Semiologia
di Luis J. Prieto
Semiologia
sommario: 1. Introduzione. 2. Semiologia della comunicazione. 3. Semiologia della connotazione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Quando, agli inizi del secolo, F. de Saussure intraprende lo studio della lingua tentando di ‟trovarne la natura fondamentale", essa gli si presenta anzitutto come un sistema di segni, il cui studio dovrà di conseguenza richiamarsi alla scienza che si occupi di tale specie di sistemi (cfr. Engler, in Saussure, 1958, p. 47). Questa scienza non esisteva ancora in quel momento, ma Saussure prevede il posto che essa dovrà prendere in rapporto alla linguistica e la battezza con il nome di ‛semiologia'. Il termine sonnecchia per vari decenni, finché nel 1943 E. Buyssens si propone esplicitamente di dare esecuzione al progetto saussuriano (v. Buyssens, 1943, p. 6). Molto prima di tale data, tuttavia, altri linguisti, intendendo studiare null'altro che la lingua, avevano stabilito principi validi, in realtà, non per le lingue in particolare, ma per i sistemi di segni in generale, gettando così le fondamenta della scienza alla quale Buyssens doveva dare forma organica e confermando nel contempo la correttezza del punto di vista di Saussure. I limiti che Buyssens fissa alla disciplina, che sono quelli fino ai quali la riflessione si estende spontaneamente quando si cerca di stabilire la ‛natura fondamentale' della lingua, coincidono con i limiti di ciò che si chiama la ‛comunicazione' (ibid., p. 12). Poiché tutti i fatti di lingua sono fatti comunicativi, ma ci sono, per contro, fatti comunicativi che non sono fatti di lingua, la semiologia, così come viene concepita da Buyssens, costituisce, dunque, una sorta di linguistica ampliata. Questo ampliamento, però, è seguito da un movimento di ritorno che riconduce ai fatti di lingua ci sembra infatti che l'interesse principale della semiologia così intesa risieda nell'aiuto alla comprensione dei fatti di lingua che deriva dalla loro considerazione nel quadro più vasto della comunicazione in generale.
Negli anni sessanta si sviluppa nella semiologia un'altra tendenza che riconosce in R. Barthes il suo principale ispiratore. Essa, ritenendo i fatti di cui la disciplina si era fino allora trovata a occuparsi, tranne quelli rientranti nel dominio della lingua, di interesse irrisorio (v. Barthes, Présentation..., 1964, p. 1), propone di ampliare ancora il suo ambito. Quali che siano l'interesse e l'opportunità di questo nuovo ampliamento, il punto di vista sul quale ci si fonda nel proporlo ha il torto di ignorare il ritorno ai fatti di lingua menzionato sopra, in virtù del quale è dall'importanza delle lingue stesse che la semiologia fatta da Buyssens trae la sua propria. La semiologia proposta da Barthes, d'altronde, tenta di derivare dalla linguistica concetti che le servano per lo studio del suo oggetto (v. Barthes, Éléments..., 1964). Qualunque sia quindi l'importanza che essa attribuisce alle lingue, basta già, ci sembra, che ne conceda una al proprio oggetto, perché l'esistenza di una disciplina che concorre al raffinamento dei concetti della linguistica, com'è la semiologia nella forma in cui Buyssens la concepisce, venga al tempo stesso giustificata.
Queste due tendenze, le quali, lungi dall'essere opposte, sono in realtà complementari, riassumono nell'essenziale la semiologia così come oggi si presenta. La denominazione, da noi proposta (v. Prieto, 1966, p. 94), di ‟semiologia della comunicazione", comincia a diventare usuale per la prima. Per l'altra, basandoci sulla distinzione fatta da Barthes fra ‛comunicazione' e ‛significazione' (v. Barthes, Présentation..., 1964, p. 1), noi stessi impiegavamo il nome di ‟semiologia della significazione". I fatti, però, di cui si occupa quest'ultima tendenza della semiologia, sempre più ci appaiono come dipendenti dal fenomeno che si chiama ‛connotazione', il che ci induce a proporre qui di designarla più propriamente con il nome di ‛semiologia della connotazione'.
La seguente esposizione deriva la sua forma dalla situazione in cui, secondo quanto detto sopra, la disciplina attualmente si trova: così a una prima parte, in cui presenteremo alcuni punti basilari della semiologia della comunicazione, seguirà una seconda e ultima nella quale ci occuperà ciò che ci sembra debba costituire i fondamenti di una semiologia della connotazione. La diversa estensione di queste due parti riflette i diversi gradi di sviluppo raggiunti rispettivamente dalle due tendenze, almeno nei loro aspetti generali. Anche il tono dell'esposizione corrisponde a quello che riteniamo sia lo stato attuale di ciascuna delle discipline sorelle: non è affatto per caso, e neppure si deve a una posa, se i ‛forse' e i, ‛ci sembra' nella seconda parte pullulano.
2. Semiologia della comunicazione
Un fatto fornisce un indicazione e costituisce quindi un indice quando, dalla constatazione della sua appartenenza a una classe determinata, si può dedurre l'appartenenza di un altro fatto a un'altra classe determinata. Così il colore presentato dal cielo alla sera costituisce per il pescatore un indice nella misura in cui, constatando, per esempio, che esso appartiene alla classe dei cieli grigi, egli può prevedere che l'indomani il mare apparterrà alla classe dei mari cattivi. Si possono distinguere tre classi di indici. La prima è quella degli indici ‛spontanei', formata dai fatti che forniscono indicazioni ma non sono affatto prodotti a questo scopo, sia che si tratti di fatti naturali oppure di fatti prodotti dall'uomo, ma involontariamente o con un'intenzione diversa da quella di indicare checchessia. Così il colore del cielo che indica al pescatore come sarà il mare l'indomani costituisce, trattandosi di un fatto naturale, un indice spontaneo. E parimenti un indice spontaneo, ad esempio, il particolare accento con cui un tale pronuncia una determinata lingua e che rivela la sua qualità di straniero: non si tratta in questo caso di un fatto naturale ma, essendo in linea di principio un fatto prodotto involontariamente, dev'essere classificato nella stessa categoria. Il comportamento, infine, di chi introduce un grimaldello in una serratura, che indica la sua intenzione di svaligiare un appartamento, è certo un fatto prodotto volontariamente, ma non essendo stato prodotto, evidentemente, per indicare quest'intenzione, appartiene parimenti alla categoria degli indici spontanei.
Una seconda categoria di indici, meno importante delle altre due, ma di cui bisogna però tener conto per ben delimitare queste ultime, è quella degli indici ‛falsamente spontanei'. Appartengono a questa categoria i fatti prodotti espressamente perché forniscano indicazioni, i quali però, perché sia raggiunto lo scopo che si è proposto chi li produce, debbono apparire come se non fossero prodotti con tale intenzione e debbono cioè apparire come se fossero indici spontanei (v. Buyssens, 1943, p. 11). L'accento, nella misura in cui viene contraffatto da un parlante desideroso di farsi riconoscere come straniero (il che, d'altronde, può non essere falso), costituisce un esempio di indice appartenente a questa categoria: l'accento contraffatto, infatti, non potrebbe indicare la condizione di straniero del parlante che nella misura in cui apparisse, non già imitato, bensì spontaneo.
La terza categoria di indici, infine, è quella degli indici ‛intenzionali', costituita dai fatti che forniscono indicazioni, che sono stati prodotti espressamente per fornirle, e che raggiungono questo scopo solo a condizione di essere riconosciuti come prodotti per raggiungerlo. Un indice appartenente a questa categoria è, per esempio, un cartello stradale di ‛limite di velocità', il quale indica che la polizia stradale vieta di circolare al di sopra di una certa velocità: si tratta, in questo caso, di un fatto che la polizia stradale produce espressamente per indicare agli utenti della strada che sussiste tale divieto, e che non raggiunge il suo scopo se non a condizione che gli utenti della strada lo riconoscano come prodotto espressamente a tal fine (v. Buyssens, 1943, p. 12; v. Prieto, 1966, pp. 7-8).
Un indice intenzionale o, più esattamente, un indice intenzionale che soddisfi certe condizioni che ne fanno una unità, è ciò che si chiama un ‛segnale'. Le condizioni che un indice intenzionale deve soddisfare per formare un'unità e costituire così un segnale consistono, da una parte, nell'essere autonomo, cioè nel non essere necessariamente accompagnato da un altro fatto distinto da esso dal punto di vista spazio-temporale e costituente parimenti un indice intenzionale; e, d'altra parte, nel non essere analizzabile in parti distinte tra loro dal punto di vista spazio-temporale e costituenti ciascuna, a sua volta, un indice intenzionale autonomo. Si tratta, come si vede, delle condizioni che distinguono, da una parte, un segnale da un frammento di segnale e, dall'altra, un segnale da un gruppo di segnali. Così, la corona circolare rossa nel suddetto cartello stradale costituisce un indice intenzionale, il quale indica che la polizia vieta qualcosa (v. Buyssens, 1943, p. 36), ma non costituisce un indice intenzionale autonomo e neppure, di conseguenza, un segnale, giacché è necessariamente accompagnata da un cerchio interno bianco con un numero in nero, o da una tromba traversata da una sbarra, ecc. D'altra parte, l'oggetto formato congiuntamente da un cartello stradale di ‛limite di velocità' e da un altro di ‛divieto di sorpasso' costituisce certamente un indice intenzionale autonomo, ma non costituisce neppure esso un segnale, poiché vi si possono ravvisare due parti distinte dal punto di vista spazio-temporale, cioè i due cartelli menzionati, ognuna delle quali costituisce a sua volta un indice intenzionale autonomo. Un cartello di ‛limite di velocità', invece, che pur essendo un indice intenzionale autonomo non è analizzabile in parti che lo siano anch'esse, costituisce un segnale.
È l'uso di segnali che definisce la comunicazione (ibid., pp. 9-12): si ha a che fare con un atto di comunicazione o ‛atto semico' ogni volta che un ‛emittente', producendo un segnale, cerca di fornire un'indicazione a un ‛ricevente'. Ben si comprende come sia lo studio dell'indicazione che deve costituire il fondamento della semiologia della comunicazione.
Come la definizione di indice formulata sopra e gli esempi coi quali viene illustrata lasciano già intravedere, l'indicazione mette in rapporto quelli che si chiamano in linguistica due ‛piani' e, in termini di logica, due ‛universi di discorso'. L'uno è quello cui appartiene l'indice e che viene formato, oltre che dall'indice stesso, da tutti gli altri fatti che avrebbero potuto comparire al suo posto; l'altro è quello cui appartiene il fatto sul quale verte l'indicazione, e che viene formato, oltre a tale fatto, da tutti gli altri su cui l'indicazione avrebbe potuto vertere. Tali piani o universi di discorso saranno chiamati, in seguito, il piano o universo di discorso ‛indicante' e il piano o universo di discorso ‛indicato'. Diremo così, ritornando al nostro primo esempio, che il colore effettivamente presentato dal cielo alla sera e tutti gli altri che il cielo avrebbe potuto presentare formano in questo caso l'universo di discorso indicante, e che lo stato in cui il mare si troverà effettivamente l'indomani e tutti gli altri stati in cui il mare potrebbe trovarsi formano a loro volta l'universo di discorso indicato.
L'indice è beninteso il fatto che ha effettivamente luogo nell'universo di discorso indicante, così come il fatto su cui verte l'indicazione, e che chiameremo nel seguito l'‛indicato', è il fatto che ha effettivamente luogo nell'universo di discorso indicato. Ora, se il constatare l'appartenenza del fatto che ha effettivamente luogo in un universo di discorso a una certa classe permette di dedurre l'appartenenza del fatto che ha effettivamente luogo in un altro a una classe determinata, e se questi fatti possono così diventare un indice e il suo indicato e i loro rispettivi universi l'universo di discorso indicante e l'universo di discorso indicato, ciò accade perché tra certe classi del primo universo di discorso e certe classi dell'ultimo esistono correlazioni tali che, sempre, quando il fatto che ha effettivamente luogo nell'uno appartiene a una di tali classi, il fatto che ha effettivamente luogo nell'altro appartiene alla classe correlativa corrispondente. Così, se il cielo grigio è indice di mare cattivo, ciò accade perché, quando il colore che il cielo presenta a sera appartiene alla classe dei ‛cieli grigi', lo stato in cui il mare si trova l'indomani appartiene sempre alla classe dei ‛mari cattivi'. Bisogna osservare che questo tipo di correlazione, che costituisce il fondamento stesso dell'indicazione, presuppone che l'appartenenza dell'indice a una classe determinata sia condizione sufficiente dell'appartenenza dell'indicato alla classe correlativa corrispondente, ma non che ne sia condizione necessaria: per esempio, perché il cielo grigio possa diventare indice di mare cattivo basta che sempre, quando il cielo è grigio a sera, il mare sia cattivo l'indomani, anche se il mare può essere cattivo l'indomani senza che il cielo sia grigio a sera. La correlazione fra due classi su cui si fonda l'indicazione non è quindi una correlazione simmetrica, vale a dire che una classe appartenente all'universo di discorso indicante che è correlativa a una classe appartenente all'universo di discorso indicato non si trova, riguardo a quest'ultima, nella stessa situazione in cui quest'ultima si trova riguardo alla prima. Vedremo qualche conseguenza di questo fatto.
