selva
Il vocabolo, a parte un'occorrenza del Convivio, appare solo nella Commedia.
Il termine ha valore generico in If IX 69 un vento / ... che fier la selva, peraltro in ripresa diretta della similitudine di Aen. II 416 ss. (cfr. v. 418 " stridunt silvae "). Quasi tutte le altre occorrenze si riferiscono alle tre s. simboliche della Commedia: la selva oscura dell'inizio, che per la maggior parte dei commentatori è significativa della vita viziosa propria dell'uomo peccatore (v. oltre); la mesta s. dei suicidi, fitta sterpaglia del tutto impenetrabile che offre lo spettacolo di una natura stravolta; e la s. dell'Eden, la divina foresta, che simboleggia l'età della primitiva innocenza e felicità dell'uomo.
Il termine è qualificato dagli epiteti che lo accompagnano. La selva da cui inizia il viaggio D. è oscura e fonda (If I 2 e XX 129), probabile ripresa da Aen. VI 268-271 " Ibant obscuri sola sub nocte per umbram/... quale per incertam lunam sub luce maligna / est iter in silvis ". È da rilevare che D. forse legge con molti manoscritti virgiliani " obscura soli " anziché " obscuri sola " (e io sol uno di If II 3 parrebbe conferma di questa lettura); in If XX 129 e già iernotte fu la luna tonda: / ben ten de' ricordar, ché non ti nocque / alcuna volta per la selva fonda, D. conferma il confronto con il passo virgiliano, completando la citazione con la ripresa della luce lunare. L'iter di D. nella s. è incerto perché la mancanza della luce gli rende difficile l'orientamento (cfr. Cv IV XXIV 12 così l'adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino); la s. è selvaggia (If I 5, con figura etimologica; è il loco selvaggio del v. 93) e aspra e forte (dittologia sinonimica: cfr. Pg II 65), sì da rendere difficoltoso il cammino a D.; è amara (If I 7) perché D. rischia di perirvi (I 26-27 lo passo / che non lasciò già mai persona viva).
La s. dei suicidi è strutturata con una serie di richiami semantici all'orrore della situazione lignea dei dannati: in questo ambito la parola selva ritorna sette volte (If XIII 97, 107, 117 e 124, XIV 10 e 77, XV 13). La s. è detta ovviamente mesta (XIII 107 per la mesta / selva saranno i nostri corpi appesi), e dolorosa (XIV 10 La dolorosa selva l'è ghirlanda / intorno), due enallagi riportabili alla condizione dei dannati eternamente disperati e dolenti. Così anche in Pg XIV 64 (tuo nepote [Fulcieri di Calboli] / ... Sanguinoso esce de la trista selva) il trista è da riferire ai crudeli abitanti di Firenze, tana di lupi. Una sola volta al posto di s. appare bosco (If XIII 2 ci mettemmo per un bosco / che da neun sentiero era segnato), ma si tratta ancora della selva dei suicidi, e forse alla scelta del sinonimo non sono estranee esigenze di rima. La selva dell'Eden (Pg XXVIII 23 e 108, XXXII 31 e 158) è invece una divina foresta spessa (XXVIII 2) e folta (XXVIII 108: equivalente l'alta di XXXII 31). In contrasto con la morta apparenza delle foreste infernali, quella del Paradiso terrestre è viva di aure (XXVIII 2, e cfr. XXVIII 107 nell'aer vivo) e di augelletti: la s. è antica (XXVIII 23 Già m'avean trasportato i lenti passi / dentro a la selva antica: cfr. Aen. VI 179 " antiquam silvam ") come la terra edenica sede dell'antica matre (Pg XXX 52).
In un solo caso s. ha il significato di " moltitudine " (dal più raro uso classico di silva come " congeries "), in If IV 65-66 ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi, dove spessi è enallage riportabile a selva (cfr. Pg XXVIII 2 foresta spessa).
Figurazione e allegoria. - Appare agevolmente in tutta evidenza la posizione preminente che nel complesso della concezione figurale della Commedia la selva oscura occupa nell'ambito episodico del canto proemiale e in quello generale di tutto il poema, e quanto rilevante sia la trama dei rapporti che legano questa ad altre ‛ figurazioni ' principali e secondarie dell'opera. Non sarà pertanto superfluo fermare l'attenzione su alcuni particolari aspetti di questa ‛ figura ', esemplare, tra l'altro, in relazione alla dichiarata polisemia del testo dantesco.
