Vedi SELINUNTE dell'anno: 1966 - 1973 - 1997
SELINUNTE (Σελινοῦς, Selênus)
La città sulla costa meridionale della Sicilia, fra il capo Granitola e il capo S. Marco, fu fondata nel 628 a. C. da un gruppo di coloni di Megara Hyblaea, guidati dall'oikistès Pammilo, venuto dalla madre patria. Il nome deriva dall'appio (σέλινον) che vegetava lungo le sponde del fiume.
Nel territorio selinuntino preesistevano nuclei di popolazioni indigene, sicane, i cui documenti, qualche strumento di pietra levigata, qualche coccio d'impasto, nomi di origine mediterranea in una lamina (defixio) plumbea del V sec., lo stile barbarico di alcune stele gemine del VI e V sec. trovate nel santuario della Malophòros, indicano la persistenza nella campagna e nella stessa città di codesto elemento etnico.
Scarse sono le notizie del primo periodo di vita della città, ma un rapido sviluppo urbano è presumibile sia per i documenti monumentali che per la politica di espansione territoriale, esigenza conseguente ad esuberanti forze centrali. La fertilità delle terre e la posizione sul mare africano invitante a traffici con le metropoli oltremarine, erano fonti di ricchezza e potenza. Fu tale politica e forse un certo antagonismo, che spinse S. a dilagare più volte nel territorio della sua confinante settentrionale Segesta, dimenticando quella prudenza e abilità politica che l'avevano a lungo mantenuta in ottimi rapporti con Cartagine e che le avevano fatto godere un lungo periodo di tranquillità, nel quale si era affermata ed aveva potuto volgersi al suo sviluppo urbanistico e monumentale, che ne fecero una delle più grandiose città siceliote. Nella seconda metà del V sec. a. C. S., forse per il prevalere del partito democratico nazionalista, cominciò ad appoggiare il nazionalismo ellenico e accentuò la sua volontà di espansione verso N, già manifestatasi nel primo ventennio del VI sec. con le prime scaramucce con Segesta. Le aggressioni contro Segesta provocarono l'intervento nelle cose di Sicilia prima di Atene, poi di Cartagine. E se la prima lotta (416-13 a. C.) fu un trionfo per l'elemento siceliota, la seconda fu fatale a parecchie metropoli, prima fra tutte S. stessa.
La città fu presa nel 409 a. C. dall'esercito di Annibale, saccheggiata e incendiata, le mura distrutte, i templi spogliati e i cittadini massacrati o presi schiavi. Ma la distruzione non dovette essere completa, se i Selinuntini sfuggiti riuscirono a riunirsi e con la guida di Ermocrate a riorganizzarsi e a rialzare le mura dell'acropoli. Tuttavia la città, ridotta territorialmente, perdette tutta la sua importanza politica e commerciale e visse oscura sotto l'alterno dominio di Siracusa e di Cartagine con una funzione di piazzaforte per l'una o per l'altra. Codesta funzione ebbe particolare importanza almeno nel IV sec. a. C., per lo sviluppo delle opere di fortificazione, assai complesse.
Al 250 a. C. risale la seconda e definitiva rovina per opera dei Cartaginesi, che, in lotta contro i Romani, applicarono la tattica militare del vuoto davanti al nemico, distruggendo e trascinando gli abitanti a Lilibeo. Non è, tuttavia la morte assoluta: sulle rovine della già opulenta città, per un periodo almeno deserta (Strabone la dà per disabitata al tempo di Augusto), venne a formarsi una borgata di case, costruite con materiale di fortuna intorno ai templi, che dovevano essere ancora in piedi, rovesciati solo più tardi, forse nel VI sec., da un movimento tellurico.
Alla borgata tardo-romana e cristiana seguì un abitato di epoca bizantina, sempre più povero e ridotto a casupole di campagnoli e pastori. Doveva mancarvi l'acqua ed infierirvi la malaria, una volta debellata dalle opere di bonifica di Empedocle. Tuttavia, ancora una volta furono frettolosamente riattate le fortificazioni dai Bizantini, forse di fronte alla minaccia araba. Dagli Arabi se ne ha ancora notizia come di un casale agricolo, chiamato da Edrisi casale dei Pilastri.
