churchill stabilirono d’intraprendere una qualche azione, specie per alleggerire la pressione dei Tedeschi sui Sovietici. A tal fine, nel mese di luglio, il gen. Marshall e l’amm. King si recarono a Londra per studiare d’urgenza la possibilità di distogliere una parte delle forze naziste dal fronte orientale. Poiché le forze nemiche erano imponenti e quelle alleate ancora scarse, si decise che la sola operazione che poteva essere intrapresa con ragionevoli probabilità di successo era quella del nord Africa. Quanto all’operazione in Europa occidentale, invece, si dovette constatare che, non solo nel 1942, ma neanche nel 1943 gli Alleati sarebbero stati in grado d’intraprenderla, per mancanza di forze adeguate; tuttavia gli effettivi mano a mano disponibili, durante l’attuazione del piano «Torch», dovevano venire concentrati in Inghilterra per addestrarli alla futura grande impresa. Nell’agosto, Churchill si recava a Mosca per informare Stalin dell’assalto in due tempi contro la Germania all’ovest; l’8 novembre ci fu lo sbarco in Africa, e fra il 14 e il 24 gennaio 1943 s’ebbe la conferenza di Casablanca. Si è già accennato alla divergenza di vedute in merito al problema dell’apertura del secondo fronte, fra Churchill, che, ansioso di arrivare nell’Europa centrale prima dell’armata rossa, propendeva per la Grecia e i Balcani in modo da colpire la Germania in quello che egli definiva «il soffice basso ventre dell’Europa», e Roosevelt, sostenuto dai suoi capi militari che invece si preoccupava quasi soltanto di vincere la guerra «il più rapidamente possibile per salvare vite americane». Ma solo attraverso la Manica e la pianura francese poteva essere conseguito un tale scopo. La tesi di Roosevelt finì col prevalere, così che si decise di accelerare il ritmo della concentrazione delle truppe e del materiale in Inghilterra. Uno S. M. anglo-americano fu costituito, e dalle iniziali del suo titolo (Chief of Staff to the supreme Allied Commander) l’organizzazione prese il nome di Cossac. Nella conferenza «Trident» di Washington (12-27 maggio 1943), Churchill tornò a battersi per l’ingresso in Europa attraverso la Balcania, ma Roosevelt, sostenuto da Marshall, fece prevalere le sue vedute, così che col rassegnato consenso di Churchill, il nome di «Overlord» venne ufficialmente dato all’operazione sulla Manica, e i capi degli S. M. Riuniti comunicarono al Cossac, che la data d’inizio dell’operazione doveva essere il 1° maggio 1944. Nel luglio 1943 gli studî inerenti al complesso delle operazioni di sbarco erano terminati. Alla conferenza di Quebec del 10-24 agosto 1943 fu approvato definitivamente il progetto: vi si contemplava anche che i preparativi d’invasione del nord si sarebbero giovati dell’operazione «Anvil», cioè dell’appoggio di un contemporaneo sbarco nella Francia del sud. Mentre venivano impartite disposizioni al Cossac di mettere a punto tutti i dettagli, nell’ottobre Eden e Cordell Hull (Mosca 18-30 ottobre) ragguagliavano Stalin sugli studî del piano d’invasione. Il 23-27 novembre s’ebbe la conferenza del Cairo, nella quale, esaurito l’esame della condotta della guerra in Estremo Oriente, il gen. Eisenhower riunì gli esperti militari per esaminare la strategia alleata in Europa. Questo esame fu approfondito alla prima conferenza dei Tre Grandi, a Öeheràn (28 novembre-1° dicembre 1943), dove fu per la prima volta stabilita una correlazione, sia pure lata, fra la costituzione del secondo fronte e lo sviluppo delle operazioni all’est.
L’ostacolo più grave all’attuazione dell’«Overlord» era rappresentato soprattutto dalla deficienza dei mezzi da sbarco, coi quali gli Alleati dovevano fronteggiare varie iniziative. Contemporaneamente all’«Overlord», infatti, con uno sbarco anfibio nel golfo del Bengala, bisognava contribuire di urgenza al ristabilimento delle comunicazioni terrestri con la Cina e tenersi pronti ad appoggiare la Turchia, incline, allora, all’intervento. Si decise pertanto di ritardare di qualche mese le operazioni nella Francia meridionale e di differire ai primi di giugno l’attuazione dell’«Overlord».
L’edizione definitiva dell’«Overlord» contemplava lo sbarco in Normandia sulle spiagge del Calvados e della costa est del Cotentin, una spinta verso ovest per amputare il Cotentin e accerchiare Cherbourg, lo sfruttamento del successo verso il sud o verso l’est, a seconda delle circostanze. Al successo della strategia alleata contribuì potentemente la scelta del luogo di sbarco; la Normandia infatti costituiva la sezione estrema del settore del Westwall, utile ai fini di uno sbarco risolutivo, il settore cioè Zeebrugge-Cherbourg. Per proteggere la regione economicamente, demograficamente, politicamente più importante della Germania (quella compresa fra Colonia, Coblenza e la Ruhr) da una minaccia proveniente dalla Manica, l’OKW aveva concentrato i suoi sforzi difensivi sul litorale e in maniera del tutto particolare sulla sezione del Passo di Calais, dove si trovavano le migliori riserve d’urto tedesche, il cui nucleo era costituito dalla 15a armata. Ma proprio perché il Passo assicurava agli Alleati il più breve tragitto marittimo, la massima copertura aerea e il possesso della zona strategicamente più redditizia di tutto l’occidente, il comando alleato optò per la Normandia: ne sarebbero rimasti profondamente scompigliati i calcoli del nemico. Il comando anglosassone, per rafforzare il nemico nella sua convinzione e sfruttare i vantaggi della sorpresa, concentrò molti reparti, destinati alle coste di Normandia, nell’est e nel sud, anziché nel sud-ovest dell’Inghilterra, riservandosi di farli affluire per il «D-day» nella zona vera di concentrazione. Anche gli sforzi distruttivi dei bombardamenti aerei furono concertati in modo da far credere in uno speciale interesse per il Passo di Calais, e le navi in soprannumero furono dirette, allo stesso fine, nell’estuario del Tamigi, dove vennero addensati anche innumerevoli mezzi da sbarco.
D’altra parte se il Cotentin difettava di campi d’aviazione e consentiva al nemico, con forze relativamente leggere, di difendere con vantaggio - il collo della penisola e dì bloccarvi le teste di sbarco, era meno difficile per gli Alleati sviluppare le teste di ponte di Caen e di Carentan verso i vicini porti di Le Havre, Rouen e di Cherbourg che non le eventuali attestature sul Passo verso i lontani porti belgi, sino a quello d’Anversa; nel settore normanno, poi, le difese tedesche erano leggere e le forze ammontavano a 9 divisioni di fanteria e i blindata, mentre a Calais le difese erano di molto più protette e le forze ascendevano, rispettivamente, a 17 e a 4. Inoltre, qualora l’OKW, fattosi accorto delle vere intenzioni alleate, avesse avviate verso occidente le forze, queste, dovendo percorrere grandi distanze, si sarebbero esposte a lungo all’offesa aerea. Né basta: le formazioni tedesche per affluire sul campo di battaglia dovevano attraversare la Senna, e poiché era previsto che tutti i ponti fra Parigi e Rouen dovevano cadere sotto i colpi dei bombardieri, il fiume si sarebbe trasformato in un vasto fossato anticarro difficilmente superabile da un esercito meccanizzato come quello tedesco: nel costruire nuovi ponti o nel riattare i vecchi, i rincalzi avrebbero perduto tempo prezioso. Infine, esclusa la regione del Passo, dal punto di vista logistico, il versante orientale della Normandia era la sezione del Vallo atlantico più favorevole all’invasione, perché più vicina al poderoso gruppo portuario di Southampton, Portsmouth e dei minori dell’isola di Wight, perché le coste, perduto il carattere di falaise, proprio del litorale della Manica, si presentano sufficientemente piatte e solide. Per di più, la penisola di Cherbourg con la sua forma di falange, segata alla base o a mezza altezza, poteva assicurare di colpo preziosi territorî per più ampio attestamento. Infine il Cotentin, estendendosi accentuatamente a nord-nord-ovest ripara dai venti dell’Atlantico.
Compiuta l’attestatura sulla costa normanna, l’«Overlord» prevedeva la realizzazione di un’altra finta decisiva, quella di far credere al nemico che il fronte di sfondamento fosse quello di Caen. Quivi Montgomery con Britannici e Canadesi doveva attirare il grosso delle riserve avversarie, mentre gli Americani avrebbero praticato la rottura in direzione di Saint Lô-Avranches, da dove poi si sarebbero inflesse verso E., in un movimento che le avrebbe portate sulla Senna e nella regione di Parigi.
A questo complesso e grandioso piano che, servito da mezzi senza pari, trovò sul terreno soddisfacente realizzazione, si contrapponeva quello tedesco. La concezione della Germania era sostanzialmente affine a quella del Giappone. Il piano di guerra di Tükyü partiva dal presupposto di assicurare all’impero l’autosufficienza economica e il possesso di posizioni strategiche «perimetrali» tanto forti da indurre il nemico ad accettare il fatto compiuto. Ma, mentre il piano giapponese fu astrattamente elaborato come un teorema di geometria, il piano tedesco si venne formando sotto l’azione del corso mutevole della guerra.
Se la Germania non era stata in grado d’invadere la Gran Bretagna, questa, a sua volta, mai doveva trovarsi in grado d’invadere l’Occidente. Di qui la prima idea del Westwall. Fra il 16 settembre e il 19 novembre 1942, mentre l’assedio di Stalingrado si svolgeva con un ritmo così diverso dal preveduto, Hitler rinunciò all’accerchiamento di Mosca dall’est e quindi al «Barbarossa», ripiegando sulla concezione di un vero e proprio «vallo dell’est», simmetrico a quello dell’ovest. Questo Ostwall avrebbe dovuto seguire il fronte del nord e del centro, come s’era stabilizzato in Russia dalla fine del 1941, a mezzogiorno doveva consolidarsi fra Voroneû e Stalingrado (conquistata dai Tedeschi), quindi, seguendo la sinistra del volga, sino alla foce, doveva ricongiungersi lungo la riva occidentale del Caspio a Bacu, al crinale del Caucaso, al Mar Nero. L’accerchiamento dell’armata di von Paulus e lo scatenamento della controffensiva russa, che nella realtà poi sopravvennero, potevano restringere i confini del Lebensraum, ma non infirmare i principî della sua difesa perimetrale. L’organizzazione della difesa periferica a nastro, presidiata da truppe statiche contemplava anche la penetrazione profonda da parte del nemico: le armate d’urto si sarebbero incaricate di annullare le conseguenze di questa mediante battaglia di liberazione del territorio invaso. Il Westwall venne fortificato (v. linea difensiva; coste, difesa delle, in questa App.) con ritmo più celere nell’inverno 1943-44, in seguito alla nomina di Rommel a comandante in capo delle forze germaniche dislocate in Francia. Però le difese, per quanto munite, non possono tenere a lungo senza adeguate forze di presidio; e la qualità delle 64 divisioni tedesche (la cifra più accreditata), schierate in occidente al 6 giugno 1944, variava considerevolmente. Su 44 divisioni di fanteria, 6 erano costiere e 7 di presidio statico, accantonate 2 nelle isole normanne e 5 in Bretagna; queste 13 divisioni erano di un valore molto mediocre: le residue 31 ad effettivi completi erano costituite dalla normale divisione tedesca, assolutamente incomparabile perciò con l’eccellente divisione di fanteria «pluriarma» anglo-canadese-americana. Le 11 Panzer, le 5 Panzergrenadiere, i Waffen S. S. e le 2 paracadutisti, invece, per equipaggiamento, addestramento e combattività formavano un complesso del più alto valore. Le due divisioni che, aggiunte alle altre, ci riportano al totale di 64, erano delle formazioni a piedi, organizzate negli ultimi mesi dalla Luftwaffe; su di esse mancano fino ad ora ragguagli di qualificazione. In tutto l’occidente quindi il nucleo di combattimento vero e proprio ascendeva a sole 18 divisioni, disseminate, insieme alle meno efficienti, lungo un cordone litoraneo che andava dallo Zuider Zee settentrionale (Helder) alle Alpi marittime. Su 64 divisioni, 57 erano impegnate nelle operazioni di prima difesa; al maresc. Rundstedt rimaneva una magra riserva generale di 7 divisioni, delle quali 3 a piedi, di qualità deteriore, dislocate in Alsazia e Lorena, 2 eccellenti di Panzergrenadiere S. S. e 2 di fanteria normale. Si comprende come Rundstedt, senza appoggio aereo, e con quattro divisioni, non potesse mai tentare,fino al 16 dicembre 1944, un solo grande contrattacco d’insieme.
Le forze totali dei blindati alleati ammontavano a 24 divisioni, di cui 15 americane, 3 inglesi, 2 canadesi, 3 francesi, 1 polacca (le ultime quattro grandi unità erano naturalmente armate ed equipaggiate dagli Stati Uniti). Nonostante il miglioramento praticato, fra la campagna d’Africa e lo sbarco in Normandia, nell’artiglieria dei blindati, pur sempre i Churchill e gli Sherman non erano in grado, singolarmente, di misurarsi con vantaggio contro i Tiger o i Panther, meno che mai contro i Koenigstiger (di 69 t., muniti di cannoni di 12,8 cm., modello 1944, e di 150 mm. di blindaggio sul davanti), i Jagdpanther (con cannone 88 Pak 43, di 71 calibri e di 1250 m. di velocità iniziale) e il cannone automotore Elefant (di 72 t., blindato a 200 mm.). Gli Alleati colmarono la differenza col numero, con l’impiego delle eccellenti armi anticarro (specie il bazooka), soprattutto con la preponderante organizzazione dell’Air-support. Sfruttando il perfetto collegamento radioelettrico fra le truppe e gli aerei, l’aviazione tattica interveniva con le formazioni massicce dei suoi Mosquito, Mustang, soprattutto dei cacciatori-bombardieri a razzo HawkerTyphoon e Thunderbolt (i migliori anticarro del mondo), che con le proprietà speciali dei loro proietti facevano subire, anche ai più superbi esemplari della Panzerwaffe, delle vere catastrofi.
