Semiotica dei nuovi media
La disciplina
L’espressione semiotica dei nuovi media si riferisce a una disciplina di recente costituzione in Italia: risalgono, infatti, alla fine del 2001 i primi insegnamenti universitari che portano questo titolo, mentre qualche anno dopo sono uscite le prime pubblicazioni sistematiche sull’argomento. Anteriormente a quegli anni, tale espressione non era mai stata usata né in Italia, né in altro contesto internazionale.
La giovinezza di questa disciplina è legata a quella degli oggetti di cui si occupa. Fu più o meno a metà degli anni Novanta, infatti, dopo la nascita del web (avvenuta fra il 1991 e il 1992) e in concomitanza con la diffusione su larga scala dell’accesso a Internet nei Paesi occidentali, che l’espressione nuovi media cominciò a circolare in ambito sociologico (van Dijk 1991; trad. ingl. 1999). Essendo all’epoca già radicato l’uso del termine media per indicare i mezzi di comunicazione di massa, l’etichetta nuovi media iniziò a riferirsi agli strumenti digitali e alle reti informatiche, nella misura in cui questi sono usati, appunto, come mezzi di comunicazione di massa.
Una semiotica specifica
Per comprendere che cosa sia questa disciplina, occorre innanzi tutto collocarla con precisione nell’ambito della semiotica. Nella sua accezione più generica il termine semiotica indica una riflessione sistematica sui segni, le leggi che li regolano, i loro usi nella comunicazione, e può essere generale o specifica. Una semiotica generale è una riflessione di carattere filosofico, che pone concetti e costrutti teorici per rendere ragione di fenomeni di significazione e comunicazione molto generali e apparentemente disparati. È quindi una forma di filosofia del linguaggio, ma se ne distingue perché: a) ha carattere empirico in quanto si nutre dell’apporto di semiotiche specifiche (v. oltre); b) generalizza i propri concetti in modo da definire non solo le lingue naturali e i linguaggi formalizzati – come la filosofia del linguaggio – ma anche le forme espressive non verbali, quelle non del tutto codificate, alcuni processi cognitivi fondamentali, i fenomeni naturali e le manifestazioni umane non intenzionali, quando sono interpretate da qualcuno come segni di qualcosa.
Una semiotica specifica (o applicata) non studia la significazione e la comunicazione umana in generale, ma il funzionamento di un particolare sistema di segni. La semiotica dei nuovi media è dunque una semiotica specifica (o applicata) che indaga i media più recenti considerandoli come testi. Nel fare questo, essa (come tutte le semiotiche applicate) seleziona di volta in volta, a seconda del testo, la metodologia e i concetti della semiotica generale più confacenti per l’analisi di quel testo. La molteplicità di teorie che caratterizza la semiotica generale è ormai tale che va pensata, più che come una disciplina, come un intero campo disciplinare, più che come una singola materia di studio, come l’insieme di materie che vengono insegnate in un intero corso di studi universitario: dalla linguistica di Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev alla semiotica strutturalista di Roland Barthes, a quella generativa di Algirdas J. Greimas; dalla semiotica cognitiva di Charles S. Peirce a quella interpretativa di Umberto Eco, fino alle più recenti evoluzioni della teoria dell’enunciazione, della semiotica visiva, della semiotica delle passioni e del corpo, della sociosemiotica.
Non è possibile, in questa sede, rendere ragione di questa vastità, né dei criteri con cui, di volta in volta, si decide di usare questo o quello strumento concettuale per studiare questo o quel nuovo medium: non tutte le teorie e i concetti della semiotica generale si applicano a tutti i nuovi media, né a tutti i livelli in cui questi possono essere analizzati. Possiamo tuttavia riprendere per sommi capi i passi fondamentali della metodologia che la semiotica generale di stampo strutturalista ha messo a punto per l’analisi di un qualunque testo, il che ci permette anche di comprendere, in via preliminare, cosa vuol dire intraprendere l’analisi semiotica di un nuovo medium.
L’analisi semiotica dei testi
Nella seconda metà del Novecento la linguistica e la semiotica spostarono progressivamente l’attenzione sul concetto di testo, al punto che a tale proposito si è parlato della ‘svolta testuale’ delle due discipline. Ne nacquero la linguistica testuale e la semiotica del testo.
In generale, spostare l’attenzione verso il testo vuol dire prendere in considerazione unità di analisi superiori non solo alle singole parole (e altre entità subfrasali come articoli, pronomi, sintagmi nominali), ma superiori anche alle frasi e agli enunciati, intesi questi come frasi prodotte da qualcuno in qualche contesto di comunicazione concreto. Dal punto di vista semiotico, è testo qualunque porzione di realtà: a) che sia dotata di significato per qualcuno; b) di cui si possano definire chiaramente i limiti, per cui si riesca a distinguere il testo da tutto ciò che ne sta fuori; c) che si possa scomporre in unità discrete, secondo più livelli gerarchici di analisi, che vanno dal più concreto e superficiale al più astratto e profondo; d) che questa scomposizione segua criteri oggettivabili (cfr. Semiotica in nuce, 1° vol., 2000, pp. 7-11).