Se una classe appartenente all'universo di discorso indicante è correlativa, nel senso sopra definito, a una classe appartenente all'universo di discorso indicato, essa è ugualmente correlativa a ogni classe appartenente all'universo di discorso indicato che si trovi, rispetto alla prima, in rapporto logico di inclusione come termine includente. Supponiamo infatti - prendendo un esempio che ammette più varianti dei precedenti e ci sarà perciò più utile - che quando le tracce lasciate da un animale appartengono alla classe delle ‛tracce relativamente piccole a forma di ferro di cavallo' questo animale appartenga sempre alla classe degli ‛asini': è allora evidente che, quando le tracce appartengono alla classe menzionata, l'animale che le ha lasciate appartiene sempre anche alla classe degli ‛equidi', e che lo stesso vale per ogni classe che, come quest'ultima, sia includente rispetto alla classe degli ‛asini'. Se, d'altra parte, una classe appartenente all'universo di discorso indicante è correlativa a una classe appartenente all'universo di discorso indicato, ogni classe appartenente all'universo di discorso indicante che si trovi, rispetto alla prima, in rapporto logico di inclusione come termine incluso è ugualmente correlativa alla detta classe appartenente all'universo di discorso indicato. Così è evidente che se la classe delle ‛tracce a forma di ferro di cavallo' è correlativa alla classe degli ‛equidi', la classe delle ‛tracce relativamente piccole a forma di ferro di cavallo', inclusa rispetto alla prima, è anch'essa correlativa alla classe degli ‛equidi'. Segue da quanto detto che un indice ammette più di una interpretazione, vale a dire che l'interprete può riconoscere l'appartenenza dell'indice a più di una classe e può parimenti dedurne l'appartenenza dell'indicato a più di una classe. Si pone dunque il problema di determinare qual è l'interpretazione che l'interprete fa effettivamente dell'indice, e cioè a che classe egli riconosce che appartiene l'indice e a che classe ne deduce che appartiene l'indicato.
Per giungere a una conclusione circa questo problema, bisogna tener conto di un fatto che è stato finora praticamente ignorato e la cui importanza ci sembra tuttavia fondamentale, non soltanto per il problema che ci occupa qui, ma anche, nella sua forma più generale, per parecchi altri. Chi cerca di ottenere un'indicazione da un fatto suscettibile di fornirgliela deve necessariamente avere già sottomesso gli oggetti componenti l'universo di discorso che, nell'indicazione, diventerà l'universo di discorso indicato, a una classificazione che precede logicamente la classificazione presupposta dall'indicazione e alla quale quest'ultima classificazione verrà subordinata. Se, infatti, qualcuno cerca di ottenere un'indicazione, è perché si trova in una qualche incertezza circa ciò che accade nell'universo di discorso menzionato. Ora questa incertezza consiste sempre nel non sapere a quale classe appartenga l'oggetto con cui si ha effettivamente a che fare, cioè l'oggetto che diviene nell'indicazione l'indicato, fra due o più classi che si trovano tra loro in rapporto logico di esclusione e nelle quali vengono distribuiti gli oggetti componenti il detto universo di discorso. L'interpretazione che viene fatta dall'interprete dipende in primo luogo da questa sua incertezza e, in secondo luogo, dalla tendenza all'economia. L'interprete, infatti, compie sempre una delle interpretazioni che gli consentono una maggiore riduzione della sua incertezza, e, fra tali interpretazioni, sceglie sempre quella che è la più economica nel senso che presuppone la classificazione meno precisa dell'indice e dell'indicato. L'incertezza dell'interprete sparisce totalmente quando egli riesce a sapere a quale, fra le classi che la determinano, appartiene l'indicato. L'incertezza dell'interprete diminuisce senza però sparire totalmente quando egli riesce a sapere che l'indicato appartiene a una classe non universale uguale alla somma logica di due o più delle classi che determinano la detta incertezza. S'intende che più questa classe è ampia e tanto minore è la riduzione dell'incertezza, riduzione che è al contrario maggiore quanto più è ristretta la classe in questione. La conseguenza di quanto viene detto è che, fra tutte le classi alle quali l'interprete può dedurre che appartiene l'indicato, la classe alla quale egli deduce effettivamente che esso appartiene è la più ristretta di quelle che coincidono o con una delle classi che determinano la sua incertezza o con la somma logica di due o più di quest'ultime classi. Supponiamo, infatti, che ci fosse, tra le classi alle quali l'interprete può dedurre che appartiene l'indicato e che coincidono con una delle classi determinanti la sua incertezza o con la somma logica di due o più di queste classi, una classe più ristretta di quella alla quale egli deduce effettivamente che esso appartiene: ci sarebbe allora un'altra interpretazione che consentirebbe una maggiore riduzione della sua incertezza; supponiamo invece che l'interprete deducesse che l'indicato appartiene a una classe non coincidente con una delle classi che determinano la sua incertezza o con la somma logica di parecchie di queste classi: ci sarebbe allora un'altra interpretazione possibile la quale, pur implicando una meno precisa classificazione dell'indicato, consentirebbe una uguale riduzione dell'incertezza. In entrambi i casi ci sarebbe dunque un'interpretazione possibile che, secondo quanto abbiamo detto, verrebbe preferita dall'interprete a quella che abbiamo supposto egli faccia. Se, ad esempio, la domanda che l'interprete delle tracce si pone è se l'animale che le ha lasciate è un asino, un cavallo o un bue; tra una interpretazione possibile che permetta di dedurre l'appartenenza dell'animale alla classe degli ‛asini' e un'altra interpretazione ugualmente possibile che permetta di dedurre la sua appartenenza alla classe degli ‛equidi', è la prima che sarà preferita poiché consente una maggiore riduzione dell'incertezza; tra un'interpretazione possibile che permetta di dedurre l'appartenenza dell'animale alla classe degli ‛equidi' e un'altra interpretazione ugualmente possibile che permetta di dedurre la sua appartenenza alla classe degli ‛asini o puledri', è ancora la prima che verrà preferita dall'interprete poiché, pur consentendo di ridurre la sua incertezza tanto quanto l'ultima, essa permette però di farlo più economicamente, presuppone cioè una meno precisa classificazione dell'indicato. Circa la classe alla quale l'interprete riconosce che l'indice appartiene, essa è la più ampia delle classi comportanti questo come membro che sia correlativa alla classe cui, secondo quanto precede, l'interprete deduce che appartiene l'indicato. Se, infatti, la classe cui l'interprete riconosce che l'indice appartiene non fosse correlativa a quella cui egli deduce che appartiene l'indicato, è evidente che questa deduzione non sarebbe possibile; e se, d'altra parte, la classe in questione non fosse la più ampia fra quelle soddisfacenti la prima condizione, ci sarebbe un'altra classe di cui l'indice è membro e che permetterebbe all'interprete di fare tale deduzione in modo più economico. Così se l'interprete deduce che l'animale dell'esempio è un ‛equide' e può farlo sia riconoscendo l'appartenenza delle tracce alla classe delle ‛tracce relativamente piccole a forma di ferro di cavallo', sia riconoscendo la loro appartenenza alla classe delle ‛tracce a forma di ferro di cavallo', è sicuramente a partire da quest'ultima classe, e non dalla prima, che egli preferirà fare la detta deduzione, giacché riuscirà così a farla in modo più economico.
Quando si cerca di applicare all'indicazione fornita da un segnale ciò che abbiamo stabilito finora per l'indicazione in generale, la prima difficoltà in cui ci si imbatte è quella di determinare in che cosa consista in tal caso l'indicato, cioè il fatto sul quale verte l'indicazione. Se infatti si considerano segnali come, ad esempio, la fonia prodotta quando si pronuncia la frase ‛piove', o un cartello stradale di ‛passaggio a livello', o il numero che un autobus reca sul davanti, può sembrare che i fatti sui quali vertono le indicazioni da essi fornite siano rispettivamente la pioggia, il passaggio a livello o il percorso dell'autobus. Ci sono tuttavia motivi per pensare che le cose non stiano così. Il fornire intenzionalmente un'indicazione a qualcuno presuppone necessariamente, infatti, che si cerchi di esercitare su di lui un'influenza: ciò che si chiama ‛voler dire' qualcosa a qualcuno non è null'altro che questo. Ora un'indicazione fornita intenzionalmente non sembra potersi rifenre se non a quel che si ‛vuol dire', cioè all'influenza che, dal momento in cui la detta indicazione viene fornita, si cerca di esercitare sul destinatario. Ciò che il ricevente apprende dal segnale in quanto indice intenzionale è dunque sempre l'appartenenza a una classe determinata dell'influenza che l'emittente, dal momento che produce il segnale, cerca di esercitare su di lui.
L'influenza che l'emittente, producendo il segnale, cerca di esercitare sul ricevente, la chiameremo il ‛senso' del segnale. Ci si potrebbe anche riferire a questa influenza parlando del ‛messaggio' che il segnale ‛trasmette', ma, avendo tale termine ricevuto altri usi, sarà meglio mettersi al sicuro da malintesi evitandolo. Per comodità di esposizione useremo il termine ‛senso' non soltanto per l'influenza che l'emittente di un segnale cerca effettivamente di esercitare sul ricevente, ma anche per ogni influenza che chiunque possa, producendo un segnale, cercare di esercitare su qualcun altro. Questo ci permetterà in particolare di parlare di ‛classi di sensi' per riferirci a ‛classi di influenze che un emittente può, producendo un segnale, cercare di esercitare su un ricevente'.
Negli esempi summenzionati il senso del segnale è sempre un'informazione, vale a dire che l'influenza che l'emittente cerca, producendo il segnale, di esercitare sul ricevente consiste, in tutti i casi, nel fargli conoscere qualcosa. È senza dubbio per questo che il segnale, negli esempi in questione, sembra potersi riferire direttamente, cioè senza la mediazione del senso, alla pioggia, al passaggio a livello o al percorso dell'autobus: può sembrare infatti che non faccia differenza dire, ad esempio, che il segnale indica che l'emittente informa che piove, o dire semplicemente che il segnale indica che piove. Non appena si affrontino però certi problemi si vede emergere il senso. Così, ad esempio, quando ci si propone di determinare che cosa sia la menzogna. Diversamente da quanto accade per l'indice falsamente spontaneo, il quale deve apparire all'interprete come se si trovasse, riguardo al suo indicato, in un rapporto in cui in realtà non si trova, il rapporto tra il segnale e il suo indicato è il medesimo sia che si mentisca sia che si dica il vero. La menzogna deve dunque trovarsi altrove, e cioè nel rapporto tra l'indicato, il quale, trattandosi di verità e menzogna, non può essere se non un senso informativo, e la realtà cui questo senso informativo si riferisce: è appunto perché l'emittente, per mezzo del segnale che produce quando pronuncia la frase ‛piove', indica veracemente che egli informa che piove, che mente se in realtà non piove.
Che il fatto su cui verte l'indicazione fornita da un segnale sia un'influenza che l'emittente cerca di esercitare sul ricevente appare molto più chiaramente quando tale influenza consiste non nel fargli conoscere qualcosa, ma nel farlo agire in una certa maniera; quando, in altri termini, il senso non è un'informazione, ma un' ‛ingiunzione'. Così, non sembra ci siano dubbi che ciò su cui verte l'indicazione fornita da un segnale come, ad esempio, un cartello stradale di ‛direzione obbligatoria', vale a dire ciò la cui appartenenza a una classe determinata è indicata al ricevente da un segnale del genere, sia l'influenza che l'emittente cerca di esercitare su lui.