Oltre a queste 24 divisioni blindate, gli Alleati disponevano in tutto di 61 divisioni, di cui 5 aeroportate (3 americane e 2 inglesi), e le altre di fanteria. Le 5 divisioni speciali erano pari nella qualità alle corrispondenti unità tedesche, mentre per ciò che riguarda la fanteria, solo i Panzergrenadiere e i Waffen S.S. stavano alla pari delle divisioni di fanteria alleate. Queste divisioni alleate rappresentavano la più compiuta realizzazione tattica dei nuovi combattenti a piedi. La fanteria, adattate a sé quasi tutte le armi e organizzatasi come una sintesi tattica di queste, può con aumentata libertà operativa partecipare decisamente, quasi come l’aviazione, pressoché a tutte le fasi del combattimento. Di conseguenza, la fanteria, da monoarma è divenuta pluriarma; e con la sua dotazione organica di reparti di carri armati medî d’accompagnamento (analoghi a quelli delle unità corazzate), di bombe a carica cava, di cannoni senza rinculo, di mortai pesanti, di proietti a razzo, di cannoni controcarri, può veramente essere definita «madre delle armi». Dopo le prove della nuova fanteria a Perekop, Sebastopoli, el-‚Alamein, Mareth, gli Anglosassoni s’impegnarono sempre più a fondo perché nelle grandi campagne di guerra terrestre nell’Africa del Nord, in Italia, in Francia, in Germania «uno dei fattori basilari della decisione finale fosse l’armamento e l’equipaggiamento della divisione di fanteria» come continua a dirci il gen. Marshall. Le divisioni «normali» tedesche al momento dello sbarco, nonché successivamente, non potevano reggere il paragone con le formazioni avversarie, che erano circa 55 contro 5 di Panzergrenadiere e di Waffen S. S.
Quanto poi all’aviazione, era avvenuto che fra il 20 e il 27 febbraio 1944 fu sterminata la caccia tedesca, in seguito alla distruzione dei suoi più importanti centri industriali. In numerose azioni diurne le forze aeree del gen. Spaatz riuscirono a imporre il combattimento alla Luftwaffe: gli Americani perdettero 244 quadrimotori e 33 caccia, i Tedeschi 692 tra Messerschmitt ME 109 e Focke Wulf FW 190. L’aviazione germanica era finita come arma di combattimento. Le squadriglie strategiche del gen. J. H. Doolittle ridussero a entità insignificante le fabbricazioni tedesche di carburante sintetico, mentre le formazioni alleate del Mediterraneo s’accanivano su Ploeóti. Il giorno dello sbarco, la Luftwaffe effettuò 70 sortite contro 10.585 degli avversarî. Una superiorità così schiacciante non poteva essere compensata sui campi di battaglia dalla maggiore efficienza dei carri, dei razzi per la fanteria, come il Panzerfaust e il Panzerschreck, più efficaci anche del bazooka, o di qualche rarissimo esemplare, appena allora a disposizione, dei Messerschmitt ME 262 a reazione.
Se gli Alleati non riuscirono a travolgere il dispositivo tedesco al primo urto, ciò dipese dall’impossnilità tecnica di schierare contemporaneamente nella baia della Senna molte delle 90 divisioni di tutti i tipi che si trovavano al 6 giugno in Gran Bretagna. Però, una volta occupata e attrezzata una zona di terreno in modo da renderla idonea a resistere alla reazione del difensore, con l’intervento successivo di forze fresche gli Angloamericani, largamente provvisti di risorse, riuscirono a provocare la rottura dell’equilibrio, conseguire lo sfondamento e realizzare anche lo sfruttamento del successo. Fu così che si ebbe in Normandia il relativo equilibrio iniziale delle forze in presenza, che diede origine prima alla lunga battaglia delle spiagge (6-28 giugno), poi a quella di condensazione delle forze tedesche a Caen (10 giugno-9 luglio), di conquista del Cotentin (18 giugno-26 luglio) e di rottura a St. Lô-Coutances-Avranches (25 luglio-i° agosto). Le armate alleate in Gran Bretagna costituivano una forza in cerca del punto d’applicazione per manifestarsi; guadagnata con la regione costiera della baia della Senna e del Cotentin la piattaforma di lancio per gran parte dei loro uomini e dei loro materiali, gli Angloamericani quasi senza resistenza eliminarono dalla Francia i Tedeschi, ricacciandoli oltre la Mosa. L’operazione «Anvil», cioè lo sbarco in Provenza, avvenuto il 15 agosto, 70 giorni dopo quello di Normandia (secondo gli accordi presi con i Russi a Teheràn), fu l’acceleratore della marcia di Eisenhower verso l’est e un apporto di forze nuove per gli eventi successivi al 15 settembre. La battaglia di Francia era ormai terminata: cominciava ora quella di Germania.
B) Il fronte orientale. – Il contrattacco di Charkov del 23 febbraio 1943 aveva fatto riconquistare ai Tedeschi la grande città ucraina, evitando loro il peggio; al 15 marzo si era ritornati sostanzialmente alla situazione territoriale della primavera del 1942 (con qualche vantaggio per i nazisti). L’offensiva russa in tal modo «aveva divorato il sistema tedesco di difesa, come l’incendio si espande attraverso la steppa». I due contendenti, esauriti dal lungo sforzo, ostacolati dal tremendo fango di primavera, dopo il 15 marzo sospesero le operazioni.
Nell’estate del 1943, mentre la situazione generale dei Tedeschi peggiorava e i Giapponesi si lasciavano sfuggire, sul Pacifico, l’iniziativa delle operazioni, la stessa superiorità quantitativa e qualitativa del Reich sull’URSS s’allontanava sempre più nel tempo. La superiorità numerica dei Russi era ora divenuta notevole: di due a uno, sull’insieme del fronte, di almeno quattro a uno nei settori scelti dell’armata rossa per l’offensiva. Quando cominceranno le grandi offensive d’estate, Hitler disporrà di una densità di truppe quasi pari a quella di cui disponeva Weygand il 5 giugno 1940, durante la battaglia di Francia. Questa inferiorità terrestre non era affatto neutralizzata dalla superiorità della Luftwaffe, perché le offensive aeree degli Anglosassoni sull’Europa occidentale, sulla Germania e il Mediterraneo avevano costretto l’arma di Göring a frazionarsi. La caccia tedesca, chiamata a difendere i centri industriali del Reich e dei paesi occupati, nel maggio 1943 si presentava ripartita così: 60% all’ovest, 15% in Mediterraneo, 25% in Russia. Il che significava dire che il 60% dei bombardieri, impegnati invece in Russia, mancavano della protezione sufficiente; e i bombardieri-picchiatori Stukas, senza scorta di caccia, dovevano rarefare gli interventi nella battaglia, mettendo in sofferenza il binomio tattico degli aero-carri, da quasi due anni in declino in Mediterraneo e all’est. Per di più, le squadriglie del maresciallo Novikov si erano arricchite degli ottimi cacciatori nazionali Mig e Yak, dei bombardieri-picchiatori Stormoviks, assai maneggevoli, nonché di imponenti quantità di velivoli angloamericani. Se Hitler voleva evitare la catastrofe non aveva che una sola via da seguire: la più alta meccanizzazione, quantitativa e qualitativa, della Wehrmacht per risparmiare l’elemento uomo e insieme potenziarne lo sforzo. L’intervento della scienza e tecnica tedesche e le risorse organizzative dell’OKW ebbero un peso preponderante nell’impedire il collasso della Germania, probabilmente nel corso del 1943.
La divisione blindata, edizione 1943, vedeva ulteriormente diminuire il numero dei carri, che passavano dai 356 delle Panzer, seconda edizione (1942), a 300 e talvolta anche 240; ma erano aumentati il peso e la potenza dei carri, i cui tipi Mark II, IIa, III andavano scomparendo del tutto e i Mark IV passavano dalle 30-33 alle 39-40 t. Nell’estate 1943 fecero la loro apparizione i Mark VI (Tiger), che rimasero insuperati, fino alla fine della guerra; il loro peso era di 58-65 t., la corazzatura anteriore di 150 mm., il cannone di 8,8 cm. Nell’inverno del 1943-44 entrarono in servizio i Mark V (Panther), che rappresentavano un ulteriore perfezionamento dei Tiger: la corazzatura anteriore di 150 mm. era la stessa (ormai, a differenza dello spensierato impiego del 1941 e 1942, si tendeva soprattutto a fare economia del materiale più pregevole e più raro, dell’uomo), il cannone 8,8 cm. del Tiger era rimpiazzato da un 7,5 cm. di 60 calibri; in compenso però il carro era più leggero (circa 20 t. in meno), più maneggevole, più veloce: un vero «cacciatore di carri». Al suo apparire venne considerato dagli Alleati d’oriente e d’occidente come l’arma più riuscita dei laboratorî tecnici della Panzerwaffe, superiore senz’altro allo Sherman (riguardato, fino a tutto il 1944, come il miglior carro armato della coalizione). Il reggimento blindato della Panzer è sempre integrato da due reggimenti di fanteria cingolata, nei quali però il terzo battaglione di motociclisti è soppresso e sostituito anch’esso da Panzergrenadiere, incaricati ora solo di estendere il successo conseguito dai carri e di consolidarlo. Lo sfruttamento del successo diveniva invece l’opera di una nuova grande unità autonoma: la Panzergrenadiere che collaborava con la divisione blindata e i suoi due reggimenti di granatieri corazzati nel quadro della Panzerarmee. La Panzergrenadiere ha una composizione simmetrica a quella della divisione blindata: il numero dei carri è ridotto circa a un terzo, perché il reggimento blindato viene sostituito da un battaglione di 100-150 macchine d’assalto, mentre la fanteria portata aumenta la sua consistenza numerica e perfeziona il suo addestramento, essendosi ormai collocata per importanza sul piano delle nuove armi. Un’organizzazione similare fu data ai Waffen S. S. Questa nuova organizzazione di divisione mista era la replica alla divisione di fanteria inglese col suo battaglione organico di carri Churchill e alla brigata meccanica dell’esercito rosso. Questo corpo sovietico, di cui sopra abbiamo messo in rilievo solo il complesso blindato, ripeteva la sua consistenza nel combattimento e la sua capacità difensiva da tre battaglioni di fanteria portata e da una compagnia di mitraglieri, anch’essi portati: tre o quattro di queste brigate formavano il «corpo d’armata meccanica», corrispondente alla «divisione» inglese e alla Panzergrenadiere. Così i Tedeschi importarono il binomio tattico fanteria-carri dai Russi e dagli Inglesi, dai quali appresero anche, specie dai primi, l’importanza del fuoco in appoggio diretto ai blindati. L’artiglieria divisionaria acquistò pertanto nel 1943 un’importanza fino ad allora sconosciuta. La Panzer vide portati a tre i suoi gruppi di artiglieria, integrati da un gruppo particolare di Sturmgeschütze; quest’artiglieria divisionaria, montata su affusto automotore era affiancata da una potente artiglieria a cingolo automotore, atta ad appoggiare la fanteria, a combattere contro i carri, a rispondere all’impiego di artiglieria propriamente detta. I tipi più reputati ne furono: il celebre cannone 8,8 cm., modello 1943, montato su châssis del carro pesante Mark IV, e il famoso Ferdinand o Elefant di 70 t., con cann. 8,8 cm., modello 1943, e corazzatura anteriore di 200 mm. (affiora anche qui la preoccupazione per l’uomo: all’equipaggio era assicurata una protezione quasi impenetrabile). Il vecchio binomio fanteria-artiglieria, misconosciuto dai Tedeschi nel 1939-41, riaffiorava, rinnovato, in tutta la sua importanza. La Panzer, la Panzergrenadiere, le artiglierie divisionaria e autonoma potenziavano le loro caratteristiche con il vincolo stabile dell’organizzazione d’armata (Panzerarmee): tutti i componenti di queste unità erano montati su ruote.
Quanto all’armata rossa, per ciò che riguarda i materiali blindati, si è rimasti sostanzialmente alle caratteristiche del 1942 e vi si rimarrà fino alla primavera del 1945, allorché farà la sua apparizione in campo il carro Stalin. Il KW 85, che fece il suo intervento nel 1943, più che un carro nuovo, è il miglioramento del tipo KW1, rafforzato nella corazzatura anteriore, che passa da 105 a 110 mm. e nella torretta, da 120 a 130. L’elemento nuovo si trova da parte russa nell’organica dei blindati, i quali vengono sempre più sistematicamente raggruppati in vere e proprie armate; sono queste grandi unità che, col concorso dell’artiglieria semovente e dell’aviazione, faciliteranno potentemente al comando sovietico la condotta dell’offensiva nella profondità del dispositivo nemico. La sopravvivenza di imponenti formazioni di cavalleria non apparirà anacronistica ove si pensi alle condizioni del terreno, che in Ucraina, nelle stagioni intermedie, è coperto di fango.
Ma il progresso del materiale presso l’armata rossa si era soprattutto affermato nell’artiglieria automotrice a cingolo; e ciò perché i Russi compresero appieno per primi le nuove particolarità di impiego dell’artiglieria. Compresero che questa non deve avere attitudini alla manovra e al superamento di ostacoli così spinte come i carri, ma che, avendo bisogno soprattutto di mobilità strategica, deve essere poco blindata per non sacrificare il movimento col quale può rapidamente portarsi dove necessita il fuoco e sottrarsi alla controbatteria. I Sovietici s’avvidero presto che un’arma tanto efficace, ma vulnerabile, come i carri armati, aveva bisogno di essere sostenuta nell’impiego dall’azione di fuoco lontana. Il cannone automotore di 15,2 cm. era un indovinato rinnovamento del cannone 15,2 cm. sperimentato con successo nella campagna del 1941. Il nuovo pezzo aveva un peso di 45-50 t. e una protezione in avanti di 120-150 mm.; era montato su di una torretta che gli permetteva di far fuoco in tutte le direzioni. Con questa sistemazione dell’obice in torretta, i Russi s’erano posti al disopra degli stessi Tedeschi. L’organizzazione dell’artiglieria era stata spinta fino a costituire, accanto alle unità d’artiglieria delle armate corazzate, corpi d’armata indipendenti, comprendenti due o tre divisioni di cannoni automotori, di carri, di aerei (20-25 per reggimento), col fuoco diretto per radio. La mobilità dei pezzi consentiva alle grandi unità d’artiglieria di realizzare delle concentrazioni di rottura impressionanti, raggiungenti talvolta più di un cannone per metro. Le posizioni tedesche più munite non potevano a lungo sopportare le conseguenze di un simile diluvio di fuoco. Il cannone veniva a costituire con con un elemento essenziale della vittoria; e Stalin, per questo, nominava (21 febbraio 1944) maresciallo in capo dell’artiglieria l’organizzatore dell’arma, il gen. Voronov. S’iniziava in tal modo l’evoluzione del complesso aerocarri-artiglieria (fanteria-genio) in quello aero-artiglieria-carri (fanteria-genio), ritenuto più potente dai tecnici sovietici. In tal modo mentre fino ad ora l’attacco era stato affidato presso tutti i belligeranti principalmente a unità meccanizzate, rinforzate da artiglierie semoventi, i Russi tenderanno verso l’impiego di grandi unità di artiglieria molto mobili, rinforzate da carri pesanti.
