SELVICOLTURA
. Questo termine può avere significato più o meno ampio, cioè può usarsi per indicare quel ramo delle scienze forestali che riguarda l'impianto e la coltivazione dei boschi, oppure tutto il complesso delle scienze medesime, che è ben più vasto, comprendendo, oltre la selvicoltura propriamente detta, anche la tecnologia forestale, le utilizzazioni del legname e degli altri prodotti silvani, la dendrometria, l'assestamento (ordinamento generale del bosco, nel tempo e nello spazio, basato su criterî culturali, economici e amministrativi), l'idraulica forestale o idronomia (particolarmente riguardante le sistemazioni idrauliche collegate ai rimboschimenti e alla restaurazione della montagna), l'economia e l'estimo forestale, la tutela forestale (difesa dai danni dei boschi, compresi quelli arrecati dai nemici vegetali e animali), il diritto e la politica forestale, le costruzioni stradali ed edilizie collegate all'esercizio della selvicoltura, ecc. Ma se anche si adotta il significato più ristretto della parola, non si può concepire la selvicoltura come avulsa dal suddetto complesso di discipline, poiché essa ha, con le medesime, molteplici contatti.
Il primo periodo della selvicoltura può definirsi "conservativo" e corrisponde alle più antiche civiltà dell'Oriente e a quella ellenica. Esso è informato essenzialmente al carattere sacro dei boschi e al culto per gli alberi.
La Grecia sviluppò il culto degli alberi e dei boschi, come le più antiche culture orientali; però, mentre conservava gelosamente i boschi sacri o selve nazionali affidate ai sacerdoti, già all'epoca di Aristotile, aveva denudato le montagne dell'Attica e le grandi isole dell'arcipelago. Più tardi, poiché i Greci conoscevano benissimo l'influenza dei boschi sul regime delle acque e sulla conservazione delle sorgenti, i boschi sacri, considerati quali selve nazionali, furono aumentati di numero e di superficie e la loro cura fu affidata a un corpo di tecnici, tra i quali gli ὑλωροί o ispettori della campagna e dei boschi, che per primi attuarono la costruzione di serre o briglie e di fossi a girapoggio per frenare le acque torrentizie; anche gli ἀγροϕύλακες dovettero curare il buon governo e l'amministrazione delle selve. Dagli scrittori greci risulta che i boschi della Grecia non erano foreste annose e selvagge, ma pittoresche e gaie coltivazioni di alberi ornamentali e fruttiferi; oliveti, aranceti e palmeti si associavano a gruppi di salici, di pini domestici, di frondosi platani.
Ciò dimostra che a quei tempi si delineava quella fusione tra selvicoltura e arboricoltura da frutto che ancora oggi è una delle caratteristiche più spiccate della regione mediterranea.
Il periodo successivo, o quello della selvicoltura romana, segna un notevole progresso. Anche i Romani ebbero i loro boschi sacri, nei quali era rispettato il governo ad alto fusto, ché quello a ceduo non avrebbe dato al bosco la solenne maestà di un tempio arboreo. Molto più attivo era però l'intervento dei Romani nei boschi non riservati al culto.
L'ordinamento di quei boschi dimostrava l'attuazione di norme di razionale selvicoltura e di buona amministrazione che ancora oggi vengono seguite: così l'esatto catasto e confinazione, il divieto di pascolo, specialmente caprino, nella stagione primaverile e nei boschi novelli, la disciplina della raccolta dello strame, dei trasporti del materiale legnoso, il rilascio delle salve o matricine nel taglio dei cedui, l'epoca del taglio stesso e così via. Già nelle regole della selvicoltura romana si trova la definizione del bosco di protezione o mantello boschivo (supercilium) destinato a sostenere l'urto dei venti o a prevenire le valanghe. Inoltre l'antica Roma diede per prima l'esempio della costituzione di un grande demanio forestale dello stato (facente parte dell'ager publicus) con speciale tutela su quelle foreste che servivano come dotazione delle miniere, saline e arsenali marittimi, terme pubbliche e imprese edilizie statali amministrate dai censori. Altri boschi erano, anche se di proprietà privata, conservati e curati prevalentemente per la loro funzione idrogeologica, cioè per quelle ragioni di pubblico interesse che determinano l'attuale "vincolo forestale", sebbene la legge romana si affidasse per tale conservazione ai proprietarî del bosco, intervenendo solo nel caso di manifesta incuria o di danno da parte dei proprietarî stessi.