La s. è il luogo in cui il personaggio D. si smarrisce a mezzo del cammin della vita, allorché ha toccato il punto sommo dell'arco vitale, i trentacinque anni, e sta per imboccare la metà discendente dell'arco stesso, entrando così nella terza età, la Senettute (cfr. Cv IV XXIII 6 e 13). La collocazione cronologica relativa si pone dunque in un complesso punto centrale nel quale convergono il significato universale (di nostra vita, gli strettissimi richiami scritturali), i riferimenti storici (il 1300 è per il mondo cristiano l'anno del primo giubileo; per Firenze - contesa di Calendimaggio, premessa condizionante della venuta di Carlo di Valois - è il culmine delle tensioni e delle discordie, con la scissione della Parte guelfa nelle due fazioni bianca e nera, avvenimento nuovo gravido di dolorose conseguenze nella storia successiva della città), gli elementi autobiografici (proprio nel 1300, sotto il segno dei Gemelli, D. compie 35 anni e ottiene anche il priorato per il bimestre 15 giugno-15 agosto: carica che segnerà l'inizio della seconda fase della sua vita, quella dell'esilio, come egli stesso ebbe a dire in un brano dell'epistola perduta Popule mee, citato da L. Bruni: " Tutti li mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio "). Anche narrativamente lo ‛ smarrimento ' viene collocato da D. nel punto centrale dell'intero poema, nel senso che nella s. è riassunto simbolicamente l'antefatto della vicenda, che sarà poi esplicitamente dichiarato da Beatrice nel Paradiso terrestre (gli anni del traviamento, del sonno, dello ‛ smarrimento '), e nel contempo è contenuta la ragione prima del viaggio (l'oscurità della notte e della s., la conseguente paura e l'altre cose che vi ha scorte condizionano D. a intraprendere il cammino oltremondano).
D. non fornisce alcun dato topografico a precisare dove geograficamente si trovi la s., e dove di conseguenza sia posto l'ingresso dell'Inferno. Inaccettabili quindi, in quanto in nulla suffragate dal testo dantesco, appaiono le ipotesi avanzate su questo punto dai commentatori; anche quella, abbastanza divulgata, che localizza la s. nei pressi di Gerusalemme: opinione certo affrettatamente formulata sulla base dei passi danteschi (If XXXIV 112-118; Pg II 1-5, IV 61-84) in cui sono ribadite le posizioni esattamente antipodi della Giudecca e della montagna del Purgatorio rispetto a Gerusalemme, e che non tiene evidentemente nel debito conto la circostanza, dichiarata dalla Bibbia (Ezech. 5,5), unanimemente accettata dalla tradizione cristiano-medievale e peraltro chiaramente indicata da D. stesso, che la città si trova al centro dell'emisfero delle terre emerse, e perciò anche nel centro della calotta sferica che coverchia la grande bocca del cono infernale. A maggior ragione inaccettabile è l'altra supposizione, della quale è ovvia l'ascendenza virgiliana, che localizza l'inizio del viaggio dantesco a Cuma (si veda per es. la xilografia Sito et forma della valle Inferna incisa per la seconda edizione aldina della Commedia, Venezia 1515, riprodotta in questa Enciclopedia, III 432).
Chiarissima appare, del resto, l'intenzionalità di questa mancata localizzazione topografica ove si ponga mente sia all'esigenza squisitamente narrativa di rappresentare " il preludio….. in terra, poiché il pellegrino è ancora vivo; ma il luogo doveva già in qualche modo partecipare dell'oltremondo " (Momigliano); sia soprattutto al carattere di esemplarità che D. ha inteso attribuire alla propria esperienza oltremondana, che sul piano figurale vuol rappresentare la parabola del cristiano che per errore smarrisce e poi felicemente quanto laboriosamente ritrova la verace via, il cammino.... veracissimo, sollecitato, anzi portato dal naturale, sommo desiderio dell'anima di ritornare a lo suo principio, a Dio (Cv IV XII 14-18).
Proprio per esigenza narrativa, e non già per troppo invadente intenzione allegorica, il personaggio D. " si ritrova in una selva che " - notò il Croce - " non è selva ": lo sfaldamento della realtà historiale a tutto vantaggio del portato allegorico-figurale imputato a D. dalla critica idealistica è invece il risultato di un'operazione letteraria responsabile e di alto livello, non già segno di una mal governata tirannia delle intenzioni; ed è ben strano che a non riconoscere quest'impronta squisitamente retorica dell'invenzione dantesca sia proprio il Momigliano, il primo a evidenziare, senza tuttavia approfondirne le implicazioni, il carattere " in qualche modo " oltremondano della s. proemiale. Rappresentando la selva selvaggia, infatti, D. elude intenzionalmente e rigorosamente ogni riferimento concreto non soltanto di ambito geografico, ma persino figurativo. Il procedimento apparirà più evidente contrapponendo la s. al bosco dei suicidi, dove l'innaturale paesaggio (Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; / non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco, If XIII 4-6) è il risultato della storpiatura attuata mediante insistite antitesi di una realtà che è collegata per riferimento analogico anche a una precisa località geografica, la Maremma (vv. 7-9); ovvero richiamando la precisa descrizione della divina foresta spessa e viva del Paradiso terrestre, in cui uccelli e foglie creano un suggestivo concerto, tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in su 'l lito di Chiassi, / quand' Eolo scilocco fuor discioglie (Pg XXVIII 19-21). Nessun accenno invece, nel primo canto, a fronde, a rami, ad alberi, a luoghi determinati: bensì una serie di aggettivi che, anziché descrivere la s., valgono a rappresentarne le suggestioni e gli effetti sull'animo del pellegrino smarrito, a drammatizzarne la situazione psicologica: oscura (cfr. là dove 'l sol tace), selvaggia, aspra, forte, ‛ paurosa ', amara, perigliosa, ‛ noiosa ' (v. 76), fonda (XX 129).
