Abstract
L’esigenza di semplificazione costituisce un tratto comune dei paesi ad economia di mercato a fronte dell’aumento di funzioni pubbliche e dell’esplosione della dimensione e del numero delle strutture volte al loro adempimento. In tale contesto aumentano le regolazioni non necessarie, inadeguate o eccessivamente gravose. La spinta verso la semplificazione si incrementa in un contesto di competizione tra ordinamenti, così come in periodi di crisi aumenta la richiesta di riduzione dei costi regolatori non necessari. Affinché le semplificazioni non si traducano in manifesti politici ma al contrario risultino attuabili e misurabili e soprattutto producano vantaggi per i destinatari, occorre definire chiaramente esigenze e obiettivi, programmarne gli interventi (anche per calibrare gli sforzi di misurazione) e rivalutarne periodicamente gli esiti. Al contempo, le semplificazioni non possono che risultare vanificate e travolte se la “semplicità” non diventa un modo di essere delle regolazioni, da perseguire non (solo) attraverso politiche ex post, ma nella stessa fase di gestazione delle regole.
1. Alcuni ingredienti per il passaggio da semplificazioni puntuali ad una politica di semplificazione
Riempire di contenuti e finalità la nozione di semplificazione appare (paradossalmente) operazione particolarmente complessa. Un esempio della confusione che aleggia intorno al significato e agli obiettivi della semplificazione può essere tratto dall’elevato numero di interventi presentati come semplificazioni, ma che appaiono più propriamente qualificabili come classici interventi di regolazione di settore.
Definire la semplificazione prelude la predisposizione di una vera e propria politica al riguardo, che contribuisca alla coerenza degli interventi che ne sono espressione e alla stabilità degli obiettivi che attraverso questi interventi sono perseguiti. Al contempo, è questo un passaggio fondamentale per la scelta di strumenti di regolazione che rispondano alle specifiche esigenze che sono alla base dell’intervento pubblico e non portino, nelle ipotesi estreme, a non voluti esiti di complicazione. Dunque, definire i contenuti e connotati della semplificazione consente anche di scegliere strumenti adeguati al suo perseguimento.
In quest’ottica, assumono rilievo l’oggetto, la finalità e i destinatari della semplificazione.
Quanto all’oggetto, la semplificazione evoca interventi che attengono a soggetti pubblici (semplificazione dell’organizzazione), alla loro attività (semplificazione dei procedimenti amministrativi) o alla disciplina generale o di settore, indipendentemente dal contenuto (semplificazione della normativa).
Il tema della semplificazione, affrontato in Italia fin dagli inizi del secolo (Melis, G., Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, 1996, 284 ss.) riceve una consacrazione normativa con la l. 7.8.1990, n. 241, la l. 24.12.1993, n. 537, la l. 15.3.1997, n. 59. In tale contesto la semplificazione dei procedimenti muove in tre direzioni: la semplificazione della struttura (conferenze di servizi e accordi tra amministrazioni; termine di conclusione del procedimento; abilitazione dell’amministrazione a procedere indipendentemente da pareri obbligatori e valutazioni tecniche non rese entro un determinato termine); la limitazione delle conseguenze negative dell’inerzia della amministrazione e la semplificazione/liberalizzazione dell’avvio di determinate attività; la semplificazione dell’attività del cittadino che viene in contatto con la pubblica amministrazione (ad esempio attraverso l’autocertificazione). La semplificazione dell’organizzazione pubblica è informata al criterio della non duplicazione di funzioni e strutture e alla riduzione del ricorso a concerti e intese non indispensabili. La semplificazione della normativa viene perseguita attraverso la codificazione e la delegificazione della disciplina regolatrice di procedimenti.