La semiotica generale ha dunque ampliato la nozione di testo fino a renderla quasi onnicomprensiva. In questo senso sono testi: miti e racconti di folclore (testi tramandati oralmente); racconti, romanzi, poesie, articoli di giornale, sceneggiature cinematografiche, discorsi politici (testi verbali scritti, narrativi e non); dipinti, stampe, fotografie, pubblicità a stampa, manifesti (testi visivi); brani musicali, canzoni, concerti (testi musicali); lungometraggi, cortometraggi, spot, programmi televisivi, videoclip (testi audiovisivi); rituali, interazioni fra individui più o meno codificate e istituzionalizzate (da una conversazione informale a ciò che avviene in un’aula di tribunale, le cosiddette pratiche semiotiche); infine, tutti i testi che, dagli anni Novanta del 20° sec. in poi, sono stati considerati nuovi media, come ipertesti off-line (prima su floppy, poi su CD e DVD), interfacce software e hardware, siti web (a tutti i livelli: dai siti aziendali ai portali, fino ai siti con interfaccia tridimensionale), banners, chat verbali e multimediali, blog, videogiochi on-line e off-line.
L’analisi semiotica dei testi nulla ha a che vedere con indagini sociologiche di tipo quantitativo, volte a ottenere percentuali e statistiche, né mira a definire le condizioni che i testi dovrebbero rispettare per essere, secondo i casi e la ricerca che si conduce, più o meno comprensibili, o pragmaticamente efficaci, o esteticamente interessanti, e via dicendo. In altri termini, il metodo della semiotica del testo, come quello della filosofia del linguaggio, non è quantitativo ma qualitativo, e non è normativo ma descrittivo. A differenza della filosofia analitica del linguaggio, però, il metodo semiotico non è aprioristico. Infatti, mentre il filosofo analitico parte spesso dall’analisi dell’uso ordinario di espressioni linguistiche, supponendo che corrisponda a quello della maggior parte delle persone, e si muove all’interno di questa supposizione, il semiologo considera sempre il testo o la pluralità di testi che analizza come un banco di prova empirico che serve a confermare o confutare dall’esterno le sue teorie e ipotesi.
L’analisi semiotica è dunque un’operazione di smontaggio, di scomposizione di un testo in elementi pertinenti più piccoli e nel contempo più generali, cioè ricorrenti non solo in quel testo, ma presenti sistematicamente anche in molti altri. L’analisi procede aumentando via via il grado di generalità e astrazione degli elementi che va individuando; in semiotica questo movimento graduale dalla particolarità e concretezza di una singola occorrenza testuale a una sempre maggiore generalità e astrazione viene descritto – usando una metafora spaziale – come passaggio dalla superficie alla profondità del testo: l’analisi passa dalla superficie discorsiva in cui il testo manifesta la sua unicità, a livelli sempre più generali e astratti, che costituiscono la profondità semantica del testo.
In quest’operazione di scomposizione analitica e stratificata, la semiotica cerca le regole e i significati generali profondi che governano un testo e li confronta con quelli reperibili in altri testi, tenendo sempre in considerazione l’insieme intertestuale della cultura in cui sono inseriti in un certo momento storico e in una certa società. Secondo la tradizione strutturalista, infatti, i testi, i loro significati e le regole che li governano non vanno mai studiati da soli, ma sempre all’interno di un sistema interconnesso di relazioni semantiche; queste relazioni, inoltre, sono di diversi tipi (per es., iperonimia, iponimia, contrarietà, contraddizione ecc.) e alcune di esse, principalmente quelle di contrarietà e contraddizione, si possono organizzare in forma di quadrato, da cui il celebre quadrato semiotico di A.J. Greimas (v. la voce relativa in A.J. Greimas, J. Courtés, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, 1979; trad. it. 2007).
Si cercano innanzi tutto le relazioni semantiche che sono, esplicitamente o implicitamente, nel testo e poi si confrontano con ciò che sta fuori dal testo, cioè da un lato con l’intertestualità di cui il testo è intessuto (citazioni, rimandi impliciti ad altri testi, regole di genere), dall’altro, con quella che U. Eco ha chiamato enciclopedia, che è il patrimonio di conoscenze e credenze condivise nella cultura, nella società e nel momento storico in cui un testo vive. In questo senso, l’analisi semiotica è sempre, fra l’altro, un’indagine sistematica di ciò che già si sa (su un testo, attorno a un testo) in un certo ambito culturale, sociale, storico.