Sarà probabilmente per suggestione di quest'atmosfera d'incubo, di paura indistinta, oltre che per echi testuali (il sonno del v. 11) e soprattutto per il frequentatissimo ‛ topos ' fideistico delle ‛ visioni ', dall'Apocalisse a quelle medievali, che alcuni commentatori antichi ritennero che D. avesse ‛ sognato ' la s. (è l'opinione, per esempio, di Guido da Pisa) o l'intero viaggio (l'anonimo chiosatore del codice Laurenziano 40 2: " In dimidio itaque itineris nostrae vitae auctor istam comoediam composuit, quia ipsam per revelationem in sompno habuerit "); né mancano tra i commentatori moderni coloro che hanno ripreso, rielaborandola, questa opinione (v. VISIONE): il Pagliaro, ad esempio (" con il proemio si è conchiusa la rappresentazione di quella sorta di sogno ammonitore e liberatore, in cui il poeta vede se stesso dibattersi nell'angoscia, fra l'orrore della Selva e l'anelito al colle luminoso ": Ulisse, p. 76); o il Diotti, il quale propone dell'episodio una lettura " semantico-strutturale " che, se discutibile soprattutto per le molte forzature in direzione psicoanalitica e per le scelte premeditate isolatamente estratte dalla pur abbondante letteratura critica dei primi due canti, permette tuttavia alcune osservazioni di qualche interesse relative a un'interpretazione modernamente onirica dell'episodio (pp. 14-18).
La s. è descritta quasi esclusivamente per via di suggestioni, felicemente orchestrate da amplificazioni e risonanze (il sonno, la notte, l'oscurità, la paura, le tre fiere), e assume pertanto la dimensione nettamente psicologica di proiezione dello stato d'animo di D. personaggio: non poteva dunque inscriversi, per esigenza nitidamente avvertita e rispettata dal poeta, in una dimensione visivamente definita. Ed è proprio questa qualità a render possibile, senza che si avvertano scompensi o stridori, la ricca variatio di metafore in cui è articolata la presenza della s. nei primi due canti: selva oscura, selva selvaggia e aspra e forte (I 5; e selva fonda, XX 129), loco selvaggio (I 93), valle (v. 14; e cfr. XV 50 mi smarri' in una valle), pelago, acqua perigliosa (I 23-24; cfr. Cv IV XXVIII 2 nel mare di questa vita, e Pd XXVI 62 mar de l'amor torto), lo passo / che non lasciò già mai persona viva (If I 27), là dove 'l sol tace (v. 60), tanta noia (v. 76), questo male (v. 132), la fiumana ove 'l mar non ha vanto (II 108). Sono immagini e perifrasi - alcune delle quali tormentatissime dall'esegesi di ogni tempo: v. FIUMANA; PASSO - che pur rispettando il senso historiale, sembrano voler segnalare con la loro trasparente, affiorante pregnanza e con l'evidente richiamo a figure del linguaggio parabolico già presenti in testi scritturali e patristici (valle, pelago), la presenza di una dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani.
In questa direzione, infatti, si è mossa l'esegesi secolare, cercando di accertare il simbolo sotteso all'immagine della s., che indubbiamente più di altri si configura non come nodo individuo, come crux episodica e quindi indipendente, ma come chiave per l'interpretazione complessiva del proemio, e perciò anche dell'intero poema.
Sostanzialmente concordi, pur nel variare di qualche dettaglio, sono le spiegazioni dei commentatori antichi, e anche moderni fino al Cesari: la s. rappresenta la vita viziosa, la vita umana dominata dagl'istinti e non illuminata dalla grazia e dalla ragione, la selva erronea di questa vita dove l'adolescente... non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato (Cv IV XXIV 12). In questo contesto possono agevolmente inserirsi anche le chiose di Iacopo e di Benvenuto, che leggono selva come " congeries ", e interpretano quindi il primo " la molta gente che nella oscurità dell'ignoranza permane.... chiamandola selva, a dimostrare che differenza non sia da loro sensibile e razional sugietto al vegetabile solo. Onde propriamente di cotal gente selva d'uomini si può dire come selva di vegetabili piante " (cfr. Cv II I 3 li arbori... che non hanno vita di scienza e d'arte; III II 12 la potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra 'l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sl come vedemo ne le piante tutte; e cfr., ‛ a latere ', anche IV VII 15); l'altro: " sicut enim in sylva est magna diversitas arborum, ita in mundo isto diversa varietas hominum et animorum... Sicut etiam sylva est locus incultus, plenus insidiarum, receptaculum ferarum in hominem diversimode saevientum, ita in ista vita inculta sunt diversa genera viciorum saevientum in perniciem animarum et corporum ". Anche in queste chiose, infatti, al di là della diversa connotazione adottata (non senza giustificazione, del resto: Benvenuto risale a Persio, a " Mille hominum species et rerum discolor usus ", V 52), è ben presente il concetto di stato esistenziale di peccato, di privazione, o smarrimento appunto, della grazia, intesa soprattutto come lumen rectae rationis capace di dare all'uomo la forza di uscire dalle oscurità dell'ignoranza e quindi del vizio: la vita configurata dunque come s. per rappresentare " con evidenza pittorica il caos dei sensi; e come tale, dominata dalla confusione, dalla tenebra, dalla cecità " (Battaglia).