I divieti non essendo altro che ingiunzioni negative, ci resta da considerare soltanto un tipo fondamentale di sensi, le ‛domande'. Il senso di un segnale è una domanda quando l'influenza che l'emittente cerca, producendolo, di esercitare sul ricevente consiste nel farlo rispondere, cioè nel farlo diventare a sua volta un emittente e nell'indurlo a cercare di esercitare a sua volta un'influenza sull'emittente diventato ricevente. Il bisogno di considerare domande e ingiunzioni come due distinti tipi fondamentali di sensi è, lo si vede, lungi dall'essere evidente: l'influenza che colui che pone una domanda cerca di esercitare sul ricevente consiste infatti, in definitiva, nel farlo agire in una certa maniera, anche se questa maniera d'agire, consistendo del servirsi a sua volta di segnali, è appunto perciò alquanto particolare. In effetti, è soltanto nelle lingue che si trovano segnali che servono a porre domande, e se, nella descrizione di una lingua, è normale trattare separatamente le frasi interrogative e le frasi ingiuntive, le considerazioni d'ordine formale vi hanno senza dubbio la loro parte: nella generalità delle lingue, infatti, i segnali che servono a porre domande presentano caratteristiche comuni che li oppongono ai segnali che servono a informare o ingiungere, ed essi costituiscono dunque, già dal punto di vista della loro forma, un tipo particolare, nettamente caratterizzato. Ci si può chiedere, di conseguenza, se in semiologia sia davvero utile vedere nelle domande altra cosa che un tipo di ingiunzioni. Se vi si rinuncia si giunge alla formula abbastanza soddisfacente che consiste nel dire che per mezzo del segnale l'emittente cerca o di far conoscere al ricevente qualcosa, o di farlo agire in qualche maniera. Questo non può certamente costituire un argomento decisivo, ma le due categorie fondamentali in cui i sensi verrebbero così distribuiti corrisponderebbero allora ai due campi fondamentali nei quali si manifesta l'attività umana, vale a dire quello di ciò che può chiamarsi la conoscenza speculativa e quello della conoscenza pratica.
Al pari di ogni altra indicazione, quella fornita da un segnale mette in rapporto un universo di discorso indicante e un universo di discorso indicato. Il segnale e l'influenza che, producendo questo, l'emittente cerca di esercitare sul ricevente costituiscono i fatti che hanno effettivamente luogo rispettivamente nei due universi di discorso menzionati. Oltre, beninteso, al segnale prodotto dall'emittente, l'universo di discorso indicante comporta tutti gli altri segnali che egli avrebbe potuto produrre invece di quel primo; e, quanto all'universo di discorso indicato, oltre all'influenza che l'emittente cerca effettivamente di esercitare sul ricevente, vi figurano tutte le altre che avrebbe potuto cercare di esercitare su di lui producendo lo stesso segnale oppure un altro che avrebbe potuto produrre in luogo del primo. I limiti di questi due universi di discorso sono i limiti di ciò che si chiama il ‛codice' cui appartiene un segnale: l'universo di discorso indicante è infatti composto da tutti i segnali che è possibile produrre usando tale codice, e l'universo di discorso indicato da tutto ciò che si può ‛voler dire' producendo uno di questi segnali. Essi saranno chiamati rispettivamente il ‛campo sematico' e il ‛campo noetico' del codice in questione. Un triangolo di ‛curva a destra', ad esempio, è un segnale che può essere prodotto in luogo di un disco di ‛limite di velocità' e appartiene perciò allo stesso codice. Un cartello che consigli, in italiano, la sobrietà durante la guida non è invece un segnale che possa essere prodotto in luogo del disco stradale menzionato, e non appartiene quindi allo stesso codice.
Sarebbe una bella cosa, naturalmente, disporre di un procedimento che permettesse, dato un segnale, di stabilire in modo oggettivo e rigoroso se un altro segnale determinato possa o non possa essere prodotto in sua vece, e di tracciare così, con oggettività e rigore, i limiti del campo sematico e del campo noetico del codice cui il segnale in questione appartiene. Bisogna tuttavia arrendersi all'evidenza che il campo sematico di un codice e, di conseguenza, il campo noetico, la cui definizione si fonda su quella di campo sematico, non hanno altra realtà all'infuori di quella che conferisce loro un soggetto che opera con essi, e per il fatto che opera con essi: dato un segnale, di cui un soggetto si serve sia come emittente che come ricevente, i segnali che possono essere prodotti in sua vece non sono se non i segnali che secondo il soggetto in questione possono esserlo. Ne deriva naturalmente che, a rigore, non si può parlare semplicemente del campo sematico o del campo noetico di un codice, ma del campo sematico o del campo noetico di un codice così come viene concepito da un determinato utente, e che una tale precisazione, quando non sia formulata esplicitamente, deve essere sottintesa. È soltanto in questo modo che bisogna intendere l'esempio summenzionato: per quel determinato utente del codice stradale che è l'autore di queste righe il triangolo di ‛curva a destra' può essere prodotto per dire beninteso un'altra cosa - in luogo del disco di ‛limite di velocità', mentre lo stesso non vale per il cartello concernente la sobrietà durante la guida; ma nulla impedisce che le cose vadano diversamente per un altro utente.
Così come sempre accade per l'interprete di un indice, il ricevente di un atto semico interpreta il segnale partendo da una qualche incertezza in cui si trova circa il fatto che ha effettivamente luogo nell'universo di discorso indicato. L'universo di discorso indicato, abbiamo appena visto, è, nell'atto semico, il campo noetico del codice cui appartiene il segnale, e il fatto che ha effettivamente luogo in questo universo di discorso è l'influenza che, producendo il segnale, l'emittente cerca di esercitare sul ricevente. L'incertezza in cui si trova il ricevente consiste dunque, secondo quanto è stato detto a proposito dell'indicazione in generale, nel non sapere a quale, delle due o più classi tra di loro in rapporto logico di esclusione in cui egli distribuisce le influenze che compongono il campo noetico, appartenga l'influenza che l'emittente cerca di esercitare su di lui.
Ciò che si chiama il ‛significato' di un segnale è la più ristretta delle classi di sensi appartenenti al campo noetico che sia correlativa a una classe cui il segnale in questione appartiene e che coincida o con una delle classi che determinano l'incertezza del ricevente o con la somma logica di due o più di queste classi. Il ‛significante' che un segnale ‛realizza' è, dal canto suo, la più ampia delle classi cui il detto segnale appartiene e che sia correlativa al suo significato. Di conseguenza, sempre secondo quello che abbiamo visto per l'indicazione in generale, il significante che un segnale realizza è la classe alla quale il ricevente riconosce che il segnale appartiene, e il suo significato la classe alla quale egli ne deduce che appartiene l'influenza che l'emittente cerca di esercitare su di lui.
Un segnale non può avere, per un determinato ricevente, che un solo significato. Consideriamo infatti due classi di sensi che siano entrambe correlative a una classe cui appartiene il segnale di un atto semico e ognuna delle quali coincida o con una delle classi determinanti l'incertezza del ricevente o con la somma logica di due o più di tali classi: o le due classi considerate sono identiche, e allora non si può a rigore parlare di due classi, ma soltanto di una; o l'una è inclusiva riguardo all'altra, e questa di conseguenza è più ristretta della prima; ovvero infine sono tra di loro in rapporto logico di intersezione, e in tal caso il loro prodotto logico è una classe più ristretta sia dell'una che dell'altra, che è necessariamente anch'essa correlativa di una classe cui appartiene il segnale e anch'essa coincidente o con una delle classi determinanti l'incertezza del ricevente o con la somma logica di due o più di tali classi. Delle due classi considerate, quindi, è sempre l'una o l'altra o il loro prodotto logico che può costituire il significato del segnale, ma mai entrambe allo stesso tempo. Un segnale, d'altra parte, non può essere, per un determinato ricevente, che la realizzazione di un solo significante. Consideriamo infatti due classi cui appartenga un segnale e che siano l'una e l'altra correlative al suo significato: o queste classi sono identiche, e allora nulla giustifica che si parli di due classi; o l'una è inclusiva riguardo all'altra e, di conseguenza, quella è più ampia di questa; ovvero, infine, esse si trovano tra di loro in rapporto logico d'intersezione o di esclusione e in tal caso la loro somma logica è una classe più ampia sia dell'una che dell'altra, che è necessariamente anch'essa correlativa al significato del segnale. Delle due classi considerate, quindi, è sempre l'una o l'altra o la loro somma logica che può essere il significante realizzato dal segnale, ma mai entrambe allo stesso tempo.
L'unico significante che realizza un segnale forma, insieme col solo significato che tale segnale possiede, un ‛sema' (v. Buyssens, 1943, p. 12). È possibile dunque dire, secondo quanto abbiamo visto sopra, che è sempre attraverso le classi costituenti le due ‛facce' di un sema che il ricevente interpreta il segnale: il ricevente riconosce da una parte l'appartenenza del segnale al significante di un sema, quell'unico sema cioè il cui significante comporta fra i suoi membri il detto segnale; ed egli ne deduce, dall'altra, l'appartenenza del senso, cioè dell'influenza che, producendo tale segnale, l'emittente cerca di esercitare su di lui, al significato corrispondente.
Il termine ‛segno' è usato in generale per ogni entità ‛bifacciale' formata da una classe di segnali e da una classe di sensi fra loro correlative - due classi cioè, per rammentare cosa intendiamo con ‛classi correlative', tali che l'appartenenza alla prima del segnale prodotto dall'emittente implichi l'appartenenza alla seconda dell'influenza che questi cerca di esercitare sul ricevente -, purché, tuttavia, tali classi, chiamate, come quelle che compongono il sema, rispettivamente il ‛significante' e il ‛significato' del segno, adempiano certe condizioni: da una parte, il significato di un segno è sempre una classe non universale coincidente o con una delle classi determinanti l'incertezza del ricevente o con la somma logica di due o più di tali classi; e, d'altra parte, il significante di un segno è sempre la più ampia delle classi di segnali che sia correlativa al suo significato. Forse queste condizioni non sono state mai esplicitate; nessun linguista, però, si è mai trovato a chiamare ‛segno' una entità che non le soddisfi.
La classe di segnali e la classe di sensi che costituiscono le facce di un sema sono classi correlative che adempiono le condizioni summenzionate e, di conseguenza, ogni sema è un segno. Ci sono però segni che non sono semi. Nel codice della strada, ad esempio, non c'è alcun sema il cui significante sia costituito dalla classe dei ‛segnali rotondi con bordo rosso' e il significato dalla classe delle ‛interdizioni'. Tali classi formano tuttavia un segno: da una parte, infatti, la classe delle ‛interdizioni' e una classe non universale uguale alla somma logica di più d'una delle classi determinanti l'incertezza del ricevente; e, d'altra parte, la classe dei ‛segnali rotondi con bordo rosso' è la più ampia delle classi che sia correlativa alla prima. Due classi, invece, come ad esempio la classe dei ‛segnali rotondi con bordo rosso e con due triangoli neri sull'asse verticale' e la classe delle ‛interdizioni' sono certo classi correlative e la seconda una classe non universale coincidente con la somma logica di più d'una delle classi determinanti l'incertezza del ricevente; ma, non essendo la prima la più ampia classe di segnali che sia correlativa alla classe delle ‛interdizioni', le due classi in questione non formano un segno.
La considerazione dei segni diversi dai semi non presenta in realtà molto interesse all'infuori dei casi in cui si ha a che fare con ciò che vien chiamato la ‛prima articolazione'. Si dice che un codice presenta la prima articolazione quando, dato un sema di tale codice, il suo significante è sempre il prodotto logico di più fattori tra loro in rapporto logico di intersezione e costituenti ciascuno il significante di un segno. Tale particolarità dei significanti dei semi si riproduce necessariamente nei significati corrispondenti, vale a dire che il significato di un sema il cui significante è il prodotto logico dei significanti di parecchi segni è necessariamente il prodotto logico dei significati di tali segni. In un codice a prima articolazione quei segni che sono i semi ‛si articolano' dunque in segni a facce più ampie (in segni ‛più piccoli', come si dice non senza ambiguità in linguistica), le facce significante e significata dei primi risultando dalla moltiplicazione logica delle facce corrispondenti dei secondi. È appunto perciò che la prima articolazione è chiamata anche l'‛articolazione del segno', e che si dice, a proposito dei semi di un codice che la presenti, che essi sono ‛articolati'. Portando al limite, in un codice a prima articolazione, l'analisi dei semi in segni a facce più ampie, si arriva infine ai cosiddetti ‛monemi', cioè a segni che non sono più analizzabili a loro volta in segni a facce ancora più ampie (v. Frei, 1950, p. 164). In un codice che non presenti la prima articolazione si può dire di conseguenza che i semi sono in linea di principio monemi. In un codice che la presenti i semi sono invece composti da uno o più monemi. Naturalmente, nulla impedisce di tenere conto, se occorre, di segni aventi uno status intermedio, di segni, cioè, che non essendo semi non sono neppure monemi.
