Segreto di Stato e prova penale
Il legislatore, nel tentativo di riordinare la disciplina del segreto di Stato, dà vita ad una riforma largamente condivisibile sul piano sistematico, ma assai poco lineare sul fronte delle singole previsioni normative. L’obiettivo appare quello di garantire, anche in seno al processo penale, una tutela oggettiva ed assoluta degli arcana, così superando le pause relativistiche del sistema previgente. Tuttavia, la tecnica redazionale risulta a dir poco discutibile: su un terreno disseminato di previsioni disorganiche germogliano esegesi divaricate rispetto al risultato cui dichiaratamente mira la riforma. La Consulta – chiamata a risolvere ripetuti ed intricati conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato – si spinge fino ad una ricomposizione ortopedica delle fratture normative. Il risultato – al quale finisce per adeguarsi anche la Suprema Corte – si rivela del tutto apprezzabile solo nella misura in cui resti fermo il doveroso controllo, anche endoprocessuale, sul rispetto dei limiti di legittima apposizione, opposizione e conferma del segreto.
Un corretto approccio al tema dei rapporti tra segreto di Stato e prova penale impone di muoversi lungo una duplice direttrice: per un verso, va sottolineata l’intima connessione che lega la riforma della disciplina processuale del segreto di Stato alla concomitante pendenza di vicende giudiziarie destinate ad essere risolte proprio in applicazione della normativa de qua; per un altro verso, va subito denunciata la sorprendente inadeguatezza (soprattutto sul fronte della tecnica redazionale) dell’intervento nomopoietico. Patologia, quest’ultima, che si rivela ancor più grave, ove si consideri come – vieppiù in ragione dei princìpi espressi dalla consolidata giurisprudenza costituzionale sul punto – fosse a tutti chiara la necessità di garantire al segreto di Stato una tutela oggettiva ed assoluta, anche in seno al processo penale1: il legislatore, in effetti, sembra aver recepito tale impostazione sul piano sistematico, salvo poi essersi rivelato incapace
di redigere disposizioni normative inequivocamente rispondenti alla ratio ispiratrice della riforma.
Gli accadimenti più recenti confermano la solidità del binario sul quale poggiano i rilievi dianzi evidenziati: un’unica vicenda giudiziaria – quella relativa al sequestro di persona consumato in danno di Nasr Osama Mustafa Hassan (alias Abu Omar) – fa registrare nei giudizi di merito una doppia declaratoria di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato.
Al successivo annullamento con rinvio deciso dalla Suprema Corte segue la condanna pronunciata dal secondo giudice di appello, a sua volta annullata senza rinvio all’esito del nuovo giudizio di legittimità.
Non basta: all’ultimo non liquet la Cassazione si dichiara “indotta” dalle concomitanti decisioni adottate dalla Consulta nel dirimere ben sette conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato sollevati,medio tempore, in ordine alla medesima vicenda processuale.
Il tutto senza contare che, nel frattempo, è divenuta irrevocabile la condanna pronunciata a carico degli originari coimputati (per lo più appartenenti alla CIA), quali concorrenti nel medesimo reato.
Ci sono elementi sufficienti, all’evidenza, per ritenere verificato l’assunto di partenza: le norme di nuovo conio vedono la luce in un momento in cui le principali problematiche sono già emerse nell’ambito della vicenda processuale di cui trattasi, sicché – anche a voler prescindere dall’approccio che il legislatore avesse ritenuto di dover prediligere – l’intervento avrebbe dovuto consentirne una inequivoca soluzione.
Nient’affatto: i contrasti interpretativi (conclamati dai difformi esiti dei rispettivi giudizi) palesano, unitamente ad un inedito proliferare di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, la deprecabile fallacia della tecnica redazionale utilizzata nel dar corpo ad un impianto normativo le cui basi sistematiche risultavano ab initio chiare e largamente condivise.
Sono due i temi sui quali si registrano le più marcate divergenze: se ed entro quali limiti l’obbligo di astensione sui fatti segreti gravi anche in capo all’imputato; quale sia l’esatto ambito di operatività del vincolo di segretezza rispetto alle legittime istanze accertative proprie del processo penale. Non a caso, le rispettive disposizioni di riferimento sono assurte fin da subito ad emblema della ritrosìa legislativa a produrre norme improntate ai necessari canoni di chiarezza (anche lessicale) ed equilibrio.