Né diversa nella sostanza suona l'interpretazione del Boccaccio, che identifica la s. con l'Inferno, " il quale è casa e prigione del diavolo, nella quale ciascun peccatore cade ed entra sì tosto come cade in peccato mortale " (Esposizioni I II 70), più precisamente la prima delle tre suddivisioni dell'Inferno secondo che " e' pare per lo senso della Scrittura ", cioè quella " superiore... vogliendo che il superiore [Inferno] sia nella vita presente, piena di pene, d'angosce e di peccati. E, di questo parlando, dice il Salmista: Circumdederunt me dolores mortis et pericula inferni invenerunt me [Ps. 114, 3]; e in altra parte dice: Descendant in infernum viventes [54, 16], quasi voglia dire: ‛ nelle miserie della presente vita '. E di questo inferno sentono i poeti co' santi " (Esposizioni, Accessus 46-47). Anche per il Boccaccio, dunque, la s. è su questa terra, è la " vita presente, piena di pene, d'angosce e di peccati ", giusta i testi biblici e patristici (Agost. In Iohann. V XVI 6 " Amara silva mundus hic fuit "; Conf. X XXXV 56 " in hac tam immensa silva plena insidiarum et periculorum "), e come del resto chiaramente lascia intendere D. stesso in Pg XXIII 118, dove, proprio con riferimento alla s., dichiara la sostanza letterale del simbolo: Di quella vita mi volse costui / che mi va innanzi [Virgilio], l'altr'ier, quando tonda / vi si mostrò la suora di colui [la luna].
Gli accenni contenuti nell'episodio di Forese (Pg XXIII 115-117 Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente) e quelli presenti nel rimprovero di Beatrice (XXX 126-138, XXXI 11, 25-30, 34-35, 45, 56, 58-60), assai più circostanziati ma neppur essi violentabili nelle angustie di una precisa vicenda privata, né d'altro canto diluibili o annullabili negli stilemi di un'intenzione esclusivamente allegorica - aliena dallo spirito del poema, a quanto D. sembra implicitamente indicare in Cv II I 8, allorché dichiara la preminenza del senso letterale, che sempre... dee andare innanzi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico -, riconducono innegabilmente a un'esperienza individuale; che non sarà però mai puntualmente rintracciabile nella biografia dantesca, non già per carenza documentaria, ma per recisa volontà di D. stesso, che di proposito persegue l'ambiguità (o, se si vuole, la pregnanza) dell'accenno o della metafora: ambiguità adottata come il solo mezzo retorico funzionale alla garanzia della validità dei due piani istoriale-narrativo e allegorico-esemplare, tra loro paralleli e così necessariamente complementari; e sottolineata dall'uso insistito di un metaforeggiare di ambito generico, dove non a caso si avvertono timbri e colori scritturali (si tolse a me, e diessi altrui, Pg XXXX 126; via non vera, v. 130; imagini di ben... false, v. 131; Tanto giù cadde, v. 136; le memorie triste, XXXI 11; fossi, catene, agevolezze, avanzi, vv. 25-30; Le presenti cose / col falso lor piacer, vv. 34-35; le serene, v. 45; le cose fallaci, v. 56; pargoletta / o altra novità [var. vanità] con sì breve uso, v. 60).
La s. costituisce la proiezione metaforica di uno stato esistenziale individualmente e storicamente localizzabile che, per espressa intenzione del poeta, diviene nel contempo il simbolo di una condizione morale-religiosa non astrattamente categoriale (il peccato) ma paradigmatica (un exemplum), sostanziata quindi non di nuda teorizzazione teologica, bensì di una sofferenza individuale sentita a un tempo come dolore di una collettività inserita in un determinato contesto storico, e come dolore della creatura uomo. Ogni tentativo di esegesi che in qualche misura comporti l'appiattimento di questa pluralità di livelli, o l'esaltazione esclusiva di uno dei ‛ sensi ', ovvero voglia a forza definire ciò che il poeta ha intenzionalmente lasciato nel vago, è fatalmente destinato a fallire.
Sul piano figurale, la s. si potrà definire, data l'ormai ben delineata ipostatizzazione di D. personaggio, come " luogo di determinazione esistenziale della creatura umana ", luogo in cui essa " in statu viae fu posta da Dio ut operaretur (cfr. Gen. 3, 23) dopo che, per peccato d'origine, fu cacciata dal Paradiso terrestre " (Mazzoni, p. 27); D. personaggio rivivrebbe esemplarmente l'esperienza di Adamo - e qui il Mazzoni propone un passo dei Miscellanea (I LVI) di Ugo di San Vittore (Patrol. Lat. CLXXVII 502) - " non perché le condizioni politiche del tempo rappresentino un ripetersi e perpetuarsi del peccato originale, sibbene perché l'uomo, ogni uomo, l'umanità intiera, ogni volta che cada in peccato attuale.... ripete in sé le condizioni spirituali di ribellione a Dio dalle quali nacque il peccato dei nostri progenitori; e viene così a perdere il proprio paradiso in terra, o meglio la possibilità di far fiorire la vita umana in un terreno fertile, ben coltivato, ove il buon seme dia frutto di felicità " (p. 4). In questo ambito acquista tra l'altro singolare suggestione la corrispondenza - più volte sottolineata, tra gli altri, dal Pascoli-tra la s. del proemio e la divina foresta del Paradiso terrestre (selva antica, in Pg XXVIII 23), tra inizio doloroso e termine felice della redenzione umana, viaggio alla riconquista della primitiva innocenza perduta con la colpa, ritorno dell'eterno peccatore Adamo, che si purifica passando attraverso il fuoco espiatorio, alla sede in cui Dio l'aveva originariamente posto: sede che, simboleggiando la beatitudine terrena (Mn III XV 7 beatitudinem... huius vitae, quae in operatione propriae virtutis consist et per terrestrem paradisum figuratur), costituisce il punto di partenza per la seconda parte del viaggio, al raggiungimento della seconda beatitudine, la celeste, quae consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, quae per paradisum coelestem intelligi datur (e l'analogia dei due momenti è sottolineata anche da paralleli narrativi e stilistici: la divina foresta spessa e viva, Pg XXVIII 2; il novo giorno, v. 3; la selva antica, v. 23; non potea rivedere ond'io mi 'ntrassi, v. 24; ed ecco più andar mi tolse un rio, v. 25; l'ombra perpetüa, che mai / raggiar non lascia sole ivi né luna, vv. 32-33; la selva... folta, v. 108).
