Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La semiotica, o semiologia – dal greco sēmêion, “segno” – viene tradizionalmente definita come lo studio della natura e del funzionamento dei segni, sebbene non vi sia accordo unanime circa la migliore definizione di segno. In via generale, si può dire che un segno è qualunque fenomeno percepibile che significa qualcosa per qualcuno, dalle parole del linguaggio alle immagini pittoriche, dai rituali comportamentali ai sintomi medici. In questo senso, la semiotica è la disciplina che si interroga su come diamo senso al mondo tramite la produzione e l’interpretazione di segni.
I pionieri della semiotica: Saussure e Peirce
Ferdinand De Saussure
Significato e significante
Noi chiamiamo “segno” la combinazione del concetto e dell’immagine acustica: ma nell’uso corrente questo termine designa generalmente solo l’immagine acustica, per es. una parola (arbor, ecc.). Si dimentica che se arbor è chiamato “segno”, questo avviene perché esso porta il concetto “albero”, in modo che l’idea della parte sensoriale implica quella del totale.
L’ambiguità sparirebbe se si designassero le tre nozioni qui in questione con dei nomi che si richiamano l’un l’altro pur opponendosi. Noi proponiamo di conservare la parola “segno” per designare il totale, e di rimpiazzare “concetto” e “immagine acustica” rispettivamente con significato e significante: questi ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evidente l’opposizione che li separa sia tra di loro, sia dal totale di cui fanno parte. Quanto a “segno”, se continuiamo ad usarlo, è per il fatto che non sappiamo come rimpiazzarlo, poiché la lingua usuale non ce ne suggerisce nessun altro.
F. De Saussure, Corso di linguistica generale, Bari - Roma, Laterza, 1967
Charles Sanders Peirce
Il pensiero-segno
Dunque, quando pensiamo, noi stessi, proprio quali siamo in quel momento, siamo come un segno. Ora un segno, in quanto tale, ha tre riferimenti: primo, è un segno per un pensiero che lo interpreta; secondo, è un segno in luogo di un oggetto a cui in quel pensiero è equivalente; terzo, è un segno sotto qualche rispetto o qualità che porta il segno stesso in connessione con il suo oggetto. [Il pensiero-segno] viene sempre interpretato da un nostro proprio pensiero susseguente. Dopo un qualunque pensiero, il corso delle idee, se fluisce liberamente, segue la legge dell’associazione mentale. In questo caso, ogni pensiero precedente suggerisce qualcosa al pensiero seguente, ovvero è il segno di qualche cosa per quest’ultimo.
C.S. Peirce, Scritti scelti, a cura di G.Maddalena, Torino, UTET, 2008
Una passeggiata inferenziale
Un bosco è, per usare una metafora di Borges (altro ospite delle Norton Lectures, il cui spirito sarà presente in queste mie conferenze) un giardino dai sentieri che si biforcano. Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta ad ogni albero che si incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto in ogni momento a compiere una scelta. Anzi, quest’obbligo della scelta si manifesta persino a livello di qualsiasi enunciato, almeno a ogni occorrenza di un verbo transitivo. Mentre il parlante si accinge a terminare la frase noi, sia pure inconsciamente, facciamo una scommessa, anticipiamo la sua scelta, o ci chiediamo angosciati quale scelta farà.
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994
La riflessione sui segni risale a tempi antichissimi, sia sotto forma di sapere tecnico legato alle pratiche divinatorie, astronomiche e mediche (si parla della struttura logica dei segni nel Corpus Hippocraticum), sia di articolate dottrine del segno quali si trovano, ad esempio, in Aristotele, negli stoici, in Galeno, in Agostino e in Locke. Ma è a cavallo tra Ottocento e Novecento che prende forma il progetto di fondare una disciplina specificamente dedicata allo studio dei segni e della semiosi (il processo in base a cui qualcosa funziona come segno). I pionieri della semiotica novecentesca sono Charles Sanders Peirce (1839-1914) e Ferdinand de Saussure (1857-1913), i quali, indipendentemente l’uno dall’altro, concepiscono “una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale” (Saussure), ovvero una “disciplina della natura essenziale e delle varietà fondamentali di ogni possibile semiosi” (Peirce).
Gli obiettivi che Saussure e Peirce attribuiscono a questa nuova disciplina sono diversi. Saussure è uno studioso di lingue indoeuropee che, insoddisfatto dei metodi della linguistica comparata ottocentesca, auspica la fondazione di un campo di studi unificato che consideri la lingua alla stregua di qualsiasi altro sistema di segni, come il linguaggio gestuale dei sordomuti e il codice dei segnali militari. Semplicemente – afferma Saussure – la lingua è il più importante di tali sistemi.