2.1 Il silenzio dell’imputato
Le questioni relative al contegno dichiarativo dell’imputato – per quanto già affrontate dalla Consulta nel 2009 e nel 2012 – conservano una certa rilevanza anche rispetto agli approdi giurisprudenziali dell’ultimo anno. Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare come – sul piano sistematico – sia ineccepibile la scelta volta ad imporre anche all’imputato l’obbligo di astenersi dal rendere dichiarazioni su fatti coperti dal segreto di Stato2. Ad apparire sorprendente, invece, è lo strumento che il legislatore ha ritenuto di utilizzare: nonostante tutte le modifiche introdotte dalla novella del 2007 in ordine alla disciplina processuale degli arcana abbiano inciso direttamente sulle relative previsioni codicistiche, il tema de quo ne è restato inspiegabilmente escluso. Da qui la necessità di verificare se l’art. 41 l. 3.8.2007, n. 124 – le cui disposizioni, come detto, patiscono un irragionevole esilio extra codicem – nell’introdurre un generico «divieto di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto di Stato», legittimi l’imposizione dell’obbligo di astensione anche in capo all’imputato.
L’interpretazione estensiva, per quanto auspicabile, appare audace; eppure, soccorre (si dovrebbe dire fortunosamente, perché priva di un pur minimo supporto argomentativo, oltre che di un diretto legame con il thema decidendum) l’incidentale ed inattesa indicazione offerta al riguardo dalla Corte costituzionale3: quest’ultima – movendo dal rilievo per cui «l’art. 41 della legge n. 124 del 2007 ha inteso conferire portata generale a tale obbligo, stabilendo, infatti, che ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati ed agli incaricati di pubblico servizio è fatto divieto di riferire riguardo a fatti coperti da segreto di Stato» – ha affermato che le conseguenti prescrizioni imposte da detta norma risulterebbero applicabili ogniqualvolta il segreto venga opposto dai richiamati soggetti pubblici «anche in qualità di indagati o imputati»4.
Il singolare intreccio di decisioni che si succedono nell’ambito della medesima vicenda processuale fa sì che sia la Corte di cassazione – con la stessa pronuncia parzialmente censurata, poi, dalla sentenza costituzionale n. 24/20145 – a valorizzare una simile esegesi: «la soluzione interpretativa adottata dalla Consulta [è] quella che meglio garantisce un equilibrio fra il diritto alla difesa e la necessità di tutelare beni fondamentali per la stessa sopravvivenza della Repubblica»6. In tal senso, secondo la Suprema Corte, occorre tenere «conto non solo della volontà del legislatore, peraltro sottolineata con forza nel corso del dibattito parlamentare, ma anche del dato oggettivo emergente dalle singole disposizioni che con la legge n. 124 del 2007 e con le norme novellate del codice di procedura penale il legislatore non ha inteso creare una immunità soggettiva per gli agenti del servizio di informazione per la sicurezza, ma ha voluto tutelare il segreto su fatti, notizie, atti che, se noti, potrebbero mettere a rischio beni essenziali per la vita della Repubblica, ivi compresa la stessa integrità dello Stato»7.
2.2 L’oggetto del segreto
Una volta risolto – non senza strascichi polemici – il problema della loquacità dell’imputato, la Consulta è stata chiamata a dirimere – nell’ambito di due nuovi conflitti di attribuzione, pur sempre relativi alla medesima vicenda processuale – la diversa questione, altrettanto delicata, relativa all’esatta individuazione dell’oggetto del segreto. In realtà, anche in questo caso, la soluzione risponde innanzitutto a ragioni di logica e di coerenza sistematica, giacché il tema risente dell’ineludibile esigenza di garantire al segreto una tutela oggettiva ed assoluta.