Quanto all’aviazione, i Russi, come già accennato avevano realizzato progressi nei cacciatori Yak 1 e 7 e nei bombardieri in picchiata Stormoviks. Coi primi tipi di macchine interdicevano al nemico il sorvolo delle proprie linee; coi secondi, muniti di proietti a razzo, i sovietici avevano realizzato la loro più efficace arma anticarro. I Cobra P-39 americani e le armi antitanks a razzo del tipo bazooka, in dotazione presso l’armata rossa, integravano l’opera degli Stormoviks. I Russi erano privi d’aviazione strategica, per avere concentrati tutti i loro sforzi nell’aviazione tattica, nella quale, se non erano riusciti a raggiungere l’eccellenza dei cacciatori Focke Wulf FW 190 e dei picchiatori nuova edizione Stukas Junkers 187, contavano tuttavia dei buoni tipi, costruiti in gran numero. Contro i 500 cacciatori e i 1200 bombardieri tedeschi della 3ª campagna, le forze aeree russe di cooperazione erano così numerose quanto lo furono le squadriglie di Kesselring e di Sperrle, all’epoca della campagna di Francia. Si comprenderà allora come le armate corazzate rosse, sostenute dalle terribili concentrazioni delle divisioni di artiglieria del maresciallo Voronov e dalle massicce formazioni di Stormoviks del maresciallo Novikov, realizzassero quasi sempre con successo la tattica «Konev» di sfondamento del dispositivo nemico. Un intelligente sfruttamento della propria superiorita numerica negli uomini e nel materiale procurò ai Russi la tempestiva disponibilità in linea di armate stagionali; cosicché l’armata d’estate veniva sostituita da quella d’autunno, adatta al terreno pesante, e quella d’autunno dall’armata d’inverno, equipaggiata e addestrata al combattimento sotto le più basse temperature, mentre le armate tedesche non conoscevano il cambio e si battevano talvolta senza risorse; si aggiunga, specialmente nel 1943-44, l’azione di formazioni partigiane, armate, equipaggiate e addestrate di lunga mano e impiegate con una tecnica superiore a quella delle consimili formazioni d’ogni parte d’Europa. Tutto ciò spiega perché nella campagna del 1943-44, dal 5 luglio 1943 al 24 aprile 1944, l’a mata rossa sia stata all’offensiva per 250 giorni, la Wehrmacht per soli 46 giorni. Stalin, nel luglio 1943, era determinato a intraprendere un’offensiva per taluni aspetti geostrategici corrispondente al piano tedesco del 1942, naturalmente con inverso senso di marcia. Nella seconda campagna, l’OKW aveva impegnato il solo Heeresgruppe Sud, smisuratamente ingrandito; nella terza campagna altrettanto fece l’alto comando russo, proponendosi di portarsi quanto più gli fosse stato possibile in profondità. Date le maggiori disponibilità sovietiche, Stalin si riprometteva d’integrare il successo delle armate del sud con avanzate più modeste al centro e al nord. Il comando germanico, rilevati gli imponenti preparativi del nemico, decise di disperdere le concentrazioni operate da Stalin prima che fossero lanciate all’attacco. Di qui la vigorosa offensiva-difensiva tedesca, scatenata nel settore di Kursk fra il 5 e il 12 luglio. Il 13, il quartier generale sovietico rispose con la sua grandiosa offensiva d’estate. Con senso di responsabilità, la tattica messa in opera dai Russi sacrificava deliberatamente la velocità alla potenza. Con i mezzi a disposizione, il primo valore poteva essere adeguato al secondo, ma il prezzo in uomini sarebbe stato troppo elevato anche per la Russia.
Intanto i Tedeschi, per attenuare le conseguenze del logorio dinamico imposto al loro esercito dal nemico, si videro costretti a cedere sempre più larghi tratti di territorio ucraino, vitale per la condotta della guerra. Ad un certo momento avvenne che durante la loro riconquista i Russi, lanciatisi una volta tanto senza prudenza allo sfruttamento della vittoria di Kiev, consentirono che le armate di Vatutin si cacciassero esageratamente in freccia. Il maresc. Manstein ne approfittò per lanciare nella regione di Zitomir, fra il 16 novembre e il 23 dicembre 1943, l’ultimo grande contrattacco della Wehrmacht, dopo quello di Kursk-Orel. Il comando russo, che non aveva fatto rientrare nelle sue previsioni l’eventualità di una reazione avversaria di tanta importanza, andò incontro all’insuccesso. Peraltro l’OKW scontò le conseguenze di una iniziativa intelligente, ma che aveva tutti i caratteri dell’improvvisazione; la minaccia d’avvolgimento di molta parte dell’Heeresgruppe Sud fu eliminata, però con pregiudizio delle riserve strategiche. In definitiva lo stato maggiore germanico si era messo al servizio delle vedute avversarie, perché, dissipati a Ûitomir gli ultimi effettivi della riserva generale all’est, nella notte di Natale del 1943, Stalin lanciava all’inseguimento finale le due armate corazzate dei col. gen. Rybalko e Rotmistrov, assegnando loro come obiettivi lontani Leopoli e le Alpi transilvaniche. Alle offensive russe d’estate e d’autunno seguiva così il 25 dicembre quella d’inverno, che si concludeva il 24 aprile 1944, quando il comunicato sovietico diede l’annuncio, dopo 296 giorni di attività fruttuosa, che all’est non v’era nulla di nuovo da segnalare. Intanto, il 10 aprile 1944, il 4° fronte ucraino, spezzate le difese dell’istmo di Perekop, riusciva il 9 maggio a riconquistare Sebastopoli e l’11 a concludere la campagna di Crimea, corollario di quella principale. A nord i fronti del centro e del settentrione s’erano avanzati, assecondando la grandiosa penetrazione del sud, e fra il 15 e il 27 gennaio 1944 Leningrado era liberata, dopo due anni d’assedio. Però, nonostante tutto, rinforzi sostanziali sollecitati dall’occidente, dalla Danimarca, dall’interno della Germania, rinsanguarono la Werhrmacht che riuscì a consolidare il settore galiziano, moldavo-bessarabico da Kovel a Iaói, a Chióinàu e a Cetatea Alba, sul Mar Nero.
La terza grande campagna dell’est terminava dunque l’11 maggio. Il grande problema stava nell’individuare il settore sul quale si sarebbe presumibilmente portato lo sforzo principale dell’armata rossa all’inizio della sua quarta campagna. Sull’esame dell’osservazione aerea, l’OKW ritenne che Stalin avrebbe insistito sulla direttrice meridionale, mirando con il grosso ai Carpazî e alla piana ungherese e con l’ala sinistra alla Romania, ai Balcani per quindi risalire, in collegamento ai partigiani di Tito, verso Budapest e Vienna. In realtà sarebbe apparsa strana una decisione in questo senso del comando russo: per colpire a morte la Germania, la via diretta – attraverso la Russia Bianca e la Polonia – era perseguibile dai Sovietici almeno quanto l’indiretta, e non presentava sbarramenti montani, come i Carpazî, inadatti all’impiego dei mezzi a ruota e a cingolo. Essa era inoltre, fino a Berlino, tutta pianeggiante, e, quasi come la Libia, una sorta di «paradiso dei tattici». E fu proprio nel settore della Russia Bianca che il 22 giugno 1944 Stalin apriva la quarta e ultima campagna del fronte dell’est. La Wehrmacht, convinta che nel settore prescelto dal nemico non vi sarebbero state che azioni dimostrative, aveva concentrato le sue migliori truppe nelle armate dell’ala destra. La sorpresa fu completa e finì con l’accentuare paurosamente lo squilibrio, già così grave, delle forze in presenza. Le reazioni della Wehrmacht si fecero anche per questo meno energiche che nel 1943; mai una manovra d’insieme per contrattacchi, ma solo a misure di pura difesa o di ritirata. Il 6 agosto 1944 i Sovietici si trovavano col loro centro dinanzi a Varsavia, e siccome sapevano che la Wehrmacht non era in grado di reagire con iniziative di respiro, procedendo secondo il metodo di una razionale divisione del lavoro, decisero di mettere il centro in condizioni di riparare le perdite, di preparare un nuovo balzo, e di proseguire nel contempo il movimento offensivo con i due fronti del Nord e del Sud. Fu così che, dalla fine d’agosto, il comando sovietico mise tutto l’accento della sua strategia sulle ali: al 1° novembre 1944 le armate del fronte baltico giungevano sulle frontiere della Prussia orientale, mentre le armate dei marescialli Malinovskij e Tolbukin il 26 dicembre si portavano sotto Budapest. L’ala settentrionale fu arrestata ai confini della Prussia orientale in virtù delle fortificazioni permanenti di frontiera e dell’apparizione di molti Tiger Panther, Königstiger e Jagdpanther che sconcertarono i Russi. L’arresto dell’ala meridionale fu invece la conseguenza paradossale dell’accennato errore dell’OKW. I rinforzi concentrati dai Tedeschi a Budapest contennero la potenza dell’armata rossa, la quale, però, utilizzò l’attesa per preparare la quarta offensiva d’inverno, fase terminale dell’ultima grande campagna dell’est.
La guerra in Estremo Oriente. – Eliminata, con le battaglie del Mar dei Coralli e delle Midway, ogni minaccia su Port Moresby, la Nuova Caledonia, l’Australia, le Hawaii e Dutch Harbor, i Giapponesi rimasero serrati su spazio più ristretto nel Pacifico sud-occidentale. Ormai si poteva dire che una barriera insuperabile fosse stata elevata dagli Anglosassoni davanti alle due posizioni-chiave dell’Estremo Oriente: le Indie e l’Australia. Racchiuso nel suo perimetro, come la Germania nel suo vallo atlantico, il Giappone adeguò, secondo i piani, la sua strategia aeromarittima alle esigenze di una difesa a cordone. Una catena di basi aeronavali insulari, presidiate da truppe decise a tutto fino all’ultimo uomo, e l’intervento virtuale del grosso della flotta in posizione centrale dovevano rendere l’impero invulnerabile. Una tale strategia presentava gl’inconvenienti capitali di disperdere, come nella fortezza Europa, le forze della difesa su un perimetro immenso senza possibilità d’interdire all’offensore la scelta della penetrazione, in forze preponderanti, contro i proprî capisaldi. Ma la deficienza insanabile di questa strategia non risiedeva tanto in sé stessa, quanto nella sua applicazione. Onde avvenne che una strategia, che per cinque secoli aveva assicurato efficace protezione all’impero romano, in quelle particolari contingenze si rivelò insufficiente a garantire al Giappone la sicurezza per quei pochi anni necessarî a imporre al nemico l’accettazione del fatto compiuto. Sennonché, l’errore stava nell’applicare a due situazioni radicalmente diverse gli stessi antichi principî della strategia a cordone. Roma aveva dovuto affrontare dei barbari in arretrato sulla tec1iica, mentre il Giappone s’era avventurato contro un avversario in netto vantaggio nel progresso e nel potenziale produttivo. Perciò l’errore fondamentale compiuto dal quartier generale di Tükyü fu di impegnarsi in un conflitto al quale era molto più preparato moralmente che tecnicamente e industrialmente. Il prolungamento delle ostilità, specie in conseguenza delle battaglie del Mar dei Coralli e delle Midway, diede agli Stati Uniti la possibilità di gettare nel conflitto il peso del loro potenziale bellico. Benché nella conferenza di Washington del dicembre-gennaio 1941-42 si fosse deciso, per le ragioni già dette, di portare lo sforzo principale contro la Germania, la produzione americana era così gigantesca che la frazione minore, riversata sul Pacifico, bastò a mettere il Giappone, durante il 1943-1944, in una condizione di netta inferiorità quantitativa e qualitativa.
Nonostante le esperienze dello Skager Rak, di Taranto, di Creta e anche di Pearl Harbor e della distruzione del Prince of Wales e del Repulse, attuate dagli stessi Giapponesi, tuttavia costoro – si è già detto – non intesero a pieno la rivoluzione che il potere aereo stava provocando nel potere marittimo. Il quartier generale di Tükyü, pure avendo dotata la flotta di ragguardevole scorta aerea, tendeva tuttora a riguardare come protagonista del mare la grande nave da battaglia, senza comprendere che il potere marittimo – e cioè il controllo del mare – è cosa del tutto diversa dai mezzi che permettono di stabilire questo controllo. Pearl Harbor servì a richiamare nel modo più drammatico l’attenzione degli Stati Uniti sull’importanza della collaborazione degli aerei con la flotta, importanza subito realizzata attraverso la costruzione di numerose portaerei, divenute veramente le nuove capital ships. L’aver messo in cantiere le due supercorazzate Yamato e Musashi (di 60 e 65.000 tonnellate, con IX 456 mm.) le più potenti di tutte le marine (entrate in squadra rispettivamente nel dicembre 1941 e agosto 1942) mostrava al contrario che l’alto comando di Tükyü, non aveva affatto compreso essere inutile la preponderanza di navi da battaglia prive in tutto o in parte di portaerei.