Queste linee direttrici sono state seguite negli anni successivi, con andamento discontinuo, modificando più volte gli istituti generali (che talvolta ne risultano radicalizzati, come nel caso della “segnalazione certificata di inizia attività”-s.c.i.a., o complicati, come nel caso della conferenza di servizi), introducendone altri (ad esempio il taglia-leggi), più raramente attraverso una riforma dei singoli procedimenti e il ricorso a regolamenti delegificanti per lasciare spazio (soprattutto a partire dalla l. 29.7.2003, n. 229) alla semplificazione di singoli aspetti del procedimento realizzata preferibilmente con legge (seppure regolamenti di delegificazione sarebbero previsti dalla l. 6.8.2008, n. 133 per le semplificazione in esito alle misurazioni degli oneri amministrativi e da altre leggi di semplificazione successive). Al contempo, sono introdotti strumenti che consentono di semplificare alla luce delle evidenze empiriche relative alle ricadute delle diverse scelte attraverso l’analisi di impatto della regolazione-AIR (introdotta dall’art. 5 della l. 8.3.1999, n. 50, ma che trova un precedente nell’art. 20 della l. n. 59/1997) o di una misurazione degli oneri informativi derivanti da regolazioni che impongono obblighi di rendere informazioni-MOA (art. 25, l. n. 133/2008).
Volgendo l’attenzione alle finalità perseguite, è stato affermato che la semplificazione amministrativa attiene alla «formazione di relazioni più semplici, più chiare e più certe fra amministrazione e cittadino» e imprese (Travi, A., La liberalizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, 652) e può essere realizzata attraverso interventi che incidono su determinati aspetti del procedimento oppure attraverso la diffusione di strumenti informativi e telematici (OCSE, Overcoming Barriers to Administrative Simplification Strategies: Guidance for Policy Makers, 2009, 5: «administrative simplification strategies are designed to reduce regulatory complexity and uncertainty, and cut red tape reducing unnecessary burdens created by bureaucracy and paperwork»), laddove la semplificazione normativa restituisce spazi di libertà a cittadini e imprese (Ferrari, E., Contro la banalità della semplificazione normativa, in Sandulli, M.A., a cura di, Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Milano, 2005, 144) e persegue il fine ultimo e sostanziale della certezza del diritto (Cons. St., sez. cons. atti normativi, parere 23.7.2009, n. 5053). Si tratta di obiettivi generali, ma che presentano almeno un risvolto concreto consentendo, ad esempio, di escludere la possibilità di qualificare come espressione di semplificazione le norme che impongono una riduzione delle tariffe di determinati servizi pubblici o di commissioni bancarie (da considerare come interventi di regolazione sostanziale).
Fondamentale appare poi “incrociare” finalità e destinatari (diretti e indiretti) della semplificazione (che possono essere l’amministrazione, i cittadini, le imprese) al fine di distinguere la semplificazione da interventi di altra natura e scegliere gli strumenti più adeguati. In generale, la semplificazione amministrativa non si può risolvere nella riduzione degli adempimenti per l’amministrazione senza che ne traggano benefici anche cittadini o imprese. Ad esempio, da un’indagine compiuta su numerosi comuni italiani da Cittalia, Fondazione Anci Ricerche (La semplificazione amministrativa nei Comuni italiani, 2010, 14 e 15) emerge che la quasi totalità può contare su un livello elevato di informatizzazione delle procedure, ma questa non si traduce in altrettanto elevati standard di prestazioni al pubblico. Allo stesso modo, il divieto di richiedere agli interessati informazioni già in possesso di una pubblica amministrazione potrebbe tradursi in un ostacolo all’esercizio dei loro diritti se non affiancato da strumenti che assicurino un’adeguata circolazione delle informazioni. Ed ancora, una semplificazione che si risolva nella riduzione o eliminazione di un provvedimento autoritativo non solo potrebbe non rispondere alle esigenze di cittadini e imprese, ma anzi generare risultati opposti a quelli voluti: «il valore della certezza è percepito, anche nei rapporti con l’amministrazione, come prioritario e prevale anche rispetto a quello della mera celerità di un adempimento» (Travi, A., La liberalizzazione, cit., 653). Cosicchè, l’introduzione di una procedura “semplice” ma che determina incertezza in ordine alla posizione degli interessati può paradossalmente portare alla sua inattuazione.