Tutti i codici tradizionalmente chiamati ‛lingue' presentano la prima articolazione, ma essa si presenta anche in codici assai più semplici. Ne è un esempio un codice del tipo di quelli di cui ci si serve negli alberghi per numerare le camere quando si fa corrispondere, per esempio, una prima cifra al piano in cui si trova la camera e una seconda alla posizione che essa occupa al suo piano. In un codice siffatto un sema si articola sempre in due monemi, i cui significanti sono definiti dalla cifra che occupa il primo posto e dalla cifra che occupa il secondo, e i significati dal loro riferirsi a una camera situata a un determinato piano e a una camera occupante al suo piano una determinata posizione.
Per operare con un codice bisogna naturalmente conoscere le correlazioni esistenti tra le classi che costituiscono i significanti dei semi e le classi di sensi che ne costituiscono i significati. Ora, in un codice che presenta la prima articolazione, conoscendo le correlazioni esistenti tra i significanti e i significati dei segni nei quali si articolano i semi, si conoscono nel contempo le correlazioni che uniscono i significanti e i significati di questi ultimi. Consideriamo infatti un sema come, ad esempio, 23, appartenente a un codice del tipo menzionato sopra, e supponiamo che questo sema sia analizzabile in due monemi, l'uno avente come significante la classe dei segnali che comportano un 2 a sinistra e come significato la classe delle inforrnazioni che si riferiscono a una camera del secondo piano, e l'altro avente come significante la classe dei segnali che comportano un 3 a destra e come significato la classe delle informazioni che si riferiscono a una camera occupante il terzo posto nel corridoio. Ogni volta dunque che il segnale comporta un 2 a sinistra il senso si riferisce a una camera del secondo piano, e ogni volta che il segnale comporta un 3 a destra il senso si riferisce a una camera che occupa il terzo posto. E evidente allora che ogni volta che il segnale comporta un 2 a sinistra e un 3 a destra, ogni volta che cioè esso appartiene al significante del sema in questione, il senso si riferisce a una camera del secondo piano che occupa il terzo posto ed esso appartiene quindi al significato di questo sema.
Per poter operare con un codice a prima articolazione è dunque perfettamente equivalente conoscere le correlazioni esistenti tra i significanti e i significati dei semi o conoscere le correlazioni esistenti tra i significanti e i significati dei monemi nei quali tali semi si articolano. Il numero di monemi distinti che risultano dall'analisi dei semi di un codice a prima articolazione è tuttavia sempre minore del numero di tali semi. Ne segue che quand'anche, come abbiamo visto, dal punto di vista della possibilità di servirsi di un codice a prima articolazione non faccia differenza conoscere le correlazioni esistenti tra le facce dei semi o le correlazioni esistenti tra le facce dei monemi nei quali si articolano tali semi, dal punto di vista dello sforzo che richiede l'apprendimento del codice e del ‛posto' che esso prende nella memoria, tenere a mente le prime ‛ tenere a mente le seconde correlazioni non è affatto la stessa cosa: tenendo a mente le seconde si realizza, infatti, nel numero delle correlazioni, un'economia uguale alla differenza esistente tra il numero dei semi e il numero dei monemi distinti nei quali i semi si articolano. Nei casi più favorevoli tale differenza può essere quella che c è tra il prodotto (aritmetico) di parecchie quantità e la loro somma, vale a dire che in un codice comportante n semi il numero di monemi distinti che risultano dalla loro analisi può ridursi alla somma di due o più quantità il cui prodotto è uguale a n. Così, se un albergo ha 24 camere ugualmente distribuite su tre piani e si procede per numerarle come abbiamo visto sopra, il codice che ne risulta comporta 24 (3×8) semi, mentre il numero dei monemi distinti nei quali si articolano tali semi è soltanto di undici (3+8). Basta quindi tenere in mente le undici correlazioni che uniscono i significanti e i significati di questi monemi per conoscere nel contempo le 24 correlazioni esistenti tra i significanti e i significati dei 24 semi che il codice in questione comporta. Non sempre però si ha a che fare con un caso così favorevole: basterebbe ad esempio che, nell'albergo in questione, uno dei piani comportasse soltanto sette stanze perché l'economia divenisse, in relazione al numero dei semi, meno importante: il codice infatti comporterebbe in questo caso soltanto 23 semi, mentre il numero dei monemi distinti che risultano dalla loro analisi sarebbe sempre di undici. Per una lingua però ogni tentativo di contabilizzare l'economia di correlazioni tra classi di segnali e classi di sensi che la prima articolazione rende possibile sarebbe, lo si capisce facilmente, del tutto vano. Possiamo tuttavia dare almeno un'idea di questa economia. Una forma verbale ‛regolare' è un segno che si articola in almeno due altri segni, il ‛radicale' e la ‛desinenza'. Ora, imparare le desinenze di una ‛coniugazione', che supporremo in numero di 40 e, ad esempio, i radicali di 100 verbi appartenenti a tale coniugazione, equivale a memorizzare 140 (40+100) correlazioni tra significanti e significati, mentre il numero delle forme verbali che si imparano nel contempo è di 4.000 (40×100).
L'importanza della prima articolazione risiede soprattutto nel ruolo che essa svolge nell'economia della comunicazione permettendo, come abbiamo visto, di ridurre il numero delle correlazioni tra classi di segnali e classi di sensi che bisogna tenere a mente per poter operare con un codice. In teoria, la prima articolazione resta sempre un meccanismo di economia, vale a dire che tutto ciò che si può fare con un codice a prima articolazione potrebbe in linea di principio essere fatto ugualmente, anche se con un costo più elevato, con un codice che non la presenti. In pratica però, a partire da una certa soglia, la prima articolazione non incide più soltanto sul costo della comunicazione. La memoria di un soggetto, infatti, non può ritenere se non un numero limitato di correlazioni tra classi di segnali e classi di sensi, cioè un numero limitato di segni. Un soggetto non può dunque operare con un codice il cui numero di semi sorpassi questo limite se non a condizione che tali semi vengano articolati in un numero di monemi distinti che rientri in questi limiti. È dunque sull'estensione stessa del campo di utilizzazione del codice che, in casi come questi, incide la prima articolazione, il cui ruolo non si riduce di conseguenza al solo momento dell'economia. Gli esempi più interessanti sono indubbiamente quelli forniti dalle lingue. Una lingua comporta un numero infinito di semi, e se, nonostante ciò, si può operare con una lingua è perché i semi che essa comporta in numero infinito risultano dalla combinazione di un numero finito di segni.
L'incidenza esaminata sopra, per importante che essa sia, non è tuttavia l'unica che la prima articolazione ha sull'economia della comunicazione. Le classi di segnali costituite dai significanti dei semi d'un codice, infatti, essendoci sempre tra esse un rapporto logico di esclusione (altrimenti un segnale potrebbe essere realizzazione del significante di più di un sema) ed essendo la loro somma logica uguale all'universo di discorso, cioè al campo sematico, soddisfano le condizioni che consentono di considerarle come costituenti insieme ciò che si chiama un ‛sistema di classificazione'. La classificazione d'un oggetto si fa sempre in riferimento a un sistema cosiffatto. Ora, nell'atto semico, l'emittente e il ricevente debbono classificare il segnale prodotto dal primo, e debbono farlo, in linea di principio, in riferimento al sistema di classificazione formato dai significanti dei semi del codice. L'emittente, infatti, per ‛dire' ciò che ‛vuol dire' deve produrre un segnale appartenente al significante di un sema determinato, deve cioè produrre un segnale che appartenga a una classe determinata del detto sistema di classificazione e che non appartenga quindi alla somma logica delle altre; e il ricevente, per sapere cosa ‛vuol dire' l'emittente, deve, dal canto suo, riconoscere l'appartenenza del segnale al significante da esso realizzato, deve cioè riconoscere, anche lui, che il segnale appartiene a una determinata classe di quelle che formano il sistema di classificazione in questione e che non appartiene di conseguenza alla somma logica delle altre. Ora, nella misura in cui come si verifica sempre per il sistema di classificazione formato dai significanti dei semi di un codice a prima articolazione - ognuna delle classi che compongono un sistema di classificazione è analizzabile in fattori tra loro in rapporto logico di intersezione, tale sistema può ‛risolversi' in vari sistemi di classificazione più semplici, e ciò in modo che la classificazione di un oggetto in riferimento a questi ultimi sia equivalente alla sua classificazione in riferimento al primo. Così, in un atto semico in cui ci si serve del codice a prima articolazione costituito dalla numerazione delle 24 camere dell'albergo, l'emittente e il ricevente debbono, in linea di principio, classificare il segnale in riferimento al sistema di classificazione che formano i 24 significanti dei 24 semi del codice. Tale sistema di classificazione può però ‛risolversi' in due sistemi di classificazione più semplici, l'uno composto dalle tre classi in cui si distribuiscono i segnali a seconda della cifra che essi comportano a sinistra e l'altro composto dalle otto classi in cui si distribuiscono i segnali a seconda della cifra che essi comportano a destra; e ciò perché la classificazione di un segnale in riferimento al primo dei sistemi menzionati è equivalente alla sua classificazione in riferimento a entrambi i due ultimi: è, per esempio, esattamente lo stesso il riconoscere che un segnale è membro del significante del sema 23 e il riconoscere che è membro sia della classe dei segnali comportanti un 2 a sinistra che della classe dei segnali comportanti un 3 a destra. La prima articolazione permette così di classificare il segnale in riferimento a due o più sistemi più semplici invece di farlo in riferimento a un unico sistema più complesso. È, questa, una seconda maniera in cui essa incide sull'economia della lingua, seppure questa incidenza, diversamente da quella che abbiamo considerato prima, non è soltanto positiva: infatti, è soltanto a prezzo di classificare il segnale due o più volte che si riesce a farlo in riferimento a sistemi relativamente più semplici.
Perché l'emittente e il ricevente d'un atto semico possano classificare il segnale in riferimento a sistemi di classificazione relativamente più semplici a prezzo di aumentare il numero di volte in cui lo classificano, basta che i semi del codice impiegato posseggano significanti analizzabili in fattori tra loro in rapporto logico d'intersezione; non è cioè affatto necessario che, come nell'esempio esaminato sopra, i fattori in cui sono analizzabili i significanti dei semi costituiscano a loro volta dei significanti e siano dunque anch'essi correlativi a classi di sensi. In tutti i casi nei quali i significanti dei semi sono analizzabili in fattori tra loro in rapporto logico d'intersezione abbiamo a che fare con ciò che si chiama l'articolazione del significante. Possiamo dunque dire, stando a quanto abbiamo visto, che la prima articolazione presuppone l'articolazione del significante ma che l'articolazione del significante non presuppone invece la prima articolazione. Ora, è appunto quando si ha a che fare con un articolazione del significante indipendente dalla prima articolazione, sia che il codice di cui si tratta non presenti quest'ultima, sia che la presenti ma l'articolazione del significante vada al di là di quanto essa presuppone, che si dice che tale codice presenta la ‛seconda articolazione'.