Nel XVI sec. T. Fazello riconobbe la località dell'antica S., già erroneamente identificata in Mazzara, ma solo nel XIX sec. cominciarono gli scavi, all'inizio per opera di due inglesi, Harris e Angeli, in seguito da archeologi e architetti italiani: il Serradifalco con i due architetti D. e S. Cavallari, A. Salinas con l'architetto Patricolo, E. Gabrici con l'architetto Valentini.
1. Topografia e urbanistica. - Al tempo della maggiore espansione, S. comprendeva varî nuclei. Centro principale, fortificato e monumentale era l'acropoli, posta sulla collina limitata a O dalla valletta del fiume Selino, che sembra aver dato il nome all'abitato, a E dalla depressione dove scorre il gorgo Cottone, a S dal mare; a N si univa con una specie di istmo ad un'altra collina, oggi chiamata di Manuzza. Su questa si pensa esistesse prima del 409 una città esterna, riservata l'acropoli a templi, pubblici edifici e abitazioni di maggiorenti. Ad E dell'acropoli vi era il porto che doveva occupare per una profondità di circa m 600 la bassa valletta del Cottone. A S-O di questa, da una punta sotto l'acropoli si protendeva una diga, di cui si vedono i blocchi sott'acqua, e si stendeva una banchina le cui fondazioni, a grandi conci uniti da grappe a doppia coda di rondine, giacciono sotto la sabbia. Intorno al porto doveva addensarsi l'abitato marinaro.
A N-O dell'acropoli, al di là del Selino in località oggi chiamata Gaggera, che scende in declivio da un'altura, un antichissimo santuario dedicato alle divinità ctonie serviva di stazione ai cortei funebri diretti alla necropoli occidentale. Il principale e più antico tempio dedicato, come indica un'iscrizione, a Demetra Malophòros era situato a O nella parte più alta e preceduto da un grande altare di m 16,30 × 3,15. Al tèmenos si accedeva da oriente per un pròpylon a colonne della fine del V sec a C., fiancheggiato a S da un antico recinto con altare sacro ad Ecate e a N da camerette per custodi e da una tettoia a pilastri, aggiuntavi per uso dei devoti nel III sec. a. C. Tardo è anche un altro recinto a N con picoolo tempio prostilo dedicato a Zeus Meilìchios. Del VI sec invece un altro santuario a circa 300 m a N.
Un terzo centro sacro sorgeva a N-E dell'acropoli sulla collina che delimita la valletta del gorgo Cottone e conteneva tre grandi templi, che si indicano, non conoscendosene le divinità, con lettere E, F, G.
Due necropoli possedeva la città: una del VII-VI sec. a. C., a settentrione sulla collina di Galera dietro quella di Manuzza e la sua posizione al di là di questa è uno degli elementi probatorî che quest'ultima dovesse essere occupata dall'abitato e di buon'ora Un'altra, della fine del VI-V sec., giaceva a occidente, in località Manicalunga.
Questa a grandi linee la topografia di S., ma dovette raggiungere tale sviluppo attraverso graduali ampliamenti e trasformazioni
L'acropoli, quale si presenta oggi, riflette i varî periodi che attraversò la città. A prescindere dalle più tarde sovrapposizioni di case bizantine, romano-cristiane, annidate intorno ai templi e spesso sulle fondazioni di più antichi edifici, riconoscibili per la tecnica muraria di materiale minuto e di reimpiego, la citta si presenta con regolare organizzazione, la più completa e interessante della Sicilia.
La spianata della collina a forma di poligono irregolare più espansa al S dove fu allargata artificialmente, è tagliata in croce da due strade che corrono lungo i due assi maggiori N S ed E-O, con uno sviluppo rispettivo di m 425 e m 338 di lunghezza per m 9 circa e 5 di larghezza. I due settori ai lati dell'arteria N-S sono a loro volta divisi, nella parte meridionale in quattro grandi isolati dalla via E-O e da un'altra a questa parallela; nella parte settentrionale più stretta, in dieci isole da cinque stradette di m 3,85, quasi equidistanti e parallele fra loro e alla via E-O. Per quanto l'acropoli non sia del tutto scavata, si presume che altre stradette normali alla E-O tagliassero quelle parallele a scacchiera e che una via di circonvallazione, già riconosciuta in qualche punto, rasentasse le mura. I due più ampî settori a O-E erano occupati dai quartieri sacri. A N della grande arteria E-O, il peribolo dei templi arcaici C e D della metà circa del VI sec. a. C. circondati da edifici arcaici e classici, mègara, grandi altari, un porticato, ecc., e da altri del IV-III sec., porticato con botteghe, tempietto ellenistico, agorà, ecc. A S, il peribolo dei templi A ed O della prima metà del sec. V, anch'essi accompagnati da altari, sacelli e da un pròpylon, a oriente del tempio A.
