semiotica
Dal gr. σημειωτική «studio, esame dei segni», scienza dei segni linguistici e non linguistici. Il termine, proposto da Peirce e Morris, è sinon. di semiologia (➔) anche se il suo uso è più frequente: pur non essendo privo di differenze storiche e concettuali rispetto a semiologia, esso si è ormai imposto nel linguaggio comune e scientifico.
L’uso del termine non è recente: semiotics, in Peirce, riprende la denominazione semeiotiké, con cui Locke intendeva la dottrina dei segni e soprattutto dei segni più comuni, le parole, denominazione assai più antica, che risale a Galeno e si ritrova in Lambert, che nel Neues Organon (1764) propone una s. come studio della conoscenza simbolica in genere e del linguaggio. Ciò rinvia al problema della storia della s., se sia «scienza antica» o comunque premoderna, o soltanto e più autenticamente «scienza moderna». In effetti, la s. si può far risalire molto indietro nel tempo, rintracciandone alcuni fondamentali presupposti nell’Organon di Aristotele, nella distinzione stoica di significante e significato, nei trattati dei modisti del 13°-14° sec. (R. Bacone, Sigieri di Courtrai, Tommaso di Erfurt) e nella linguistica razionalistica e ‘cartesiana’ di Port-Royal, ricostruendone le vicende fino a Settecento inoltrato, da Bacone, Hobbes e Leibniz a Locke e Lambert, fino alla s. degli idéologues (Destutt de Tracy, Degérando), purché si faccia attenzione alla sua sostanziale diversità rispetto alla s. come «scienza moderna». Ciò che domina nella s. antica e premoderna, sei-settecentesca, sono la concezione nomenclatoria del significante e la concezione referenzialistica del significato, che presuppongono l’idea del segno come «rappresentante» formato dal significante (identificato con l’aspetto fonico-acustico) e dal significato (identificato con il concetto o con l’oggetto denotato).
Di s. come disciplina davvero moderna, tale da andare incontro a un notevole sviluppo teorico-applicativo, si può parlare invece quando si tematizza la nozione di arbitrarietà come formatività, il cui presupposto consiste nel passaggio dalla concezione convenzionalistica del linguaggio a una sua considerazione formale, che non dà conto di quanto c’è di materiale nella comunicazione reale, occupandosi piuttosto delle condizioni, linguistiche e non linguistiche, che permettono di spiegare la realizzazione di messaggi effettivi. Comunque, una s. moderna si profila già con Peirce, che pone le basi di una teoria filosofica in cui hanno forte rilievo, tra l’altro, la nozione di «semiosi illimitata» (➔ semiosi), la distinzione tra modello e realizzazione di un segno (➔), cioè tra ‘tipo’ di segno e sua concreta occorrenza (type-token, legisign-sinsign), e la suddivisione di tre tipi diversi di segni, ossia icone, indici e simboli, a seconda che il rapporto con il referente sia di similarità, come nelle icone, di contiguità (il significante degli indici è collegato da rapporti reali con la cosa significata), o convenzionale (il significante del simbolo rinvia all’oggetto in base a una regola). Morris, a sua volta, sullo sfondo di un’originale sintesi tra pragmatismo e temi di analisi linguistica ripresi dal neopositivismo, propone importanti contributi alla s., suddividendo la «scienza generale dei segni» in tre branche: la pragmatica, che analizza i «rapporti dei segni con i loro interpreti», cioè con chi li riceve, li produce e li comprende; la semantica, che studia i rapporti dei segni con ciò che designano; la sintattica, che si occupa dei rapporti formali dei segni tra loro, ma promuovendo anche un incontro, ricco di sviluppi, tra s. ed estetica. Anche per influsso indiretto della teoria dell’informazione, nel secondo dopoguerra si è quindi assistito al costituirsi di particolari s. del non verbale: la prossemica, termine coniato da E.T. Hall, nel 1963, per designare la branca della s. che si occupa dell’uso che le varie culture fanno dello spazio e delle distanze spaziali connesse all’interazione comunicativa interpersonale; la cinesica, o branca della s. che, sviluppata partire dagli anni Cinquanta, grazie ai lavori di D. Efron (1941) e di R.L. Birdwhistell (1952), analizza la gestualità umana, la postura, ecc., intesa come forma di significazione; e perfino la zoosemiotica (che allarga il campo di studio alla comunicazione animale in generale).