Sta di fatto che per ricomporre i disequilibri positivi occorre un’operazione di ortopedia ermeneutica, avente ad oggetto le eterogenee espressioni lessicali utilizzate per regolare gli effetti, tra loro necessariamente omologhi, derivanti dalla opposizione del segreto e dalle relative procedure di conferma (art. 202 c.p.p.)8. Com’è chiaro, la genesi delle paventate disfunzioni coincide con l’inutile proliferare dei sostantivi con cui il legislatore ha inteso riferirsi al segretabile: un’adeguata tecnica nomopoietica avrebbe imposto di limitarsi a distinguere il “fatto” dalla “prova”; viceversa, all’immutato riferimento ai «fatti coperti dal segreto» (art. 202, co. 1, c.p.p.) segue una locuzione diversa per ognuno dei successivi commi.
Fortunatamente, la reductio ad unum non appare un’operazione impossibile, visto che la norma, nella sua portata complessiva,esprime un principio immanente al sistema: il provvedimento di conferma rende inesplorabile con qualsiasi mezzo quanto attiene alla salus reipublicae (art. 202, co. 5, c.p.p.); tuttavia, ove il fatto oggetto di imputazione non coincida con quello coperto dagli arcana, le istanze accertative possono (rectius, debbono) comunque essere soddisfatte, essendo legittimamente fruibile qualsivoglia risorsa probatoria non incisa dal segreto. Tali dinamiche, peraltro, risultano pienamente aderenti alle indicazioni più volte offerte dalla Corte costituzionale per un’adeguata disciplina della materia: richiamando alcuni princìpi già espressi in precedenti pronunce, il Giudice delle leggi – anche dopo l’entrata in vigore della novella del 2007 – ha affermato che «l’opposizione del segreto di Stato non può avere l’effetto di impedire che il pubblico ministero indaghi sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso, ed eserciti se del caso l’azione penale, ma solo quello di inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto»9.
Da ultimo, con la sentenza n. 24/2014, la Consulta sembra completare il riordino imposto dalla deprecabile fluidità del dato normativo: «i documenti e le notizie riguardanti i rapporti tra i Servizi italiani e quelli stranieri» (id est, quel che nel caso di specie costituisce l’oggetto del segreto) divengono – secondo un’opzione lessicale valorizzata dalla Corte anche mediante l’uso del virgolettato – i “fatti” sottratti alla conoscenza processuale. Ad essere preclusa, dunque, non è la fruibilità del singolo mezzo di prova, ma la dimostrabilità del fatto stesso: per dirla in sintesi, quel fatto non può costituire oggetto di alcuna prova.
La soluzione, per un verso, rafforza l’ormai indiscutibile riconoscimento di una tutela oggettiva al segreto di Stato, trattandosi di strumento «afferente la tutela della salus rei publicae e, dunque, tale da coinvolgere un interesse preminente su qualunque altro, perché riguardante la esistenza stessa dello Stato, un aspetto del quale è la giurisdizione»; per un altro verso e conseguentemente, rinsalda la coerenza di una decisione con cui si esclude «anche sul piano logico, la possibilità che… possa essere “interpretato”… lo spazio operativo» di un siffatto limite probatorio.
Sul piano pratico – vale a dire con riguardo alla vicenda processuale relativa al sequestro di Abu Omar, nel cui ambito sono stati sollevati i conflitti di attribuzione che la Consulta ha risolto nei termini dianzi indicati – la pronuncia costituzionale del 2014 produce effetti tanto sulle decisioni già assunte, quanto sull’esito del procedimento.
Per un verso, viene annullata la sentenza con cui la Corte di cassazione aveva ritenuto che il non liquet pronunciato dai giudici di merito rappresentasse una resa ingiustificata della funzione giurisdizionale dinnanzi ad una impropria dilatazione dell’ambito di legittima operatività del segreto, tanto che quest’ultimo – quasi fosse stato un “sipario nero” – avrebbe reso imperscrutabili i gravi fatti proiettati sulla scena processuale10. In linea di immediata consequenzialità
logica, viene annullata anche la successiva decisione con cui la Corte distrettuale milanese – recependo, quale giudice del rinvio, i princìpi espressi dalla suprema Corte – aveva pronunciato sentenza di condanna nei confronti degli imputati11.