Le conoscenze sulla biologia, sulle attitudini e sull'impiego delle principali specie forestali erano vastissime e profonde presso i Romani, come attestano le Georgiche virgiliane. Può dirsi che quasi tutte le operazioni colturali che oggi vengono eseguite nei boschi, dal loro impianto sino alla loro utilizzazione, fossero già conosciute dai Romani; tutta una nomenclatura tecnica le definisce con termini precisi, dai quali sono derivati quelli oggi in uso. Oltre a Virgilio, anche Catone, Varrone, Igino, Plinio, Columella, Palladio Rutilio possono considerarsi in senso lato, scrittori di selvicoltura. Molte delle loro cognizioni trassero origine dagli studî naturalistici dei Greci, particolarmente dall'opera di Teofrasto.
Già verso il declinare dell'Impero romano, con l'estendersi dei latifondi e della pastorizia, la superficie boschiva cominciò a subire grandi falcidie. Tuttavia, cessate le guerre, i barbari costituirono vaste riserve feudali per esercitare la caccia e la pesca. In questi demanî le foreste predominavano, ma, dato il loro scopo prevalentemente venatorio, non vi si esercitava una selvicoltura razionale. Nel sec. III e nel IV le proprietà boschive passarono gradualmente dagli antichi feudatarî alle chiese e agli ordini monastici e a questi si deve se, nei secoli successivi, una cospicua parte del patrimonio forestale fu salvata dalla distruzione e specialmente dal lento, ma inesorabile impoverimento dovuto all'esercizio degli usi civici da parte delle popolazioni (diritto di legnatico, di ghiandatico, di pascolo, d'arroncamento o dissodamento).
In questo primo periodo della selvicoltura splende di viva luce l'opera spiegata dai benedettini, ai quali si deve l'impianto di gran parte della celebre pineta di Ravenna e di quella di Cervia, mediante la semina di pino domestico (Pinus pinea), esempio poi seguito dall'arcivescovo di Pisa per le pinete di Tombolo e di Coltano. Sull'Appennino toscano i camaldolesi iniziarono l'allevamento delle cerrete e delle attuali maestose abetine e altrettanto fecero a Vallombrosa adottando sistemi che ancora oggi vengono seguiti. Ad Alberto Magno, si deve la prima e una delle più notevoli opere di botanica, anche forestale, del Medioevo intitolata De vegetabilibus et plantis (1260).
L'avvento dei comuni segnò un'era disastrosa per le foreste e la selvicoltura, tanto che le rovine private e pubbliche conseguenti alla devastazione dei boschi determinarono la necessità di leggi forestali per la loro tutela e per la disciplina della loro utilizzazione. Fra tutti gli stati primeggia in questo campo la Repubblica di Venezia, nella cui grandiosa opera legislativa troviamo norme di una selvicoltura quanto mai razionale e adatta alle peculiari condizioni dei boschi veneti. Infatti, sino dal sec. VII, Venezia, sull'esempio di Roma, costituì un demanio forestale dello stato e nel 1453 ne affidò la gestione al "magistrato dei provveditori alla legna e ai boschi". Ma solo a cominciare dal 1501, passata l'amministrazione forestale sotto il Consiglio dei Dieci, questo la organizzò in modo tale da farne un modello insuperabile.
Nel Medioevo le opere italiane di selvicoltura scarseggiano grandemente: ricordiamo il trattato di agricoltura Ruralium commodorum lib. XII di Pietro de Crescenzî. Solo agli albori del 1500 si nota un risveglio di studî sugli alberi e le foreste, e lo iniziano il napoletano Giambattista Della Porta con la sua opera Villae, ecc., e Leonardo da Vinci col trattato Degli alberi e delle verdure. Gian Vittorio Soderini di Firenze scrive poi il Trattato di agricoltura e degli arbori, seguito da U. Aldrovandi di Bologna (Opera omnia, e Dendrologia) e Bernardo Davanzati (Coltivazione toscana delle viti e d'alcuni arbori). Queste opere tuttavia sono, per lo più, rielaborazioni della materia dei classici antichi e non ebbero sensibili ripercussioni sullo sviluppo della selvicoltura italiana. In tutto il sec. XVII poi non si nota alcun contributo scientifico degno di nota. Altrettanto può dirsi per la produzione scientifica francese nella quale spiccano, nel Rinascimento, le opere di Bernard de Palissy e di Olivier de Serres.
Intanto di là dalle Alpi si succedevano alcune tappe importanti nel cammino della selvicoltura. Già nel 1376, con l'ordinanza di Melun, considerata il primo codice forestale francese, si prescriveva un sistema di trattamento delle fustaie di quercia che nel 1573, per ordinanza di Carlo IX, fu modificato prendendo il nome di "coupe à tire et ayre"; essa può considerarsi l'origine dei moderni sistemi di rinnovazione delle fustaie a taglio successivo. Altra tappa importantissima fu l'ordinanza di Colbert del 1669, nella quale il grande ministro organizzava su nuove basi tutte le foreste dello stato, dettando precise norme di selvicoltura e di assestamento.