Ma è soprattutto sulla base della teoria del linguaggio formulata da F. de Saussure, e della sua rielaborazione da parte di L. Hjelmslev che si afferma, anche in Europa, la teoria semiotica moderna. È chiarito lo statuto formativo del significante e del significato, considerati come classi astratte da Saussure e da Hjelmslev, come condizioni formali, grazie alle quali una «materia» qualsiasi può essere diversamente formata e presentarsi come sostanza, a seconda delle funzioni specifiche del sistema considerato; è proposta la nozione di «funzione segnica», intesa come correlazione di due sistemi formali di differenze, dell’espressione e del contenuto, che costituiscono ciò che Hjelmslev chiama sistema semiotico. Ma altre nozioni ancora hanno validità generale e appaiono di straordinaria importanza per lo sviluppo della s., come quelle di codice e di commutazione, di rapporti sintagmatici e di rapporti associativi, di sincronia e di diacronia, di sistema come meccanismo produttivo di segni, di unità minime differenziali dal significante, di senso e di atto semico. D’altra parte, la tendenza a tematizzare, in forma sempre più generale, i processi di significazione ha condotto la s. a occupare l’intero campo delle scienze umane; ciò che ha suscitato il dibattito tra ‘annessionisti’ e ‘anti-annessionisti’, nonché diversi tentativi di precisare e restringere l’uso della nozione di ‘comunicazione’ (E.J.L. Buyssens), nonché la posizione della s. nei confronti della linguistica. A tale dibattito – cui aveva già dato impulso Cassirer con la Filosofia delle forme simboliche (1923-29) – hanno contribuito a vario titolo e con diverse prospettive teoriche, non sempre coincidenti con quelle di Saussure e Hjelmslev, Ju.N. Tynianov, I. Mukařovsky, R. Jakobson, A. Martinet, E. Benveniste, e A.J. Greimas, nonché quei semiotici russi, come Ju.M. Lotman e Uspenskij della cosiddetta Scuola semiotica di Tartu-Mosca, che sono stati i primi a teorizzare una s. della cultura, l’analisi dei «sistemi modellizzanti secondari», cioè di tutti quei sistemi semiotici, diversi dalle lingue, in cui si esprimono specifici modelli di concezione del mondo e di elaborazione umana della realtà (dai miti al folclore, dalle religioni all’arte). Più in partic., nella concezione di Jakobson – che risente dell’influenza della fenomenologia husserliana, specialmente manifesta nell’uso della nozione di intenzionalità – la s. si inserisce, come seconda «scienza», volta allo studio della comunicazione di messaggi qualsiasi, all’interno di una tripartizione che procede per generalizzazione crescente e che vede al primo posto la linguistica, intesa come lo studio dei messaggi verbali, e al terzo l’antropologia sociale ed economica, intesa come studio della comunicazione. Barthes, invece, ha avanzato la proposta di una s. della significazione che rovescia la prospettiva di Saussure, giacché la s. diviene una parte della linguistica, che analizza sistemi di oggetti d’uso e attività sociali significative non specificamente destinate alla comunicazione, le quali, più che essere linguaggi e codici di comunicazione, sono rappresentabili ‘come’ linguaggi e codici (miti e sistemi di parentela, pubblicità, auto e mode vestiarie, il cinema e le arti, ecc.). Un’altra s. di derivazione saussuriana è quella di Buyssens, a cui si sono richiamati G. Mounin e l’argentino L. Prieto, che con la loro s. della comunicazione hanno dato impulso alla sistemazione storica delle scienze semiologiche e proposto l’analisi di sistemi di segni fortemente codificati, in cui è posta in primo piano l’intenzionalità comunicativa (non solo le lingue, ma l’alfabeto Morse e quello Braille, segnali stradali e marittimi, ecc.).
Nella cultura italiana, dove gli studi semiotici sono stati introdotti da Ferruccio Rossi-Landi, studioso del pragmatismo e dell’opera di Morris, sono stati coltivati vari tentativi di servirsi della s. per analizzare le complesse stratificazioni di senso dei testi letterari (C. Segre, M. Corti, D’A.S. Avalle). Si è anche cercato di distinguere l’ambito della s. da quello della semiologia: così, Avalle ha indicato nella semiologia lo studio dei segni intenzionali e arbitrari e nella s. l’analisi dei sintomi, degli indizi e degli indici, mentre lo stesso Rossi-Landi ha designato con s. la scienza generale dei segni e con semiologia una disciplina post- e trans-linguistica, che ha come oggetto un «linguaggio secondo», formatosi dopo e sul linguaggio verbale. Tra i teorici che più si sono interrogati sulla possibilità di una costruzione rigorosa della s. come scienza, e sulla possibilità di applicarla realmente allo studio dei prodotti artistici, vanno ricordati in partic. Garroni (➔) (Progetto di semiotica, 1972) e U. Eco (Trattato di semiotica generale, 1975), i quali hanno trovato in C. Brandi un importante punto di riferimento critico. Comunque, di fronte alla tendenza verso una «semiotizzazione» generale e pressoché incontrollata delle scienze umane, iniziata già negli anni Sessanta, in un momento in cui era ancora forte l’illusione scientista della s. e la fiducia nella possibilità di una s. delle arti, sono state avanzate riserve e proposte teoriche nuove. Eco, in Lector in fabula (1979) e in altri suoi testi, pur non ponendosi il problema di una definizione semiotica dell’esteticità dei testi, ha mostrato l’insufficienza di una s. dei codici e la necessità della sua integrazione con una pragmatica, fino a ridefinire la nozione di segno in una prospettiva analoga. Ma è stato soprattutto Garroni, in Ricognizione della semiotica (1977), ad avvertire l’esigenza di una valutazione delle pretese totalizzanti della s. a valere come ‘teoria generale dei segni’ e in partic. come s. dell’arte. Con quella ricognizione, che non è una liquidazione della s. ma una sua ‘critica’ in senso kantiano, Garroni ha mostrato che la s. non solo non ha risolto, ma ha mal posto e talora persino taciuto il problema fondamentale da cui dovrebbe derivare il suo stesso statuto scientifico, quello del concetto di significato e delle sue condizioni non solo linguistiche di possibilità. Garroni ha inoltre sottolineato come non abbia senso parlare di «linguaggi artistici» e dei rispettivi «codici», da cui sarebbero selezionabili e decifrabili i relativi messaggi e significati. Se la s. non è riuscita a costruire quei presunti codici, e se è vero che ha ottenuto risultati non convincenti e indifferenti alle esigenze della valutazione, ciò dipende da una ragione teorica insuperabile, cioè dal fatto che nel caso dei prodotti artistici si ha a che fare con procedimenti in cui l’operatività dell’uomo si manifesta specializzando la propria autonomia e costruttività.