Per un altro verso, la Corte di cassazione – investita del nuovo giudizio di legittimità introdotto, medio tempore, mediante il ricorso proposto dagli imputati avverso la sentenza di condanna – ha dichiaratamente assunto una decisione che è «profondamente incisa e radicalmente contrassegnata da quella sopra riportata n. 24/2014 della Corte costituzionale – di cui [ha dichiarato di dovere] istituzionalmente prendere atto – fino a porsi quale effetto consequenziale, diretto e costituzionalmente ineludibile della stessa»12. In buona sostanza, per sua stessa (sembrerebbe doversi dire amara) ammissione, all’Organo nomofilattico «non resta che prendere atto da un lato che non residuano, e non possono residuare, prove esterne a quell’ampio perimetro così inaspettatamente tracciato dalla sentenza ultima della Corte costituzionale, dall’altro che i pronunciati annullamenti da parte della stessa Consulta, pur formalmente aperti ad ulteriori conclusioni in capo all’Autorità giudiziaria competente, cui è rimesso l’esito finale, in sostanza chiudono ex se il cerchio decisorio»13: non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato.
Con la sentenza n. 20447/2014, la Suprema Corte sembra dar corpo (per la verità, senza farne mistero) ad una amara resa più che ad un convinto ossequio alla decisione della Consulta: con lealtà e concretezza, la Cassazione chiarisce che «i ricorsi degli imputati diventano oggi, e solo oggi, fondati sulla forza dirompente – in quanto dilacerante ogni diverso tessuto decisorio finora assunto – del sopravvenuto ultimo dictum del Giudice del conflitto tra poteri».
Il disappunto – tutto logico-giuridico, beninteso – è tanto palese da non poter restare inascoltato.
In questa sede, tuttavia, non appare lecito soffermarsi sulle peculiarità del caso di specie, dovendosi valorizzare quei profili capaci di incidere sulla materia in esame travalicando gli angusti confini della singola vicenda giudiziaria: secondo la Suprema Corte, la pronuncia della Consulta «sembra abbattere alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di segretazione in capo alla competente autorità amministrativa, con compressione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità dell’autorità politica, il che non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo». Orbene, vi è una sola leva capace di rendere superabile l’allarmante disfunzione denunciata dalla Cassazione e, conseguentemente, di conservare piena coerenza all’intervento della Consulta: il percorso tracciato dalla giurisprudenza costituzionale vale solo e soltanto «a condizione che [i fatti coperti dal segreto] siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato»14. In buona sostanza, il sistema così congegnato funziona solo nella misura in cui l’autorità politica eserciti il proprio potere di segretazione nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento: ogni eventuale divagazione (senz’altro illegittima) deve essere arginata mediante l’immediata attivazione dei previsti meccanismi di controllo. In quest’ambito, ove ritualmente investita della questione, la Corte costituzionale può e deve giocare un ruolo decisivo. Pertanto – a fronte di un dato normativo di riferimento che, anche sul punto, non appare immune da smagliature (artt. 202, co. 7 e 8, 204 c.p.p. e 66 disp. att. c.p.p.) – il percorso interpretativo deve necessariamente essere completato nel senso di consacrare la Consulta quale autentico “Giudice del segreto”15.
La centralità della questione non lascia spazio ad esitazioni: con la stessa fermezza con cui si è sostenuta la necessaria oggettivizzazione dell’ambito di tutela del segreto, si deve affermare l’irrinunciabilità del controllo “processuale” della Corte sullo stesso. In poche parole, le conseguenze derivanti dall’illegittimo (o, peggio, abusivo) esercizio del potere di segretazione (che la legge vuole discrezionale, ma non certo arbitrario) da parte dell’esecutivo non possono che operare in due distinti ambiti: una cosa è la “sanzione” politica che il Parlamento intenda comminare a chi si sia spinto oltre i limiti del legittimamente segretabile; altra cosa è rimuovere l’indebito ed insopportabile ostacolo al legittimo esercizio della funzione giurisdizionale che, per ipotesi, venga originato, nell’ambito di una singola vicenda processuale, dalla segregazione del quod principi placet.
Sul punto, la Consulta sembra non aver ancora assunto una posizione chiara16; sicché alcune affermazioni della stessa, effettivamente poco convincenti, hanno suscitato in dottrina la forte preoccupazione di una sibillina anticipazione del rifiuto di compiere una (invece doverosa) verifica “endo-processuale” della legittimità del vincolo di segretezza17.