Anche in Germania e in Svizzera nel sec. XVI e nel XVII vennero emanate numerose ordinanze di polizia forestale che ebbero notevoli ripercussioni sull'esercizio della selvicoltura; può dirsi però che in quel periodo nelle foreste demaniali e feudali gli scopi venatorî prevalessero grandemente su quelli colturali.
Soltanto all'inizio del sec. XVIII si nota un risveglio degli studî forestali in tutti i paesi e compaiono veri e proprî trattati di selvicoltura, come la Silvicoltura oeconomica di Hans Carl von Carlowitz di Jena (1713), alla quale seguono fra il 1756 e il 1763 numerosi scritti di J. G. Beckmann e quelli della numerosa schiera dei cosiddetti cameralisti, che gettarono le basi dell'economia e dell'assestamento forestale nei paesi tedeschi. In Francia, invece, due grandi opere portarono un nuovo e grande contributo alla botanica e biologia forestale, il Traité des arbres (1755) e la Physique des arbres (1768) di Duhamel de Monceau; nella seconda metà del sezolo comparvero in Germania, sullo stesso argomento, alcuni notevoli scritti di F.-A. Burgesdorf, F.-C. Medicus, G. A. Däzel.
L'inizio del sec. XIX segna una svolta decisiva nel cammino della selvicoltura, che si avvia ad assumere una propria individualità per opera di insigni studiosi, quali R. Hartig e H. Cotta in Germania, B. Lorentz e A. Parade in Francia. La fucina della nuova scienza si ebbe nelle prime accademie forestali europee, cioè in quella di Tharandt in Sassonia, fondata dal Cotta nel 1816, e nella celebre École Nationale des Eaux et Forêts a Nancy, fondata dal Lorentz nel 1824. Da allora lo sviluppo degli studî forestali assume sempre maggiori proporzioni, tanto che una ricchissima letteratura forestale si è venuta formando nell'ultimo secolo. L'economia, la legislazione e la stessa politica forestale, naturalmente vengono influenzate da tale progresso di studî, assurgendo, in alcuni paesi, a importanza addirittura preminente. In tutto il sec. XIX la scuola tedesca e la scuola francese hanno il predominio assoluto nelle scienze forestali; in tempi più recenti hanno cominciato ad affermarsi i paesi anglosassoni e, tra i latini, l'Italia.
Uno sguardo all'evoluzione della selvicoltura francese e tedesca, dall'inizio del sec. XIX a oggi, fa osservare il contrasto fra due indirizzi della selvicoltura, l'uno economico finanziario, l'altro naturalistico. In Germania e in Austria, soprattutto per l'influenza dei cameralisti e più tardi, del Hartig, Hundeshagen, ecc., si affermò il principio del massimo reddito netto, che condusse alla sostituzione su larga scala delle foreste naturali con impianti artificiali di specie più redditizie, quali il pino silvestre e specialmente l'abete rosso (Picea excelsa), che fu chiamato dai tedeschi "l'albero d'oro". Invano illustri scienziati tedeschi come K. Gayer e H. Mayr dimostrarono i pericoli di un eccessivo estendersi dei boschi artificiali monofitici e coetanei; lo sviluppo enorme delle industrie che inghiottivano crescenti quantità di legname di conifere incoraggiava sempre più la selvicoltura "finanziaria" e così in poco più di un secolo la proporzione tra latifoglie e conifere nelle foreste germaniche fu invertita da 2:1 a 1:2. Dalla Germania il bosco puro e coetaneo di pino e di abete dilagò in Austria, Svizzera, insomma in tutta l'Europa centrale.
Le conseguenze di questa selvicoltura artificiale si sono manifestate in questi ultimi decennî. Regresso di fertilità, peggioramento delle condizioni fisiche del suolo, indebolimento generale della vegetazione, danni enormi per cicloni e bufere, invasioni di parassiti animali e vegetali. Sono oggi i Tedeschi i primi a riconoscere questo indirizzo antinaturale della loro selvicoltura e a dedicarsi con grande fervore a rimediare agli errori passati, il che è però assai difficile. Ben diversa è la situazione in Francia, dove la scuola di Nancy ben presto si liberò della dottrina tedesca per dare alla selvicoltura un indirizzo forse troppo gelosamente conservativo, ma che ebbe il grande merito di non violare le leggi naturali seguendo l'aurea massima di Parade: "aider la nature, hâter son oeuvre". Così quegli insetti devastatori che arrecano annualmente danni di centinaia di milioni alle pinete e abetine tedesche si arrestano al di là del Reno, di fronte alle foreste francesi a rinnovazione naturale che hanno conservato generalmente la struttura primitiva: "peuplements solides", dicono i Francesi, che hanno sfidato e sfideranno i secoli.