La via N-S, spostata verso O, si attesta al N ad un punto che corrisponde all'istmo che unisce l'acropoli alla collina di Manuzza, mentre quella E-O, molto spostata a S, attraversa la parte più larga della spianata dell'acropoli, in corrispondenza delle due strade che dovevano salire dai sobborghi marittimi. Furono la conformazione del terreno e le esigenze di passaggio a suggerire per prime il tracciato. È opinione generale che la città così sistemata sia la ricostruzione, posteriore alla distruzione del 409, o di Ermocrate o del IV sec., e lo spostamento ad O, dell'arteria N-S sarebbe dovuta alla preesistenza del quartiere dei templi e alla posizione del tempio D. Questa tesi, se riesce a connettere l'urbanistica di S. con le teorie d'ippodamo da Mileto, è costretta a postulare una assoluta distruzione della città dalle fondamenta e una completa ricostruzione di essa con nuovi piani abili ingegneri, mano d'opera, materia prima, ecc. Inverosimile se si pensa alla relatività di una distruzione militare, alla brevità del dominio di Ermocrate e alla precaria situazione finanziaria di quel periodo, o alla decadenza della nuova Selinunte
Come s'è accennato, i tracciati delle strade principali devono risalire alla primitiva sistemazione della colonia e alle sue esigenze: posizione della porta N, in origine larga più di 9 m e in connessione con l'istmo di passaggio alla città esterna, traffico col porto e col sobborgo marinaro. Nel periodo ermocrateo la scarsa popolazione deve aver vissuto alla meglio fra i resti della distrutta città, compiendo uno sforzo già imponente per ricostruire le fortificazioni. Solo nel IV sec a C quando la citta poté riprendere una vita normale che si protrasse per un secolo e mezzo, sarebbe stata possibile una sistemazione urbana dell'acropoli con nuovi criterî, ma legata ai vecchi e obbligati orientamenti, agli edifici monumentali esistenti, ai tracciato della cinta fortificata.
2. Architettura. - L'architettura di S. è del massimo interesse per essersi conservati esempî di costruzioni molto arcaiche e per la singolarità e persistenza dei motivi originarî.
L'architettura militare, per quanto con i suoi sviluppi abbia seguito il mutare dei tempi e dei criteri, conserva traccia di ogni sistema. In origine pare che una cinta muraria di grandi blocchi squadrati circondasse il solo gruppo di templi arcaici, almeno a S e ad E, formando un peribolo fortificato. Circa la fine del VI sec. - principio del V, in seguito ad ampliamento artificiale dell'acropoli ad E, sostenuto da un poderoso muraglione a doppia scarpata gradinata, si coronò tutta la collina di una cortina. È questa l'opera di fortificazione, che fu distrutta da Annibale e della quale rimangono tracce riconoscibili, per la tecnica impeccabile e per il materiale omogeneo impiegato, nella rampa a N che sale da E ad O, nell'ultima quarantina di metri all'estremità settentrionale del lato O, oltre ai filari più bassi di altri tratti e al muraglione a scarpata. La cinta ricostruita da Ermocrate seguì il circuito antico, del quale dovevano restare le fondamenta, con eguale sistema di semplice cortina e torri; mostra buona tecnica e talora rielaborazione di materiale più antico. Un sistema di opere avanzate fu aggiunto alla fortificazione ermocratea nel IV sec., con ogni verosimiglianza fra il 397-375, ad opera forse di Dionigi di Siracusa della cui tecnica militare risente. È costituito: 1) da una galleria sotterranea parallela al fronte N, ai piedi del terrapieno, con postierle ad arco che immettono a S in una galleria retrostante non finita e a N in un profondo fossato che taglia l'istmo ed è cavalcato da due ponticelli in pietra; 2) da tre poderose torri semicircolari piazzate alle tre estremità E, N e O della zona munita, per una difesa a tiri incrociati. La via esterna della porta N, che piega più volte a gomito fino a che passa sul fossato attraverso il ponte, è fiancheggiata da bastioni con scale per il cammino di ronda ed è sbarrata da due porte verso S e verso O. La cortina della cinta è stata poi rafforzata in varî tratti da controcinte. Le strutture di tutte codeste opere sono più frettolose di quelle ermocratee: in parte si ha la tipica tecnica a camerette, in parte muri pieni in cui è riutilizzato materiale architettonico rimesso in opera senza rielaborazione. Infine un quarto gruppo, brutti muri di pietrame e frammenti architettonici uniti con terriccio sistemati a controcinta davanti ai torrioni semicircolari e tratti di creste sopraelevate sulla cinta classica semidiruta, rappresenta un ulteriore frettoloso raffazzonamento di epoca bizantina.