Questo punto è molto rilevante per la semiotica dei nuovi media. Qualunque nuovo medium, infatti, proprio in quanto nuovo, ha bisogno, per essere compreso e usato, di appoggiarsi alle regole dei media che l’hanno preceduto, trasformandole e ricombinandole in maniera più o meno originale, più o meno esplicita o mascherata, ma sempre attingendo in abbondanza al passato. Questo fenomeno è stato chiamato da Jay D. Bolter e Richard Grusin ri-mediazione (remediation): come un tempo il cinema ri-mediò la fotografia, come la televisione ri-mediò sia la radio, sia il cinema, così oggi Internet ri-media televisione, telefono, servizio postale, radio e altri media ancora (Bolter, Grusin 1999). L’analisi dei saperi che riguardano i media tradizionali (stampa, radio, televisione, cinema) è dunque fondamentale per quella dei nuovi media. Ma vediamo cosa sono i media dal punto di vista semiotico.
Media vecchi e nuovi
Quando si parla di media (o mezzi di comunicazione) si devono fare diverse distinzioni, perché le parole che li designano sono tutte ambigue. Si dice televisione o radio, per es., per intendere ora l’apparecchio di ricezione che abbiamo in casa, ora l’ente che produce e trasmette uno o più canali televisivi o radiofonici; ora le persone che compongono una redazione, ora un insieme più o meno definito di tecnologie di trasmissione e ricezione. Si dice stampa intendendo a volte le tecniche e gli apparati fisici dei processi di stampa, a volte il loro risultato su un certo supporto; a volte un insieme di pubblicazioni a carattere informativo (quotidiani, riviste ecc.), a volte i giornalisti della carta stampata. Con Internet la situazione è ancora più complessa: in certi ambiti si parla delle reti di calcolatori (hardware), in altri dei protocolli di interconnessione fra le reti (software), in altri ancora di ciò che accade nei diversi ambienti di comunicazione su Internet, sul web e fuori dal web.
Fra le tante distinzioni possibili ne riprendiamo una sola, che riguarda tutti i media, che si è ormai assestata negli studi sociologici ed è utile anche per un approccio semiotico ai media, vecchi e nuovi. È la distinzione fra media intesi come ‘tecnologie’ e media intesi come ‘forme di comunicazione’, cioè come insiemi di regole, convenzioni e forme organizzative – culturalmente, socialmente e storicamente determinate – che le persone seguono quando comunicano usando le tecnologie. È chiaro che a nessuno dei media contemporanei corrisponde una sola forma di comunicazione, ma tutti ne permettono una molteplicità.
Non sono media, dal punto di vista semiotico, la televisione o la radio intese come tecnologie di ricezione e trasmissione (cavi, apparati fisici), né come agglomerati di persone, ambienti e mezzi, ma i diversi generi e formati dei programmi televisivi e radiofonici (telegiornale, talk show, fiction, giornale radio), e l’organizzazione dell’ambiente comunicativo che rende possibile ciascun genere e formato. Nel caso della stampa, i media semioticamente rilevanti non sono certo le tecniche che permettono i processi di stampa, né presunte entità astratte di nome libro, giornale, rivista, ma i diversi generi e formati del libro (dal fumetto al romanzo, dal ricettario di cucina all’enciclopedia in decine di volumi), i diversi generi e formati del periodico, del quotidiano e così via, e le diverse pratiche semiotiche e sociali che ai generi e ai formati sono connesse (in particolare, progettazione del testo, scrittura, lettura, consultazione, rituali d’uso sia personali sia collettivi).
Per quanto riguarda Internet, alla semiotica non interessano le reti di calcolatori (tecnologie hardware), né i protocolli TCP/IP che regolano la trasmissione di dati sulle reti (tecnologie software) – e questo può apparire ovvio; ma alla semiotica non interessano neppure gli applicativi software che permettono la comunicazione interpersonale su Internet (e-mail, chat, blog), né tanto meno il web in sé e per sé. Quest’ultimo punto è in realtà meno ovvio, perché molti ancora si ostinano a trattare le tecnologie come se ognuna fosse una forma comunicativa: si parla spesso di web, mail, chat in generale, come se ognuno di questi ambienti permettesse una sola forma comunicativa, e non numerosissime e disparate, ognuna delle quali da analizzarsi separatamente. Per fare un esempio: dal punto di vista semiotico l’e-mail non è un medium unico e generale, perché sono moltissimi gli usi, più o meno codificati, che se ne fanno in diversi contesti sociali, culturali, economici (al lavoro, fra innamorati, fra persone lontane o vicine, fra persone che si conoscono o no), e ognuno di questi usi rappresenta una forma di comunicazione specifica, in cui si producono testi che hanno proprietà e seguono regole loro proprie. Analogamente, non ha alcun senso parlare di web in generale, ma piuttosto di diversi generi di siti (testate giornalistiche, siti di pubbliche amministrazioni, siti aziendali, blog ecc.) e di diversi tipi di azioni che sul web si possono effettuare: acquistare libri, biglietti aerei o ferroviari, chattare, consultare un’enciclopedia, compilare un modulo e altro.
Ma vediamo ora, fra le forme di comunicazione che le tecnologie permettono, quali sono quelle nuove e quali no e, in sostanza di quali oggetti, insomma, la semiotica dei nuovi media si occupa.