Si può considerare come ‛limite' della prima articolazione quello segnato dai monemi: sia, infatti, perché il codice in questione addirittura non presenta la prima articolazione e i semi sono di conseguenza essi stessi dei monemi, sia perché il codice in questione presenta sì la prima articolazione ma si è spinta all'estremo l'analisi dei segni in segni a facce più ampie, in nessun caso tale analisi potrebbe essere proseguita più in là dei monemi. E, di conseguenza, a partire dai monemi che l'articolazione del significante, quando essa esista, diventa la seconda articolazione: un codice presenta la seconda articolazione quando i significanti dei monemi, siano o no essi stessi dei semi, sono analizzabili in fattori che si trovano tra loro in rapporto logico d'intersezione. Non è però certo che l'utente di un codice sia sempre capace di una tale analisi. Sembra infatti che l'utente di un codice analizzi in fattori il significante di un monema soltanto quando ognuno di questi fattori può essere definito dalla presenza, in tutti i segnali che sono i suoi membri, di un segmento appartenente a una certa classe e distinto dal punto di vista spaziale o temporale dai segmenti che definiscono gli altri fattori. L'esempio più interessante, in se stesso e per le discussioni cui ha dato luogo, è senza dubbio quello del fonema. Il soggetto italoglotto è capace di riconoscere, ad esempio, che i segnali appartenenti al significante del monema italiano ‛pane' sono quelli che appartengono alla classe dei segnali comportanti un segmento della classe /pa/ e alla classe dei segnali comportanti un segmento della classe /ne/. Tale soggetto può andare ancora più avanti e riconoscere, ad esempio, che i segmenti della classe /pa/ sono quelli che appartengono alla classe dei segmenti comportanti a loro volta un segmento della classe /p/ e alla classe dei segmenti comportanti a loro volta un segmento della classe /a/. Una classe di segmenti di segnale come /p/ è quello che si chiama un ‛fonema', e i suoi membri sono dei ‛suoni'. Non è certo impossibile che un fonema sia a sua volta analizzabile in fattori tra essi in rapporto logico di intersezione: così il fonema /p/ può essere definito in italiano dall'appartenenza dei suoi membri alla classe dei suoni ‛labiali' e alla classe dei suoni ‛sordi'. Ma tali classi, il cui prodotto logico è il fonema /p/, non possono più essere definite dalla presenza in tutti i loro membri di determinati segmenti in cui verrebbero frazionati a loro volta i suoni componenti il detto fonema. Ora, il semplice utente di una lingua non sembra capace di eseguire sino a classi che si trovino in questa situazione la sua analisi dei significanti, ed è al fonema che egli si ferma (v. Prieto, 1972, p. 38). Poiché non ci interessa parlare di seconda articolazione né di articolazioni in generale se non nella misura in cui le analisi da esse presupposte siano alla portata dell'utente, se la limitazione della capacità di analisi dell'utente di cui si tratta sopra venisse a essere confermata, la nostra definizione di seconda articolazione si troverebbe nel contempo a essere troppo ampia e occorrerebbe modificarla in conseguenza: bisognerebbe dire allora che un codice presenta la seconda articolazione quando i significanti dei monemi sono analizzabili in fattori tra loro in rapporto logico di intersezione, fattori ognuno dei quali può essere definito dalla presenza in tutti i suoi membri di un segmento appartenente a una determinata classe e distinto spazialmente o temporalmente dai segmenti che permettono di definire gli altri.
Poiché in un codice che presenti la prima articolazione i significati dei semi sono sempre analizzabili in fattori tra loro in rapporto logico di intersezione, essa presuppone anche ciò che possiamo chiamare l'‛articolazione del significato'. Non si è mai constatato, tuttavia, che in un codice reale, un codice cioè di cui faccia effettivamente uso o abbia effettivamente fatto uso un determinato gruppo sociale, l'articolazione del significato oltrepassi quanto viene presupposto dalla prima articolazione o almeno che lo faccia in modo netto e sistematico. Per poter attribuire al caso l'assenza di un codice cosiffatto o per vedervi, al contrario, la conseguenza di una impossibilità teorica bisognerebbe però conoscere meglio certi problemi come quello dei rapporti che uniscono i significati con le classi che determinano l'incertezza del ricevente o l'altro problema, più generale e di cui abbiamo già discusso sopra, della capacità del soggetto di una conoscenza non scientifica di analizzare in fattori logici le classi con le quali opera e cioè di esplicitare i concetti corrispondenti a tali classi. Preferiamo dunque lasciare in sospeso la questione di sapere se una ‛terza articolazione', il cui ruolo sul piano del contenuto farebbe da pendant a quello svolto dalla seconda sul piano dell'espressione, è, pur non essendo mai stata del tutto verificata in un codice reale, teoricamente possibile.
Abbiamo visto che il ricevente di un atto semico, fin dal momento in cui riconosce il segnale come tale, si trova nell'incertezza circa l'influenza che l'emittente cerca di esercitare su di lui. Ora si dice che in un atto semico c'è ‛comprensione' da parte del ricevente quando questi riesce, grazie al segnale, a ridurre la sua incertezza, e cioè, stando a quanto è stato detto a proposito dell'indicazione in generale, quando, grazie al segnale, riesce a dedurre l'appartenenza dell'influenza in questione a una classe coincidente con una delle classi che determinano la sua incertezza o con una classe non universale uguale alla somma logica di due o più di tali classi. Nella prima di queste due eventualità l'incertezza del ricevente scompare totalmente e si dice allora che la comprensione è ‛totale', nella seconda l'incertezza del ricevente diminuisce senza però scomparire totalmente e si dice allora che la comprensione è ‛parziale'. Si dice infine che c'è ‛incomprensione' da parte del ricevente quando questi non riesce a diminuire in nulla la sua incertezza, il che presuppone che egli non riesca a dare alcuna interpretazione del segnale. La comprensione totale da parte del ricevente è condizione necessaria per il successo dell'atto semico, ma, come vedremo in seguito, questa condizione non è però sufficiente, giacché occorre, per di più, che la comprensione sia ‛buona'.
Sappiamo che il significato del segnale coincide sempre o con una delle classi che determinano incertezza del ricevente o con la somma logica di due o più di tali classi. Ora, nella prima di queste due eventualità, l'interpretazione del segnale basta perché l'incertezza del ricevente scompaia totalmente e ci sia di conseguenza comprensione totale. Non accade invece lo stesso nell'altra eventualità, cioè quando il significato del segnale coincide con la somma logica di parecchie delle classi determinanti l'incertezza del ricevente. In questo caso l'interpretazione del segnale non basta a dissipare totalmente l'incertezza, quella che resta essendo determinata beninteso dalle classi la cui somma logica coincide con il significato del segnale. Il ricevente, per eliminare o almeno diminuire ancora quanto rimane della sua incertezza, fa allora ricorso agli indici che può trovare nelle ‛circostanze', e cioè ai fatti che può, indipendentemente dall'indicazione che gli viene fornita dal segnale, riconoscere come membri di certe classi e dedurne l'appartenenza dell'influenza che l'emittente cerca di esercitare su di lui o a una delle classi determinanti la sua residua incertezza o alla somma logica di alcune di tali classi a esclusione di altre. Nel primo caso quel che restava dell'incertezza del ricevente dopo l'interpretazione del segnale scompare totalmente e c'è quindi comprensione totale. Nel secondo, invece, l'incertezza diminuisce ancora grazie alle circostanze ma non fino a scomparire del tutto, vale a dire che c'è ancora soltanto comprensione parziale. Può anche darsi, naturalmente, che le circostanze non siano suscettibili di alcuna interpretazione utile: l'incertezza del ricevente resta allora al punto in cui l'ha lasciata l'interpretazione del segnale e la comprensione rimane dunque parziale.
Un esempio interessante (che dobbiamo a Pierre-Henri Cousin, studente a Ginevra) di un codice il cui impiego richiede il ricorso del ricevente alle circostanze al fine di ‛completare' la sua comprensione è quello i cui segnali sono costituiti dalle diverse posizioni delle lancette nel quadrante degli orologi usuali (e poco importa qui, naturalmente, l'‛automatismo' della produzione dei segnali di tale codice e il fatto che, quando ce ne serviamo, accade spesso che sia la stessa persona ad agire dapprima, in certo modo, come emittente, e, in un secondo momento, come ricevente). Se ci limitiamo ai bisogni correnti della vita pratica, possiamo ritenere che l'incertezza del ricevente di uno di questi segnali sia determinata dalle 288 classi definite dai 288 punti per mezzo dei quali abbiamo convenuto di frazionare la giornata, di cinque in cinque minuti, fin dall'inizio. Ora, l'informazione fornita da un orologio consiste sempre nella coincidenza (con l'approssimazione di due minuti e mezzo) del momento della giornata in cui ci si trova, non con uno dei 288 punti menzionati, ma con uno di due di tali punti, ad esempio quello che chiamiamo le ‛9h20' (nove e venti di mattina) o quello che chiamiamo le ‛21h20' (nove e venti di sera). In altre parole, il segnale costituito da una determinata posizione delle lancette indica che l'informazione che l'emittente, producendolo, cerca di fornire al ricevente appartiene alla somma logica di due delle classi che determinano l'incertezza di quest'ultimo. Il segnale, dunque, non elimina interamente tale incertezza, ed è soltanto grazie alle circostanze, cioè, ad esempio, alla presenza o all'assenza di luce solare, che egli riesce eventualmente a dissiparla.
Nell'atto semico è il ricevente che, per riuscire a ‛comprendere', deve interpretare il segnale ed eventualmente le circostanze. Proprio come le circostanze in cui si svolge l'atto semico sono perciò le circostanze così come vengono concepite dal ricevente, l'interpretazione del segnale che conta per l'atto semico è quella che il ricevente è suscettibile di darne. Questa è la ragione per la quale ci siamo sempre riferiti, quando si è trattato del significato di un segnale, al significato che tale segnale possiede per il ricevente. È però all'emittente che spetta l'iniziativa dell'atto semico ed è dunque lui a fissare lo scopo in rapporto al quale il risultato, cioè la comprensione del ricevente, sarà ‛buona' o ‛cattiva'. Abbiamo già visto che quel che uno si propone emettendo un segnale e prendendo così l'iniziativa di un atto semico è di esercitare un'influenza sul ricevente. Si tratta beninteso di un'influenza determinata, vale a dire un'influenza che presenti certe caratteristiche o, il che non è se non un'altra maniera di riferirsi alla stessa cosa (v. lingua), appartenente a una certa classe. Un'altra influenza che l'emittente potrebbe cercare di esercitare sul ricevente in luogo di quella che cerca effettivamente di esercitare è sempre anch'essa determinata dalla sua appartenenza a una certa classe, e le classi che determinano rispettivamente queste influenze si trovano necessariamente tra di loro in rapporto logico di esclusione: è appunto perciò che si dice che l'emittente può cercare di esercitare sul ricevente l'una di tali influenze in luogo dell'altra, e cioè ch'egli può cercare di esercitare l'una o l'altra (o, beninteso, nè l'una nè l'altra), ma mai l'una e l'altra nello stesso atto semico. Ne deriva, da una parte, che al pari del ricevente anche l'emittente distribuisce in due o più classi che formano un sistema i membri del campo noetico del codice adoperato; e, dall'altra, che è in rapporto a questo sistema di classificazione che si definisce lo scopo dell'atto semico: lo scopo dell'atto semico viene infatti definito dall'appartenenza dell'influenza che l'emittente cerca di esercitare sul ricevente a una delle classi che compongono il sistema di classificazione in questione e, beninteso, dalla conseguente non appartenenza di tale influenza alla somma logica delle altre.
Quando, in un atto semico, c'è comprensione totale da parte del ricevente, diremo che essa è ‛buona' o ‛cattiva' a seconda che la classe alla quale il ricevente deduce che appartiene l'influenza voluta dall'emittente coincida o no con la classe che determina effettivamente tale influenza. Quando c'è soltanto comprensione parziale, diremo che essa è ‛buona' o ‛cattiva' a seconda che tra le varie classi, la cui somma logica è uguale alla classe alla quale il ricevente deduce che appartiene l'influenza voluta dall'emittente, vi sia o non vi sia una coincidente con la classe che determina effettivamente questa influenza.