L'architettura civile è soprattutto una manifestazione di quella religiosa; ciò che non è singolare nel mondo greco, ma lo è per l'eccezionale numero e per la grandiosità dei templi che S. costruì in tempo relativamente breve. È un'architettura fondamentalmente greca dorica, ma che diventa classica solo verso la metà del V sec. a. C. e conserva a lungo certe peculiarità che sembrano locali per essersi manifestate fin dalle più antiche costruzioni. Sembra inoltre che, pur importando i coloni le novità dell'architettura dorica, tentassero di risolvere per proprio conto quei problemi struttivi che si presentavano man mano che si adottavano nuove forme. Ciò che significa una precoce introduzione di elementi dorici, quando questi non erano ancora fissati in una organica struttura, ed una tendenza alla ricerca e alla indipendenza, quale si riscontra anche nella plastica che, se non perviene a definitivi risultati originali, raggiunge espressioni singolari quali si manifestano nelle strutture del tempio C e del tempio G, per accennare solo ai più importanti e meglio studiati.
Alle radici dell'architettura templare selinuntina, al principio del VI sec., sta una forma predorica di tempietto, che non è il classico mègaron con il suo pronao aperto, architrave, fregio, ma un ambiente rettangolare tutto chiuso, con una porta d'ingresso sulla fronte ed un àdyton nel fondo. La pianta può essere più complessa con l'aggiunta di un pronao chiuso, ma sono sempre semplici porte che immettono da un ambiente all'altro. Tale è la pianta del secondo tempio di Demetra Malophòros con pronao, cella, àdyton; con àdyton senza pronao era quella del primo di cui non restano che le fondazioni e dei due dell'acropoli; con pronao e cella, dubbio l'àdyton, quella del tempio M di recente scoperto a m 300 dalla Malophòros. È questa la forma che, un po' modificata nel pronao talora aperto e nelle proporzioni, si ripete costantemente nella cella dei grandi templi del VI sec. anche quando la comparsa di stereobate, peristilio, trabeazione, denunciano l'introduzione dell'architettura dorica. L'elevato del tempietto della Malophòros conferma la singolarità della costruzione: niente basamento, muri perimetrali a conci di buona struttura, senza fregio né mutuli, terminati semplicemente da cornice a gola che si ripeteva con egual sagoma e misura sui salienti dei timpani; raccordi di questi alla cornice orizzontale sulla quale poggiavano gli spigoli estremi, senza rastremazione nel frontone orientale, tagliati obliquamente nell'occidentale.
Nel tempio M, più grande del precedente (m 26,80 × 10,85), mentre si conservano i particolari dell'assenza di basamento e dei muri chiusi, viene introdotto il triglỳphion con metope non scolpite, il gèison con mutuli e gocce, oltre ai frontoni con sima. L'interessantissimo edificio, della prima metà del VI sec. a. C., sembra uno stadio di transizione tra il tempio di Demetra e quello C con peristilio.