Il riferimento a una precisa situazione esistenziale del personaggio D., che pur era possibile avvertire sottesa alla lettera dell'episodio iniziale e alle chiose dei primi commentatori, fu esasperato da alcuni esegeti - primo il pur benemerito Dionisi -, i quali, convinti che la Commedia avesse fine esclusivamente politico, quando non addirittura settario, videro simboleggiata nella s. la contingente situazione storica dell'Italia o della Firenze del 1300, tratti a questa forzata interpretazione nei casi migliori da alcune rispondenze testuali ‛ interne ' (ytala silva, VE I XV 1, dov'è però da notare che silva è usata nell'accezione di " congeries "; e trista selva, Firenze, Pg XIV 64), nei peggiori indottivi da una vera e propria deformazione ideologica preconcetta, che li condusse a travisare completamente la lettera degli episodi e il significato complessivo del poema (cfr. per es. Aroux, Eugène; Rossetti, Gabriele).
Né miglior fortuna meritano altre indagini più circoscritte, come quella volta a determinare la durata temporale dell'indugio di D. nella s., il periodo cioè che D. avrebbe trascorso imagini di ben seguendo false. Se è infatti legittimo accettare la durata di un decennio, indicata da D. stesso in Pg XXXII 2 (la decenne sete), e se è lecito - più per la forza della tradizione che per effettiva attendibilità - collocare questo decennio tra il 1290, anno della morte di Beatrice, e il 1300, anno della visione: oziose illazioni, spesso neppure oculatamente formulate, appaiono sia i tentativi di determinare presunte ‛ fasi ' dello smarrimento - per cui, ad esempio, la s., lo passo / che non lasciò già mai persona viva, e la piaggia diserta rappresenterebbero altrettanti segmenti della decennale vicenda biografica -, sia le proposte d'identificazione della pargoletta, delle serene, dell'altra novità.
Una maggior considerazione meritano caso mai i tentativi di chiarire la natura della via non vera per la quale D. volse i passi; in cosa consista cioè la sostanza del traviamento metaforicamente rappresentato dall'immagine della selva. I primi commentatori prospettano sostanzialmente due sole ipotesi, riassumibili la prima, chiaramente legata all'identificazione di Beatrice con la teologia, in quella del Lana (" l'A. non cercava con le soe cognizioni rason alcuna, e a lui sodisfeva ‛ quia sic est ' ", " doventò de teologo, filosofo, diessi ad altro studio "), l'altra in quelle dell'Ottimo (" declinando l'A. a lascivia e vanitade ") e di Benvenuto (" Diessi altrui, scilicet aliis mulieribus "; " Imagini di ben, scilicet honores, dignitates, magistratus vel scientias mundanas, aut poeticas, quae non sunt vera bona, sed imaginaria "). Sono ambedue proposte che nella loro stessa genericità mostrano di derivare praticamente dal testo dantesco, al punto da ripeterne, inconsciamente diremmo, la voluta approssimazione. Inseguirne il dettaglio, come taluni chiosatori moderni hanno tentato, varrebbe ancora una volta forzare le espressioni e le intenzioni del poeta; il quale, pur nell'apparente abbondanza di particolari, preferisce ancora al concreto l'allusione, assai più suggestiva e poco vincolante, e anzitutto essenziale alla struttura composita dell'episodio: riferimenti troppo precisi a una realtà biografica comprometterebbero irrimediabilmente in direzione riduttiva la polisemia del testo, che è quanto invece il poeta più di ogni altra cosa intende salvaguardare nel complesso sistema della sua Commedia.
Per quanto suggestive possano risultare alcune proposte - e merita la citazione, tra le altre, quella del Pascoli: " La selva è la vita adolescente... cui non governa la virtù morale della Prudenza. Ora, poiché dove non è la Prudenza, non sono le altre virtù, così diventa molto scusabile l'errore di tanti, che videro nella selva oscura tutti i vizi " (pp. 242-243) "; " La selva oscura è, come simbolo di mancanza di lume o di virtù che consiglia o di prudenza, così simbolo, conseguentemente, di servitù " (p. 250) -, sarà opportuno dunque restar stretti all'intenzione del poeta; che è, al limite, quella di rappresentare l'agens, il protagonista della sua opera, in una condizione di crisi figuralmente significata, appunto, come smarrimento in una fitta e misteriosa foresta.