Non è da meravigliare che questo confronto tra i risultati delle due scuole abbia dato un impulso decisivo all'indirizzo attuale della selvicoltura prettamente naturalistico. A tale indirizzo hanno contribuito e contribuiscono i progressi rapidissimi di quelle dottrine che formano la base scientifica della selvicoltura; da un lato la fitogeografia e il suo più recente e rigoglioso ramo, la fitosociologia, dall'altro la climatologia e la scienza del suolo o pedologia, nella quale assume importanza sempre maggiore la microbiologia.
Siccome la mancata valutazione dei rapporti reciproci tra foresta e ambiente è stata la causa dei gravi errori commessi, è chiaro che l'ecologia, cioè lo studio dei rapporti tra organismo e ambiente, sia divenuta la base della selvicoltura qual'è modernamente concepita, e che perciò, nutrita dalle discipline dianzi citate, si sviluppi oggi l'ecologia forestale come base della selvicoltura. Per conseguenza si riscontra oggi un'intima fusione degli specialisti forestali con i cultori di altre discipline e specialmente con i botanici e fitogeografi.
A questo moderno indirizzo della selvicoltura - che ebbe come grandi precursori K. Gayer, B. Borggreve, H. Mayr in Germania, G. F. Morosov in Russia - hanno portato il loro contributo numerosissimi studiosi e soprattutto i ricercatori dei numerosi istituti sperimentali sparsi in tutto il mondo. I lavori, pubblicati nella ricchissima produzione internazionale di riviste, di atti e di pubblicazioni speciali, sono stati elaborati e ordinati sistematicamente in recenti trattati, come quelli di A. Dengler, K. Rubner (Germania), J. W. Toumey (U. S. A.), K. S. Troup (Inghilterra).
A questo fervore di studî e di ricerche l'Italia partecipa oggi attivamente, grazie all'opera dei suoi centri di alta coltura forestale, come il R. Istituto superiore agrario e forestale di Firenze, fondato nel 1914, e la R. Stazione sperimentale di selvicoltura, fondata nel 1929.
Fortunatamente l'Italia, pure essendo il suo patrimonio forestale stremato attraverso i millennî della sua storia, non deve lamentare dannose deviazioni della selvicoltura da un sano equilibrio tra i suoi scopi economici e il suo indirizzo naturalistico, e ciò grazie alle direttive impartite per molti decennî dall'Istituto forestale di Vallombrosa (soppresso nel 1914) ai tecnici forestali italiani e grazie anche all'innato buon senso e al concetto di universalità al quale l'Italia ha sempre ispirato la sua coltura.
Certo è che oggi gli studiosi italiani, essendo all'avanguardia nella concezione di una selvicoltura a base ecologica, lavorano attivamente, coadiuvati nel campo non solo pratico e realizzatore ma anche sperimentale dalla benemerita Milizia forestale, a conferire alla selvicoltura italiana una propria individualità, nella cornice più vasta della selvicoltura mediterranea. Su questa via si è già fatto molto cammino, dopo la costituzione della Silva mediterranea, lega internazionale forestale tra paesi mediterranei, i quali debbono riguadagnare il tempo perduto, costruendo un edificio di scienza e di esperienza non meno importante di quello della selvicoltura medioeuropea e nordica, della quale non solo i dettagli, ma anche le leggi fondamentali, possono trovare scarsa applicazione nei paesi del bacino mediterraneo (v. bosco; diboscamento; rimboschimento).
Bibl.: A. di Berenger, Selvicoltura, Napoli 1887; L. Piccioli, Le piante legnose italiane, Firenze 1890; V. Perona, Selvicoltura generale, Milano 1905; A. Pavari, Studio preliminare sulla coltura di specie forestali esotiche in Italia, I: Parte generale, Firenze 1916; II: Parte descrittiva, sez. 1ª; Conifere, ivi 1921; L. Piccioli, Selvicoltura, Torino 1923; R. Istituto superiore agrario e forestale (autori varî), Italia forestale, Firenze 1926; A. Pavari, Lineamenti di selvicoltura comparata su basi ecologiche, ivi 1932; L'Alpe, Rivista forestale italiana, 1914 e segg.