Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli anni in cui l’Occidente rigenera la lingua latina declinandola nei moderni linguaggi volgari e l’arte romanica impone quel “timbro occidentale che impronta i più alti valori creativi della civiltà artistica del Duecento” (Roberto Longhi), la millenaria tradizione bizantina continua a esercitare il suo primato, religioso e civile, sui territori dei Balcani, dell’Egitto, del Mar Nero, del Caucaso, dell’Asia Minore. E un’area dell’Europa, specialmente Italia, Francia, Paesi Bassi, si mostra ancora sensibile al potere di seduzione dell’arte imperiale d’Oriente.
Di recente, nel 2004, l’ultimo tempo dell’Impero Romano d’Oriente è stato evocato da una mostra realizzata dal Metropolitan Museum di New York, Bisanzio, fede e potere 1261-1557. Una mostra splendente e coraggiosa, che racconta la storia di un mondo in declino dopo il saccheggio della quarta crociata, anno 1204.
Sulle rovine s’innesta il sogno della Rinascenza paleologa con la figura di Michele VIII (1223-1282), rientrato dall’esilio a Nicea e salito sul trono di Bisanzio nel 1261. Un sogno appunto, quello di restituire alla capitale la sua magnificenza promuovendo l’architettura, la decorazione ad affresco e a mosaico e costituendo un tesoro di reliquari, libri miniati, vesti liturgiche, oggetti rari e preziosi che rilanciano la fede ortodossa sotto l’icona protettrice della Vergine Odigitria (la Vergine che indica con la mano il Figlio misericordioso).
Un sogno definitivamente infranto dalla presa turca di Costantinopoli (1453) quando il sultano Maometto II (1432-1481), fiero sul cavallo bianco, varca la soglia della cattedrale di Santa Sofia “fra i cadaveri che galleggiavano nel sangue come meloni”. La citazione è stralciata dal diario del testimone veneziano Niccolò Barbaro (XV sec.) e suggella drammaticamente la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, quando l’assalto nel nome di Allah, sferrato alla città cristianissima di Costantinopoli erede della magnificenza di Roma, segna il primo brutale scontro di civiltà e religione fra Oriente e Occidente, “la seconda morte di Omero e Platone”, come la definisce Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), che intuisce il carattere epocale dello scontro e le sue conseguenze irreversibili sulla geografia dell’intero mondo.
Ferite mai più rimarginate, precedute da un tempo di decadenza e di lacerante percezione della fine come raccontano, nel 1391-92, le lettere dell’imperatore cristiano Manuele II (1350-1425), costretto ad aiutare il nemico ottomano fra le città in rovina dell’Asia: “per un uomo di fede, per un uomo che ami la civiltà ellenica questo, io credo, è un fardello che nemmeno il mitico Atlante potrebbe portare sulle sue spalle”.
Liquidato troppe volte sul piano dell’arte con l’etichetta di tardo-bizantino, questo mondo ha subito una condanna senza appello in un proclama famoso di Roberto Longhi (1890-1970), il Giudizio sul Duecento, pubblicato nel 1939. Nessuno oggi potrebbe sottoscriverlo, per quella censura dell’arte bizantina sviluppatasi dopo l’età di Giustiniano (483-565 d.C.), un’arte che, a partire dal VII secolo d.C., avrebbe perduto la sua creatività e dunque ogni autonomia. Un’arte marginalizzata come arcaica e primitiva rispetto al canone dell’arte occidentale (già Vasari, nel Cinquecento, attribuisce a Cimabue il merito di avere superato la “maniera goffa” dei pittori bizantini) e interpretata a lungo come un precedente piuttosto che come un’esperienza contemporanea all’arte medievale europea.
Per ritornare al Giudizio di Longhi, nessuno oggi potrebbe ancora usare la parola “sterilità” di fronte a invenzioni memorabili come quella del Cristo che muore in un mare di stelle nell’epithafios del monastero di Meteora in Grecia, una seta liturgica sfarzosa e ricamata che si utilizza nel rituale della Passione (1290 ca.).