È nel tempio C, il primo grande edificio dorico periptero, che si ha in atto il trapasso da forme arcaicissime a meno arcaiche, con disuguaglianza fra le parti e soluzioni peculiari. La pianta molto allungata con uno pteròn di sei colonne per diciassette, su alta base di quattro gradini ed un avamportico limitato da altre quattro colonne, la cella sopraelevata dalla tipica forma chiusa con pronao, naòs, àdyton, un gruppo di colonne (sei ad E, otto a S) monolitiche, denunciano il persistere di una tradizione molto antica. Gli altri elementi di forme più evolute e discordanti sono espressioni di spirito nuovo che affronta nuovi problemi con ricerca personale. Le colonne di cinque rocchi, senza èntasis, variano nelle scanalature da 16 a 20, e quelle angolari nel diametro, l'architrave di due assise sovrapposte è leggermente più corto dei capitelli angolari; il triglỳphion, composto di triglifi piuttosto larghi e metope incassate, varia nei moduli per far coincidere nell'angolo l'asse della colonna col triglifo.
Per tutti codesti elementi, e più antichi e più recenti, ancora non assimilati, la costruzione va posta fra il 560-50, né si può scendere oltre la metà del secolo.
Ricchissima la decorazione fittile che dovette essere più volte rinnovata: lastre a complessi disegni dipinti, trecce, fior di loto, palmette, kyma; rivestivano i gocciolatoi antemi a palmette, e fiori di loto alternati orlavano i lati lunghi, mentre la fronte del timpano era decorata da una colossale protome di Gorgone a rilievo basso dipinto e un tegolone curvo policromo (l'hegemòn kalyptèr) copriva l'estremità dell'asse del tetto. Ma la decorazione più notevole era costituita dalle metope scolpite dei due lati brevi. Simile pianta e alcune affinità nell'elevato si trovano nel tempio D, di poco posteriore, che ha però ridotta l'eccessiva lunghezza, diminuito il numero delle colonne dei lati lunghi a tredici, abolito l'avamportico portando le quattro colonne sul fronte del pronao in una forma intermedia fra il naòs in antis e il prostilo, fissato il numero delle scanalature a venti e adottata l'èntasis. Il tempio D pare non avesse decorazione fittile, si avvia all'affermazione esclusiva della pietra. Nel tempio F della collina orientale, periptero esastilo, persiste la tipica forma della cella e ritorna l'avamportico del tempio C. Qui una novità era costituita dall'esistenza di un muro (alto circa m 4,70) a chiusura degli intercolumnî. Anche questo tempio era decorato di metope scolpite nei lati brevi.
Col colossale tempio G o Apollonion, della collina orientale, si esce dalle forme arcaiche, ma non si perviene ancora ad una forma definitiva canonica. Per la sua stessa mole (m 11,34 × 54,05 di pianta, m 16,27 di altezza le colonne, m2 16 di superficie l'abaco dei capitelli) la costruzione dell'edificio durò così a lungo, dalla metà del VI sec. al 480, che le forme attraversarono uno stadio di evoluzione e ne risentirono nell'organicità strutturale. Insieme la ricerca del grandioso e dello straordinario doveva rendere la costruzione, più che opera d'arte, un monumento a grande effetto. Il tempio era pseudodiptero con 8 × 17 colonne, solo in parte scanalate, perché incompiute. La cella parzialmente ipetrale comprendeva: pronao prostilo, che immetteva per tre porte nel naòs, diviso in tre navate da due file di colonne monolitche in doppio o triplice ordine, àdyton, opistodomo in antis. Pur adottando forme nuove non si volle rinunciare all'àdyton, che venne inserito, con una soluzione singolare, come edicola quadrangolare isolata inclusa nel naòs.