Infine un esempio che attiene alla semplificazione normativa. Quali sono le finalità e i destinatari di una semplificazione realizzata attraverso una drastica riduzione dello stock di disposizioni legislative statali già tacitamente o implicitamente abrogate, prive di contenuto normativo o obsolete, effettuata senza che le amministrazioni vengano incentivate a valutare la persistente necessità e adeguatezza delle restanti normative? Non sembra che ne sia derivato un incremento degli spazi di libertà di imprese e cittadini, né della certezza del diritto: la creazione di una banca dati pubblica della normativa in vigore dal 1946 (www.normattiva.it) appare infatti da considerare un (basilare) strumento di trasparenza volto alla conoscibilità del diritto. Non a caso il meccanismo descritto (definito del taglia-leggi e introdotto dall’art. 14 della l. 28.11.2005, n. 246) avrebbe dovuto procedere per fasi e concludersi con una diffusa opera di semplificazione dei procedimenti e delle regole, nonché di codificazione (ad oggi attuata solo in parte).
Il ragionamento che si propone in ordine a oggetto, finalità e destinatari (per la definizione dei confini di una politica di semplificazione e la scelta degli strumenti di attuazione) attiene all’applicazione anche alla regolazione della semplificazione dei criteri e dei passaggi decisionali che sono generalmente ritenuti necessari nell’ottica dell’adozione di una regolazione di qualità. Allo stesso modo, il processo decisionale basato su una previa definizione di esigenze, obiettivi, destinatari e una comparazione tra gli strumenti a disposizione per il soddisfacimento delle esigenze che vi hanno dato impulso contribuisce all’adozione di regolazioni (di semplificazione) adeguate alle esigenze che ne sono alla base e coerenti con la politica di cui costituiscono attuazione. In quest’ottica, nell’ambito dell’analisi di impatto della regolazione di progetti di semplificazione adottati a livello comunitario occorre «an overview for all policy options of the potential simplification benefits for businesses, for citizens, and for national/regional/local administrations» (Comm. UE, Impact Assessment Guidelines, SEC(2009)92).
In conclusione, «la semplificazione dell’ordinamento è un compito, che presenta gravissime difficoltà; ed è inutile cercare di superarle se non si hanno delle idee chiare. Insomma, bisogna sapersi orientare, anzi che procedere a tentoni» (Carnelutti, F., Certezza, autonomia, libertà, diritto, in Dir. econ., 1956, 1193). Per “orientarsi” occorre preliminarmente interrogarsi su destinatari e obiettivi, aumentando il più possibile le basi informative in ordine alle ricadute delle scelte e comunque evitando le risposte estemporanee agli umori della collettività o alle indicazioni (o meglio pressioni) di una parte degli stakeholders. Solo scelte ponderate e partecipate possono evitare esiti di semplificazioni inutili, se non dannose.
2. Alle radici della complicazione
L’esigenza di semplificazione costituisce un tratto comune dei paesi ad economia di mercato. Essa appare strettamente connessa all’emersione, nel ventesimo secolo, di nuove domande sociali e al riconoscimento di una tutela giuridica ad interessi collettivi e diffusi, normalmente gerarchizzati, il cui contemperamento e composizione avviene spesso con moduli orizzontali e consensuali. In quello stesso periodo comincia l’inarrestabile aumento dei centri di produzione normativa, derivante dall’articolazione istituzionale in una pluralità di livelli di governo, cui contribuisce l’integrazione comunitaria e la globalizzazione. L’inflazione normativa che ne deriva appare almeno in parte giustificata dalla necessità di fare fronte ad esigenze di tutela e alla richiesta di servizi e di infrastrutture, così come l’aumento dei centri di produzione è riconducibile all’esigenza di dare una risposta adeguata ai problemi, cosicché alcuni vengono affrontati ad un livello sovranazionale (come quelli relativi all’ambiente, ai mercati finanziari, ad alcuni servizi pubblici a rete), altri attraverso una regolazione nazionale (come in ordine al servizio idrico integrato), altri attraverso una disciplina sub-statale nel quadro dei principi definiti a livello nazionale e sovranazionale.