I nuovi media
In generale, è nuovo tutto ciò cui non siamo ancora abituati, che non riusciamo a inquadrare, del tutto o in parte, nelle regole che conosciamo e seguiamo. Dunque il significato del nuovo cambia in funzione del tempo: mano a mano che ci abituiamo a qualcosa, cessa di essere nuovo e diventa prima noto, poi, con il passare del tempo, sempre più scontato e vecchio. La percezione del nuovo dipende anche da variabili soggettive (ciò che è nuovo per me può essere vecchio e scontato per altri), variabili che tuttavia alla semiotica non interessano: il nuovo semioticamente rilevante è quello condiviso dai più in un particolare ambiente culturale e sociale e in un certo momento storico, è, in altre parole, quello registrato dall’enciclopedia di una certa cultura.
Negli ultimi anni, nei Paesi ricchi dell’Occidente e Nord del mondo, i media che l’enciclopedia registra come nuovi cambiano con grande rapidità, molto più che in passato. Questo fenomeno dipende dalla velocità con cui oggi cambiano le tecnologie della comunicazione, ma anche dalle strategie di marketing e vendita di questo o quel prodotto tecnologico, per cui spesso si creano mode e tendenze d’acquisto promuovendo come ‘nuovo’ anche ciò che non lo è.
Dal punto di vista tecnico, dagli anni Sessanta in poi l’informatica ha registrato cambiamenti rapidissimi, com’è testimoniato dalla cosiddetta legge di Moore, che ormai è diventata una leggenda, visto che vi si fa sempre riferimento per spiegare perché, se volessimo inseguire le continue innovazioni tecnologiche, dovremmo cambiare il nostro personal computer ogni 12 o 18 mesi. Gordon Moore, ingegnere elettronico e cofondatore di Intel, osservò nel 1964 che le tecnologie avrebbero permesso di raddoppiare ogni 12 mesi il numero di transistor per pollice quadrato presenti in un processore. In seguito Moore corresse la sua osservazione portando da 12 a 18 il numero di mesi necessari al raddoppio, quindi Intel corresse ancora, aumentandolo a 18-24, fino alle proiezioni più recenti, sottoscritte dallo stesso Moore, secondo cui la legge potrebbe cessare di funzionare intorno al 2020.
Nella vulgata della legge di Moore, al raddoppio dei transistor di un processore corrisponderebbero, da un lato, il raddoppio della sua velocità, dall’altro, la sua progressiva miniaturizzazione. Tuttavia, la moltiplicazione dei transistor non incide sempre e solo, né direttamente, sulla velocità di un processore, ma a volte sui costi di produzione, a volte sul consumo energetico. Questo in parte spiega come mai, dal 1964 a oggi, la velocità dei processori non abbia di fatto raggiunto i livelli che avrebbe dovuto se avesse seguito la progressione indicata da Moore. Indipendentemente dai dettagli tecnici, l’innovazione delle tecnologie informatiche mantiene comunque un ritmo considerevole ed è enfatizzata dalle strategie congiunte delle multinazionali del settore informatico: le aziende che producono microprocessori, quelle di hardware e quelle di software corrono su binari paralleli, per cui sviluppano versioni sempre più complesse di software, che richiedono sistemi hardware con capacità di memoria sempre maggiore e processori sempre più veloci.
I cambiamenti imposti dall’informatica e dalle sue strategie di marketing ci mettono quindi nelle condizioni di non poterci abituare quasi a nulla in questo campo, perché i tempi di sostituzione delle tecnologie informatiche sono talmente rapidi che non riusciamo mai a sentirci abbastanza a nostro agio da considerarle vecchie. Per questo, l’unica cosa ormai chiara dei nuovi media è che si basano su tecnologie informatiche, che in quanto tali sono condannate a una condizione di novità permanente. In altre parole, oggi nei Paesi industrializzati non esiste forma di comunicazione che sia generalmente percepita come nuova e non sia gestita – a qualche livello e in qualche modo – da un computer, sia esso un microprocessore o un grande sistema di calcolo. Questa considerazione non aiuta certo a delimitare il campo dei nuovi media, dal momento che la crescente informatizzazione della società fa in modo che ci sia un computer dietro a un numero sempre maggiore di oggetti quotidiani: dai telefonini ai videoregistratori, dalle lavatrici ai sistemi di apertura e chiusura delle porte.
In una situazione in cui il nuovo sta ovunque e cambia sempre più rapidamente, spesso si seleziona di cosa parlare e su cosa riflettere sulla base di mode e tendenze. Per es., fino alla fine degli anni Novanta andava di moda parlare di ipertesti: si cercava di definire cos’è un ipertesto, si sperimentava la narratività ipertestuale, si studiavano le relazioni fra gli ipertesti off-line e quelli on-line, cioè distribuiti sul web, che non è altro che una vastissima rete di ipertesti distribuiti su Internet. Oggi il dibattito sugli ipertesti si è quasi del tutto spento, anche se l’enciclopedia comune registra ancora come nuove molte tecnologie a base ipertestuale, dai prodotti multimediali su DVD ai videogiochi, ai menu di selezione delle pay-TV; tuttavia – semplicemente – non va più di moda discutere di queste cose in termini di ipertesti.