Le forme classiche che si presentavano nel lato O del tempio G, dove era anche adottata la contrazione dell'ìntercolumnio, si affermarono nei due templi gemelli A e O dell'acropoli e raggiunsero l'armonia perfetta nel tempio E. Il tempio E, periptero esastilo, aveva quindici colonne di lato, e la cella di pianta classica, che conservava però sempre l'adyton. Oltre all'armonia delle proporzioni, notevoli sono in codesta costruzione la precisione dei calcoli e dell'esecuzione e gli accorgimenti usati per risolvere i complessi problemi architettonici, come ad esempio la contrazione di tutti gli elementi delle estremità dei lati, intercolumnî, lastre dello stilobate, conci del basamento, per ottenere la corrispondenza dell'asse delle colonne ai triglifi d'angolo. Un fregio dorico girava intorno al peristilio con metope più larghe dei triglifi, ed un altro intorno alla cella. Di questo erano scolpite le metope dei lati brevi, che aggiungevano la loro nota di bellezza decorativa all'impeccabile tettonica. Con quest'opera l'architettura selinuntina adotta i risultati conseguiti dai maestri ellenici abbandonando i proprî imperfetti ma originali tentativi. Unico elemento locale rimane l'àdyton, che forse rispondeva ad esigenze di culto.
Un solo edificio ellenistico si trova a S., il tempietto B, prostilo tetrastilo, misto di elementi dorici (trabeazione) e ionici (colonne), interessante per la ben conservata policromia.
Il quadro dell'architettura selinuntina è completato da pochi altri tipi di costruzioni. Fin'ora non si conoscono che propilei, porticati e grandi altari. I propilei erano di due tipi: quello del tempio A, della seconda metà del V sec., era del meno diffuso tipo arcaico a T, con un porticato frontale, passaggio normale a questo limitato da semplici muri ai lati e colonne in fondo; l'altro, del tèmenos della Malophòros di un tipo classico del V sec., era un vestibolo rettangolare in antis d'ambo i lati, preceduto da ampia scalinata, con qualche singolarità nella trabeazione che potrebbe farlo assegnare anche al IV secolo. Di porticati ve ne era uno all'estremità S-E dell'acropoli, semplice galleria con doppia fila di colonne, e due posteriori al 409, tipi di tettoie a pilastri, aperti uno nel tèmenos della Malophòros, con ambienti chiusi nel fondo, forse bottegucce, l'altro sull'acropoli a N del tempio C.
Delle abitazioni, quasi nulla si conosce di quelle del VI-V sec.: le strutture murarie di epoca classica, non pertinenti ad edifici sacri o pubblici, sono ridotte a fondazioni o basi di case più tardi costruitevi sopra. Le abitazioni della nuova S. (IV-III sec. a. C.) scavate nella zona S-E dell'acropoli intorno ai templi C e D ed alcune sulla via di porta N, hanno mediocri strutture a blocchi squadrati di reimpiego alternati a materiali minuti, piante variate con piccoli ambienti, cortiletti e talora peristili a colonne di tipo ellenistico, cisterne, pavimenti di una malta chiara, raramente di cocciopisto con tessere marmoree, intonaci qualche volta dipinti. Si distinguono da queste, casette più misere, costruite ad un livello superiore alle precedenti, con muri di pietrame raccogliticcio: sono quelle tardo romane-cristiane.
3. Plastica. - Anche la plastica ha particolare importanza a S., unico centro della Sicilia che abbia lasciato cospicui avanzi di grandiose sculture architettoniche, le metope dei templi, e di opere isolate eseguite sul luogo, per cui si può parlare di arte o di artisti selinuntini. Se a queste opere della grande arte si aggiungono i prodotti di arte industriale, le terrecotte che a migliaia sono uscite dalle favisse dei santuarî, ci si può formare un'idea del vivace movimento artistico locale. Non sembra, tuttavia, che si possa riconoscere l'esistenza di una vera e propria scuola selinuntina, nel senso di un cosciente e coerente sviluppo su spunti originali o anche su impulsi esterni, ma piuttosto l'esprimersi di un gusto locale che interviene a trasformare forme d'importazione ellenica e l'apparire di personalità artistiche che riescono a creare opere di alto valore. Sono particolari caratteri locali il senso della realtà e la vivacità del movimento che si differenziano dalla astrazione del genio greco e sono questi elementi tendenti al tipico che pervadono di grande vitalità le opere selinuntine.