Non vi è dubbio però che l’esplosione della dimensione e del numero delle strutture per l’adempimento delle aumentate funzioni pubbliche incrementa il numero delle regolazioni non necessarie, unicamente riconducibili ad un’esigenza di visibilità dei regolatori (Conseil d’Etat, Rapport public 2006. Sécurité juridique et complexité du droit, 2006, 258 ss.), la probabilità di sovrapposizioni e incoerenze degli interventi (Rose, R., a cura di, Challange to Governance. Studies in Overloaded Polities, Beverly Hills-London, 1980, 17), il rischio che questi siano frutto della pressione di alcuni regolati (per ottenere norme di protezione e di favore) o di intermediari (che in molti casi trovano la loro stessa ragion d’essere nella complicazione delle regole).
Questi fenomeni, in gran parte comuni ai paesi ad economia di mercato, finiscono per richiedere interventi di semplificazione (dunque nuova regolazione) dei procedimenti, dell’organizzazione e della normativa. In Italia, a questi si aggiunge l’alto tasso di dispersione delle funzioni tra diverse amministrazioni (Torchia, L., La conferenza di servizi e l’accordo di programma ovvero della difficile semplificazione, in Giorn. dir. amm., 1997, 675). Vi è poi un sempre più diffuso uso anomalo del potere di regolazione, espressione di «una società pulviscolare, che non si riconosce in una comune tavola di valori» (così Irti, N., L’età della decodificazione, Milano, 1979, 95, con riferimento al «movimento delle norme speciali»), che si traduce nella frequente adozione di decreti-legge per regolare, semplificare o per autorizzare una delegificazione (dunque non caratterizzati dal requisito costituzionale dell’urgenza), nel ricorso a atti di incerta natura (decreti di natura non regolamentare), così come nell’uso di una fonte primaria (la legge parlamentare o atti aventi forza di legge) che rimanda parti della scelta politica ad altri atti del Governo, come i decreti legislativi, i regolamenti di delegificazione, le ordinanze di protezione civile, i decreti di natura non regolamentare (Mattarella, B.G., La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, Bologna, 2011, 25 ss.; Zaccaria, R., a cura di, Fuga dalla legge? Seminari sulla qualità della legislazione, Brescia, 2011, 16).
Il disordine nel sistema delle fonti finisce per vanificare la stessa funzionalità degli strumenti predisposti per arginare la complicazione, come le disposizioni in tema di chiarezza dei testi normativi (di cui al § 5), i codici di settore da adottare nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi di cui all’art. 20 della l. n. 59/1997 modificata dalla l. n. 229/2003 (art. 14, l. n. 246/2005), le raccolte settoriali di norme regolamentari (art. 20, comma 3 bis, l. n. 59/1997, come modificata dalla l. n. 229/2003), l’analisi tecnico normativa-ATN (d.P.C.m. 10.9.2008), l’analisi di impatto della regolazione-AIR (che consente di indicare l’opzione di regolazione che al contempo risolva un’esigenza di regolazione e sia meno invasiva possibile per i regolatori e la collettività, introdotta a regime dalla l. n. 246/2005 e disciplinata dal d.P.C.m. 11.9.2008, n. 170), la misurazione dei costi informativi (che quantifica i costi di adempimento a obblighi informativi al fine di semplificarli o eliminarli dalla regolazione esistente o in corso di adozione). Infine il monitoraggio e la valutazione successiva, che assumono un ruolo centrale nella semplificazione, dal momento che la riflessione in ordine alle difficoltà incontrate in sede di applicazione consente di correggere e migliorare le regole (ad esempio, l’analisi degli “effetti, positivi e negativi, sulla semplificazione normativa e amministrativa” costituisce uno degli obiettivi della valutazione di impatto della regolazione-VIR disciplinata dal d.P.C.m. 19.11.2009, n. 212).