Nel Cours de linguistique générale (1913), Saussure introduce alcune dicotomie concettuali destinate a dominare il panorama degli studi linguistici del Novecento. La prima dicotomia è quella che contrappone la langue (l’aspetto sociale e astratto del linguaggio) alla parole (gli usi individuali e concreti che i singoli parlanti fanno della lingua). La lingua è per Saussure un patrimonio collettivo culturalmente acquisito, “un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più esattamente, nel cervello d’un insieme di individui”, la cui conoscenza rende possibile l’esecuzione dei singoli atti di parole. I singoli parlanti attingono alle possibilità astrattamente offerte dalla lingua per produrre sintagmi indefinitamente variabili e idiosincratici. Compito della linguistica è, secondo Saussure, di rinvenire il sistema astratto della lingua a partire dall’analisi degli atti concreti di discorso.
La lingua è un sistema di segni, dove per “segno” Saussure intende “un’entità psichica a due facce”, significante (la traccia cognitiva di una componente sensibile, o unità espressiva) e significato (la traccia cognitiva di un concetto, o unità di contenuto). Solo se si considera la lingua alla stregua di un sistema di segni – osserva Saussure – si può cogliere ciò che essa ha di essenziale, e cioè il fatto di essere un’istituzione sociale fondata su un sistema di equivalenze culturalmente poste.
In polemica con la nozione ingenua della lingua come pura nomenclatura di oggetti preesistenti, Saussure ritiene che i significati non esistano indipendentemente dai significanti che li veicolano: le due facce del segno emergono contemporaneamente e si presuppongono a vicenda, così come il recto non esiste senza il verso di un foglio. Ciascuna lingua ritaglia arbitrariamente le proprie unità dalla “massa amorfa” dei suoni producibili dall’apparato fonatorio umano (sul versante dei significanti) e dal continuum indistinto dei pensieri (per quanto riguarda i significati). Ma anche il rapporto che unisce significante e significato è, secondo Saussure, arbitrario: non c’è nessun motivo particolare (a parte le contingenze storiche) per cui il significato di albero debba essere associato al significante “albero” e non ad esempio a tree, arbre, baum, ovvero a una qualunque altra catena di artifici espressivi convenzionalmente associata al contenuto corrispondente, come peraltro dimostra l’esistenza stessa delle diverse lingue. Dunque non ci sarebbe alcun legame naturale tra le parole e le cose che esse designano, ma solo una rete di equivalenze tra significanti e significati arbitrariamente poste dalla lingua stessa. Ne consegue che per Saussure la lingua, così come qualsiasi altro sistema di segni, può essere studiata dall’interno, come una struttura chiusa di parti interagenti, ciascuna delle quali deve il proprio valore al reticolo di relazioni differenziali e oppositive che essa intrattiene con tutti gli altri elementi del sistema: è questo il principio di immanenza su cui si fonda la linguistica strutturale, il cui sviluppo più rigoroso e radicale è costituito dalla formalizzazione della glossematica da parte di Hjelmslev (1899-1965).
Per Peirce, invece, la semiotica deve essere innanzitutto una teoria della conoscenza che spieghi come funziona l’attività cognitiva degli esseri umani: di conseguenza, egli intende il segno come il prodotto – necessariamente provvisorio e fallibile – di un processo logico che, partendo dalla registrazione di un “fatto sorprendente” (un evento percepibile che contravviene alle attese dell’interprete), stimola l’attività inferenziale dell’interprete stesso, per approdare alla scelta di un’ipotesi, ovvero al fissarsi di una regola interpretativa che si risolve in una tendenza programmatica all’azione. Peirce definisce il segno come “qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità”: così, un’impronta sta al cacciatore per il passaggio dell’animale-impressore sotto il rispetto dello scopo che egli si prefigge – nella fattispecie, catturare la preda. Tra il segno inteso come pura espressione (l’impronta) e l’oggetto che tale segno designa (l’animale-impressore) si frappone un secondo segno, che Peirce chiama interpretante, il quale è l’effetto prodotto dal primo segno sulla “quasi-mente” dell’interprete (ad esempio, il pensiero “di qua è passato uno gnu”).