Alcuni esempi di nuovi media di cui si è parlato molto (e tuttora si parla) nel primo decennio del 2000 sono innanzi tutto il web, con una crescente attenzione per gli ambienti a interfaccia 3D, i mondi virtuali, per il social networking e il cosiddetto web 2.0, ossia il web che presenta contenuti costruiti dagli utenti comuni (da Flickr a YouTube, da Wikipedia ai blog); l’e-learning, cioè l’apprendimento a distanza (che negli anni Novanta si preferiva chiamare formazione a distanza o FAD); l’e-government, che è l’insieme di relazioni che le amministrazioni pubbliche intrattengono su Internet con i cittadini, le imprese e altre amministrazioni; il web semantico, che è l’inclusione nei documenti web di informazioni sugli argomenti e i concetti di cui i documenti trattano, sulla loro categorizzazione, sulle relazioni con altri documenti web; il wi-fi (wireless fidelity), ossia la possibilità di connettersi a Internet senza cavi, da un computer portatile, un palmare, un cellulare.
E molto altro ancora: basta leggere quotidiani e periodici, vedere trasmissioni televisive, osservare i volumi che i librai mettono in evidenza, per avere un quadro sempre aggiornato sui media che di volta in volta l’enciclopedia considera più nuovi del nuovo. Alcune di queste mode sono dettate dalle strategie commerciali delle grandi imprese informatiche, altre dai mezzi di comunicazione di massa, altre ancora sono più giustificate dal punto di vista semiotico, perché nascono da saperi e pratiche effettivamente condivise in certi ambiti sociali. È compito del semiologo, di volta in volta, prima distinguere i vari discorsi sui nuovi media, poi selezionare come propri oggetti di studio solo quelli semioticamente fondati.
In ogni caso, la lista dei nuovi media su cui riflettere è destinata a cambiare di continuo e non è possibile dare conto di tutti questi cambiamenti. Possiamo però definire in termini semiotici due concetti che ricorrono in qualunque riflessione sui nuovi media: multimedialità e interattività.
Multimedialità e testi sincretici
Il termine multimedialità è entrato ormai a far parte del linguaggio comune, ma è usato spesso in modo confuso. Sono dette multimediali, infatti, molte e diverse cose: si chiama multimedia message service (MMS) la tecnologia che permette di inviare e ricevere sul cellulare immagini e brani audio, si considerano multimediali le animazioni sul web, ma anche i videogiochi di ultima generazione e le chat con interfaccia 3D. Altre volte il concetto di multimedialità serve solo a marcare l’informatizzazione e il senso di novità che l’accompagna, come quando si dice tecnologie multimediali per dire nuove tecnologie, o rivoluzione multimediale come sinonimo di rivoluzione digitale. In molti casi l’idea di multimedialità serve semplicemente ad attirare l’attenzione dei consumatori, per cui fioriscono corsi, concerti, fiere multimediali e capita d’incontrare persino autoscuole e luna park multimediali. Questa confusione non riguarda soltanto il senso comune, ma spesso finisce per affliggere anche la riflessione teorica sui media.
In semiotica la nozione di multimedialità può essere definita nei termini del concetto di ‘testo sincretico’. Per Greimas e Courtés (v. la voce Syncrétiques, sémiotiques in A.J. Greimas, J. Courtés, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, 2° vol., 1986), è sincretico un testo in cui la stessa istanza di enunciazione mette in gioco «una pluralità di linguaggi di manifestazione», ossia più sistemi semiotici «eterogenei» nel senso che coinvolgono, a seconda di cosa si intende per «linguaggio», sostanze dell’espressione diverse (sonora, visiva, tattile ecc.), ma anche forme dell’espressione e del contenuto diverse (per questa terminologia, v. L. Hjelmslev, Omkring sprogteoriens grundlaeggelse, 1943; trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, 1986). Rielaborando questa definizione, possiamo dire che un testo sincretico organizza linguaggi eterogenei in una strategia di comunicazione unitaria, cioè presenta marche sintattiche, semantiche e pragmatiche di coesione e coerenza che rimandano alla stessa istanza di enunciazione o, per dirla con U. Eco (Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, 1979) allo stesso «autore empirico» o «insieme di autori empirici» che abbiano seguito le stesse regole di produzione testuale.
Sono testi sincretici, per es., i fumetti, le riviste, gli annunci pubblicitari a stampa, che applicano alla medesima sostanza dell’espressione (la pagina in bianco e nero o a colori di un giornale o una rivista), da un lato, le forme dell’espressione e del contenuto di diversi linguaggi visivi (l’illustrazione, la fotografia di reportage, di moda, l’immagine pubblicitaria), dall’altro, le regole sintattiche, semantiche e pragmatiche delle lingue verbali scritte che sono affiancate alle immagini. Sono testi sincretici di complessità ulteriore gli audiovisivi (film, programmi televisivi, spot pubblicitari), che combinano linguaggi basati su sostanze dell’espressione visive con linguaggi basati su sostanze sonore: musica (sigle, basi musicali, colonne sonore), effetti audio, e tutto ciò che le lingue verbali possono comunicare sul canale fonico-acustico, sia dal punto di vista linguistico (perché il parlato ha stili e modalità espressive diverse dallo scritto), sia dal punto di vista prosodico (pause, durata e quantità di vocali, consonanti, parole) e paralinguistico (variazioni di tono, energia e sonorità nella pronuncia). Si possono considerare testi sincretici ancora più complessi i testi multimediali, nei diversi significati che attualmente si attribuiscono a questo termine.