Una politica di semplificazione efficace dovrebbe, inoltre, fare scelte coerenti e ponderate in ordine agli interventi da supportare attraverso evidenze empiriche (in alcune ipotesi, come evidenziato, gli strumenti attraverso i quali realizzare le semplificazioni possono essere scelti in esito a un processo di valutazione comparata degli impatti delle opzioni alternative volte al soddisfacimento di un determinato obiettivo, oppure di una quantificazione dei costi informativi o di attesa connessi ad una disciplina esistente o progettata) e semplificazioni prive di un tale supporto.
In conclusione, l’uso anomalo del potere contribuisce all’incapacità di individuare le più adeguate alternative di semplificazione, di conoscere e considerare le relative ricadute dirette e indirette, così come di predisporre il necessario monitoraggio delle nuove regole al fine di verificarne l’effettiva e persistente adeguatezza. Al contempo, «la simplification est vouée à l’échec tant que les processus de production de la complexité resteront intacts» (Rapport d’étape du comité d’enquête sur le coût et le rendement des services publics, 2005, citato dal Conseil d’Etat, Rapport public 2006. Sécurité juridique et complexité du droit, 2006, 274).
3. Dalla semplificazione come rimedio alla semplicità come caratteristica imprescindibile delle procedure e delle regole
Come arginare questi effetti perversi e supportare il buon esito delle semplificazioni?
Limitando il ragionamento alle procedure e alle regole (seppure la stessa semplificazione organizzativa contribuisce alla semplificazione dei procedimenti, ad esempio quando comporta la soppressione di una commissione consultiva, e alla semplificazione normativa, là dove porti alla riduzione del policentrismo regolatorio), in generale la semplificazione non dovrebbe essere il frutto dell’emergenza, né uno strumento accessorio che accompagni le nuove regolazioni o intervenga su regolazioni già adottate. Come è stato evidenziato, la semplificazione più che una politica dovrebbe essere «l’effetto di un apparato amministrativo [e normativo] che abbia già in sé la capacità di operare al meglio con le regole ordinarie e in un clima di assoluta normalità» (Salvia, F., La semplificazione amministrativa: tra scorciatoie procedimentali e semplicismi mediatici, in Nuove autonomie, n. 3-4/2008, 448).
In altre parole, i regolatori a qualsiasi livello di governo dovrebbero tendere alla produzione di regole semplici, vale a dire non solo necessarie, residuali, non eccessivamente gravose per i destinatari, ma anche chiare, comprensibili, accessibili. È questa un’accezione di semplificazione che finisce per sovrapporsi con la qualità della regolazione (una tendenza rilevata dall’OCSE, Cutting Red Tape – National Strategies for Administrative Semplification, 2006, come evidenziato anche dal Cons. St., A.G., parere 25.10.2004, n. 2). In questa direzione sembrano muovere le istituzioni comunitarie che, nel richiedere la semplificazione amministrativa delle attività contemplate dalla “Direttiva servizi”, impongono agli Stati membri di disciplinare regimi autorizzatori basati su criteri «a) non discriminatori; b) giustificati da un motivo imperativo di interesse generale; c) commisurati all’obiettivo di interesse generale; d) chiari e inequivocabili; e) oggettivi; f) resi pubblici preventivamente; g) trasparenti e accessibili» (art. 10, dir. 2006/123/CE).