Secondo Peirce, pensare è concatenare segni: tutta la nostra vita intellettuale – a cominciare dalle azioni mentali più elementari, come la percezione, fino alla formulazione di ipotesi scientifiche altamente complesse – è cadenzata da un flusso di pensieri-segni, ciascuno dei quali suggerisce qualcosa al pensiero successivo, in un processo potenzialmente infinito che egli chiama fuga degli interpretanti. Dunque il significato di un segno coincide per Peirce con la somma indefinitamente dilatabile degli effetti (o interpretanti) che tale segno produce o è virtualmente in grado di produrre su qualcuno.
Dalle due diverse definizioni di segno discendono due distinti approcci semiotici: il primo, saussuriano-strutturalista, persegue l’obiettivo di smontare l’ingranaggio della lingua (o di qualsiasi altro sistema di significazione), analizzandone le relazioni interne; il secondo, peirceano-pragmatista, è interessato a indagare i meccanismi dell’interpretazione nelle varie sfere dell’attività cognitiva. Nei concreti processi comunicativi i due aspetti non sono incompatibili ma, al contrario, si presuppongono a vicenda. L’interpretazione (a parte rare eccezioni di interpretazione radicale) richiede il ricorso a una qualche lingua o codice, ovvero alla memoria strutturalmente organizzata di una serie di esperienze comunicative precedenti; d’altra parte la lingua è il prodotto, in continua trasformazione, della cristallizzazione sociale di un numero altissimo di episodi comunicativi e interpretativi. A questo proposito Charles Morris in Lineamenti di una teoria dei segni (1938) ha suddiviso il campo della semiotica in sintattica (lo studio del modo in cui i segni si concatenano tra loro), semantica (che riguarda il rapporto dei segni con i loro oggetti o significati) e pragmatica (che si occupa del rapporto tra i segni e i loro interpreti), specificando che negli effettivi processi semiosici i tre aspetti sono inestricabilmente intrecciati, ma ciò non esclude che ciascuno dei tre possa essere artificialmente isolato dagli altri ai fini della ricerca semiotica.
La semiotica come disciplina istituzionalizzata e la nascita della narratologia
Per vie dirette o indirette le dottrine di Peirce e di Saussure fecondano il panorama intellettuale novecentesco e, nel corso del secolo, una mentalità semiotica si diffonde in diversi campi di studio, tra cui l’antropologia, la critica letteraria, la filosofia del linguaggio e la psicologia. Tuttavia, come disciplina istituzionalizzata, la semiotica vede la luce solo verso la metà degli anni Sessanta, quando – sotto la guida di Roman Jakobson, Claude Lévi-Strauss, Émile Benveniste e Roland Barthes – un gruppo di studiosi di varia provenienza accademica mette a fuoco l’obiettivo di analizzare una vasta gamma di artefatti comunicativi in prospettiva unitaria, riadattando a tale scopo gli strumenti concettuali della linguistica. L’ipotesi di lavoro è che, se tutto il sapere umano passa attraverso il linguaggio, allora quest’ultimo può servire come chiave di volta per dischiudere i segreti del senso nelle sue molteplici manifestazioni.
Inizialmente prevale la linea saussuriana (filtrata attraverso la lettura radicale che ne dà Hjelmslev), e quindi la definizione diadica di segno e l’idea della lingua come struttura chiusa fatta di parti interagenti. La semiotica strutturale degli anni Sessanta rivisita le categorie della linguistica saussuriana e hjelmsleviana (langue/parole, significato/significante, sistema/processo, denotazione/connotazione) per sondarne l’applicabilità ad altri sistemi semiotici, quali i sistemi di parentela (è Lévi-Strauss a introdurre i principi della linguistica strutturale in campo antropologico), il sistema della moda (Roland Barthes), i linguaggi del cinema (Christian Metz), i codici dell’architettura, e via dicendo. Su questa stessa linea sono gli studi di Luis Prieto e di Tullio De Mauro.
Uno degli sbocchi più fecondi di questo filone di studi semiotici è dato dalla narratologia – termine introdotto da Tzvetan Todorov nel 1968 – che, sulla scia del formalismo russo e, più in particolare, della Morfologia della fiaba (1928) di Vladimir Propp, mira a ricostruire le strutture universali della narratività a partire dall’analisi di testi specifici, dai fumetti ai romanzi polizieschi, dai miti ai racconti letterari, dalle pubblicità ai resoconti giornalistici. L’esito bibliografico forse più significativo di questo filone di ricerche è il numero otto della rivista francese “Communications” del 1966 che ospita interventi di Barthes, Eco, Todorov, Greimas, Genette, e Brémond. L’intuizione di fondo è che, al di sotto dell’apparente varietà degli intrecci, dei personaggi e dei discorsi narrativi, vi sia un’impalcatura comune che permette di fissare certi elementi invariabili del racconto, la presenza dei quali definisce la natura narrativa di un testo.