All’inizio della guerra, il Giappone disponeva di 10 corazzate e di 10 portaerei, 6 delle quali furono affondate nelle varie azioni del 1942. I Giapponesi durante la guerra costruirono e trasformarono un totale di circa 17 portaerei, di cui 5 di scorta; ma, date le perdite subìte dalle unità aeree imbarcate negli anni 1942-43, e dato il tempo necessario per l’addestramento di nuove unità, i Giapponesi non impegnarono più portaerei se non entro il 1944. Gli Stati Uniti entrarono in guerra con 9 corazzate e 3 portaerei della flotta del Pacifico (quella dell’Atlantico disponeva di 6 corazzate e di 4 portaerei). Al 7 dicembre 1943 avevano costruito, in base al Two Ocean Navy Bill del 19 luglio 1940, solo 6 corazzate, ma per la fine dello stesso anno avevano messo in servizio più di 50 portaerei. Siccome poi nelle azioní del 1944 i Giapponesi perdettero 7 portaerei e altre 7 furono affondate nelle acque territoriali nipponiche, alla fine delle ostilità Tükyü rimase senza portaerei contro le 26 di linea e 64 di scorta degli Stati Uniti (i quali durante la guerra avevano costruito in totale 137 portaerei: 27 di linea, 110 di scorta, di cui 37 cedute all’Inghilterra). Se si pensa che dalla battaglia del Mar dei Coralli (7-8 maggio 1942) tutti gli scontri navali nel Pacifico furono prevalentemente impegni fra portaerei, si comprenderà come gli Americani avessero buon gioco non solo sulle difese perimetrali, ma anche su quelle della «zona interna» del nemico. Quanto all’aviazione, notevole fu lo sforzo dei Giapponesi, che produssero durante la guerra 65.300 apparecchi; ma per mancanza d’adeguata organizzazione per la manutenzione degli aerei, di efficienti servizî logistici, di aeroporti e basi preparati a tenere in efficienza un grande numero d’aerei, non furono mai in grado di far massa in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Infine, lo stato maggiore di Tükyü conobbe l’importanza tattica dell’aviazione, ma ignorò con l’importanza strategica, molte altre branche dell’organizzazione militare; cosicché ben presto i suoi metodi di comando resero oltremodo irrazionale l’impiego delle forze aeree. Sommando la propria superiorità aerea, marittima e terrestre con un largo e intelligente impiego di sottomarini, oltre che delle navi da guerra di superficie, gli Stati Uniti giunsero alla graduale eliminazione non solo della flotta bellica nemica, ma anche della mercantile. Dopo il 1943 il tonnellaggio efficiente dei trasporti giapponesi andò decrescendo rapidamente e alla fine della guerra si era ridotto al 10% di quello esistente all’inizio. Su un totale di 10.100.000 t. di naviglio mercantile (delle quali 4.000.000 costruite durante la guerra), 8.900.000 t. erano affondate e danneggiate nei primi mesi del 1945: nell’aprile dello stesso anno l’attività navale giapponese era ormai limitata a movimenti fra la Corea e la Manciuria e nelle acque metropolitane di basso fondale. Ma già nel 1944 era divenuta particolarmente grave la situazione di Tükyü – che, per non essere una potenza continentale dipendeva esclusivamente dai rifornimenti d’oltremare– in seguito alle perdite preoccupanti delle navi petroliere: tutto il sistema dei presidî d’oltremare, per un totale di 668.000 uomini (a parte le forze che si trovavano in Corea, Manciuria, Cina, Birmania, le quali avevano rifornimenti in gran parte indigeni), rimase paralizzato, e la stessa flotta da battaglia si vide costretta a subire una crescente limitazione alla propria mobilità. Tale situazione significava la catastrofe, anche senza fare appello ai bombardamenti strategici dei B-29 e alla bomba atomica. I sommergibili giapponesi, impegnati per di più, dopo l’avanzata americana, a rifornire i presidî superati, furono ben lontani dal ripetere nel Pacifico le gesta degli U-Boote in Atlantico. I perfezionati mezzi di radiolocalizzazione consentirono infine agli Statunitensi di menare una vera strage dei sottomarini nipponici nel 1944 e 1945
La superiorità quantitativa e qualitativa dell’aviazione americana, tattica e strategica, della quale ultima rimase espressione insuperata il B-29, diede al comando di Washington un elemento decisivo di successo nelle operazioni di mare e di terra. Il cannone da 75 mm. aereo, portato da alcuni apparecchi americani, era il più pesante ed efficiente pezzo montato su aereo. Nella campagna di Papua (Nuova Guinea) i carri armati Grant, di vecchio modello, per quanto costruiti nel 1942, si trovarono a disagio contro quelli giapponesi; ma gli Americani compresero subito che per avere il sopravvento non bisognava tanto insistere nel progresso dei blindati quanto nella messa a punto di armi particolari, adatte ai combattimenti nella giungla. Perché, infatti, salvo che nella costa settentrionale della Papuasia e in taluni territorî pianeggianti dell’isola di Luzón, i carri non potevano operare con frutto nella giungla; a preferenza degli Sherman, gli statunitensi impiegarono in Estremo Oriente carri armati, lanciafiamme con mortai da 105 e 155, razzi aerei, artiglierie pesanti semoventi con catene antislittanti per rimorchiare l’artiglieria nel fango. Inoltre diedero maggiore sviluppo alle bombe fumogene, al munizionamento per i bazooka, al funzionamento degli apparati elettrici per individuare nel folto della vegetazione le posizioni nemiche di mortai e di cannoni. La superiorità del radar (quello giapponese era enormemente inferiote), nei mezzi di sbarco, dell’armamento e nell’equipaggiamento delle truppe, e nei mezzi di trasporto su terra (tutti a motore, contro il largo uso da parte dei Giapponesi di mezzi a traino animale) assicurò agli Stati Uniti il vantaggio del fuoco, della velocità, della potenza anche nella lotta terrestre. Infine, chiuso nella sua guerra locale, senza pensare di collegarla in qualche modo a quella dell’Asse in Mediterraneo, sfruttando nel 1942 la sua enorme superiorità momentanea nell’Oceano Indiano, il comando giapponese, non solo non si curò di coordinare la propria strategia con quella della Germania e dell’Italia, ma per la rivalità fra esercito e marina, non riuscì a realizzare nemmeno una coerente progettazione strategica e tattica della propria guerra. Al contrario gli Stati Uniti usarono le forze aeree, terrestri e navali come un insieme organico, raggiungendo quasi sempre la coordinazione nelle iniziative.
La forza economica e militare degli Stati Uniti permetteva di alimentare contemporaneamente più iniziative: concentrare il grosso delle forze per schiacciare la Germania, arrestare l’espansione del Giappone, preparare una doppia linea d’avanzata attraverso il Pacifico, intraprendere una campagna in Birmania per portare d’urgenza aiuti sostanziali alla Cina. Dopo la battuta d’arresto della battaglia del Mar dei Coralli e delle Midway, s’imponeva di sbarrare il passo alle forze nipponiche, le quali da Guadalcanal, dove erano sbarcate nel luglio del 1942, minacciavano il dominio alleato su tutta la zona delle Nuove Ebridi e della Nuova Caledonia. Di qui l’inizio di quelle lunghe e complesse operazioni aero-navali-terrestri che, fra il 7 agosto e il 30 novembre 1942, riuscirono a ristabilire la situazione a favore degli Alleati nelle Salomone. L’8 febbraio 1943 i Giapponesi evacuavano Guadalcanal; ma con ciò, lungi dal ritirarsi definitivamente dall’importantissimo arcipelago, non miravano che al loro consolidamento nelle Salomone settentrionali. Alla conferenza di Casablanca (gennaio 1943) i capi associati decisero di mettere il Giappone nell’impossibilità di effettuare ulteriori conquiste e di consolidare e sfruttare i territorî occupati. Obiettivo di Mac Arthur divenne quindi quello di sloggiare il nemico dal nord del grande gruppo insulare delle Salomone: molti mesi del 1943 furono impegnati in questo sforzo. Contemporaneamente vennero lanciate poderose offensive nella Nuova Guinea, fra i Monti Stanley e le coste del golfo di Huon. Ma gli stessi successi americani imposero gravi ragioni d’allarme: se le lunghe e sanguinose lotte sostenute per il possesso di Guadalcanal e della costa papuasica della Nuova Guinea avessero dovuto ripetersi isola per isola, «la decisione della guerra col Giappone si sarebbe allontanata ancora per molti anni». Perciò alla conferenza di Washington del maggio 1943, fu deciso di accelerare i tempi dell’avanzata verso il Giappone: le direttive particolari dell’avanzata furono fissate in agosto alla conferenza di Quebec. Più specificatamente si decise che, data la superiorità aeronavale, grazie alle portaerei e alle caratteristiche elevate degli aerei Corsair, Helleat, Liberator, Ventura, Mitchell, invece di progredire linearmente, attaccando le isole «riccio» l’una dopo l’altra, si doveva effettuare lo sbarco a parecchie centinaia di chilometri alle spalle delle posizioni nemiche, più vicine alla linea del fronte. Era questa la strategia degli sbarchi a «salti di montone». La possibilità d’attuazione di una simile strategia era fondata sulla superiorità aeronavale alleata, per cui i Giapponesi, chiusi in «sacche insulari», non si trovavano in grado di compiere alcuno sforzo offensivo organizzato sulle retrovie avversarie. L’aviazione si sarebbe incaricata di neutralizzate queste sacche con bombardamenti sistematici e di privarle di ogni rifornimento mercé un implacabile blocco aeromarittimo.
Una tale strategia impresse velocità insospettata alla riconquista americana. Alla conferenza di Quebec o più tardi a quella del Cairo (23-27 novembre 1943) si decise di compiere l’avanzata verso le isole giapponesi su due linee di penetrazione, Sud-Nord ed Est-Ovest. La prima linea, doveva suddividersi in due direttrici d’avanzata: una nella Nuova Guinea, agli ordini del gen. W. Krueger, l’altra, nelle Salomone, al comando dell’amm. W. F. Halsey: tutti e due i corpi d’avanzata alle dipendenze del gen. Mac Arthur. Alla linea di penetrazione attraverso le Gilbert, le Marshall, le Marianne, venne preposto l’amm. Chester W. Nimitz. Era previsto, fin dalla conferenza di Quebec, che Mac Arthur sarebbe giunto alle Filippine nell’autunno del 1944; Chester Nimitz con la primavera del 1945 sarebbe sbarcato nelle isole Ryu kyù. Nella prima fase, l’impiego geniale di mezzi superiori, soprattutto per la qualità, consentì a Mac Arthur d’insediarsi, entro il maggio 1944, nelle basi più importanti delle Salomone, delle isole dell’Ammiragliato e della Nuova Guinea, mentre le operazioni «Galvanic, Flintlock, Forager» permettevano al Nimitz d’insediarsi nelle Gilbert, nelle Marshall e, il 15 giugno 1944, a Saipan, nelle Marianne.
La situazione del Giappone s’era fatta all’improvviso grave, quasi allarmante. Fu allora che, viste minacciate dalla incontrastabile superiorità aeronavale americana le vie marittime della zona interna, l’alto comando imperiale decise di stabilire a ogni costo un collegamento terrestre con la Cina meridionale, l’Indocina, e quindi con la Malesia e l’I n donesia, fonti inesauribili di materie prime fondamentali. Di qui l’offensiva, che avrà inizio il 18 aprile 1944, e sarà diretta verso Canton e il Tonchino (Han-k’ow–Ch’ang-sha–Hengyang–Kwei-lin–Nan-ning– Hanoï); offensiva che mirerà anche a eliminare le grandi basi americane di Kwei-lin e Nan-ning, da cui partivano le superfortezze volanti (B-29) per attaccare il traffico giapponese nel Mar Cinese meridionale, e soprattutto a raggiungere (muovendo da Kwei-lin) Kwei-yang per tagliare la strada riaperta della Birmania e per minacciare da sud l’odiata capitale di Ch’ang-Kai shek. S’imponeva da parte del Giappone quest’azione in grande nella Cina perché, siccome urgeva inviare a Ch’ung K’ing maggiori risorse, gli Alleati nelle conferenze di Casablanca, di Washington, di Quebec avevano preparato piani, sempre più circostanziati, per la riconquista della Birmania e la riapertura della strada omonima. Siccome erano note le difficoltà eccezionali di una campagna in Birmania (v., in questa App.), che poteva durare anche un biennio, si decise di incrementare parallelamente i rifornimenti per via aerea attraverso la dorsale dell’Himalaya (via della «Gobba»). Così si fece; e mentre si sviluppavano lentamente, ma con successo, le operazioni in Birmania, la potenzialità dei trasporti sulla Gobba aumentava mensilmente in misura sorprendente. Nel frattempo, B-29 sempre più numerosi venivano dislocati in Cina, e il gen. americano J. W. Stilwell era nominato capo di stato maggiore di Ch’ang-Kai shek. Il Giappone comprese pertanto che la guerra dell’«incidente» cinese si sarebbe fatta ancora più dura se rapidamente non avesse stabilito il contatto terrestre con il Tonchino e non avessi tagliato a nord, cioè a Kwei-yang, quella strada birmana che gli Anglosassoni stavano per riaprire a sud. Siccome la conferenza del Cairo (23-27 novembre 1943) non solo aveva deciso di dare ulteriore sviluppo al «Comando Trasporti Aerei» (per accrescere il rendimento della rotta sulla Gobba), ma anche di affrettare la costruzione dell’oleodotto Calcutta Ledo-Kunming, il comando giapponese decise, dopo stabilito il collegamento col Tonchino, di schiacciare Ch’ang-Kai shek prima che aiuti sostanziali ulteriormente lo rafforzassero. S’ebbe così l’offensiva del 18 aprile: non si erano più viste operazioni di tanto respiro in Cina, dopo le campagne del 1937-38. Il collegamento col Tonchino fu conseguito, l’installamento aereo americano in Cina fu ridotto d’efficienza, per effetto dell’allontanamento delle basi a parecchie centinaia di chilometri a occidente del Kwang-si, ma Ch’ang-Kai shek rimase con le riserve generali intatte nell’inaccessibile Sze-Ch’wan.
Con questo, un pericolo mortale veniva a incombere sul Giappone in terra e in mare. Il pericolo terrestre era costituito da Ch’ung-k’ing, quello marittimo dall’avanzata di Mac Arthur sulle Filippine; Ch’ang-Kai shek minacciava la via terrestre Han-k’ow – Hanoï, aperta di recente, il generalissimo americano quella del Mar Cinese meridionale. Delle due minacce, era senza paragone più grave la marittima, sia perché le forze di Mac Arthur erano di tanto superiori a quelle del generalissimo cinese, sia perché nel Pacifico, dopo gli eventi dei primi otto mesi del 1944, l’unica via efficiente di comunicazione rimasta relativamente sicura fra il territorio metropolitano giapponese e l’Indonesia era quella dei due Mari Cinesi, settentrionale e meridionale. La ferrovia Pechino – Han-k’ow – Hanoï – Singapore mancava di soli 350 km. per saldare il suo nastro di 5000 km; tuttavia, prima che fosse stato possibile incanalare trasporti ferroviarî, nonché autostradali, efficienti occorrevano alcuni anni, mentre a fine agosto, e specie nella prima metà di settembre, incombeva la minaccia del ritorno di Mac Arthur nelle Filippine. Se gli Americani fossero riusciti a ristabilirsi a Luzón, l’aorta delle comunicazioni Nord-Sud sarebbe stata tagliata a sottovento dello stretto di Formosa. La parte dell’impero, posta a nord della linea Manila–Hong-kong, avrebbe potuto sopravvivere soltanto pochi mesi; quindi l’ammiraglio Toyoda, comandante delle forze navali giapponesi, a ragione riteneva essere «insensato salvare la flotta a spese delle Filippine». Pertanto, allorché il 19 ottobre 1944 la ricognizione aerea nipponica scoprì la grande forza anfibia dell’amm. Halsey lungo la costa orientale di Leyte, le autorità navali giapponesi, consapevoli ch’era in gioco la vita dell’impero, decisero d’impegnare quella flotta che con cautela avevano sempre risparmiato, dopo la battaglia delle Midway. Il 60% dell’intera flotta imperiale, che si trovava allora concentrata a Singapore, giunse presso Levte, dove fra il 23 e il 26 si svolse «una delle più decisive battaglie della storia», e la più importante per l’entità delle forze impegnate. «Il 26 ottobre – scrive il gen. Marshall – apparve chiaro che la 3ª e 7ª flotta (americane) avevano virtualmente eliminato il Giappone, come potenza navale». Anche le due più potenti corazzate del mondo, la Musashi e la Yamato, erano andate perdute, perché l’una affondata e l’altra danneggiata.