Icone, mosaici, tessuti magnifici, salteri e antifonari miniati, reliquiari d’argento plasmati sulle forme dei pezzi anatomici conservati all’interno, smalti, gemme e avori intagliati compongono il campionario intensamente religioso di tanti capolavori scampati alla distruzione. E confermano ancora una volta come i sistemi socio-economici e quelli della creatività non si connettano per collegamenti necessariamente causali: le arti, infatti, rifulgono nel crollo dell’impero, e le insegne del potere non sono mai state così fulgide come nel loros (1309-11) di Manuele II Paleologo, la stola tempestata di rubini che è prerogativa dell’imperatore.
Ma sono le icone la vera essenza di una dottrina teologica che astrae dal tempo storico per scandirsi in un tempo liturgico, che scavalca lo spazio reale per attingere a quello della trascendenza, dove l’azione si situa al di là di ogni legge terrena. Un’azione cifrata, simbolica, destinata all’eternità. Perché sono appunto le icone raffigurate sull’astratto fondale dell’oro il punto focale dell’incontro con Dio. Icone monumentali dipinte su tavola e icone portatili realizzate in oro, argento, avorio, smalto. Icone spettrali e temibili come il Volto Santo totemico (sec. XIII) conservato nella cattedrale di Laon, in Piccardia, oppure icone miracolose e toccanti come la Vergine della tenerezza (la tipologia è quella codificata della Vergine Eleousa, l’icona risale al primo Trecento), venuta dall’Oriente e approdata alla cattedrale francese di Cambrai, Notre-Dame de Grâce; dove il bambino s’inerpica sul manto della mamma per insinuarsi nell’alveo del collo, in cerca di un umanissimo abbraccio.
O ancora le tantissime icone conservate nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, luogo biblico di Mosè, luogo del roveto ardente e dei dieci comandamenti. In quella piana deserta, geograficamente isolata, una comunità monastica si raccoglie nella preghiera dai tempi di Giustiniano (per continuità, è il monastero più antico del mondo), proteggendo un vero tesoro della civiltà ortodossa, quelle immagini dell’VIII e del IX secolo (altre se ne sono aggiunte) che sono state ovunque distrutte dall’onda iconoclasta bizantina. Ma non ai piedi del Sinai, già allora territorio controllato – vale a dire protetto – dall’Islam.
Le sacre icone sono un investimento per l’Impero di Bisanzio.
Dopo che l’Impero d’Oriente si è dissolto come entità politica, il suo patrimonio culturale continua a nutrire la spiritualità e l’immaginazione dell’Europa.
Evidente è la seduzione esercitata da Bisanzio sull’Europa del Rinascimento, ormai uscita dalla crisalide bizantina per librarsi nell’Evo moderno.
Gli artisti che rielaborano le Imago pietatis del Cristo umiliato e vittorioso (il Cristo è raffigurato in posizione eretta, il busto fuori dal sepolcro, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul ventre) o le Madonne aristocratiche che stringono un Bambino segnato da una pena cosmica, sono niente meno che Jan van Eyck (1390 ca. - 1441), Rogier van der Weyden (1399 ca. - 1464), Hans Memling (1435/40 - 1494), Michele Giambono (attivo 1420 - 1462), Giovanni Bellini (1430/35 - 1516), vale a dire i protagonisti del Rinascimento. Fino all’ultimo eroe di Bisanzio, El Greco (1541-1614) venuto da Creta che, all’interno di un grande scudo (Madrid, collezione privata), dipinge il velo leggendario della Veronica, l’antico Mandylion, con impresso un volto di Cristo ormai vero e scioccante come nel film di Mel Gibson, The Passion of the Christ, 2004.
L’ombra lunga dell’Impero d’Oriente trasmette ancora a un’Europa, in quegli anni decisamente più creativa e dinamica, il suo retaggio di spiritualità e trascendenza. Intrisa di naturalismo occidentale, l’icona palpita ora di sentimenti e tracima di sangue purpureo, pur restando portale misterioso che apre sul cielo, luogo d’incontro fra l’uomo e il suo Dio.