La parola multimedialità è usata a volte in un’accezione ristretta, come quando i commercianti la appiattiscono sul fatto che i personal computer siano dotati di altoparlanti, da cui ascoltare musica e audio, e di uno schermo per vedere animazioni e filmati. In questo senso si riduce la multimedialità a multisensorialità o, per dirla con Hjelmslev, a multisostanzialità, perché si sottolinea solo il fatto che un testo sia basato su molte sostanze dell’espressione e coinvolga molti canali sensoriali. Per quanto riduttivo, il riferimento alla multisensorialità rende conto di tanti usi contemporanei del termine multimedialità: quando si parla di eventi, effetti, performances multimediali oppure, con un’espressione francese, di sons et lumières si intendono esperienze in cui molti sensi, idealmente tutti, sono coinvolti. Si pensi inoltre all’importanza del tatto e dell’olfatto, oltre alla vista e all’udito, nella fruizione della musica in discoteca, nelle performances live dei gruppi musicali, nei rave parties. Infine le mani e il tatto sono fondamentali nell’uso di qualunque personal computer, specie per la manipolazione diretta delle interfacce grafiche. Il tatto è determinante per creare l’effetto di immersione nello spazio dello schermo, enfatizzato dalle interfacce tridimensionali e dai videogiochi di ultima generazione che, all’iperrealismo della grafica 3D, aggiungono vibrazioni del joypad concomitanti a eventi del gioco, o movimenti del personaggio controllato dal giocatore che corrispondono a inclinazioni del joypad, tanto che in certi casi il giocatore può mimare l’azione dei personaggi.
La multisensorialità non esaurisce tuttavia i significati della multimedialità, com’è dimostrato dal fatto che gli audiovisivi sono multisensoriali, ma non li diciamo multimediali. Questo non tanto perché coinvolgono solo due canali sensoriali (vista e udito) invece di molti, ma perché ogni audiovisivo è percepito come un solo medium, non come molti. Infatti, la multimedialità mette in gioco non solo una pluralità di canali percettivi, ma una pluralità di media (multi-media appunto), laddove il concetto di medium non riguarda né la sostanza dell’espressione, né la tecnologia, ma è una forma di comunicazione storicamente, culturalmente e socialmente determinata. Neppure questo concetto, però, basta a spiegare tutti i significati della parola multimedialità: un libro illustrato è multi-mediale nel senso appena visto (perché combina la forma comunicativa delle immagini con quella dei testi verbali), ma non è un buon esempio di multimedialità, innanzi tutto perché coinvolge soltanto la vista (e non gli altri sensi), e poi perché la multimedialità porta con sé anche l’idea di novità (non è un caso che l’espressione tecnologie multimediali sia a volte sinonimo di nuove tecnologie).
Arriviamo così a una definizione. Sono multimediali in senso pieno i testi che mettono insieme: a) una pluralità di media intesi come forme di comunicazione, b) che lo fanno attraverso una strategia di comunicazione unitaria, c) che consentono una combinazione che ancora non siamo abituati a pensare assieme, in altre parole che percepiamo come nuova, d) e che fruiamo attraverso più di un canale sensoriale.
Alla luce di questa definizione, i libri illustrati non sono multimediali per due motivi: perché non sono multisensoriali e perché la combinazione di linguaggi che coinvolgono non ci risulta affatto nuova. Sono multimediali in senso pieno, invece, i siti web più complessi, che combinano, fra gli altri, i linguaggi del quotidiano (impaginazione della home page, stile di scrittura degli articoli), di certi periodici (organizzazione delle sezioni interne, alternanza di testi verbali e immagini, stile degli approfondimenti), del telegiornale (interviste, brani documentari), della radio (stacchi audio), dello spot pubblicitario (animazioni, inserti video), del cinema (sigle di apertura e chiusura), delle chat e dei forum negli spazi dedicati alla comunicazione interpersonale. Questi siti sono multimediali nel senso più pieno della parola, perché sono nello stesso tempo multisensoriali, ‘multi-mediali’ nel senso che coinvolgono più media, e sono inoltre percepiti come nuovi. Analogamente, fuori da Internet, sono pienamente multimediali, per es., alcune enciclopedie su DVD, perché contengono scritti di genere diverso (racconti storici, saggi, biografie, cronache, cronologie), animazioni (per illustrare esperimenti scientifici, cambiamenti di configurazioni geopolitiche), filmati prodotti ad hoc o estratti da opere cinematografiche o televisive esistenti, interviste video, commenti audio, letture di poesie o stralci di romanzi, brani musicali, sigle e così via.