Se, come ci sembra che occorra fare, ammettiamo che l'atto semico ha successo quando il ricevente riesce a sapere quale sia l'influenza determinata che l'emittente cerca di esercitare su di lui, concluderemo che un tale successo è raggiunto sempre e soltanto quando ci sia da parte del ricevente comprensione totale e buona. Osserviamo che definendo in tal modo il successo dell'atto semico non facciamo intervenire per nulla l'accettazione da parte del ricevente dell'influenza che l'emittente cerca di esercitare su di lui, accettazione che consiste, quando il senso è informativo, nell'‛assenso' del ricevente, vale a dire nel suo ammettere come vero ciò che l'emittente vuol fargli conoscere, ovvero, quando il senso è ingiuntivo, nell' ‛obbedienza' del ricevente, cioè nel suo agire nel modo in cui l'emittente cerca di farlo agire (v. Pariente, 1966, p. 353). A nostro parere, infatti, la comunicazione propriamente detta concerne soltanto la comprensione da parte del ricevente di ciò che l'emittente ‛vuol dirgli', comprensione che è indipendente dal suo eventuale assenso o dalla sua eventuale obbedienza: un ricevente che abbia compreso ciò che si ‛voleva dirgli' non è affatto un ricevente che si comporta come uno che accetti l'influenza che si cerca di esercitare su di lui, ma soltanto come uno che sa quale sia questa influenza, ch'egli l'accetti o non l'accetti. In ciò vediamo, d'altronde, una conferma della nostra affermazione per cui il fatto cui si riferisce l'indicazione fornita da un segnale è sempre il senso, cioè l'influenza che l'emittente cerca di esercitare sul ricevente, anche se, quando questa influenza consiste in una informazione, la cosa non è sempre evidente. Il ricevente, infatti, può comprendere bene e totalmente, e sapere quindi quale influenza determinata l'emittente cerca di esercitare su di lui, pur rifiutando, quando questa influenza è un'informazione e consiste dunque nel fargli sapere qualcosa, di ammettere questo qualcosa come vero: ora ci sembra che se l'indicazione fornita dal segnale vertesse, non sul senso, ma direttamente sul contenuto dell'informazione che, nel caso in esame, lo costituisce, un tale rifiuto sarebbe incompatibile con la comprensione.
La comprensione parziale da parte del ricevente, quando essa è buona, dev'essere considerata come un fallimento soltanto parziale dell'atto di comunicazione, poiché il risultato è in tal caso, se così si può dire, insufficiente ma non cattivo: il ricevente non riesce infatti a sapere qual è la classe che determina ciò che l'emittente vuol dire, ma non esclude neanche che essa sia quella che lo determina effettivamente. In tutti gli altri casi, nei casi cioè di cattiva comprensione, totale o parziale, e nei casi di incomprensione, si ha a che fare, invece, con il fallimento totale dell'atto semico.
Il fallimento dell'atto di comunicazione per cattiva comprensione può derivare da varie cause, una delle quali merita però speciale considerazione. Abbiamo visto che il ricevente di un atto di comunicazione distribuisce i sensi componenti il campo noetico del codice ivi adoperato nelle classi che determinano la sua incertezza e che l'interpretazione del segnale lo conduce sempre a dedurre l'appartenenza dell'influenza cercata dall'emittente o a una di tali classi o alla somma logica di due o più di esse. Abbiamo visto d'altra parte che anche l'emittente distribuisce i membri del campo noetico in classi, e che l'influenza che egli cerca di esercitare sul ricevente è sempre determinata dall'appartenenza a una di queste classi. Ora, nella misura in cui la distribuzione dei membri del campo noetico in classi che viene fatta dal ricevente non coincide con quella che ne fa l'emittente, l'atto semico rischia di fallire per cattiva comprensione: può accadere infatti, se manca questa coincidenza, che l'influenza che l'emittente cerca di esercitare sul ricevente sia determinata dall'appartenenza a una classe che non figura tra quelle da cui risulta l'incertezza del ricevente, e allora la comprensione di questi, totale o parziale che sia, non può essere evidentemente se non cattiva. L'interesse particolare di tale causa di fallimento dell'atto semico deriva dal posto in cui essa si colloca rispetto all'interpretazione del segnale. In tutti gli altri casi di cattiva comprensione che esamineremo più innanzi, infatti, ciò che l'emittente ‛vuol dire' figura sempre fra quanto il ricevente prevede che quello può ‛voler dire', e non viene escluso dal ricevente se non in conseguenza dell'interpretazione che egli dà del segnale o delle circostanze. Nei casi in esame, invece, ciò che l'emittente ‛vuol dire' è addirittura assente da quanto il ricevente ritiene che possa ‛essere detto', e l'interpretazione che egli dà del segnale o delle circostanze non entra dunque per nulla, quale che sia, nel fallimento della comunicazione. Più che nella comunicazione stessa la causa del fallimento si colloca quindi, in questi casi, in quelle che ci sembrano essere le condizioni che la rendono possibile. Poiché l'incertezza del ricevente concerne lo scopo che l'emittente si propone, bisogna infatti che il sistema di classificazione che essa presuppone e al quale il ricevente si riferisce per ‛comprendere' sia lo stesso sistema di classificazione in riferimento al quale l'emittente determina il suo scopo e intende dunque ‛essere compreso'. E questo accordo, che è in definitiva l'accordo tra l'emittente e il ricevente rispetto a che cosa sia dire la stessa cosa e che cosa dirne un'altra, è presupposto dalla comunicazione e ne costituisce di conseguenza un preliminare. Il sistema di classificazione nelle cui classi l'emittente distribuisce i membri del campo noetico e in riferimento al quale determina l'influenza che cerca di esercitare sul ricevente verrà chiamato il ‛sistema di intercomprensione' su cui si fonda l'atto semico. Il sistema di classificazione da cui risulta l'incertezza del ricevente dev'essere in linea di principio il sistema di intercomprensione su cui si fonda l'atto semico. Se però non è questo il caso, se cioè le classi componenti il sistema di classificazione da cui risulta l'incertezza del ricevente non coincidono con le classi componenti il sistema di classificazione cui l'emittente si riferisce per determinare il senso, diremo che il ricevente opera con un sistema di intercomprensione ‛falso'. Dovremo più innanzi occuparci ancora del sistema di intercomprensione, ma, per finire qui con la trattazione di questa causa di fallimento, vorremmo profittare della terminologia appena stabilita per riformulare in modo più preciso la sua definizione: diremo così che una delle cause di fallimento dell'atto semico in seguito a cattiva comprensione da parte del ricevente può risiedere nel fatto che quest'ultimo opera con un sistema di intercomprensione falso.
Il fallimento dell'atto semico per cattiva comprensione può derivare anche da una divergenza tra l'emittente e il ricevente circa i significati dei segnali e, dunque, circa i semi comportati dal codice. Questa divergenza può essere semplicemente la conseguenza del fatto che il ricevente opera con un sistema di intercomprensione falso. I significati dei semi, infatti, sono sempre, per l'emittente, uguali a una delle classi componenti il sistema di intercomprensione o alla somma logica di due o più di tali classi; e, per il ricevente, uguali o a una delle classi componenti il sistema di classificazione da cui risulta la sua incertezza o alla somma logica di parecchie di queste classi. Si capisce dunque che quando quest'ultimo sistema di classificazione non coincide con il sistema di intercomprensione e il ricevente opera di conseguenza con un sistema di intercomprensione falso, i significati dei semi non possono essere gli stessi per l'emittente e per il ricevente. I casi però che ci interessano qui sono quelli in cui la divergenza tra l'emittente e il ricevente circa i significati dei semi non deriva dal riferirsi di quest'ultimo a un sistema di intercomprensione falso. Ora, anche supponendo che il sistema di classificazione da cui risulta l'incertezza del ricevente sia il vero sistema di intercomprensione, che esso coincida cioè con il sistema di classificazione cui l'emittente si riferisce per la determinazione del senso, tutti i rapporti logici sono possibili tra il significato che il segnale possiede per il ricevente e quello che l'emittente gli attribuisce: può esserci quindi tra di loro, ove non coincidano, sia rapporto logico d'inclusione (potendo in questo caso tanto l'uno come l'altro essere il termine inclusivo o il termine incluso), sia rapporto logico di esclusione, sia infine rapporto logico di intersezione. Le possibilità riguardo al rapporto logico che unisce la classe determinante ciò che l'emittente ‛vuol dire' e il significato che il segnale possiede per il ricevente diventano invece, nel caso supposto, molto più ristrette: oltre all'identità, che bisogna beninteso annoverare tra le possibilità, questo rapporto logico non può essere infatti se non di inclusione o di esclusione e, quando è di inclusione, soltanto il significato può esserne il termine inclusivo. Questa limitazione è conseguenza, da una parte, del fatto che il rapporto logico tra una delle classi componenti un sistema di classificazione e la somma logica di parecchie di queste classi non può essere se non di inclusione (e allora la somma logica ne è evidentemente il termine inclusivo) o di esclusione; e, dall'altra parte, del fatto che la classe determinante ciò che l'emittente vuol dire è sempre una di quelle che formano il sistema di intercomprensione e il significato che il segnale possiede per il ricevente è sempre, a sua volta, poiché abbiamo supposto l'impiego da parte di questi del vero sistema di intercomprensione, una di queste medesime classi o la somma logica di parecchie di esse. Quando la classe determinante ciò che l'emittente ‛vuol dire' coincide con il significato che il segnale possiede per il ricevente, l'atto semico ha necessariamente successo; quando c'è tra loro esclusione si capisce che sfoci necessanamente nel fallimento per cattiva comprensione. Ci restano dunque da considerare soltanto i casi in cui il significato che il segnale possiede per il ricevente include la classe che determina ciò che l'emittente ‛vuol dire'. Ora ci sono, a questo riguardo, due possibilità a seconda del rapporto esistente tra il significato che il segnale possiede per il ricevente e il significato che l'emittente gli attribuisce. Se, infatti, il significato che l'emittente attribuisce al segnale include quello che il segnale possiede per il ricevente, il risultato dell'atto semico è lo stesso che se ci fosse tra essi coincidenza; se, invece, il significato che l'emittente attribuisce al segnale è incluso nel significato che il segnale possiede per il ricevente, o se c'è fra tali significati rapporto logico di intersezione, il risultato dell'atto semico dipende dalle circostanze, a seconda che l'interpretazione di queste sia suscettibile o meno di condurre il ricevente, partendo dal significato che il segnale possiede per lui, alla stessa conclusione alla quale lo condurrebbe il partire dal significato che l'emittente gli attribuisce.
Quando, infine, il segnale non elimina totalmente l'incertezza del ricevente e questi deve perciò cercare indicazioni supplementari nelle circostanze, è la loro falsa valutazione da parte dell'emittente che può essere all'origine del fallimento dell'atto semico. Se, infatti, la classificazione degli elementi delle circostanze su cui l'emittente conta perché il ricevente pervenga a comprendere bene non è, per una qualsiasi ragione, la classificazione che questi ne fa in realtà, l'atto semico rischia evidentemente il fallimento per cattiva comprensione malgrado l'accordo esistente tra l'emittente e il ricevente circa il sistema di intercomprensione e il significato del segnale.
Stando a quanto abbiamo visto la comunicazione presuppone che il senso dell'atto semico, cioè l'influenza che l'emittente cerca di esercitare sul ricevente, sia sottoposto, tanto dall'uno come dall'altro, a una doppia classificazione e di conseguenza, se ammettiamo che ‛concepire' un oggetto significa riconoscerlo come membro dell'estensione di una classe, che esso pure sia concepito da loro due volte: una volta come membro di una delle classi che compongono il sistema di intercomprensione e un'altra volta come membro del significato del segnale. La comunicazione non presuppone invece che il segnale sia concepito che come membro del significante che esso realizza. Il principio saussuriano secondo il quale ‟l'entità linguistica non esiste che per l'associazione del significante e del significato" (v. Saussure, 1916; ed. it., p. 125) essendo senza dubbio valido non soltanto per l'entità linguistica in particolare, ma anche per l'entità semiologica in generale, ne segue che il segnale e il senso, nella misura in cui vengono rispettivamente concepiti come membri del significante realizzato dal primo e del corrispondente significato, costituiscono entità semiologiche, ma il senso, in quanto viene concepito come membro di una delle classi che compongono il sistema di intercomprensione, costituisce anche un'entità non semiologica. I linguisti hanno manifestato tuttavia una certa resistenza ad ammettere questo doppio carattere che il senso possiede per i parlanti poiché appare loro, nel contempo, come entità semiologica e come entità non semiologica. La considerazione di parole che sarebbero ‛sottintese' nella frase, la definizione del pronome come una parte del discorso che ‛fa le veci' del nome, testimoniano dello sforzo per ridurre le due concezioni del senso alla sua sola concezione non semiologica: queste parole ‛che non ci sono ma è appunto come se ci fossero' vengono infatti a colmare, ove occorra, lo scarto che separa la concezione del senso attraverso il significato dalla sua concezione attraverso la classe del sistema di intercomprensione cui esso appartiene. La stessa riduzione si rivela nel rifiuto di certi linguisti a prendere in considerazione il senso col pretesto che questo sia un'entità non linguistica: il senso è certamente un'entità non linguistica, ma è anche un'entità linguistica. Si capisce che da una tale riduzione derivi la limitazione del dominio del semiologico al solo significante, con il quale si è infatti confuso, per lungo tempo, il segno. È stato necessario l'insegnamento di Saussure perché il segno venisse riconosciuto come un'entità a due facce, il che equivale ad ammettere che il senso è anch'esso un'entità semiologica. Se la linguistica presaussunana aveva fatto lo sbaglio di ignorare che il senso è una tale entità, lo sviluppo della semiologia e della linguistica che si ispirano al maestro ginevrino è sfociato nell'errore inverso di trascurare la classificazione del senso che l'emittente e il ricevente fanno in riferimento al sistema di intercomprensione. Pur ammettendo il carattere non strettamente semiologico di questa classificazione, riteniamo che la semiologia non possa però non tenerne conto. Lo scopo al quale tende l'atto semico, e che è quindi l'unica cosa che ne può spiegare il processo, è infatti il senso, ma il senso come viene concepito non quando lo si riconosce come membro del significato del segnale, bensì quando se ne riconosce l'appartenenza a una delle classi componenti il sistema di intercomprensione. I rapporti di queste classi e i significati dei segnali ci sembrano costituire, d'altra parte, la zona di contatto tra il codice e la cultura che se ne serve, la cerniera in cui si incardinano la subordinazione del codice alla cultura e l'influenza che esso esercita certamente su questa. Infine, soltanto la considerazione delle due concezioni del senso presupposte dalla comunicazione consente, a parer nostro, di intraprendere in modo adeguato lo studio del problema della ‛connotazione'.