L'immagine della s. ha, narrativamente e stilisticamente, ascendenze che è lecito richiamare intorno a questa di Dante. Evidentissima anzitutto; anche in rapporto alle esplicite dichiarazioni, alla fondamentale funzione assegnata al personaggio, ai frequenti richiami testuali, la presenza di Virgilio: l'ingresso dell'Averno è circondato da fitti boschi (Aen. VI 13 " Triviae lucos ", v. 118 " lucis... avernis ", v. 131 " Tenent media omnia silvae ", v. 154 " lucos Stygis ", v. 179 " antiquam silvam ", v. 186 " silvam immensam ", v. 238 " tuta lacu nigro nemorumque tenebris ", e ancora vv. 268-272), la vastità e il tenebrore dell'antro, il senso di paura che incutono l'antro, l'oscurità, l'‛ orrenda ' Sibilla in preda al dio e le figure niellate da Dedalo sui battenti del tempio, tra le quali spiccano l'ambiguo Minotauro " mixtum.... genus prolesque biformis " (v. 25), il Labirinto, " inextricabilis error " al pari della s. dantesca (v. 27); e ancora l'intervento soprannaturale delle due colombe che guidano al ramo d'oro a lui necessario per entrare nell'Averno (vv. 190 ss.), e la circostanza che l'eroe abbia una guida, la Sibilla, lungo tutto il suo viaggio. La suggestione dell'ambiente, dunque, e non poche rispondenze - altre se ne potrebbero evidenziare - riportano all'Eneide, e, più particolarmente, alla catabasi del libro VI.
La s. è però ‛ topos ' narrativo anche nella letteratura medievale latina e romanza (cfr. Curtius, p. 446; Mazzoni, p. 29); e con ogni probabilità da qui lo derivò Brunetto Latini (cfr. Tesoretto 189-190, 1136-1139, 1190-1206), precedente immediato di Dante. Si tratta tuttavia, è persino ovvio notarlo, di ascendenze culturali e topologiche che toccano soltanto il sostrato dell'episodio dantesco, che appare del tutto nuovo, a prescindere dalla prepotente forza dell'arte, per la fortissima implicazione morale e religiosa di cui D. l'arricchisce; implicazione di fatto assente in Brunetto, giacché nel Tesoretto la s. mantiene gli stessi colori e i medesimi intendimenti con i quali compariva nei Mabinogion, nei lai bretoni, nei poemi cavallereschi oitanici: con quei caratteri cioè di luogo deputato del prodigio, che ancora conserverà, per riflesso, nell'Innamorato e nel Furioso.
Si osservi infatti come nel Tesoretto la s. non costituisca un nucleo narrativo o simbolico di valore autonomo, ma sia descritta come un vero e proprio ‛ passage périlleux ' tra due luoghi, il preludio narrativamente più o meno funzionale della ‛ visione ' straordinaria, dell'episodio eccezionale: " venendo per la calle / del pian di Runcisvalle / ... pensando a capo chino / perdei il gran cammino, / e tenni a la traversa / d'una selva diversa. / Ma tornando a la mente, / mi volsi e posi mente / intorno a la montagna: / e vidi turba magna / di diversi animali " (vv. 143-195); " e non fu' guari andato / ch'i' fu' nella deserta, / dov'io non trovai certa / né strada né sentero. E io presi andamento / quasi per aventura / per una valle scura, / tanto ch'al terzo giorno io mi trovai d'intorno / un grande pian giocondo, / lo più gaio del mondo / e lo più dilettoso " (vv. 1188-1223; e si veda anche vv. 1136 ss.). Se qualche implicazione morale sussiste, essa resta completamente afferita alla ‛ visione ' emblematica, quella della Natura, ad esempio (vv. 209 ss.), o all'altrettanto emblematica, lunga teoria delle personificazioni delle scienze e delle virtù (vv. 1144 ss., 1235 ss.), non già alla s. in sé.
Alla base della ‛ figura ' dantesca sta evidentemente una matrice di struttura assai più complessa, alla quale non sarà probabilmente estranea nemmeno la suggestione letteraria del medievale ‛ passage périlleux ', ma dove certo molto più forti, e innegabili, appaiono le componenti di una cultura filosofica in cui convergono, sintetizzati, echi e reminiscenze di tradizioni classiche e cristiane.