Interattività
Il termine interattività nasce in informatica negli anni Sessanta per distinguere il real time processing, che è l’elaborazione di dati che un sistema di calcolo compie in tempo reale (cioè mentre il programmatore inserisce i dati), dal batch processing, che è l’elaborazione, da parte del sistema, di dati che sono già nel codice e possono essere cambiati dal programmatore solo intervenendo nel codice stesso. Negli anni Sessanta erano dunque interattivi i programmi in cui il programmatore inseriva i dati mentre il programma girava, e non erano interattivi i programmi che avevano i dati nel codice e non potevano essere modificati senza cambiare il codice stesso. Mentre a quel tempo l’interattività sottolineava, nello scambio di informazioni fra sistema e utente, il ruolo dell’utente – perché la novità stava da quella parte – oggi che il real time processing è scontato, quando si parla di interattività si pensa piuttosto al fatto che sia il sistema a reagire, a rispondere in tempo reale – cioè immediatamente – agli input dell’utente.
L’attenzione per l’uno o l’altro polo dello scambio informativo varia a seconda di cosa è scontato e cosa non lo è nel contesto storico-culturale in cui si parla di interattività. Poiché normalmente gli oggetti inanimati non compiono azioni, ma le subiscono (sono toccati, guardati, usati ecc.), a differenza degli esseri animati che invece agiscono, la prima cosa che viene in mente quando pensiamo a un oggetto interattivo è che l’oggetto sia capace di rispondere, di reagire con azioni conseguenti (come fosse una persona) agli input di un essere umano. Solo in un secondo momento pensiamo al fatto che, per avere azione reciproca fra due soggetti, alla reazione del sistema debba seguire un’azione ulteriore dell’utente. Se invece parliamo di televisione interattiva, pensiamo subito alla possibilità che siano gli spettatori a svolgere un ruolo in qualche modo attivo (quindi non più spettatori ma attori), intervenendo nei programmi, scegliendoli da un insieme di offerte, personalizzando i propri palinsesti e così via. L’attenzione, in questo caso, è tutta spostata dalla parte dell’utente perché normalmente la televisione è un mezzo di comunicazione monodirezionale, in cui il flusso di informazioni procede da un punto centrale verso un insieme ampio e indifferenziato di destinatari (broadcasting), che non agiscono, ma ricevono del tutto passivamente.
Analogamente, quando si parla di testi e ipertesti interattivi (guide interattive, corsi interattivi, narrativa interattiva), ci si riferisce alla possibilità che i lettori intervengano attivamente e materialmente sul piano dell’espressione dei testi, facendo clic sui link, aggiungendo testi propri, proponendo esiti alternativi di una storia, rispondendo a domande e così via. Normalmente, infatti, nei testi tradizionali su carta, i lettori «cooperano» con il testo (cfr. U. Eco, Lector in fabula, 1979) intervenendo soltanto sul piano del contenuto, cioè attribuendo significati alle parole e alle immagini, e ricostruendo tutti gli impliciti del testo, ma non intervengono attivamente anche sul piano dell’espressione, cioè non lasciano sul testo tracce materiali che siano in qualche modo essenziali alla sua fruizione.
Sia in informatica, sia nel senso comune i concetti di interazione e interattività implicano qualcosa di più dello scambio bidirezionale di informazioni fra macchina e utente: nell’interattività sta infatti anche l’idea che lo scambio sia per certi aspetti simile a ciò che accade quando le persone dialogano. Il dialogo fra macchina e utenti è una metafora che in informatica si usa di frequente: si pensi alle ‘finestre di dialogo’. In questa metafora è insito un concetto di dialogo in qualche modo paradigmatico, prototipico: quello della comunicazione faccia a faccia fra due persone che usano il canale fonico-acustico di qualche lingua per parlarsi. Il dialogo prototipico è caratterizzato da questi cinque fasci di proprietà essenziali: 1) sono coinvolte due persone, un parlante e un ascoltatore. Essi hanno in comune la lingua che parlano e un insieme di conoscenze e credenze sia generali, sia contestuali, sulla base delle quali si attribuiscono reciprocamente intenzioni, giudizi, emozioni, desideri ecc., cioè stati cognitivi e passionali. Inoltre, presuppongono di avere accesso reciproco solo a una piccola parte di questo insieme ampio e variegato di stati interiori, la maggior parte dei quali resta inaccessibile quando dialogano, e può sempre riservare sorprese. In altre parole, parlante e ascoltatore presuppongono reciprocamente di essere sistemi complessi e opachi, ‘scatole nere’ accessibili e prevedibili dall’esterno in misure diverse, ma sempre solo in parte. 2) Parlante e ascoltatore condividono lo spazio in cui si trovano quando dialogano. 3) Parlante e ascoltatore condividono il tempo in cui dialogano: si tratta, si dice, di comunicazione sincrona. 4) La condivisione dello spazio-tempo comporta che parlante e ascoltatore abbiano entrambi accesso percettivo al corpo e contesto dell’altro. 5) La relazione fra parlante e ascoltatore è paritaria, nel senso che sia il parlante, sia l’ascoltatore pensano di avere pari diritto di parola, se non per ruolo sociale o culturale, almeno perché il contesto o la loro relazione li mette in una simile condizione. Questa caratteristica comporta necessariamente che ci sia un elevato grado d’interscambiabilità fra il ruolo del parlante e quello dell’ascoltatore, e che, di conseguenza, ciascun soggetto adatti continuamente la propria comunicazione alle azioni e alle reazioni dell’altro.