L’indirizzo narratologico della semiotica strutturale viene approfondito in particolare da Algirdas Greimas il quale, partendo dall’ipotesi che l’intera esperienza umana si organizzi secondo la logica del racconto, va alla ricerca delle strutture narrative profonde anche in testi che apparentemente narrativi non sono, come gli articoli scientifici, le ricette di cucina, gli oggetti, le “stringhe passionali”, e qualunque altro artefatto comunicativo che sia dotato di senso per qualcuno (e che pertanto sia analizzabile semioticamente). Greimas – Du Sens I (1970), Maupassant. La sémiotique du texte (1976), Du Sens II (1983) – definisce il testo come una stratificazione di livelli di senso, dai più superficiali (la manifestazione espressiva) ai più profondi (le articolazioni semantiche di base su cui si sorregge il testo), passando attraverso i livelli intermedi della narratività e della discorsività (quest’ultima riguarda i modi in cui le strutture narrative vengono assemblate ed enunciate nel testo). Obiettivo dell’analisi semiotica sarà perciò di dissotterrare i vari livelli di articolazione di un’ampia varietà di testi, smontandone gli ingranaggi interni per giungere a una rappresentazione il più possibile astratta di un unico “percorso generativo del senso”.
Verso il poststrutturalismo
Verso l’inizio degli anni Settanta, lo slancio ecumenico con cui nel decennio precedente le scienze umane si erano avventurate nell’impresa semiotica cede gradualmente il passo a una maggiore circospezione metodologica. Alcune delle pretese più innovative e provocatorie dello strutturalismo vengono ridimensionate, tra cui l’idea che ogni fenomeno significativo possa essere ricondotto a un modello integralmente ricalcato su quello linguistico. I vecchi strumenti dell’analisi semiotica vengono progressivamente affiancati da concetti che appaiono più fecondi alla luce delle obiezioni che vengono man mano avanzate. La stessa nozione (saussuriana) di segno come equivalenza viene sottoposta a una profonda revisione critica e tende a cadere in disuso, o comunque a essere utilizzata con maggiore cautela, per essere soppiantata dai concetti di semiosi e di testo. In questo contesto, il progetto di unificare tutti gli studi di matrice semiotica sotto una stessa metodologia appare meno attuabile, e gli interessi dei vari semiologi si diversificano, inaugurando molteplici linee di ricerca.
Per effetto di un clima culturale ormai mutato verso il poststrutturalismo, l’indirizzo interpretativo degli studi semiotici comincia ad affermarsi interessandosi proprio a quegli aspetti pragmatici della comunicazione che, in ossequio al principio di immanenza, lo strutturalismo considerava semioticamente trascurabili. Una prima sollecitazione in questo senso proviene dalla linguistica del testo, la quale (a partire dagli studi pionieristici di Jakobson nel 1957 sui cosiddetti shifters, e di Benveniste nel 1966 sul funzionamento dei pronomi personali e dei tempi verbali nella lingua francese) elegge a proprio oggetto di studi non più la lingua in quanto sistema grammaticale avulso da ogni contesto, bensì il discorso (o testo) in quanto fenomeno comunicativo calato nelle sue effettive circostanze d’uso. Secondo Benveniste, è attraverso l’ enunciazione che la lingua assume una forma specifica e si attualizza, prendendo vita. Inoltre, è grazie alla capacità della lingua di convertirsi in discorso che l’essere umano – dicendo “io”, e rivolgendosi necessariamente a un “tu” – si costituisce come soggetto, provvisto di una propria identità individuale, sociale e culturale. La lingua consente a qualunque individuo linguisticamente competente di appropriarsi dei suoi codici e di trasformarli in atti comunicativi concreti (richieste, ordini, affermazioni ecc.): è di questi atti comunicativi (o discorsi) che secondo Benveniste la semiotica si deve occupare, rinvenendo nel discorso stesso le tracce dei ruoli comunicativi che esso allestisce per i propri utenti previsti. In questo contesto si può inserire anche l’opera dei rappresentanti della scuola greimasiana, di Barthes, Maria Corti e Cesare Segre.