3. Semiologia della connotazione
Nell'atto semico si ha dunque a che fare con due oggetti: il senso e il segnale, che sono concepiti come membri di due classi asimmetricamente correlative - il significato e il significante del sema - e dei quali il primo, e soltanto il primo, è necessariamente concepito come membro anche di un'altra classe, una delle classi che compongono il sistema di intercomprensione. Vedremo in seguito come in quello che si può chiamare l'‛atto strumentale', e cioè nell'esecuzione di un'operazione qualsiasi, si ha ugualmente a che fare con due oggetti i quali vengono sottomessi a classificazioni perfettamente analoghe a quelle cui sono sottomessi il senso e il segnale.
Nell'esecuzione di un'operazione, infatti, interviene necessariamente, oltre all'operazione stessa, un altro oggetto, cioè l'utensile di cui ci si serve per eseguirla. L'utensile di cui ci si serve per eseguire un'operazione possiede sempre ciò che si chiama la sua ‛utilità', costituita non certo da questa operazione, ma da una classe cui essa appartiene e che è formata inoltre da tutte le altre operazioni che si potrebbero eseguire servendosi dell'utensile in questione: infatti, perché si possa dire che un utensile possiede la medesima utilità di un altro non basta semplicemente che l'operazione che si esegue adoperando l'uno possa essere ugualmente eseguita adoperando l'altro, ma occorre che ogni operazione che può essere eseguita con l'uno possa ugualmente esserlo con l'altro e viceversa. Ora, se un soggetto, per eseguire una certa operazione, adopera un determinato utensile, lo fa evidentemente perché ritiene che questa operazione figuri tra quelle che si possono eseguire adoperandolo, vale a dire che egli riconosce l'appartenenza dell'operazione in questione all'utilità dell'utensile adoperato e ha quindi di essa la concezione che ne risulta.
Una determinata utilità non è posseduta, d'altra parte, da un qualsiasi utensile. Dato un utensile, c'è perciò sempre una classe cui esso appartiene e che è formata, oltre che dall'utensile in questione, da tutti quelli che possiedono la stessa utilità. Tale classe è chiamata un ‛operante'. Un utensile non può possedere che una sola utilità: ammettere il contrario condurrebbe infatti alla conclusione assurda che un utensile serve e non serve nel contempo a eseguire una stessa operazione. Un utensile non può perciò essere membro che di un unico operante, a proposito del quale diremo in seguito che l'utensile in questione lo ‛realizza'. Ora, un soggetto non potrebbe riconoscere l'appartenenza dell'operazione che egli esegue all'utilità dell'utensile che egli adopera senza riconoscere anche l'appartenenza di questo utensile alla classe di quelli che possiedono la detta utilità. Vale a dire che l'esecutore di una operazione, che ha sempre la concezione di questa operazione che risulta dal riconoscere la sua appartenenza all'utilità dell'utensile adoperato, ha sempre anche, proprio per questa ragione, la concezione dell'utensile adoperato risultante dal riconoscerlo come membro dell'operante da esso realizzato.
Nell'esecuzione di un'operazione, dunque, troviamo sempre due oggetti che sono rispettivamente concepiti attraverso due classi determinate. Ora tra queste classi, cioè tra l'utilità dell'utensile adoperato nell'esecuzione di un'operazione e l'operante che tale utensile realizza, esiste una correlazione che, riguardo soprattutto al suo carattere asimmetrico, è analoga a quella che unisce da una parte il significato del segnale emesso in un atto semico e dall'altra il significante che tale segnale realizza. L'appartenenza dell'utensile adoperato nell'esecuzione di un'operazione a un determinato operante è infatti condizione sufficiente dell'appartenenza di tale operazione all'utilità corrispondente: non si tratta se non di una conseguenza evidente del fatto che, da una parte, l'operazione appartiene necessariamente all'utilità dell'utensile adoperato e, dall'altra, l'operante cui un utensile appartiene dipende dall'utilità che quest'ultimo possiede. Ma l'appartenenza dell'utensile adoperato nell'esecuzione di un'operazione a un determinato operante non è affatto condizione necessaria dell'appartenenza di tale operazione all'utilità corrispondente: tracciare una retta, per esempio, è un'operazione che figura certo tra quelle che compongono l'utilità di una riga millimetrata; nulla impedisce però che, per eseguire tale operazione, ci si serva di un utensile come, ad esempio, una riga non millimetrata, la quale, avendo un'utilità diversa dalla prima, non appartiene all'operante corrispondente.
Nell'atto strumentale, infine, l'operazione, che viene concepita dall'esecutore attraverso l'utilità dell'utensile adoperato, è da questi necessariamente concepita anche attraverso un'altra classe. L'operazione infatti che ci si propone di eseguire non è mai un'operazione qualsiasi ma sempre un'operazione determinata, che cioè presenta certe caratteristiche e appartiene quindi a una determinata classe. Ora questa classe, attraverso la quale, s'intende, l'operazione è sempre - e, dal punto di vista logico, prima che attraverso qualsiasi altra classe - concepita dall'esecutore, può certo coincidere con l'utilità dell'utensile adoperato, ma in nessun caso, tuttavia, si confonde con essa. Nulla consente invece di affermare, a proposito dell'utensile adoperato nell'esecuzione di un'operazione, che tale utensile venga necessariamente concepito dall'esecutore attraverso un'altra classe oltre a quella costituita dall'operante che esso realizza. Come il senso nell'atto semico, l'operazione nell'atto strumentale è quindi concepita sempre due volte, mentre l'utensile, come il segnale, non vi è necessariamente concepito che una volta.
Un'operazione che si esegue, la classe che la determina, l'utensile di cui ci si serve per eseguirla, l'utilità di tale utensile e infine l'operante da esso realizzato sono quindi rispettivamente analoghi all'influenza che nell'atto semico l'emittente cerca di esercitare sul ricevente, a quella delle classi componenti il sistema di intercomprensione che determina tale influenza, al segnale che l'emittente produce per esercitarla, al significato di tale segnale e al significante che esso realizza. In questo elenco non figura il termine ‛strumento' che noi abbiamo adoperato in altre pubblicazioni nel senso dato qui al termine ‛utensile', cioè per designare l'oggetto individuale che nell'atto strumentale svolge il ruolo analogo a quello del segnale nell'atto semico. L'uso, in tale senso, dell'ultimo dei due termini menzionati ha il vantaggio di lasciare disponibile il primo per designare un'entità che non abbiamo ancora definita ma di cui ci sembra indispensabile tener conto. Tutte le ragioni che portano a pensare che il significante e il significato non esistono se non per il fatto della loro associazione nel segno sono infatti valide per considerare ugualmente che un operante e l'utilità corrispondente non esistono che in reciproca dipendenza e associati in un'entità, come il segno, ‛bifacciale': ora è per tale entità, e cioè per l'entità bifacciale formata da un operante e dall'utilità corrispondente, che ci sembra occorra riservare il termine ‛strumento'.
L'analogia tra segno e strumento e in particolare tra sema e strumento non si limita certamente alla loro ‛bifaccialità'. Come ogni classe, quella che determina un'operazione fa parte necessariamente di un sistema di classificazione: ora, tra le classi componenti tale sistema di classificazione e l'utilità d'uno strumento sembrano esserci rapporti simili a quelli che, secondo quanto abbiamo visto, esistono tra le classi componenti il sistema di intercomprensione e il significato del sema. L'utilità di uno strumento infatti sarebbe sempre, per un determinato esecutore, uguale o a una delle classi del menzionato sistema o alla somma logica di due o più di tali classi. Essa sarebbe, per la precisione, la più ristretta delle classi adempienti tale condizione che sia correlativa a una classe di cui l'utensile in questione sia membro. Poiché l'operante che un utensile realizza è, dal canto suo, la più ampia delle classi comportanti tale utensile come membro che sia correlativa della sua utilità, si giunge alla conclusione che tra le facce dello strumento c'è un rapporto che ha il suo perfetto analogo in quello che unisce tra loro le facce del sema. Si può infine ritenere che i rapporti menzionati, che intercorrono tra l'utilità degli strumenti, da una parte, e, dall'altra, le classi componenti il sistema di classificazione in rapporto al quale l'operazione viene determinata, costituiscono il legame attraverso il quale si stabilisce il contatto tra gli utensili e la cultura e passano sia la subordinazione dei primi alla seconda che l'influenza che quelli esercitano certamente su questa. Che esistano analogie tra il sema e lo strumento, d'altronde, non può certo destare meraviglia: nulla impedisce infatti di considerare l'atto semico come un tipo particolare di atto strumentale e quindi il sema come un tipo particolare di strumento, il segnale come un tipo particolare di utensile, ecc. Vedremo, anzi, che soltanto un modo simile di considerare l'atto semico e le entità che vi intervengono evita di disgiungere nel loro esame fatti che costituiscono fondamentalmente una stessa cosa, i fatti cioè che formano l'ambito della ‛connotazione'.
Dopo Hjelmslev (v., 1953; tr. it., pp. 126 ss. e passim) si ammette che si ha a che fare con un fenomeno di connotazione quando un segno, cioè un'entità bifacciale, diventa a sua volta un indice e quindi, in un certo modo, una delle facce di un'altra entità bifacciale, quella formata dalle due classi correlative che, secondo quanto abbiamo visto, si trovano alla base di ogni indicazione. L'indice così costituito da un segno (che viene chiamato per l'occasione segno ‛denotativo') è trattato di solito come se fosse sempre intenzionale, cioè come se fosse sempre un segnale e di conseguenza la realizzazione della faccia significante di un altro segno (chiamato a sua volta ‛connotativo'). Da ciò la definizione corrente, secondo la quale c'è connotazione quando la faccia significante e la faccia significata di un segno diventano insieme la faccia significante di un altro segno, e lo schema ben noto per mezzo del quale si rappresenta spesso il fenomeno:
La lingua danese, che è ‟l'e s p r e s s i o n e del connotatore ‛danese'" (ibid.; tr. it., p. 127), o ‟l'insieme dei messaggi francesi che rinvia [...] al significato ‛francese'" (v. Barthes, Eléments..., 1964; tr. it., p. 81) costituirebbero esempi di segni che diventano il significante di un segno e sarebbero quindi casi in cui si ha a che fare con la ‛connotazione'.