Nella prospettiva della semplicità come caratteristica delle regole e delle procedure si ritiene che le diverse facce della semplificazione (amministrativa e normativa) dovrebbero procedere parallelamente, semplificando procedimenti, abrogando o modificando regole non più adeguate (oltre che riorganizzando o eliminando strutture amministrative inutili), come nell’impostazione della l. n. 59/1997. E tutto questo senza dimenticare la qualità formale delle regole (di cui si dirà nel § 6), che costituisce un passaggio imprescindibile perché le semplificazioni (così come tutte le regolazioni) vengano comprese e percepite da cittadini e imprese.
Al contempo, la semplificazione non dovrebbe essere prevalentemente affidata alle, pur fondamentali, norme con valenza trasversale che introducono (e spesso ri-disciplinano) istituti generali della semplificazione (come la già richiamata denuncia di inizio di attività, ora segnalazione certificata di inizio attività, la conferenza di servizi, le valutazioni tecniche, il silenzio, la conclusione del procedimento), oppure che impongono un generico obbligo di non “complicare”. Si tratta di un percorso senza dubbio più semplice (per il riformatore), ma non per questo altrettanto incisivo, rischiando le semplificazioni generali (o trasversali) di alimentare l’incertezza e trasformarsi paradossalmente in complicazioni o di ridursi a semplici proclami. Un esempio di complicazione derivante da un’eccessiva semplificazione è quello della già richiamata s.c.i.a. (previsto dall’art. 49, co. 4 ter, del d.l. 31.5.2010, n. 78, introdotto in sede di conversione in l. 30.7.2010, n. 122, in base al quale tutti i riferimenti normativi statali e regionali alla «dichiarazione di inizio dell’attività», anche se impliciti, sono sostituiti dalla s.c.i.a.); a fronte delle incertezze applicative che finivano per spingere molti operatori economici a chiedere un provvedimento autorizzatorio alle amministrazioni competenti, il legislatore ne ha limitato l’applicazione ai soli istituti per iniziare una attività previsti da leggi statali (d.l. 13.5.2011, n. 70 e d.l. 13.8.2011, n. 138), ha poi alimentato ulteriormente l’incertezza prevedendo che la segnalazione deve essere corredata dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati solo «ove espressamente previsto dalla normativa vigente» (l. 4.4.2012, n. 35), infine si è vincolato ad un utopico obiettivo di fare chiarezza attraverso un regolamento che (entro il 31 dicembre 2012) elenchi le attività sottoposte a s.c.i.a. con asseverazione, quelle soggette a s.c.i.a. senza asseverazione, quelle interessate da mera comunicazione e le attività «del tutto libere» (art. 12, co. 4, d.l. 9.2.2012, n. 5 e art. 1, co. 3, d.l. 24.1.2012, n. 1). Un esempio di semplificazione manifesto e anch’essa paradossalmente all’origine di confusione (anche perché in contrasto con la riforma del SUAP) è quella connessa alla possibilità di istituire “zone a burocrazia zero” (originariamente prevista per le sole zone meridionali dall’art. 43, d.l. 31.5.2010, n. 78, conv. in l. 30.7.2010, n. 122, e dichiarata parzialmente incostituzionale da C. cost., 22.7.2011, n. 232, perché «destinata ad avere vigore in tutti i procedimenti amministrativi ad istanza di parte o avviati d’ufficio concernenti le ‘nuove iniziative produttive’» anche di competenza regionale, ed estesa dalla legge n. 183/2011 in via sperimentale a tutto il territorio nazionale).