Rivolgere l’attenzione al testo, prima che ai codici a esso sottesi, significa anche allargare lo sguardo semiotico a ciò che sta intorno al testo stesso: nessun testo viene prodotto o letto in isolamento, ma rimanda a una fitta rete di altri testi con i quali intrattiene relazioni di vario tipo (Gérard Genette nel 1982 classificherà queste relazioni in cinque categorie: intertestualità, paratestualità, metatestualità, architestualità e ipertestualità). L’interesse semiotico per il fenomeno dell’ intertestualità, ovvero tutto ciò che mette un testo in relazione con altri testi, derivato principalmente dall’influsso dei contributi di Bachtin (1895-1975) e della Kristeva (1941-), stempera la nozione tradizionale di testo in una definizione più fluida e aperta di testualità, in base al principio per cui i diversi significati che un testo può assumere dipendono in larga misura dal reticolo di rinvii intertestuali che esso (testo) è in grado di attivare nei propri destinatari.
La scuola di Tartu – che fa capo a Jurij Lotman (1922-1993) – sviluppa lo studio dell’intertestualità in direzione di una semiotica della cultura, basata sul presupposto che le culture umane possono essere analizzate sia come fasci di sistemi semiotici dotati delle proprie grammatiche (ossia di sistemi di regole e di prescrizioni che generano un numero teoricamente illimitato di testi), sia come corpus di testi che attualizzano le virtualità delle diverse grammatiche. In quest’ottica, l’attività culturale quotidiana consiste nella traduzione di una certa porzione di realtà nei termini di uno (o più) dei codici della cultura, trasformandola in testo.
La semiotica interpretativa
Il passaggio da una semiotica dei codici a una semiotica della produzione e dell’interpretazione testuale comporta inoltre che la figura dell’interprete si conquisti un posto di spicco nel panorama degli studi semiotici. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, nell’ambito di diverse scienze umane si assiste a una graduale messa in rilievo del ruolo attivo svolto dall’interprete nei processi di costruzione del senso. Ciò che viene contestato è l’assunto strutturalista secondo cui il senso di un testo sia in qualche modo dato e vada ricercato dentro le maglie stesse del testo, e che pertanto l’interprete si limiti a decodificare i significati che il testo già contiene. Al contrario, le teorie di impostazione interpretativa vedono il senso come la posta in gioco di un processo cooperativo (e talvolta conflittuale) tra testo e interprete. A questo filone di ricerche appartiene la semiotica interpretativa di Umberto Eco, la quale nasce da un innesto tra lo strutturalismo hjelmsleviano e il pragmatismo peirceano. Il frutto dell’innesto è la nozione di Enciclopedia – Trattato di semiotica generale (1975) e Semiotica e filosofia del linguaggio (1984) –, sorta di “biblioteca delle biblioteche” di borgesiana memoria, la quale fa esplodere la lingua chiusa dello strutturalismo in un reticolo aperto e multidimensionale (ma non per questo privo di un principio di organizzazione interna) di interpretanti variamente intrecciati. Ispirandosi alla definizione peirceana di segno come inferenza, Eco in Lector in fabula (1979) considera il testo come una “macchina pigra” la quale richiede l’intervento di qualcuno (l’interprete) che la faccia funzionare: “un testo è incompleto senza l’intervento di un lettore che, con la sua attività interpretativa, riempia di senso gli ‘spazi bianchi’ di cui il testo è necessariamente intessuto”. Secondo Eco il ruolo dell’interprete è iscritto nel testo sotto forma di implicite istruzioni per l’uso del medesimo: è pertanto possibile rintracciare la presenza del lettore “in fabula”, ricostruendo – a partire dagli indizi testuali – le “passeggiate inferenziali” che il Lettore Modello è di volta in volta stimolato a intraprendere, uscendo temporaneamente dal testo per ritornarvi “carico di bottino intertestuale”.
Nel corso dei decenni la semiotica interpretativa attraversa diverse fasi di elaborazione che, pur senza comportare mai dei veri e propri ripensamenti, evidenziano maggiormente ora l’aspetto strutturale della questione (dunque, le caratteristiche del testo e la presenza del lettore al suo interno), ora quello cognitivo (le operazioni inferenziali che permettono al lettore di formulare le sue ipotesi di senso). Negli anni Ottanta le occasioni per mettere a punto i diversi risvolti della semiotica interpretativa vengono fornite dal confronto, talvolta apertamente polemico – si veda ad esempio I limiti dell’interpretazione (1990) di Eco –, con le teorie del testo di stampo decostruzionista che hanno il difetto di spostare troppo vistosamente l’accento sulla libertà a oltranza dell’interprete nei processi di costruzione del senso.