L'esegesi secolare ha sondato le presenze scritturali e patristiche, evidenziando tra gli altri s. Agostino (per " Amara silva mundus hic fuit " e " in hac tam immensa silva piena insidiarum et periculorum ", già ricordati), e il " serius alegorizator Virgilii " Bernardo Silvestre (v.), il quale nel commento Super sex libros Aeneidos Virgilii chiosa " lucis... avernis " di Aen. VI 118: " Lucos autem vocat bona temporalia, quia habent qualitates luci qualitatibus consimiles. Quemadmodum enim nemora propter solis absentiam sunt obscura, ita propter defectum rationis temporalia ". Questa chiosa, che s'inserisce - punto particolare del quadro totale - nel solco di quella fulgenziana tesa a vedere arbitrariamente nel poema virgiliano l'allegoria di un viaggio verso la perfezione, richiedeva però un approfondimento. Lo stesso Bernardo Silvestre ribadisce infatti insistentemente l'identità " silva " = " hyle ", " chaos ", " materia " nel De Mundi universitate: " Silva rigens, informe chaos, concretio pugnax, / discolor usiae vultus, sibi dissona massa, / turbida temperiem, formam rudis, hispida cultum / optat et a veteri cupiens exire tumultu / artifices numeros et musica vincla requirit " (I I 18-22); " silva parens, si lucis eget, si noctis abundat " (I 29); " Si quidem hyle ancipiti quadam est conditione inter bonum et malum disposita, sed praeponderante malitia eius vergit inclinatior ad consensum " (I II 23-25; e si noti come questa qualificazione, derivata dallo stoicismo, si accosti d'altro canto all'opinione del Pascoli, che la s. non rappresenti il peccato ma l'assenza di virtù); e ancora " hyle caecitatis sub veterno quae iacuerat obvoluta " (I 94-95). Ora, tale equivalenza - a proposito della quale non sarà ozioso ricordare che il vocabolo ὕλη ha in greco il significato di " foresta " (cfr. per esempio Omero Odissea V 63, XVII 316, ecc.) - risale alla tradizione neoplatonica, giunta a D. per mediazioni innegabili per quanto di difficile accertamento puntuale, a parte forse Alberto Magno (v.) e Boezio (v.). Se tuttavia la " cautela " invocata dal Mengaldo a proposito della diretta conoscenza di Isidoro impedisce di sopravvalutare l'auctoritas di un passo delle Etymologiae (XIII III 1) nel quale si ricorda che " ὕλην Graeci rerum quandam primam materiam dicunt, nullo prorsus modo formatam, sed omnium corporalium formarum capacem ", e che " Hanc ὕλην Latini materiam appellaverunt ... Proinde et eam poetae silvam nominaverunt, nec non incongrue, quae materiae silvarum sunt "; decisamente diversa ci sembra essere la situazione per quanto concerne il commento di Calcidio al Timeo, un testo notissimo nel Medioevo, nel quale un'intera sezione (i capitoli CCLXIII-CCCLV) è riservata alla silva, e dove, per esempio, si legge: " Post enim chaos, quam Graeci hylen, nos silvam vocamus... " (CXXIII); " deus condidit [...] terram vero, quae substantia est corporum, quam Graeci hylen vocant [...] hoc est silva corporea, vetus mundi substantia, prius quam efficta dei opificis sollertia sumeret formas " (CCLXXVIII); " dicit Numerius [...] Pythagoram solius hanc dei fore virtutem ac potentiam asserere, ut quod natura efficere nequeat, deus facile possit, ut qui sit omni virtute potentior atque praestantior, et a quo natura ipsa vires mutetur. [...] Igitur Pythagoras... fluidam et sine qualitate silvam esse censet... sed plane noxiam. Deum quippe esse - ut etiam Platoni videtur - initium et causam bonorum, silvam malorum. [...] Silvam igitur informem et carentem qualitate tam Stoici quam Pythagoras consentiunt, sed Pythagoras malignam quoque. [...] Sed Pythagoras... ait existente providentia mala quoque necessario substitisse, propterea quod silva sit et eadem sit malitia praedita " (CCXCV-CCXCVII).
A questa tradizione attinge, unico tra gli antichi commentatori della Commedia, Cristoforo Landino, il quale in una chiosa troppo trascurata (la ricordano soltanto il Pagliaro e il Battaglia) evidenzia appunto come " la materia corporea " fosse chiamata " in greco ‛ hyle ' e in latino selva ": chiosa meramente ripetitoria, certo, ma che opportunamente rileva sin dall'inizio del poema che le identità luce = ragione, oscurità = materia, tra loro congiunte in stretta dialettica di opposti, fulcro della concezione cosmologica neoplatonica, hanno senza dubbio suscitato risonanze nella concezione metafisica dantesca (v. PLATONISMO), tramata com'essa è sulle equivalenze parallele Dio-ragione-bene / demonio-irrazionalità-male; generando tra l'altro per metaforizzazione narrativa la dialettica ombra-luce così costantemente presente nella Commedia e già per emblemi rappresentata nel canto proemiale sia con la prefigurazione simbolica dei tre regni (selva, Inferno; colle, dilettoso monte, Purgatorio; Sole, Paradiso), sia con il frangersi dei due elementi primari della dicotomia in equivalenti afferibili tutti, distintamente, alle categorie positiva (altezza, colle; luce, sole; gioia; grazia; vita in Dio) e negativa (basso loco, valle; ‛ oscurità '; noia; peccato, diritta via... smarrita; morte spirituale).
In questo particolare ambito di lettura acquistano singolare rilievo alcune immagini ed espressioni dantesche la cui polisemia sembrava esaurirsi nel portato narrativo e figurale-allegorico.