Al contrario, occorre dare senso logico ad una delle poche norme ben strutturate dal legislatore della riforma (id est, quella in forza della quale «in nessun caso il segreto di Stato è opponibile allaCorte costituzionale», che, non a caso, «adotta le necessarie garanzie per la segretezza del procedimento»): pertanto, non può non riconoscersi alla Consulta – ove ritualmente investita della questione dall’autorità giudiziaria – il potere (rectius, il dovere) di accertare il mantenimento della segretazione nell’ambito della legittima discrezionalità.
1 Per una diffusa disamina della nuova disciplina processuale del segreto di Stato, sia consentito rinviare a Bonzano, C., Il segreto di Stato nel processo penale, Padova, 2010.
2 Cfr. C. cost., 3.4.2009, n. 106, in Giur. cost., 2009, 951; nonché, più diffusamente, C. cost., 23.2.2012, n. 40, ivi, 2012, 486. L’impostazione è apertamente condivisa, proprio sul piano sistematico, dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. pen., sez. V, 29.11.2012, n. 46340, Pollari ed altri, in Riv. dir. int., 2013, 272). In dottrina, tuttavia, residuano autorevoli posizioni di segno contrario (Orlandi, R.,Una pervicace difesa del segreto di Stato, inGiur. cost., 2012, 2327; Pace, A., Sull’asserita applicabilità all’imputato dell’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato e sull’inesistenza dei “fatti eversivi” come autonoma fattispecie di reato, ibidem, 526).
3 Cfr. C. cost. n. 106/2009, cit., 951. In dottrina, peraltro, non sono mancate forti stigmatizzazioni delle modalità con cui la Corte ha inteso prendere posizione sull’argomento: in particolare, è stato rilevato che, ricorrendo ad «un obiter dictum estraneo al thema decidendum, sembra suggerire agli imputati un commodus discessus dalla vicenda in corso» (così Fanchiotti, V., Stato di diritto e ragion di Stato: il caso Abu Omar e la Consulta, in Questione giust., 2009, fasc. 3, 10).
4 Conformemente, in termini assai più diffusi e puntuali, C. cost. n. 40/2012, cit., 486. Anche con riferimento a tale pronuncia si è cercato di comprendere «perché mai la Corte costituzionale abbia avvertito l’esigenza di dedicare tutta questa attenzione all’art. 41 della legge n. 124 del 2007. Non si trattava di questione toccata dal conflitto, né di questione pregiudiziale ai quesiti posti dal giudice ricorrente. Non c’era alcuna controversia al riguardo. Il giudice ricorrente dava anzi per scontata l’applicazione del citato art. 41 all’imputato » (Orlandi, R., Una pervicace difesa, cit., 2328).
5 C. cost., 13.2.2014, n. 24, in Arch. pen. web, 2014, con nota di Bonzano, C., La Consulta alza il “sipario nero”: alla ribalta la deprecabile confusione normativa tra prova e fatto.
6 Cass. pen., sez. V, 29.11.2012, cit., 272.
7 La pronuncia non è di poco rilievo, giacché autorevoli censure sono state mosse alle precedenti decisioni della Consulta sul punto proprio perché «non spetta alla Corte costituzionale, bensì alla Corte di cassazione stabilire l’esatta interpretazione di una norma di legge» (così, Orlandi, R., Una pervicace difesa, cit., 2328)
8 La necessaria omologazione degli effetti è imposta da ragioni logiche (Spangher, G., La pratica del processo penale, III, Padova, 2014, 518).
9 Così C. cost. n. 106/2009, cit., 987.
10 Cass. pen., sez. V, 29.11.2012, cit., 272.
11 App. Milano, 12.2.2013, n. 985, Pollari ed altri.
12 Cass. pen., sez. I, 24.2.2014, n. 20447, Pollari ed altri.
13 Ancora, Cass. pen. n. 20447/2014, cit.
14 C. cost. n. 24/2014, cit.
15 In tal senso, per tutti, Spangher, G., La pratica del processo penale, cit., 522.
16 Cfr., C. cost. n. 40/2012, cit., 486.
17 Anzon, A., La Corte abbandona definitivamente all’esclusivo dominio dell’autorità politica la gestione del segreto di Stato nel processo penale, in Giur. cost., 2010, 534; Pace, A., Sull’asserita applicabilità, cit., 526.