Nel più antico gruppo di metope, dei primi decennî del VI sec. a. C. e pertinenti ad un ignoto tempietto, sono rappresentate con rilievo piatto quasi intagliato: Eracle nella stalla di Augia (semidistrutta), la triade divina di Latona fra Apollo ed Artemide, una sfinge alata, Europa rapita dal toro che galoppa sul mare raffigurato da due delfini. Sono probabilmente opere di due artisti diversi: creazione di artista tradizionale che compone in rigidi parallelismi di compatte masse geometriche, la triade; creazione più vivace con ricerca di armonia di forme e atteggiamenti, il ratto di Europa e la sfinge. Originali sono la serenità e la disinvoltura dell'atteggiamento di Europa psicologicamente e formalmente diversa da rappresentazioni greche dello stesso soggetto. Alcuni elementi formali indicano contatti con l'Oriente ellenico.
Più tarde, molto diverse stilisticamente, le tre metope del triglỳphion orientale del tempio C formano un altro complesso di sculture interessanti e discusse per stile e cronologia, che ultimamente è stata portata al 510 a. C. per parziali e limitati elementi di raffronto con arti industriali, ma che nel complesso non possono scendere molto oltre la metà del VI sec., tenendo anche conto dell'architettura del tempio. Sono rilievi a forte aggetto con espressione di potente plasticità sull'ombra del fondo molto incassato, che mostrano una certa maturità compositiva, ma scarsezza di mezzi, mancando gli scorci nelle singole figure presentate metà di prospetto metà di profilo. Tracce rimangono di particolari e fondi dipinti. Sulla metopa che doveva occupare un posto centrale è figurata una quadriga di prospetto con l'auriga, il Sole in piedi sul carro e due figure stanti ai lati. Le altre due lastre rappresentano rispettivamente Perseo che, in presenza di Atena, uccide Medusa dal cui sangue nasce Pegaso, ed Eracle che trasporta, sospesi ad una pertica, i due ladroni Cercopi. Anche in codesto gruppo, rilevanti differenze stilistiche denunciano due personalità una ha creato la quadriga di Helios, dove all'ingenuità della rappresentazione prospettica si unisce ricerca di ritmi e cura dei particolari, criniere, chiome, bardature, ecc.; l'altra costruisce ad ampie masse pesanti figure dai gonfi muscoli, dalle grosse teste, dai volti appiattiti, fissi in una staticità inespressiva, dove dominano con rude potenza i valori struttivi. Negli avvicinamenti che non mancano di farsi alle correnti artistiche greche, queste opere possono essere messe in rapporto con la scultura peloponnesiaca, mentre la quadriga richiama piuttosto a tendenze ionico-attiche.
Delle due metope pervenuteci del tempio F, rappresentanti una gigantomachia, è conservata la metà inferiore con Dioniso in lotta contro un gigante inginocchiato; e Atena (?) che ne ha abbattuto un altro. Caratteristica di questo è l'espressione contratta di sofferenza, nella bocca aperta e negli occhi semichiusi, nonché il trattamento a solchi incisi della barba, di tipo orientale. Sono opere di evoluto arcaismo del principio del V sec., dove particolare cura è data al drappeggio trattato per sé stante, mentre le forme del corpo coperte sono modellate a larghi piani, ed anche quelle nude, senza particolare ricerca anatomica.
Del tempio E rimangono, del lato orientale, altre tre bellissime teste severe e piedi e mani marmorei, tre metope complete rappresentanti la lotta fra Eracle e Antiope, la hierogamia di Zeus ed Ilera sul monte Ida, la trasformazione di Atteone in cervo sbranato dai suoi cani; del lato O altre teste ed una metopa con rappresentazione di gigantomachia. Tipica è la tecnica in pietra calcarea locale con inserzione di teste e parti nude femminili in marmo; il rilievo è piuttosto alto condotto su varî piani, da elementi appena rilevati sul fondo ad altri che si distaccano a tutto tondo. Qualche varietà stilistica è fra i due lati: con una composizione a schemi obliqui paralleli è rappresentata Atena che affronta Encelado, mentre più conchiuse sono le composizioni del lato E. Attraverso una ispirazione greca che è riconoscibile in elementi posti in rapporto con la scultura di Olimpia e con quella attica, ma che si afferma soprattutto in particolari esteriori, (panneggi, acconciature, ecc.), il linguaggio di codeste opere si allontana da quello ellenico e parla con espressioni proprie: vivacità e talora violenza di atteggiamenti e di sentimenti, notazioni veristiche, certa secchezza di modellato nei nudi giovanili, costruzioni facciali. La metopa della hierogamia è quella che più s'avvicina allo spirito greco con l'armonia e l'equilibrio dell'espressione formale, che si risolve in serenità di espressione psicologica, mentre nelle altre l'intensa vitalità spesso trascende l'armonia formale.