La s. è selvaggia e aspra e forte come la ὕλη non ancora formata, " obvoluta ", " rigens ", ‛ concreta ', secondo alcune qualificazioni di Bernardo Silvestre. È luogo dove 'l sol tace, dove cioè la divina luce vivificante non giunge a raggiare, e quindi a ‛ realizzare ' le forme che per naturale disposizione la materia potenzialmente possiede (e a questa potenzialità che mai vien meno intende con ogni probabilità simbolicamente alludere D. allorché induce la presenza della luna tonda che non... nocque al pellegrino per la selva fonda, If XX 127-129). Dal momento in cui, oppresso da un greve sonno che ne ottunde le facoltà, entra nella s. abbandonando la diritta via segnata dal sole (il pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle), D., il peccatore esemplare, è preda della materia, e non riuscirebbe a uscire dal basso loco in cui è caduto, dal passo / che non lasciò già mai persona viva verso il quale lo risospingono le tre fiere, se non intervenisse il risveglio della ragione (chi per lungo silenzio parea fioco) a segnalare la buona disposizione del cielo a fargli compiere altro viaggio: che sarà una graduale, costante acquisizione di luce, di grazia, fino alla suprema visione dell'amor che move il sole e l'altre stelle.
Bibl. - I. del Lungo, Il canto I dell'Inferno, Firenze 1901; G. Ungaretti, Il canto I dell'Inferno, in " Paragone " III (1952) 5-21 (rist. in Lett. dant. 5-23); C. Ballerini, Il canto della paura, in " L'Albero " 17-18 (1953) 34-49; R. Roedel, Il proemio della D.C., in " Svizzera Italiana " 139 (1959) 1-12 (rist. in Lectura Dantis. Letture e saggi, Bellinzona 1965, 26-40); R. Dragonetti, Chi per lungo silenzio parea fioco, in " Studi d. " XXXVIII (1961) 47-74; P.P. Pusateri, D. e la critica nucleare dalla s. a Dite, Messina-Firenze 1951, passim; G. Getto, Il canto I dell'Inferno, in Lect. Scaligera I (rist. in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 406-415; e in Aspetti della poesia di D., Firenze 1966², 1-16); V. Vettori, Il prologo della Commedia, in Lect. Internazionale. Inferno, Milano 1963, 7-27; B. Nardi, Il preludio alla D.C., in " L'Alighieri " IV (1963) 3-17; R. Dragonetti, Le passage périlleux, in " Convivium " n.s., XXXIV (1966) 3-38; E. Crema, La simbologia del primer canto de la D.C., in " Cultura Universitaria " [Caracas] 91 (1966) 1-16; G. Petrocchi, Il canto I dell'Inferno, in Nuove lett. I 1-69 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 257-275); A. Diotti, Profilo semantico-strutturale di Inferno I-II, in aa. vv., Psicoanalisi e Strutturalismo di fronte a D., II, Firenze 1972, 7-40. A parte andranno citati: Pagliaro, Ulisse 1-69; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 1-148.
Si vedano inoltre: G.A. Scartazzini, Prolegomeni alla D.C. (= D.A., La D.C., IV), rist. anast., Bologna 1965, 163-242, 462-478; G. Pascoli, Prose, a c. di A. Vicinelli, II, Milano 1952, 231-250, 301-342, 1090-1101; B. Croce, La poesia di D. (1920), Bari 19568, 69 ss.; B. Nardi, Intorno al sito del Purgatorio e al mito dantesco dell'Eden, in " Giorn. d. " XXV (1922) 290-300 (rist. in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, 311-336); E. R. Curtius, Europäidische Literatur und lateinisches Mittelalter, Berna 1948; trad. francese, Parigi 1956, 446; M. Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 117-132; G. Contini, D. come personaggio-poeta della Commedia (1958), in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, 335-361; C.S. Singleton, Le due specie di allegoria, in Studi su D.-I. Introduzione alla Commedia, Napoli 1961, 137-154; B. Nardi, Osservazioni sul medievale ‛ accessus ad auctores ' in rapporto all'Epistola a Cangrande, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, 273-305 (rist. in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 268-305); S. Battaglia, Linguaggio reale e linguaggio figurato nella D.C., in Atti del I Congresso naz. studi danteschi (Caserta 21-25 maggio 1961), Firenze 1962, 21-44 (rist. in Esemplarità e antagonismo nel pensiero di D., Napoli 1966); B. Nardi, La fiumana ove 'l mar non ha vanto, in " L'Alighieri " Il 1(1961) 21-26 (rist. in Saggi e note di critica dantesca, cit., 309-313); A. Momigliano, D. Manzoni Verga, Messina-Firenze 1962, 5-13; B. Nardi, Sull'interpretazione allegorica e sulla struttura della Commedia di D., in Saggi e note di critica dantesca, cit., 110-165; G. Della Volpe, Critica del gusto, Milano 1966³, 21-28; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, Padova 1968, XXXVI n. 1. Per i testi latini citati nel corso della voce: Platone, Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus, a. c. di J. H.Waszink, Londra-Leida 1962, 167 r. 6, 282 rr. 7-18, 298 rr. 6-14, 299 rr. 1-10; Isidoro di Siviglia, Etymologiarum libri XX, a c. di W. M. Lindsay, Oxford 1911; Bernardo Silvestre, Comentum super sex libros Aeneidos Virgilii, a c. di G. Riedel, Gryphiswald 1924, 53; ID., De Mundi universitate libri duo sive Megacosmus et Microcosmus, a c. di C. S. Barach e J.Wrobel, Francoforte s. M. 1964, 7, 8, 9, 11.