Mentre Mac Arthur proseguiva la conquista delle Filippine e di Borneo e mentre le superfortezze distruggevano le città e le industrie giapponesi, le forze dell’amm. Nimitz, impadronitesi delle catene di basi disseminate nelle immense solitudini del Pacifico centrale, il 19 febbraio 1945, sbarcavano, agli ordini diretti dell’amm. R.A. Spruance, a Jwo Jima; il 26 marzo, forze di base nelle Filippine (Mac Arthur), sbarcavano a Okinawa. ll pericolo di bombardamenti aerei sul Giappone vero e proprio diveniva mortale; più che mai allora i capi dell’aviazione imperiale, convinti che non sarebbero riusciti mai ad uguagliare la potenza aerea degli Stati Uniti, decisero l’impiego di unità di Kamikaze: ma come le telearmi tedesche non avevano potuto impedire lo sbarco di Normandia e arrestare l’invasione, così le unità di «suicidio non poterono impedire che il 16 marzo fosse conquistata Jwo Jima e il 22 giugno la stessa Okinawa. Ancora in giugno, essendo ormai sufficientemente sviluppate le basi delle Marianne, i B-29 dislocati in Cina vennero inviati nel Pacifico. Il principale obiettivo dell’alto comando americano era di preparare il terreno per l’occupazione. In Europa un simile obiettivo era stato raggiunto col colpire, mercé l’aviazione strategica, gli elementi fondamentali della struttura economica, sociale e politica della Germania; un’azione aerea analoga doveva precedere l’invasione del Giappone.
La fine della guerra in Europa. – Dopo i grandi progressi realizzati durante il 1943 nel dominio della tecnica, i belligeranti nel corso di quasi tutto il 1944 non ebbero modo d’impegnare sui campi di battaglia modelli veramente nuovi, i quali apparvero solo alla fine dell’anno e all’inizio del successivo. Le divisioni corazzate americane sostituirono gli Sherman con i carri Pershing (M- 26) di 43 t. e con un cannone corto di 9 cm.; questi carri col minor peso, la maggiore velocità e potenza di fuoco venivano a ridurre la distanza troppo netta degli Sherman rispetto ai Tiger, Koenigstiger e Jagdpanther. Dal lato russo entra in linea per la prima volta un carro pesante dell’efficienza di quelli tedeschi: è il carro Stalin, di 50 t. con un cannone lungo di 12,2 cm.; era il cannone su carro più efficiente fra tutti. Si presentava adatto all’andamento che aveva assunto il conflitto all’est, dall’inizio della terza campagna estiva, andamento caratterizzato da una crescente aggressività russa e da una sempre più debole reazione tedesca; si giustificava quindi l’impiego di un carro in cui la protezione (11 cm.) e la velocità (25 km. orarî) erano state così decisamente sacrificate alla potenza di fuoco. I Tedeschi non fecero in tempo a impiegare i nuovi modelli della Panzerwaffe, i Maus di 100 t. con il pezzo lungo antiaereo di 12,7 cm.; però, nel settembre del 1944, impegnarono per la prima volta sul fronte occidentale gli aerei a reazione Messerschmitt ME 262. Se queste macchine fossero state impiegate 10-12 mesi prima in scala apprezzabile, il conflitto avrebbe potuto assumere una piega diversa; ma per motivi non ancora accertati, ne fu ritardata la produzione in serie.
Comunque, poiché anche dal punto di vista qualitativo, il volume dei mezzi alleati era stato integrato, la Germania non poteva più opporre efficace resistenza, specie dopo che i nemici fossero riusciti a sopravanzare la linea Siegfried, presidiata dalle truppe statiche dei Volksgrenadiere. Ma avvenne che più fattori concomitassero per determinare una pausa in occidente, simmetrica a quella che stava per stabilirsi in oriente; dove, sia per dar respiro al centro e prepararlo a un nuovo balzo, sia in conseguenza dei successi difensivi tedeschi in Prussia orientale e a Budapest, si era determinata, fra l’agosto e il dicembre 1944, una certa stabilizzazione favorevole ai Tedeschi. Anche in occidente, dopo il 15 settembre, il fronte tendeva a cristallizzarsi, perché i porti dell’Atlantico, della Manica e del Mediterraneo, distrutti o ancora in possesso del nemico, erano in gran parte inutilizzabili, le munizioni e il carburante difettavano (l’oleodotto sottomarino «Pluto» che doveva essere sistemato su 16 tubi, ne contava solo 4); l’avanzata degli Alleati, essendo andata oltre ogni previsione ottimistica, aveva finito col far pesare molte servitù sulle comunicazioni enormemente allungate, gli stessi effettivi si erano venuti facendo scarsi e se ne attendevano dagli Stati Uniti. Infine c’era il grave ostacolo della Siegfried, che offriva alla Wehrmacht una buona base difensiva. Hitler, determinato a resistere ancora a qualunque costo, aveva organizzato un solido sistema di difesa dalla Siegfried alla Mosa e dall’Olanda alla Svizzera. Egli era favorito dal fatto che la regione fra la Mosa e il Reno, specie al Nord e al Nord-ovest, formava la più densa rete di corsi d’acqua dell’Europa. Il cattivo tempo prolungato toglieva gran parte della sua efficacia all’Air support; difettavano le formazioni di moderna fanteria pluriarma, mancavano inoltre artiglierie equivalenti a quelle delle corazzate anglo-americane, che coi loro 305 e 406 avevano tanto aiutato nello sfondamento costiero di Normandia, e le scarse batterie pesanti in linea non erano in grado di realizzare un’azione di fuoco efficace, anche perché la rete ferroviara francese, appena allora rinascente dalle sue rovine, e i ponti di fortuna delle rotabili non sopportavano il passaggio di materiali pesanti. Così si spiega meglio il proposito della strategia difensiva di Hitler che, sfruttando tutte queste favorevoli condizioni, voleva resistere a ogni costo, in attesa che gli Angloamericani si rendessero consapevoli per tempo dei pericoli provenienti dall’alleanza con i Sovietici e dalla creazione nel centro dell’Europa di un vuoto di potenza, conseguente alla distruzione della Germania. Più ancora, Hitler voleva guadagnare tempo perché la Panzerwaffe tra poco avrebbe disposto dei carri Maus di 100 t., la Luftwaffe di numerosi aerei a reazione, la Kriegsmarine degli U-Boote XXI e XXVI, capaci di riprendere le distruzioni del 1942, e infine, perché nelle gallerie montane del Harz l’industria militare tedesca non era lontana dal mettere a disposizione dell’OKW l’energia atomica.
La più efficace difesa anticarro è l’acqua; e contro un territorio come l’olandese, sommerso per di più dalle inondazioni, non v’era altro metodo da praticare che quello dell’«accerchiamento verticale», cioè il lancio di truppe paracadutiste. Di qui l’iniziativa di Arnhem (16-27 settembre 1944) intesa ad aggirare dal nord la Siegfried, per penetrare in Vestfalia e per tagliar fuori la Ruhr; ma essa falliva dinanzi a una rapida concentrazione, di Tiger, Panther, Rhinoceros (cannoni automotori a cingolo Ferdinand), organizzata dalla difesa su passaggi predisposti contro i paracadutisti di Montgomery. I successi alleati d’Aquisgrana, Breda, Flessinga, Beveland, Walcheren, Metz, Strasburgo (dove i Francesi entravano il 23 novembre) avevano portata locale: il sistema difensivo tedesco in complesso teneva, conferendo un accento di verità alla propaganda di Goebbels, che parlava di progressi millimetrici degli Alleati. poiché gli Angloamericani erano in attesa di nuove forze e in fase di riorganizzazione, l’OKW decise la controffensiva delle Ardenne, che sorprese completamente il nemico. Si tendeva a raggiungere la Mosa, poi Anversa e soprattutto a distruggere la base di partenza e a catturare il materiale che gli Alleati approntavano per l’offensiva del 1945. Se Hitler fosse riuscito ad aggravare la crisi degli effettivi e dei rifomimenti dei nemici, prima che costoro fossero stati in grado di riprendere l’offensiva in grande, le armi nuove sarebbero state messe a punto. Di qui l’iniziativa di Rundstedt, il cui fallimento peraltro aggravò la situazione tedesca, resa rapidamente disperata dallo scatenamento dell’ultima offensiva invernale russa del 12 gennaio 1945. Il 26 dicembre Rundstedt era fermato; dovette poi ritirarsi, specie a causa del prepotere aereo degli Alleati e dell’offensiva di Ûukov, che impose il trasferimento sull’Oder della 6ª Panzerarmee. Così la Germania, dopo questo ultimo tentativo di ripresa, si riabbatteva su sé stessa, più debole che non alla vigilia del 26 dicembre.
Giovò notevolmente all’offensiva russa del 12 gennaio l’errore d’apprezzamento, cui si è già accennato, dell’OKW sulla presunta ubicazione dello sforzo principale dell’armata rossa in Ungheria. Invece il 12 gennaio l’offensiva fu scatenata sulla Vistola. Quest’ultima offensiva d’inverno venne attuata con copia eccezionale di mezzi: soltanto sul settore dell’attacco principale furono impegnati due fronti: il 1° d’Ucraina e il 1° della Russia Bianca, con circa 100-120 divisioni di fanteria, sostenute da 18 corpi blindati. La concentrazione media dell’artiglieria raggiunse la densità di 200 pezzi a chilometro e quella della fanteria, sui 750 km. dal Baltico ai Carpazi, raggiunse la densità che nel 1917 e 1918 Foch, Pétain, Haig avevano potuto ottenere solo su fronti d’attacco di 40-50 km. Per di più, l’aviazione sovietica compiva le sue evoluzioni su tutti i cieli della battaglia con la stessa indisturbata padronanza con cui la Luftwaffe aveva agito su Parigi dopo il 5 giugno 1940. Dinanzi ad una così gigantesca massa di rottura non rimase al gen. H. Guderian che disporsi dietro l’Oder, facendosi scudo dello spazio fra la Vistola e il grande fiume tedesco.
Per rendere più efficace l’azione del dispositivo d’offesa contro la Germania, alla conferenza di Jalta (4-12 febbraio 1945) i Tre Grandi concertarono i piani per realizzare un più stretto coordinamento dello sforzo militare, inteso a colpire il nemico da Est, da Ovest, da Nord e da Sud. I grandi attacchi combinati e alternati si giovarono di una delle maggiori azioni aeree della guerra. Il 22 febbraio 1945, circa 10.000 velivoli anglo-americani vennero lanciati all’attacco contro il sistema ferroviario tedesco: quasi 650.000 kmq. furono sconvolti e le ferrovie disorganizzate dalle distruzioni. La produzione bellica dopo quel giorno fu ridotta alla metà, il traffico al 10% e la Wehrmacht vide la fine della sua mobilità su vasta scala. In tal modo, il 23 fehbraio, il gen. Eisenhower scatenava sul fiume Roer l’attacco che doveva gradualmente investire e travolgere tutte le fortificazioni costruite a protezione della Germania occidentale, cioè le fortificazioni d’Olanda, della Mosa, della Maginot, della Siegfried, della Lorena, dell’Alsazia, del Reno. Lo sforzo principale dell’azione alleata ad Ovest del Reno si concentrò nel settore nord, allo scopo di occupare i punti di passaggio a settentrione della Ruhr; tutte le altre operazioni avevano principalmente lo scopo di favorire la riuscita di quella a nord. Il 26 marzo, l’intera riva sinistra del Reno era raggiunta da Basilea ad Arnhem, mentre i Russi, dopo essersi portati con un’avanzata folgorante dalla Vistola all’Oder in tre settimane, successivamente al 3 febbraio, diedero inizio al sanguinoso forzamento dell’Oder, seguìto dalla battaglia d’arresto sulla Neisse occidentale (3-23 febbraio 1945). La Werhmacht guadagnava il suo ultimo successo difensivo: ancora una volta, come dopo il 6 agosto 1944, Stalin e Antonov, nuovo capo di stato maggiore, consapevoli della propria incontrastata preponderanza, lasciavano a riposo il centro, per prepararlo all’ultimo balzo, e cominciavano un redditizio lavoro sulle due ali.
Il 20 marzo Stalin aveva eliminato tutti i pesi che gravavano sulle sue ali, il 23 scatenava la grande battaglia di Vienna, mentre gli Angloamericani, alle ore 21 dello stesso giorno, iniziavano la gigantesca offensiva finale dell’oltre Reno con un lancio di paracadutisti. Sperando ormai soltanto nei dissensi fra gli Alleati, e, in ogni caso, preferendo arrendersi agli Anglosassoni anziché ai Sovietici, l’OKW non opponeva più valida resistenza alle armate degli occidentali, che perciò avanzarono rapide verso l’Elba, mentre rinforzava di continuo la difesa opposta ai Russi: alla vigilia del 16 aprile, le divisioni tedesche sul fronte orientale erano salite a 182 e il 25 aprile a 193, dalle 135 della prima decade del gennaio 1945. Il 16 aprile, l’inizio della battaglia di Berlino o dell’epilogo segnava la fine di questo estremo tentativo politico della strategia di Hitler e di Guderian: la nuova e ultima delle grandi offensive della Russia e della guerra poneva fine alla Germania hitleriana.