Allo stile delle metope s'avvicina l'Efebo di Selinunte, statua bronzea di giovanetto, raffigurazione forse del Selino, di una certa secchezza di modellato e uno squilibrio nelle membra eccessivamente gracili. Nonostante particolari di sapore arcaico e la evidente derivazione dell'Efebo dallo stile di Kritios, sia le metope che il bronzo non sono di molto anteriori alla metà del V sec. a. C.
Le opere plastiche minori, rilievi, arule, statuette, testine, sono di più diretta derivazione greca e di minor interesse per l'arte selinuntina, mentre la coroplastica è espressione di gusto popolare nel clima della grande arte, quando si riuscì a produrre in loco. Ricchissima fu anzitutto l'importazione che testimonia la vivacità e continuità di contatti con varie regioni della Grecia dalla prima metà del VI sec. a. C. alla fine del V. S'introdussero tipi dorici dedalici, forme geometriche, e tipi ionici da centri orientali, Rodi e Samo; nel V sec. tipi severi e poi classici di intonazione attica; interferenze si notano anche con la coroplastica della Magna Grecia. Alla importazione seguiva la produzione locale prima di copia, poi d'imitazione più o meno libera e anche di originale interpretazione, nella quale sono riconoscibili la ricerca e il bisogno di esprimere qualcosa di proprio, che si riusciva a realizzare in piccole opere che si sottraggono ad una tipologia e in cui prevalgono visione realistica e gusto coloristico.
Fra codesta produzione corrente a servizio dei santuarî, emerge qualche opera di maggiore dimensione e artisticamente più notevole, quali, ad esempio, alcuni grandi busti e una bella testa severa con pòlos, frammento di statua.
4. Arti minori. - Nella produzione di ceramica non sembra che i Selinuntini si siano cimentati, tranne che per rozzi recipienti di uso pratico. Le numerose e belle ceramiche uscite dalle necropoli sono d'importazione, e vanno dalle geometriche e orientalizzanti di fabbriche protocorinzie e corinzie per lo più, ma anche rodie, alle attiche. Coltivata, invece, l'arte dell'incisione per la monetazione e, forse, per la glittica. La monetazione selinuntina, senza pervenire alle altezze di quella siracusana, diede alcuni buoni tipi per iconografia e per arte.
Si ebbero nel VI sec. i didracmi incusi con la foglia dell'appio al dritto stilizzata prima, poi naturalistica e con l'iscrizione ΣΕΛΙ. Ma la tipica moneta selinuntina, creata al principio del V sec. con forme arcaiche, per poi assumere diverse espressioni stilistiche e varianti nei nuovi conî che si continuarono a battere fino alla fine del secolo e della città, fu il tetradracma con la personificazione del fiume Selino. È rappresentato da un giovanetto nudo stante che sacrifica davanti ad un'ara e dietro ha la statua di un toro su alta base; nel retro una quadriga con Artemide auriga e Apollo saettante. Iscrizione: dritto: ΣΕΛΙΝΟΣ; retro: ΣΕΛΙΝΟΝΤΙΟΝ. Anche l'altro tipo, didracma con Eracle in lotta con il toro cretese e l'etnico ΣΕΛΙΝΟΝΤΙΟΣ al retro, dipende dal tetradracma per il dritto, nel quale al Selino è sostituito l'Hypsas. Altre monete sono: dracma con testa cornuta del Selino e testa di ninfa; lytra con figura femminile seduta su roccia e toro androprosopo, foglia di appio ed etnico.
Scarse sono le gemme incise a S., ma le numerose cretule, cioè le loro impronte su creta, provenienti forse da un archivio, documentano l'uso comune dei sigilli, con forme che si possono rapportare a tipi monetali, dove predomina il tipo di Eracle che si ripete spesso tra due altre impronte sulla stessa cretula. Con suggestiva ipotesi si è pensato che fosse proprio l'immagine di Eracle il sigillo della città e che le pietre si lavorassero sul luogo.
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