Occorrerebbe, invece, recuperare un approccio informato all’analisi per settore o per procedimento al fine di assicurare non solo efficacia, ma anche coerenza agli interventi di semplificazione (ad esempio, tra il 2008 e il 2012 la normativa sugli appalti è stata oggetto di numerose riforme, di cui almeno sei in tema di semplificazioni: art. 40, d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133; art. 17, l. 18.6.2009, n. 69; art. 6, l. 23.7.2009, n. 99; art. 4, co. 2, d.l. 13.5.2011, n. 70, conv. in l. 12.7.2011, n. 106; art. 13, l. 11.11.2011, n. 180; art. 20 ss. d.l. 9.2.2012, n. 5, conv. in l. 4.4.2012, n. 35), evitando al contempo gli interventi estremamente puntuali che toccano solo una parte della disciplina o del procedimento da semplificare. Si tratta di un approccio settoriale che, nelle intenzioni della “Direttiva servizi”, sarebbe dovuto partire da una valutazione di necessarietà degli strumenti amministrativi di regolazione, per giungere ad una valutazione puntuale dell’adeguatezza del procedimento decisionale alla luce del principio di semplificazione. Questo processo di analisi propedeutico alla semplificazione avrebbe dovuto coinvolgere tutti i livelli di governo: Stato, Regioni ed enti locali. La difficoltà di dialogo e coordinamento sulle riforme, così come l’imponente lavoro di analisi richiesto, hanno fatto invece propendere per una soluzione minimale basata su semplificazioni attraverso norme generali (d.lgs. 26.3.2010, n. 59).
Infine, per raggiungere l’obiettivo della semplicità come caratteristica delle procedure e delle regole, sarebbe utile fare ricorso a strumenti di coordinamento trasversale tra gli interventi di semplificazione, come una programmazione delle riforme, volta a selezionare gli ambiti di intervento, individuare responsabilità, fissare obiettivi e definire termini di attuazione e per la valutazione/monitoraggio successivi. Ciò consentirebbe di evitare interventi di semplificazione di un determinato settore o procedimenti che si susseguono (e talvolta si contraddicono) in un breve lasso di tempo; di definire in modo coerente le riforme che necessitano di una misurazione dei costi che intendono ridurre o dei vantaggi che ne derivano; di rendere manifesti (e auspicabilmente coordinare) gli interventi ai diversi livelli di governo (comunitario, nazionale, regionale, locale) e tra Governo, Parlamento, agenzie, autorità amministrative indipendenti. Le esperienze italiane al riguardo sono solo agli inizi: lo strumento della “Legge di semplificazione” (introdotta dalla l. n. 59/1997) volta ad individuare, con cadenza annuale, i procedimenti amministrativi da semplificare è stata adottata solo quattro volte (l. 18.2.1999, n. 59; l. 24.11.2000, n. 340; l. 29.7.2003, n. 229; l. 28.11.2005, n. 246); il “Piano di azione per il perseguimento degli obiettivi del Governo in tema di semplificazione, di riassetto e di qualità della regolazione”, previsto dalla l. 9.3.2006, n. 80, è stato adottato solo nell’anno 2007; né migliore esito sembra avere al momento la richiesta rivolta alle amministrazioni centrali di definire una programmazione trimestrale dei provvedimenti normativi e di sottoporla al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, che su questa base e alla luce degli esiti del monitoraggio delle deleghe legislative in scadenza, dovrebbe costituire una «Agenda dei provvedimenti normativi» (dir. P.C.m. 26.2.2009). Di recente, il d.l. n. 5/2012 ha previsto l’adozione (con d.P.C.m. previa intesa in sede di Conferenza unificata e oggetto di una predisposizione condivisa in base all’accordo del 2012 di cui dirà di seguito) di un «Programma 2012-2015 per la riduzione degli oneri amministrativi gravanti sulle amministrazioni pubbliche» e un «Programma 2012-2015 per la misurazione e la riduzione dei tempi dei procedimenti amministrativi e degli oneri regolatori gravanti su imprese e cittadini, ivi inclusi gli oneri amministrativi».