La fine della guerra in Estremo Oriente. – La fine della guerra in Europa trovava il Giappone in pessime condizioni: le marine da guerra e mercantile quasi interamente perdute, l’aviazione ridotta alla disperata risorsa Kamikaze, tutti i territorî al di là delle «cinque isole» abbandonati a loro stessi. La riapertura della strada di Ledo-Burma (16 gennaio 1945), la liberazione di quasi tutta la Birmania (fine maggio), la signoria assoluta del cielo acquistata in Cina dagli Alleati, i progressi americani a Okinawa avevano portato a un rovesciamento totale della strategia giapponese: tutte le forze vennero concentrate a nord del Yang-tze kiang, che fu scelto come linea di difesa da presidiare sul continente senza previsioni di ulteriore ritirata; il resto, cioè la Cina del sud, l’Indocina, la Birmania, la Malesia, l’Indonesia, nonché la Nuova Guinea e le isole del Pacifico, fu abbandonato alle proprie risorse. Gli Americani, possedendo le Filippine, Iwo Jima e Okinawa, si trovavano nelle condizioni più opportune per lo scatenamento; se necessario, di un’offensiva aerea in grande stile. In attesa che Okinawa fosse trasformata in un unico aerodromo, i B-29, stanziati nelle Marianne, e i cacciatori Mustangs a grande raggio d’azione, stanziati a Iwo Jima, partivano a tempo perché nei cieli del Giappone i bombardieri fossero sostenuti contro i cacciatori nemici: la media delle sortite dalle basi delle Marianne era di 1200 alla settimana. Caduta Okinawa, la superficie dell’isola fu quasi tutta occupata da aeroporti, che si vennero colmando di bombadieri pesanti e medî e di aerei da caccia. Nella fase finale le forze aeree tattiche degli Stati Uniti comprendevano: la 5ª Air Force, di base a Okinawa e a Iwo Jima, la 13ª Air Force a Leyte, la 7ª a Saipan, la 14ª e la 10ª in Cina. Le forze aeree strategiche comprendevano: la 20ª Air Force, nelle Marianne, l’8ª (venuta dall’Europa dopo l’8 maggio) a Okinawa. A queste flotte aeree bisogna aggiungere l’aviazione imbarcata (Tosk Force) dell’amm. Mac Cain, che poteva lanciare contemporaneamente più di 1200 aerei (fra l’8 maggio e il 15 agosto, la sola marina disponeva nel Pacifico di 40.000 velivoli). Ai tipi già noti si era aggiunto, verso la fine delle ostilità, il bombardiere più recente, il B-32 (Dominator). Tutte le immense forze aeree americane riunivano in un’unica strategia d’assalto le isole nipponiche, le posizioni giapponesi sul continente asiatico e quanto rimaneva del naviglio bellico e mercantile.
Finita la guerra in Europa, anche le forze britanniche furono avviate verso l’Estremo Oriente per partecipare alla lotta nel quadro delle operazioni elaborate, dal 10 al 17 settembre 1944, alla conferenza di Quebec, fra Roosevelt, Churchill e i rispettivi stati maggiori. Siccome si prevedeva una resistenza massiccia e fanatica, il Consiglio dei capi di stato maggiore riuniti preparò i suoi piani in vista di una lotta contro un nemico, il quale disponeva nelle isole di un esercito di 2 milioni d’uomini e di un’aviazione di 8000 aerei d’ogni tipo, che da tempo risparmiava con cura per il giorno dell’invasione. Il comando supremo delle forze di terra fu conferito a Mac Arthur, delle forze di mare a Nimitz, delle aeree al gen. C. Spaatz; al gen. Mac Arthur e all’amm. Nimitz fu affidata l’esecuzione dei piani d’invasione elaborati a Washington. I piani erano due: col primo, ch’ebbe il nome di «operazione Olympic» veniva contemplato «un assalto a tridente nella regione meridionale dell’isola Kyùshù», da effettuare nell’autunno del 1945; col secondo, «operazione Coronet», veniva affidato a tre armate «il compito di distruggere l’esercito giapponese nella maggiore isola metropolitana», a cominciare dalla primavera del 1946.
Ma avvenne che il 17 maggio 1945 cominciasse con «un modesto inizio» l’attacco sugli obiettivi di Kyùshù; il ritmo delle incursioni aeree coordinate s’accrebbe rapidamente di giorno in giorno. Dal 2 luglio, B-29 e B-36 decollarono per la prima volta dagli aerodromi di Okinawa: da questo momento le operazioni combinate assunsero un ritmo massacrante. Scali ferroviarî, gallerie, ponti, rotaie, materiale rotabile, fabbriche (specie d’aerei), magazzini, basi di Kamikaze, raffinerie di petrolio, installazioni radar e depositi di carburante furono attaccati. Insieme alle grandi agglomerazioni industriali e alle «città aperte» vennero colpiti i porti e i resti delle flotte da guerra e mercantile. Il 18,24,25,28 luglio il naviglio bellico era completamente distrutto: delle 12 corazzate, orgoglio del Tenno, rimaneva solo la Nagato, gravemente colpita a Yokosuka. Mentre il sistema militare e la struttura economica e sociale dell’impero erano gravemente intaccati, l’aviazione nipponica economizzava ancora le sue ultime risorse per il giorno dell’invasione: siccome poi questa venne a mancare – almeno come operazione di guerra – si verificò che, in definitiva, «l’aviazione giapponese fu assente dalle battaglie aeree finali del Giappone».
A causa della progressiva distruzione delle sue capacità a fare la guerra, il Giappone era stato già battuto mediante l’impiego delle classiche armi aeronavali, quando, il 6 agosto, la bomba atomica cadeva su Hiroshima. Fu allora che un conflitto di così vaste proporzioni e che, secondo Churchill, poteva «durare ancora dai dodici ai diciotto mesi» dopo la fine della guerra in Europa, venì di colpo concluso dall’impiego di un’arma nuova. Il 9 agosto scoppiava su Nagasaki l’altra bomba atomica; nello stesso giorno, «per abbreviare la guerra e per manifestare la sua solidarietà con gli Alleati», l’URSS apriva le ostilità contro il Giappone. È necessario tener presente le dichiarazioni rese il 16 agosto da Churchill ai Comuni, per togliere all’intervento russo le apparenze «del colpo di pugnale alla schiena». Il vecchio statista inglese rivelò che nei colloqui con Stalin ci si era «da tempo accordati che la Russia avrebbe dichiarato guerra al Giappone entro tre mesi dal crollo dell’esercito tedesco».
La guerra era finita ufficialmente in Europa l’8 maggio; l’8 agosto (cioè entro i limiti precisi concordati), l’Unione Sovietica informava il Giappone che dal giorno seguente sarebbero cominciate le ostilità. Le quali si svolsero in Manciuria, che, con la sua forma di vasto saliente pianeggiante inserito profondamente nel corpo della Siberia orientale, facilitò la manovra di avvolgimento su tre direttrici del maresc. Vassilievskij. L’armata d’urto del Giappone, quella cioè del Kwang-Tung, di 700.000 uomini scelti e comandata dai migliori capi, non fu impegnata, perché fin dal 10 agosto il governo di Tükyü aveva comunicato ai governi svizzero e svedese di essere disposto ad accettare le condizioni di Potsdam. Il 15 agosto le ostilità cessavano anche in Estremo Oriente.
Bibl.: Delle sole opere generali: 1) Fonti documentarie: A) Sulla guerra in generale: gen. H. H. Arnold, First, Second, Thirt Report of the Commanding General of the Army Air Forces to the Secretary of War, Washington 1946 (molto importante in generale, e fondamentale per la guerra aerea); amm. E. J. King, U. S. Navy at War 1941-45 (Official Report), Washington 1946 (come sopra, ma per la guerra navale); gen. G. C. Marshall, First, Second, Third Biennal Report of the Chief of Staff of the U. S. Army, Washington 1941-46 (molto importanti il primo e secondo rapporto; del terzo rapporto, che è il documento più insigne di tutta la letteratura ufficiale della guerra, esiste una recente trad. ital. per il pubblico: La vittoria in Europa e nel Pacifico, Torino 1948); Admiralty, Fuehrer Conferences on Naval Affairs 1939-45, 7 voll., Londra 1947 (il materiale si riferisce più alla condotta militare e politica della guerra che ai soli problemi navali); Office of U. S. Chief of Counsel for Prosecution of Axis Criminality Nazi Conspiracy and Aggression, 8 voll., Washington 1946 (documentazione capitale, anche per le operazioni militari); The Trial of 14 German major War Criminals: Proceedings of the International Military Tribunal sitting at Nürnberg, Germany, 15 voll. (a oggi), Londra 1946-47 (riduz. ital. A. Degli Occhi, Il processo di Norimberga, 2 voll., Milano 1947); Dwight D. Eisenhower, Report by the Supreme Commander to the Combined Chiefs of Staff on the Operations in Europe of the Allied Expeditionary Force (6 june 1944 to 8 may 1945), Londra 1946.
B) Per l’Europa, il Mediterraneo e l’Estremo Oriente: Nazi-Soviet Relations 1939-41, Washington 1948 (importante per la fase iniziale della geurra all’est., trad. ital. in Relazioni internazionali, 21 febbraio 1948; The United States, Strategic Bombing Survey, Summary Report (European War), Washington 1945 (essenziale per la guerra aerea); Report by the Supreme Allied Commander Mediterranean to the Combined Chief of Staff on the Italian Campaign, Londra 1946 (fondamentale); Military Conclusions of the Teheran Conference, 1st December, 1943, Londra 1947; Protocol of the Proceedings of the Crimea Conference, Yalta, 11th February 1945, Londra 1947; Protocol of the Proceedings of the Berlin Conference, Berlin, 2nd August 1945, Londra 1947 (importanti per la coordinazione dei movimenti militari d’insieme); Records of Proceedings of the International Military Tribunal for the Far East, Tükyü 1946-47 (fondamentale, anche per gli avvenimenti militari in E. O.); Senate, 79th Congress, 2nd Session, Document n. 244: Investigation of the Pearl Harbor Attack (Report of the Joint Committee of the Investigation of the Pearl Harbor Attack), Washington 1946 (fondamentale per i preparativi e la fase iniziale delle operazioni); The Campaigns of the Pacific War. U. S. Strategic Bombing Survey, Washington 1946 (essenziale, anche per le sue considerazioni generali); The Campaigns, etc., Naval Analysis Division, Washington 1946 (interessante, per la luce che porta sui piani e sulle operazioni navali dei giapponesi).
2) Fonti memorialistiche: A) Sulla guerra in generale: W. Churchill, Into Battle, 1941; The unrelenting Struggle, 1942; The End of Beginning, 1943; Onwards to Victory, 1944; The Dawn of Liberation, 1945; Victory, 1946; Secret Session Speeches, 7 voll., Londra 1941-46 (molto importante, anche per le operazioni militari; riduz. ital., W. Churchill, In guerra: Discorsi, 2 voll., Milano 1947); id., The second World War, 2 voll. (fino ad ora), Londra 1948 (fondamentale; trad. ital., La seconda Guerra mondiale, 2 voll., Milano 1948); Hitler e Mussolini, Lettere e documenti, Milano 1946.
B) Per l’Europa, il Mediterraneo e l’Estremo Oriente: D. D. Eisenhower, Eisenhower’s Own Story of the War, New York 1946 (trad. ital.: Diario di guerra, Milano 1947); id., Crusade in Europe, New York 1948; B. L. Montgomery, Operations in North-West of Europe from 6th June 1944, to the 5th May 1945, Supplement London Gazette, 4 sett. 1946; Harry C. Butcher, My Three Years with Eisenhower, New York 1946 (trad. ital., Milano 1948); G. Stitt, Under Cunningham’s Command, Londra 1944; W.F. Halsey e G. Bryn, Adm., Halsey’s story, New York-Londra 1947 (essenziale per le operazioni navali nel Pacifico).
Trattazioni generali: gen. L.M. Chassin, Histoire militare de la seconde guerre mondiale, (fra i lavori sintetici sull’intero conflitto è, forse, a tutt’oggi, il più ragguardevole per le opearzioni terrestri); magg. Eddy Bauer, La guerre des blindes, Parigi 1947 (capitale per dottrina e accuratezza d’informazione); R. Bernotti, La guerra sui mari, I, II e III, Livorno 1948-49 (trattazione completa e di prima mano); E. S. Morison, History of U. S. Naval Operations in World War II: I, The battle of the Atlantic 1939-43; II, Operations in the North African Waters, October 1942 - June 1943, Boston 1947.
Hanno carattere espositivo: E. Merinaris, The War, 5 voll., Toronto-Oxford 1940-45; W. Root, The Secret History of the War, 2 voll., New York 1945; P. Belperron et G. Anderson, La deuxième guerre moindiale, Parigi 1946; ge. Bregeault, gen. Brossé, Hautcourt, La deuxième conflit mondial, Parigi 1946; Daily Telegraph, Story of the War, 2 voll., Londra 1946; J. Darcy, Histoire de la guerre, sept. 1939-août 1945, Parigi 1946; Historia de la secunda guerra mundial (ad opera di varî autori), 10 voll. (a oggi), Madrid 1941-47; F. Trevelyan Miller, History of World War II, Philadelphia 1946; A. Tosti, Storia della seconda guerra mondiale, 2 voll., Milano 1948; R. La Bryère, La guerre du Pacifique, Parigi 1945; P. Paquier et C. Postel, La bataille aérienne d’Allemagne (mars 1941-mai 1945), Parigi 1948.
Cronologie: R. Céré e Ch. Rousseau, Chronologie du conflit mondial, Parigi 1945; M. Hoden, Chronique des événements internationaux, juin 1940-décembre 1944, 3 volumi, Parigi 1945; U. Maraldi, Storia della seconda guerra mondiale, Milano 1946; Royal Institute of International Affairs, Chronology of the Second World War, Londra 1947; Ufficio storico S.M.E., Cronologia della seconda guerra mondiale, Roma 1948.
Gu. Gi.
Danni di guerra.
Col testo unico 27 marzo 1919, n. 426, la legislazione italiana, dopo un lungo e faticoso processo storico, accolse in pieno il principio del diritto soggettivo al risarcimento del danno di guerra, ma la legge 26 ottobre 1940, n. 1543, emanata per il risarcimento dei danni della seconda Guerra mondiale, si discosta notevolmente dalla precedente, soprattutto per quanto concerne il principio informatore, alla stregua del quale il risarcimento viene considerato più come atto di concessione dello stato che come oggetto di un vero e proprio diritto. A questo regresso che la nuova legge segna in confronto della precedente – la quale offriva al danneggiato ben altre garanzie – deve aver contribuito, oltre l’indirizzo politico, dominante nel 1940, che mal tollerava l’insorgere del privato contro l’autorità statale, anche l’esperienza della passata legislazione, la cui attuazione richiese un periodo di circa 18 anni, poiché il danneggiato sapendo che, per una più vantaggiosa liquidazione dei proprî danni, poteva rivolgersi a organi giurisdizionali, istituiti appunto per la tutela dei suoi interessi, ben raramente si induceva ad accettare la somma offerta in transazione dagli uffici liquidatori e a rinunziare al diritto di ricorso.