Questi fasci di proprietà non sono congiuntamente sufficienti, ossia non esauriscono, presi assieme, la descrizione di cosa succede quando le persone comunicano faccia a faccia, ma sono essenziali al dialogo prototipico in un senso sfumato di essenzialità: se manca qualcuna di queste caratteristiche, il dialogo è percepito, in modi e gradi diversi, come anomalo o comunque meno tipico, meno ‘dialogo in senso letterale’. Se, per es., la comunicazione non è fra due persone, perché ce n’è una sola o ce ne sono più di due, non si parla propriamente di dialogo. Inoltre non chiamiamo dialoghi le comunicazioni orali asimmetriche per ruoli e competenze, come possono essere le lezioni, le conferenze, i discorsi pubblici (che fra l’altro coinvolgono più di due persone), e neanche le conversazioni in cui il parlante domina l’interlocutore per svariati motivi (personali, relazionali, sociali, culturali): diciamo piuttosto che sono monologhi o, appunto, che mancano di interattività.
Il dialogo prototipico, con i tratti appena visti, è un paradigma implicito nello studio dell’interazione fra persone e computer, ovvero, per usare un’etichetta che designa un intero campo disciplinare, nella HCI (Human Computer Interaction). Le caratteristiche del dialogo prototipico ci possono quindi aiutare a definire il concetto informatico di interattività e comprendere su quale base diciamo che alcuni oggetti e sistemi sono interattivi e altri no.
Un sistema è interattivo se stabilisce con il suo utente una relazione simile a quella del dialogo prototipico. Poiché la somiglianza non è un concetto assoluto, ma una questione di gradi, anche l’interattività lo è. Ciò corrisponde alle nostre intuizioni ordinarie: mentre siamo sicuri di poter dire che un computer è molto interattivo, un videoregistratore ci pare meno interattivo; mentre siamo disposti ad attribuire una certa quota di interattività a un aspirapolvere o a un frullatore da cucina, siamo certi che un cacciavite non può essere interattivo.
Un sistema è interattivo al massimo grado se possiede questi cinque insiemi di proprietà che ricordano quelle del dialogo prototipico: 1) sono coinvolti due soggetti, il sistema e l’utente. Come nel dialogo prototipico, l’utente presuppone di avere a che fare con un sistema più o meno complesso di stati e processi interni, una ‘scatola nera’ che può essere più o meno accessibile e controllabile dall’esterno, ma non è mai del tutto trasparente. Quanto più alto è il grado di complessità che l’utente presuppone nel sistema, tanto più il sistema è interattivo, perché ricorda la complessità umana. 2) L’utente e il sistema condividono uno spazio, quello dell’interfaccia software e hardware. 3) L’utente e il sistema interagiscono in sincronia, il che comporta che possano interrompersi l’un l’altro e che il loro tempo sia scandito da azioni e reazioni reciproche. Il sistema agisce e reagisce sempre in modo pertinente rispetto alle azioni e reazioni dell’utente, e così rapidamente da simulare l’immediatezza del dialogo prototipico fra esseri umani. 4) Nell’interazione persona-macchina l’utente percepisce l’interfaccia hardware e software della macchina sui canali sensoriali che essa prevede: visivo (sullo schermo), uditivo (quando il sistema o i programmi emettono suoni oppure, più sistematicamente, nelle interfacce vocali), tattile (sul mouse, la tastiera, lo schermo touch screen). Anche la macchina percepisce, per così dire, l’utente nei punti in cui questi interviene: per es., sulla tastiera e sui luoghi dello schermo in cui il puntatore è attivo. 5) La relazione fra sistema e utente non è mai del tutto paritaria come quella del dialogo prototipico, e presenta invece gradi diversi di asimmetria a favore dell’utente a seconda del sistema e della sua interfaccia. Più la relazione fra sistema e utente è paritaria, più il sistema risulta essere interattivo.
La presenza congiunta di questi cinque insiemi di proprietà definisce un grado molto alto di interattività: quella dei sistemi informatici. Anche nei sistemi informatici si possono però distinguere diversi gradi di interattività, legati alla gradualità della prima e ultima caratteristica: la complessità del sistema e la parità fra utente e sistema. Quanto più il sistema è complesso, quanto più riesce a stabilire relazioni paritarie con l’utente, tanto più lo diremo interattivo.
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