Non diremo certamente che questa definizione sia sbagliata, ma ci sembra tuttavia che essa sia valida soltanto come una prima approssimazione che ha bisogno di varie precisazioni per consentire una buona comprensione del problema. È infatti anzitutto una maniera di concepire un oggetto che, a parer nostro, è o non è connotativa, e, quando lo è, lo è proprio perché essa presuppone un'altra maniera di concepire lo stesso oggetto, la quale invece non presuppone a sua volta la prima ed è perciò ‛denotativa' o, meglio, ‛notativa' (v. lingua). Noi non crediamo quindi, e ci sembra che si tratti di un punto basilare, che la connotazione possa rinviare' a nessun altro oggetto che quello medesimo cui rinvia la denotazione. La connotazione verrebbe cosi caratterizzata da una maniera, in certo modo, sussidiaria di concepire un oggetto, una maniera di concepirlo che non esiste se non insieme ‛con' un'altra alla quale essa ‛si aggiunge'. Ora, è ciò, certamente, quel che accade nell'atto semico a proposito del senso, la cui concezione risultante dal riconoscerlo come membro del significato del segnale ‛si aggiunge' in un certo modo, come abbiamo visto, alla concezione che se ne ha necessariamente attraverso la classe del sistema di intercomprensione cui esso appartiene. Non ci sembra però che occorra fondare sul segno, come si fa di solito, la definizione di connotazione, giacché, stando sempre a quanto abbiamo visto, ciò che accade nell'atto semico riguardo al senso non è se non un caso particolare di ciò che accade nell'atto strumentale, in genere, riguardo all'operazione, la quale vi viene concepita attraverso l'utilità dell'utensile adoperato ma anche - e, dal punto di vista logico, prima - attraverso la classe che la determina. In effetti, ogni atto conoscitivo, e quindi ogni atto umano, presuppone, oltre alla maniera (de)notativa di concepire il suo oggetto, una maniera connotativa, nel senso definito sopra, di concepire un altro oggetto (v. lingua). Siccome però ogni atto conoscitivo consente di essere considerato come un atto strumentale, in quanto che attraverso l'universo di discorso cui appartiene il suo oggetto si cerca sempre di operare in un certo modo su di un altro universo di discorso (v. lingua), si può allora ritenere che ci sia connotazione sempre e solo quando c'è impiego di strumenti e fondare quindi su tale impiego la definizione del fenomeno. Proponiamo così, data un'operazione determinata dalla sua appartenenza a una certa classe e concepita dunque in una certa maniera, di chiamare ‛connotativa' in rapporto a tale maniera di concepire l'operazione in questione quell'altra maniera di concepirla che risulta dal riconoscerla come membro dell'utilità dello strumento adoperato per eseguirla.
La connotazione, in definitiva, sarebbe quindi un fenomeno concomitante a ogni attività umana. Non crediamo tuttavia che Barthes si riferisca alla stessa cosa quando parla della ‟semantizzazione universale degli usi", in virtù della quale oggetti ‟di origine utilitaria e funzionale", conie ‟il vestito, che serve per proteggersi", o ‟il cibo, che serve per nutrirsi [...], servono anche a significare" (v. Barthes, Eléments..., 1964; tr. it., p. 39). A nostro parere, infatti, la connotazione ritorna sempre sul denotato e cioè sull'operazione che viene eseguita, mentre per Barthes, poiché per lui ‟ogni uso si converte in segno di se stesso" (ibid.), un uso, in virtù della semantizzazione, rinvierebbe a se stesso o, più esattamente, a un modello di cui costituirebbe una sorta di realizzazione. Barthes è certo conseguente quando riconosce un legame tra la semantizzazione degli usi e la loro standardizzazione e afferma che ‟per ritrovare un oggetto insignificante si dovrebbe immaginare un utensile assolutamente improvvisato e che non si avvicinasse in nulla a un modello esistente" (ibid.). Ma c'è in questa affermazione un'altra prova che non si tratta affatto dello stesso fenomeno quando Barthes parla della semantizzazione universale degli usi e noi della concomitanza della connotazione a ogni attività umana. In rapporto alla connotazione così come viene da noi intesa la standardizzazione svolge infatti il ruolo esattamente contrario di quello che le attribuisce Barthes in rapporto alla detta semantizzazione: più l'uso di un determinato strumento nell'esecuzione di una certa operazione diventa frequente, più il fenomeno connotativo concomitante a quest'uso ‛si appiattisce', fino al ‛grado zero' della connotazione, che viene raggiunto quando lo strumento in questione è il solo che possa servire a tale esecuzione. In casi del genere, infatti, la maniera di concepire l'operazione risultante dall'uso, per eseguirla, del solo strumento atto a questo scopo è già implicita nella maniera di concepirla che risulta dal riconoscere la sua appartenenza alla classe che la determina; quella maniera di concepire l'operazione non viene dunque ad aggiungersi a questa, ma è la sua conseguenza necessaria, e la possibilità di ‛significare' che possiede l'uso del detto strumento viene ridotta così al nulla.
Se ci sono dunque ragioni di pensare che la semantizzazione degli usi di Barthes non sia la stessa cosa che quello che noi riteniamo costituisca la connotazione, ci sembra però che l'una non sia del tutto estranea all'altra in quanto la detta semantizzazione costituirebbe una sorta di funzionalizzazione della connotazione. Le diverse concezioni connotative di un'operazione che possono risultare dall'impiego dei diversi strumenti suscettibili di servire alla sua esecuzione sono infatti, per così dire, ‛neutre' dal punto di vista funzionale, nel senso che qualunque sia, di tali strumenti, quello che viene effettivamente adoperato, e qualunque sia quindi la maniera in cui l'operazione ne viene ‛connotata', lo scopo dell'atto strumentale, definito dalla classe che determina l'operazione, rimane lo stesso. Non appena c'è società (ibid.) - o, forse, non appena c è un certo tipo di società -, quelle diverse maniere di ‛connotare' un'operazione possono essere tuttavia diversamente valorizzate e assumere così a loro volta una funzione; funzione consistente spesso, ma forse non sempre, nel differenziare diversi gruppi all'interno di quella società: non ci sembra che sia differente il modo in cui si formano le élites. I diversi modelli, per dirlo in termini di Barthes, cui rinviano i diversi usi suscettibili di essere adoperati nell'esecuzione di un'operazione determinata, pur restando indifferenti riguardo a tale operazione, possono diventare a loro volta lo strumento di un'altra e perdere così la loro ‛neutralità' funzionale: la semantizzazione degli usi non è, a parer nostro, se non questa loro funzionalizzazione.
Un altro problema, collegato senza dubbio alla connotazione e che ne costituisce forse un'altra specie di funzionalizzazione, è quello del fenomeno ‛artistico'. Riteniamo che il fenomeno artistico si caratterizzi dall'impiego che l'esecutore di un'operazione fa di un certo strumento al fine di indicare con questo impiego la maniera di concepire l'operazione che ne risulta. Essendo l'impiego in questione un fatto prodotto intenzionalmente per indicare qualche cosa, il fenomeno artistico rientrerebbe, dunque, nell'ambito dei fenomeni comunicativi. Non possiamo certo dilungarci qui su questo problema a proposito del quale, del resto, attualmente non si può dire nulla se non a titolo d'ipotesi. Vorremmo tuttavia, non fosse che per un istante, fermarci su alcuni punti che possono, ci sembra, essere chiariti da quanto viene detto in precedenza. Uno di tali punti è quello della caratterizzazione delle diverse arti che si può fondare sulla definizione appena proposta. L'operazione il cui mezzo d'esecuzione, secondo tale definizione, costituirebbe il veicolo della comunicazione artistica può essere o non essere a sua volta un'operazione comunicativa e il fenomeno artistico può di conseguenza essere doppiamente comunicativo, esserlo cioè sia al livello connotativo che al livello denotativo, o, al contrario, essere comunicativo soltanto al livello connotativo. Ora ci sembra che queste due possibilità corrispondano a due forme fondamentali del fenomeno artistico: da una parte avremmo le arti che possiamo chiamare ‛letterarie', che sarebbero quelle in cui l'operazione di base è essa stessa un'operazione comunicativa e fra le quali occorrerebbe annoverare, ovviamente, la letteratura, ma anche le arti plastiche figurative, il cinema, il dramma, ecc.; e dall'altra le arti che possiamo chiamare ‛architettoniche', nelle quali l'operazione di base non sarebbe essa stessa comunicativa e il cui dominio sarebbe occupato dall'architettura e dal design. È interessante osservare come in ogni manifestazione artistica propria dell'una o dell'altra di queste grandi divisioni il ‛contenuto artistico' non sia accessibile al ricevente se non a condizione che egli sappia, se si tratta di un'arte letteraria, ‛cosa si vuol dire' o ‛rappresentare' col segnale che costituisce, in questo caso, l'‛oggetto artistico' o, se si tratta di un'arte architettonica, ‛cosa si vuol fare' con l'utensile che lo costituisce. Vediamo in questa esigenza una conferma della nostra ipotesi secondo la quale il menzionato ‛contenuto artistico' è sempre la maniera in cui un'operazione determinata - ciò che ‛si vuol dire', ‛rappresentare' o ‛fare' - viene ‛connotata' dall'impiego, nella sua esecuzione, di un certo strumento.
Rimangono beninteso, oltre alle arti letterarie e alle arti architettoniche, le arti che chiameremo ‛musicali' e tra le quali annoveriamo certamente la musica, ma anche le arti plastiche non figurative - senza dubbio vicinissime alla musica dal punto di vista semiologico -, la danza, ecc. Poiché nelle manifestazioni proprie di queste arti la presenza di un'operazione di base e, a maggior ragione, la natura di questa operazione sono assai meno evidenti che nelle altre, esse pongono dei problemi che concernono non soltanto la loro integrazione nella nostra classificazione, ma persino la validità stessa della definizione da noi proposta di fenomeno artistico. La nostra opinione, che non può essere se non provvisoria, è che alla base del fenomeno musicale si abbia a che fare con un'operazione comunicativa vertente non, come accade nelle arti letterarie, sul mondo oggettivo, bensì sul mondo soggettivo. Ci sono almeno certi fatti che ci sembrano avallare questo punto di vista. Così qualcuno che, nelle tonalità classiche, non riconosce ad esempio tra la dominante e la tonica un rapporto di ‛tensione' e ‛riposo' ci pare trovarsi, rispetto a un'opera musicale fondata su una simile tonalità, in una situazione analoga a quella in cui qualcuno che ignora, ad esempio, l'italiano si trova rispetto a un'opera letteraria scritta in questa lingua: non si tratta né in un caso né nell'altro di qualcuno che non riesce a comprendere il ‛contenuto artistico' dell'opera in questione, ma di qualcuno che non conosce addirittura il codice che gli permetterebbe di sapere ‛cosa si vuol dire', qual è cioè l'operazione determinata che viene ‛connotata' dai mezzi adoperati per eseguirla.
Un ultimo aspetto del problema della comunicazione artistica che vorremmo prendere qui in considerazione è quello della ‛finzione'. La sorta di funzionalizzazione della connotazione che costituirebbe il fenomeno artistico può essere accompagnata da una ‛defunzionalizzazione' dell'operazione di base, che si verificherebbe quando essa perde la sua propria ragion d'essere e non si giustifica più se non in quanto supporto della connotazione e della funzione di cui la connotazione è stata caricata: sarebbe appunto quando l'operazione che sta alla base di un'opera d'arte è stata così defunzionalizzata che si avrebbe a che fare con un'opera di finzione. Il romanzo e il film di finzione, la finzione architettonica costituita, ad esempio, da un arco di trionfo, i prodotti di quell'arte essenzialmente fittizia che è la gioielleria soddisfano tutti la definizione proposta, la quale lascia invece al di fuori opere che non sono certamente di finzione come il film documentario, il ritratto, il quadro religioso o, beninteso, la casa, il ponte o la sedia. Al pari della semantizzazione degli usi di Barthes, il fenomeno in certo modo inverso che è la defunzionalizzazione dell'operazione di base nell'opera artistica è sicuramente legato al contesto sociale in cui essa si verifica. Si osservi che dal momento in cui ciò che ‛si vuol dire', ‛rappresentare' o ‛fare' viene defunzionalizzato, un deciframento dell'opera che si limiti a riconoscere appunto ciò che ‛si vuol dire', ‛rappresentare' o ‛fare' perde evidentemente ogni senso (il che non accade invece quando si tratta di un'opera non fittizia: riconoscere infatti ‛cosa rappresenta' un film documentario possiede già un senso in se stesso pur se non si riesce a riconoscere la maniera in cui esso viene ‛connotato' dai mezzi adoperati per ‛rappresentarlo'). Vale a dire che la finzione artistica toglie ogni senso al deciframento che si trova alla portata della maggioranza dei membri della società, cioè il deciframento denotativo, tranne i casi in cui esso porta al deciframento connotativo, riservato evidentemente a una minoranza. Ora sarebbe interessante accertare se la finzione diventa la norma nella produzione di opere d'arte proprio dal momento in cui il ‛sapere artistico' assume il ruolo di strumento di legittimazione del privilegio di una classe sociale (v. Bourdieu, 1968, p. 660).
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