In un altro punto, la nuova legge si discosta sensibilmente dall’antica, cioè nei criterî di valutazione del danno risarcibile. Il testo unico del 1919 stabiliva che, per i danni ai beni mobili, l’indennità dovesse corrispondere alla somma occorrente per il loro riacquisto e, per gli immobili – segnatamente per i fabbricati –, alla somma occorrente per i lavori di ricostruzione o di riparazione, calcolata in base ai costi del momento in cui la ricostruzione o la riparazione avevano luogo. La nuova legge dispone, invece, che l’indennità per le cose mobili corrisponda al valore venale in comune commercio che esse avevano al momento del danno, e che per i beni immobili il risarcimento sia commisurato al valore che detti beni avevano nel mese precedente alla dichiarazione di guerra, diminuito del valore dell’eventuale parte residua. Notevole, altresì, la disposizione che conferisce agli uffici del Genio civile la facoltà di ripristinare anche fabbricati di proprietà privata, oltre agli edifici degli enti pubblici.
Una ultima differenza tra le due leggi è quella relativa alla diversa considerazione dei danni alle persone, che la nuova legge esclude del tutto dalla disciplina dei danni di guerra, mentre la legge del 1919 comprendeva tra questi la morte e la invalidità dovute a cause di guerra, conferendo ai familiari un diritto alla pensione privilegiata di guerra.
Ai danni alle persone provvede oggi, infatti, un’altra legge (18 agosto 1940, n. 1196), la quale conferma sostanzialmente, con alcune modificazioni e aggiunte per disciplinare casi particolari, le norme del testo unico 27 marzo 1919, n. 426, sul risarcimento dei danni di guerra.
In ogni altro punto, la nuova legge si richiama a quella precedente, di cui ripete i principî fondamentali, che sono sostanzialmente i seguenti: 1) il risarcimento è concesso alle persone fisiche e giuridiche che abbiano, rispettivamente, cittadinanza o nazionalità italiana. Per le persone fisiche, si richiede, inoltre, che non ahbiano riportato determinate condanne penali che, per la loro indole, rendano indegno il cittadino di partecipare ai benefici di qualsiasi genere concessi dallo stato; 2) è risarcibile soltanto il danno positivo o emergente, con esclusione di ogni forma di danni indiretti o di mancati lucri, comprendenti tutte le perdite – non facilmente definibili – che derivano dallo stato di guerra: per la sospensione o il rallentamento dei traffici, per il ristagno delle industrie, per l’abbandono dell’agricoltura, per la cessazione delle attività professionali e simili. Il danno emergente viene risarcito per intero, ma al principio della risarcibilità integrale sono poste limitazioni per i beni destinati a usi personali e familiari di lusso; 3) è sancito, salve opportune deroghe, l’obbligo del reimpiego delle indennità relative agli immobili e agli impianti industriali; 4) è vietata, in linea di massima, la cessione dell’indennità. Ne sono vietati anche il sequestro e il pignoramento, salvo che per credito alimentare. Opportune norme cautelano i diritti dei terzi che avevano privilegi, ipoteche e altri diritti reali sugli immobili distrutti o danneggiati, specie nell’ipotesi che la ricostruzione avvenga su terreno diverso e nell’altra che il danneggiato ottenga la dispensa dall’obbligo del reimpiego; 5) è posto il divieto di cumulare, con l’indennizzo concesso dallo stato, altri indennizzi da chiunque dovuti; 6) le domande di risarcimento dovevano essere presentate agli uffici liquidatori entro il termine di mesi sei dalla data di cessazione dello stato di guerra, prorogato, con successivo provvedimento, a tutto il 31 dicembre 1946.
Emanate, col r. decr. 16 dicembre 1940, n. 1957, le norme integrative e regolamentari, la legge 26 ottobre 1940 cominciò ad aver ovunque sollecita attuazione secondo le direttive del governo. Fra le circolari emanate dalla Ragioneria generale dello stato contenenti istruzioni varie per gli uffici liquidatori sulle principali disposizioni della legge, notevole, fra tutte, quella del 18 dicembre 1941, n. 92.573, riguardante alcune norme interpretative dell’art. 2 della legge, che definisce il «fatto di guerra». Un’importante innovazione alla legge fondamentale fu apportata dal decr. legisl. c. p. s. 6 settembre 1946, n. 226, che modificò, opportunamente integrandolo, il testo del suddetto tanto discusso art. 2. La legge del 1940, essendo stata emanata in un periodo in cui non si potevano prevedere le dimensioni che il conflitto avrebbe assunto e la estesa e profonda incidenza dei danni di guerra sul patrimonio pubblico e privato, è risultata in pratica di impossibile applicazione. Integralmente, inoltre, è stata attuata soltanto fino al settembre 1943, rimanendo successivamente in vigore nelle sole provincie occupate dai Tedeschi. Per questo fatto e per la frammentarietà dei varî provvedimenti emanati dal 1944 in poi – aventi natura più di pronto soccorso che di definitiva sistemazione del problema – si è andati perdendo di vista l’unità d’indirizzo e si è venuta a determinare una notevole sperequazione tra le varie categorie di danneggiati. Alcuni, infatti, hanno percepito tutto e subito, anche per quanto concerne i beni commerciali e industriali e gli immobili, ed altri, invece, poco o niente e limitatamente ai mobili di abitazione. La disposizione, adottata dal Ministero del tesoro (circol. 18 novembre 1944, n. 90.632), di corrispondere piccoli acconti ai meno abbienti per la perdita di masserizie e di effetti personali, non ha conseguito in genere il risultato voluto, perché nella maggioranza dei casi le somme non sono andate a ricostituire le masserizie distrutte o danneggiate.
S’impone, quindi, la necessità di elaborare al più presto una nuova regolamentazione generale del danno di guerra, unificando, coordinando e integrando le varie disposizioni finora emanate.
Il risarcimento dei danni di guerra nei territori già soggetti alla sovranità iialiana e all’estero. – La legge fondamentale sul risarcimento del danno di guerra del 1940 fu estesa ai territorî dell’Africa, già soggetti alla sovranità italiana, col r. decr. 14 giugno 1941, n. 964 (modificato con il r. decr. 22 febbraio 1943) e al possedimento italiano dell’Egeo, con r. decr. 8 dicembre 1941, n. 1600. L’applicazione di questi decreti venne deferita, rispettivamente, al ministero per l’Africa italiana e a quello per gli Affari esteri. Altro provvedimento, di cui è opportuno far cenno, è la legge 5 aprile 1943, n. 346, che autorizzava il ministro delle Finanze a concedere ai danneggiati, che ne avessero fatto richiesta, speciali mutui di favore con fondi erariali, nei casi in cui gli organi liquidatori non fossero in grado, per l’avvenuto abbandono dei detti territorî, di procedere all’accertamento e alla liquidazione del danno. Tale legge, però, non ha avuto finora alcuna applicazione, e non sono state neppure emanate le norme esecutive. Per quanto concerne specificatamente i danni subiti nei territorî dell’Africa italiana, il decr. luog. 30 novembre 1945, n. 879, provvide a estendere ai danneggiati di guerra profughi dall’Africa – eliminando, così, una stridente sperequazione – il trattamento di cui in atto beneficiavano i danneggiati della Madrepatria, relativamente alla concessione di acconti per i danni agli oggetti di vestiario, mobilio e altri arredi domestici.
Anche ai territorî dell’Albania, dopo la cessazione del conflitto italogreco, venne estesa la legge sui danni di guerra, mediante emanazione di una legge albanese (11 ottobre 1941), la cui applicazione era affidata ad organi composti in prevalenza di funzionarî italiani; ciò, in attuazione alla convenzione italo-albanese 6 settembre 1941, resa esecutiva con la legge italiana 20 novembre 1941, n. 1489. Gli oneri relativi dovevano gravare sull’erario italiano.
Per il risarcimento dei danni sofferti dagli Italiani all’estero, fu emanata la legge 28 settembre 1940, n. 1399 (la prima in ordine di tempo), fondata sui medesimi principî generali della legge organica, ma concepita in modo da lasciare alla direzione generale del Tesoro, che la applica, assistita da un apposito comitato consultivo, la più ampia libertà di azione nella valutazione del danno risarcibile. Alla direzione generale del Tesoro è affidata anche l’applicazione della legge 20 novembre 1941, n. 1432, con la quale furono emanate disposizioni, in deroga a quelle ordinarie, per il risarcimento dei danni sofferti all’estero dagli agenti diplomatici e consolari italiani in dipendenza di azioni belliche. Tali leggi, però, non hanno avuto finora alcuna applicazione, in mancanza di ogni e qualsiasi disposizione di attuazione. I danneggiati si sono limitati, in pratica, a presentare le domande, peraltro molto generiche, al Ministero degli affari esteri.
Con decr. legisl. 25 marzo 1948, n. 329, è stata costituita, presso il Ministero del tesoro una commissione per la concessione di acconti ai cittadini, profughi nel territorio nazionale, che hanno sofferto danni di guerra a beni mobili nei territorî, già italiani, delle isole dell’Egeo, della Dalmazia e della Venezia Giulia, esclusa la provincia di Pola, per la quale provvede l’ufficio stralcio presso l’Intendenza di finanza di Venezia. Gli acconti sono concessi per le medesime categorie di beni, nelle stesse misure e con le stesse limitazioni e modalità, osservando per queste ultime, per quanto è possibile, le disposizioni stabilite per la concessione di acconti ai danneggiati del territorio nazionale. Infine, con decr. legisl. 6 aprile 1948, n. 521, è stato disciplinato il risarcimento per la perdita di beni in Tunisia, in applicazione dell’art. 79 del trattato di pace.
Ricostituzione dei titoli di stato distrutti in relazione ad eventi bellici. Nel quadro generale della legislazione sul risarcimento dei danni di guerra, è stata data una disciplina legislativa autonoma alla ricostituzione dei titoli di stato distrutti a seguito di ordini della competente autorità, in relazione ad eventi bellici. Il provvedimento che regola la materia è il decr. legisl. c. p. s. 23 agosto 1946, n. 170, il quale autorizza la ricostituzione, mediante rilascio di nuovi titoli o rimborso di quelli scaduti o sorteggiati, dei titoli di stato al portatore, comunque giacenti presso la Banca d’ Italia ovvero presso aziende o istituti di credito, nel territorio nazionale o in paesi di oltremare, che siano stati distrutti a seguito di ordini della competente autorità.
Con decr. legge c. p. s. 20 agosto 1947, n. 1049, sono state poi dettate norme riguardanti la ricostituzione di titoli di stato distrutti, comunque, in dipendenza di eventi bellici, ed è stata data facoltà all’Amministrazione emittente di rilasciare, sulla scorta delle risultanze del verbale constatante la distruzione o, in mancanza, degli altri documenti sussidiarî, nuovi titoli ovvero di effettuare il rimborso di quelli scaduti o sorteggiati.
Agevolazioni fiscali e facilitazioni creditizie in favore dei danneggiati di guerra. – Tra le prime, sono da ricordare, quelle in materia di imposte dirette sui terreni e sul reddito agrario (decr. legge luog. 19 ottobre 1944, n. 384) e quelle previste in tema d’imposta straordinaria sul patrimonio (decr. legge c. p. s.39 marzo 1947, n. 143). Tra le seconde vanno menzionate le ratizzazioni per prestiti agrarî di esercizio e delle rate dei mutui per miglioramenti agrarî scadute e non pagate (decr. legisl. luog. 14 giugno 1945, n. 403) e il differimento della riscossione delle semestralità relative a mutui fondiarî ed edilizî garantiti sopra immobili danneggiati dalla guerra (decr. legisl. luog. 14 settembre 1945, n. 709).
Requisizioni alleate. – Mentre le requisizioni operate da truppe e autorità tedesche sono state considerate, ai fini del loro indennizzo, come veri e proprî danni di guerra, attraverso l’esplicita estensione a esse delle norme dettate con la legge fondamentale del 1940 (v. citato decr. legge c.p.s. 6 settembre 1946, n. 226, che reca modificazioni all’art. 2 della legge), le requisizioni effettuate, invece, dalle autorità alleate sono state fatte oggetto di una speciale disciplina legislativa, allo stesso titolo delle requisizioni disposte, per le necessità della guerra, dalle autorità italiane. Le norme in materia sono costituite dai decr. legge luog. 1 febbraio 1945, n. 46 e 4 gennaio 1946, n. 149, in forza dei quali l’indennità dovuta al proprietario degli autoveicoli e dei rimorchi di autoveicoli, requisiti dalle autorità alleate e da queste consegnati agli ispettorati compartimentali della motorizzazione civile, per l’uso e l’eventuale deterioramento degli stessi, è liquidata secondo i criterî stabiliti dal testo unico approvato con r. decr. 31 gennaio 1926, n. 452 e dal regolamento approvato dal r. decr. 11 dicembre 1927, n. 2598 e successive modificazioni. Inoltre, con r. decr. legisl. 21 maggio 1946, n. 451, recante norme concernenti il pagamento degli indennizzi per requisizioni e servizî per le truppe alleate, il Ministero del tesoro è stato autorizzato a provvedere al pagamento:1) dei materiali requisiti e acquistati dagli Alleati; 2) dei servizî loro prestati; 3) delle requisizioni di immobili; 4) dei danni dipendenti da azioni non di combattimento da parte degli Alleati o connessi con le loro requisizioni.
Recupero di beni asportati dai Tedeschi. – A seguito degli accordi tra il governo italiano e le N.U., che consentono il recupero di parte dei beni asportati dai Tedeschi, è stato approvato uno schema di decreto che disciplina la riconsegna dei beni stessi a chi ne era detentore.
Assunzi0ne e liquidazione, da parte dello stato dei debiti contratti dalle formazioni partigiane ai fini della lotta di liberazione. – Con decr. legisl. 19 aprile 1948, n. 517, viene disposto che lo stato assume le obbligazioni contratte dalle formazioni partigiane indicate nel decr. legisl. luog. 21 agosto 1945, n. 518, in corrispettivo di prestazioni pecuniarie o di forniture di beni o di servizî, e ne risponde, nei limiti stabiliti, sempre che risulti che dette prestazioni e forniture siano state fatte ai fini della lotta di liberazione. Non sono riconosciute le obbligazioni che, nel periodo clandestino, furono contratte a nord della linea gotica, senza autorizzazione del CVL.
Provvidenze in materia di ricostruzione. – Si tratta, nel complesso, di provvedimenti che mirano a restaurare la ricchezza nazionale distrutta e a riattivare l’efficienza produttiva del paese. Essi, che presuppongono il fatto oggettivo del danno di guerra, contemplano, in prevalenza, la concessione di contributi a fondo perduto (o in conto capitale) o di contributi sull’ammortamento di prestiti che determinati istituti di credito sono autorizzati ad accordare – talvolta con la garanzia dello stato – o dell’una e dell’altra agevolazione. Le principali sono:1) nel campo dell’industria: a) provvedimenti a favore di imprese industriali interessanti il riassetto della vita civile e la ripresa economica della nazione (decr. legisl. luog. 1 novembre 1944, n. 367, e successive modiflcazioni); b) provvedimenti regionali per la Sicilia e per la Sardegna (decr. legisl. luog. 28 dicembre 1944, nn. 416 e 417); c) finanziamenti per il ripristino e la riconversione di imprese industriali di interesse generale o di particolare utilità economica e sociale (decr. legisl. luog. 8 maggio 1946, n. 449); d) provvedimenti a favore delle industrie alberghiere e turistiche (r. decr. legisl. 29 maggio 1946, n. 453); 2) nel campo dell’agricoltura: a) contributi in conto capitale e interessi per il ripristino di opere fondiarie danneggiate dalla guerra mediante estensione dell’applicazione; b) incoraggiamenti per il ripristino delle opere di miglioramento fondiario distrutte o danneggiate da eventi bellici (decr. legisl. pres. 22 giugno 1946, n. 33); 3) nel campo dell’edilizia: a) riparazione e ricostruzione degli edifici di culto e di quelli degli enti pubblici di beneficenza danneggiati o distrutti da offese belliche (decr. legisl. pres.27 giugno 1946, n. 35); b) disposizioni per l’alloggio dei rimasti senza tetto in seguito ad eventi bellici e per l’attuazione dei piani di ricostruzione (decr. legge c. p. s. 10 aprile 1947, n. 261); 4) nel campo dei trasporti marittimi: provvidenze per il recupero e la rimessa in efficienza di navi mercantili sinistrate (decr. legisl. luog. 19 ottobre 1945, n. 686). Infine sono da ricordare il decr. legisl. luog. 7 giugno 1945, n. 322, che dispone agevolazioni tributarie per la ricostruzione edilizia e il decr. legge 26 marzo 1946, n. 221, contenente provvedimenti varî in materia di tasse e di imposte indirette sugli affari, sempre al fine di favorire la ricostruzione.
Cenni di legislazione Straniera. – Francia. – La legge del 28 ottobre 1946 ha ripreso due principî giuridici di diritto comune che erano già contenuti nella legge del 17 aprile 1919 e, cioè, anzitutto, un principio di giustizia – l’eguaglianza e la solidarietà di tutti i Francesi di fronte agli oneri della guerra – e, poi, il principio del risarcimento integrale dei danni di guerra, provato ch’essi siano certi, materiali e diretti. In sostanza, la legge del 1946 mira a eliminare gli inconvenienti che ebbero a verificarsi in sede di applicazione della legge del 1919, riconoscendo il diritto al risarcimento, solo alla espressa condizione che i sinistrati ricostituiscano effettivamente il bene distrutto per effetto della guerra. Affermati tali principî, la legislazione francese sui danni di guerra tratta:1) della determinazione degli elementi oggettivi e soggettivi che configurano la nozione di «danno di guerra»; 2) delle cose e dei soggetti ammessi al beneficio del risarcimento; 3) delle misure e modalità dell’indennizzo a seconda che si tratti: a) di immobili distrutti; b) di immobili danneggiati; c) di beni industriali, commerciali, agricoli, artigianali e professionali; d) di mobili d’uso corrente o familiare. È prevista, per i danni tanto immobiliari quanto mobiliari, la corresponsione di un acconto provvisorio di una certa consistenza in favore dei danneggiati, acconto il quale – per quanto riguarda i beni mobili – è aumentabile di determinate aliquote variabili per ciascun figlio, ascendente o qualsiasi altra persona a carico.
Gran Bretagna. – La scarsa rilevanza dei danni di guerra nella prima Guerra mondiale non dette luogo alla creazione di una legislazione particolare in materia; i danni della specie venivano coperti, prevalentemente, da compagnie assicuratrici. Durante la seconda Guerra mondiale, la prima legge emanata, il War damage act del marzo 1941, che contiene i principî generali della materia, fu modificata e completata dai War damage (amendment) acts del 1941,1942 e 1943; il complesso delle disposizioni è stato raccolto nel War damage act del 1943. Definita la natura del «danno di guerra» – che, nel complesso, non si discosta dalle concezioni di altri paesi – la legislazione britannica si differenzia, invece, profondamente dalle altre, per quanto riguarda i beneficiarî del risarcimento, giacché sono ammesse all’indennizzo tutte le persone fisiche e giuridiche che hanno assicurato i loro beni sia obbligatoriamente sia volontariamente. Così impostata, la legislazione inglese, che è la più liberale, non tiene conto della nazionalità dell’assicurato e non esclude i beni di lusso dal risarcimento, che è sottoposto solo a qualche limitazione.
Belgio. – Il principio del risarcimento del danno di guerra è riconosciuto dall’ultimo progetto di legge in materia (24 aprile 1946). Definito il concetto di «danno di guerra» e stabilito, come per la legislazione francese, che i danni risarcibili debbano essere diretti, materiali e certi, vien fatta una netta distinzione, agli effetti del risarcimento, fra danni ai beni immobili e danni ai beni mobili. Per la determinazione dell’indennizzo, si ha riguardo alla situazione patrimoniale dei danneggiati, come risulta dall’applicazione della legge 17 ottobre 1945 sull’imposta sul capitale.
Olanda. – La nozione del danno di guerra è concepita, dalla vigente legislazione, in senso piuttosto lato (oltre i danni diretti, sono compresi anche quelli indiretti ed è previsto un indennizzo, sia pure in misura meno elevata, per oggetti d’oro, quadri e gioielli). Circa la misura del risarcimento, è stabilito un indennizzo massimo, per i beni mobili, di 10.000 fiorini (corrispondenti a circa 450.000 franchi francesi). I beni sono calcolati in base al valore ch’essi avevano al 9 maggio 1940. Per i beni immobili, se le spese di ricostruzione sono inferiori a 3000 fiorini, il contributo di riparazione può essere del 100% o del 75%, a seconda della situazione finanziaria del sinistrato; se la spesa è superiore a 3000 fiorini, l’indennizzo è fissato in base al valore di vendita dell’immobile alla data del 9 maggio 1940 o in base all’importo delle spese di riparazione a quella data.
Valutazione dei danni di Guerra. – Non si hanno ancora elementi di sicura attendibilità sull’entità dei danni prodotti dalla guerra. Le valutazioni e gli studî sinora eseguiti in materia sono stati condotti con criterî prevalentemente deduttivi, sicché le cifre di cui si dispone hanno valore puramente indicativo e di larga massima. Le valutazioni che seguono sono state calcolate in base ai prezzi del 1945 e comprendono i danni subíti in Italia sia dai privati sia dallo stato ed enti pubblici.
Questa cifra non rappresenta ancora tutto l’ammontare dei danni di guerra, perché si limita alla valutazione dei danni subìti dai beni materiali, pubblici e privati con esclusione degli analoghi danni o perdite riguardanti le attrezzature belliche dell’esercito, della marina da guerra e dell’aeronautica. Non comprende, del pari, i danni di guerra sofferti dai cittadini italiani per la perdita dei loro capitali (sia per distruzioni vere e proprie, sia per requisizioni senza indennizzo o per altro titolo) investiti nelle colonie ed all’estero (soprattutto in Etiopia, in Albania e nel Dodecanneso). Le cifre ricordate più sopra si riferiscono ai danni di guerra in senso stretto e non comprendono altri danni che difficilmente potrebbero venire contabilizzati, come i danni alle persone per morte o invalidità temporanea o permanente e le perdite di reddito in conseguenza della riduzione del ritmo produttivo per cause belliche, né comprendono altri oneri che non si possono chiamare veri e proprî danni di guerra, ma che pur tuttavia costituiscono sacrifici non inferiori per la collettività.
Per quanto concerne i danni di guerra degli altri paesi, generalmente il problema vien posto come problema di riparazioni, nei confronti della Germania. In base al bilancio dei danni di guerra nel periodo 1939-45 che 18 paesi hanno presentato alla conferenza di Parigi sulle riparazioni (dicembre 1945) è stato possibile, anche a seguito di ulteriori rettifiche e aggiornamenti, ricostruire, nella tabella che segue, una prima situazione statistica dei danni di guerra per la Francia, il Belgio, l’Olanda e la Gran Bretagna.
Naturalmente, anche i dati che precedono non hanno alcun carattere di definitività e sono da accogliere, quindi, con beneficio d’inventario.
Bibl.: L. Boccini, Il problema dei danni di guerra, Bologna 1940 (con ampia bibliografia); A. Visco, La riparazione dei danni di guerra alla popolazione civile, Milano 1943; F. Parrillo, Economia postbellica e danni di guerra; Inventario dei danni; L’ora della nuova legge, in Danni di guerra, 1945; id., Alcuni dati sui danni di guerra all’estero, in Cifre, gennaio-febbraio 1946; Les dommages de guerre: étude comparée en France, Grande Bretagne, Belgique et Pays-Bas, in Études et conjoncture. Économie mondiale, maggio 1947. F. Par.
Legislazione italiana di guerra.
Assai numerosi furono i provvedimenti legislativi emanati in relazione con lo stato di guerra. Di essi alcuni riguardavano la mobilitazione militare e civile, nel senso più ampio, quindi anche l’assunzione di personale da parte dell’amministrazione dello stato, la sostituzione e il trattamento del personale civile sotto le armi (leggi 21 maggio 1940, n. 528;10 giugno 1940, n. 652;29 giugno 1940, n. 739); altri i contratti sottoscritti dalle amministrazioni dell’esercito, della marina e dell’aeronautica (legge 21 maggio 1940, n. 479) e la gestione patrimoniale e finanziaria dello stato in tempo di guerra (decr. 21 giugno 1940, n. 856; legge 21 giugno 1940, n. 769); disponevano il «blocco» dei prezzi, delle merci e dei servizî, delle costruzioni edilizie, degli impianti industriali e delle pigioni (decr. legge 19 giugno 1940, n. 953: v. casa, in questa App.) il risarcimento dei danni di guerra (v. sopra) e regolavano la complessa materia degli approvvigionamenti e consumi (v. in questa App.), delle materie prime, la protezione e la difesa antiaerea, ecc.
Dopo l’8 settembre 1943, data la situazione in cui venne a trovarsi il governo italiano, le attribuzioni spettanti al ministro guardasigilli per l’apposizione del «visto» alle leggi e ai decreti furono assunte dal capo del Governo con decr. 30 ottobre 1943, n.1-B. Con decreto dello stesso giorno, n. 2-B, furono sospese fino a nuova disposizione le norme relative all’apposizione del sigillo dello stato nei decreti, alla loro registrazione alla Corte dei conti e alla loro inserzione nella Raccolta ufficiale delle leggi e decreti. La formula esecutiva dei decreti, stabilita dall’art. 3 del T. U. 24 settembre 1931, n. 1256, venne sostituita dalla seguente: «Ordiniamo a chiunque spetti di osservare il presente decreto e di farlo osservare come legge dello stato». I decreti, ai fini della loro entrata in vigore, sarebbero stati pubblicati in una serie speciale della Gazzetta ufficiale, con numerazione autonoma seguita dalla lettera B. Tali decreti avrebbero dovuto essere muniti del sigillo dello stato, registrati alla Corte dei conti, inseriti nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti e pubblicati nella serie ordinaria della Gazzetta ufficiale non appena le circostanze lo avessero permesso. Fu disposto altresì che fino a nuova disposizione non avrebbero dovuto applicarsi le norme richiedenti il parere del Consiglio di stato, o di altri organi consultivi tecnici, per la emanazione dei decreti, o di altri provvedimenti, e nemmeno le norme richiedenti il visto e la registrazione alla Corte dei conti relativamente ai decreti ministeriali e ad altri atti soggetti al controllo di legittimità. Infine, con decreto dello stesso giorno, n. 3-B, fu disposta la pubblicazione presso la sede del Governo di una Gazzetta ufficiale – serie speciale – a cura del ministro di Grazia e Giustizia. La numerazione delle leggi e dei decreti per il rimanente anno 1943 doveva avere nuovo inizio da 1-B.
Altre disposizioni proibirono l’alienazione o la costituzione di diritti sui beni esteri o situati all’estero appartenenti a persone fisiche o giuridiche aventi la sede o la residenza nel territorio dello stato (decr. 15 novembre 1943, n. 7-B) e l’amministrazione dei beni di persone fisiche o giuridiche di nazionalità italiana che si trovassero in territorio occupato dal nemico (decr. 15 novembre 1943, n. 8-B); i funzionarî e dipendenti civili dello stato e di altre amministrazioni, residenti o dimoranti nei territorî liberati, che non avessero potuto raggiungere la loro sede di servizio per cause dipendenti dallo stato di guerra (decr. legge 3 gennaio 1944, n. 3); la sospensione del corso dei termini di prescrizione e dei termini perentorî, legali o convenzionali, portanti decadenza da un’azione, eccezione o diritto qualsiasi, quando sussistesse l’impossibilità di osservarli per cause dipendenti dallo stato di guerra avrebbero dovuto presentarsi alla Prefettura più vicina per essere avviati alla propria sede o destinati presso altri uffici (decr. legge 3 gennaio 1944,n.1): sospensione prorogata fino a sei mesi dopo la cessazione dello stato di guerra (decr. legisl. luogot. 24 dicembre 1944, n. 392). Il decr. legge 11 febbraio 1944, n. 31, dispose che, con la cessazione dell’amministrazione militare alleata, non avessero più vigore nei territorî liberati tutti i proclami e le ordinanze emanate dal governatore militare delle forze alleate o dai suoi delegati; rimaneva però ferma l’efficacia degli atti o fatti compiuti dalle autorità militari alleate, come delle sentenze pronunciate dai tribunali militari alleati.
Da ultimo, col decr. legge luog. 8 febbraio 1946, n. 46, fu stabilito che l’applicazione della legge di guerra e lo stato di guerra cessassero il 15 aprile 1946: con separato provvedimento sarebbe stato agevolato il passaggio della legislazione penale militare di guerra a quella di pace. Tutte le norme giuridiche e gli atti amministrativi o giudiziarî aventi carattere temporaneo in relazione alla durata delle ostilità o della guerra dovevano cessare di avere effetto alla data detta, salvo a decorrere da questa l’ulteriore periodo di efficacia per essi previsto. Rimasero invariati i termini che si fossero riferiti alla conclusione della pace o alla firma del trattato. Tali disposizioni dovevano valere anche per gli atti privati, purché non risultasse una diversa intenzione delle parti.