4. Semplificazione, decentramento, federalismo: come semplificare una regolazione multilivello?
L’adozione e l’effettiva attuazione di semplificazioni efficaci incontra, come evidenziato, un ostacolo nel pluralismo istituzionale. La regolazione è, infatti, sempre più il frutto di regolatori di diversa natura e che operano su piani diversi. Cosicché, in presenza di un numero crescente di livelli di governo ciascuno dei quali dispone di una base sufficientemente ampia di risorse e di competenze tendenzialmente condivise da altri livelli, le scelte pubbliche «sono il frutto di un complicato processo di reciproco aggiustamento, scambio, negoziazione tra i governi che operano in diversi punti della filiera territoriale» (così la definizione di multilevel governance delineata da Bobbio, L., Governance multilivello e democrazia, in Riv. pol. soc., 2005, n. 2, 51). Un approccio di questo tipo è all’origine di elevati costi di transazione e può causare ritardi o blocchi del processo decisionale. Al contempo esso appare l’unico in grado di dare risposte alle esigenze di semplificazione adeguate e coerenti con i mutati assetti istituzionali (indicazioni sulla “governance multilivello della regolazione” riferite al nostro paese in: OCSE, Esame OCSE sulla riforma della regolazione. Italia. Assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo, Parigi, 2007).
Le implicazioni della pluralità di livelli di governo sulla semplificazione amministrativa riguarda sia ai rapporti tra Stato-Regioni-enti locali (situazione che caratterizza i maggiori paesi europei ad eccezione del Regno Unito), sia a quelli tra Unione europea-Stato-Regioni, il più rilevante dei quali attiene al cosiddetto gold-plating, vale a dire all’introduzione, in sede di recepimento, di regole più gravose di quelle delineate a livello comunitario (che l’art. 15 della l. n. 183/2011 ha vietato, facendo salve le circostanze eccezionali da valutare nell’ambito dell’AIR, riproducendo così con fonte primaria una previsione più opportunamente sancita nel Regno Unito con un atto non vincolante dal Dept for Business, Enterprise and Regulatory Reform, Transpositon Guide, 2007).
Con riferimento ai rapporti Stato-Regioni, nelle riforme degli anni Novanta del secolo scorso, con la semplificazione amministrativa viene introdotto il decentramento amministrativo, strumenti entrambi volti a incrementare l’efficienza e la vicinanza dell’amministrazione ai cittadini. Senonché, seppure varie Regioni abbiano adottato interessanti soluzioni di semplificazione (soprattutto normativa), le riforme introdotte a livello statale hanno generalmente incontrato resistenze in presenza di un decentramento dei poteri amministrativi a livello regionale e locale e ancor più in presenza di poteri ripartiti. Si pensi ai numerosi esempi di discipline regionali della distribuzione commerciale, che hanno reintrodotto limiti quantitativi all’accesso ai mercati e le tabelle merceologiche sostanzialmente eliminate dal d.lgs. 31.3.1998, n. 114 e che difficilmente potranno essere arginate dalla nuova norma generale statale di cui alla legge n. 214/2011, che consente di mantenere un regime autorizzatorio solo se giustificato “sulla base dell’esistenza di un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità”. Ed invero, se sembra che ciò consenta il mantenimento delle autorizzazioni per la grande distribuzione a tutela della salute, dell’ambiente e dei beni culturali, non è chiaro se tale regime sia proporzionato anche per la media distribuzione. Al contempo, alla luce della ripartizione della competenza legislativa tra Stato e Regioni, la semplificazione attraverso lo sportello unico delle attività produttive-SUAP (d.lgs. n. 112/1998; d.P.R. 20.10.1998, n. 447; d.lgs. 26.3.2010, n. 59; d.P.R. 7.9.2010, n. 160) si configura come un unico punto di accesso e di risposta per tutte le attività produttive e di prestazione di servizi (fatte salve le esclusioni di cui all’art. 2, co. 4, d.P.R. n. 160/2010) e con riferimento alle competenze di tutte le amministrazioni coinvolte (comprese quelle preposte alla tutela di ambiente, patrimonio storico-artistico, salute e pubblica incolumità), che consente l’avvio di un “procedimento di procedimenti” che si conclude con un “unico provvedimento conclusivo, titolo per la realizzazione dell’intervento richiesto” anche se non “vengono meno le distinte competenze e le distinte responsabilità delle amministrazioni deputate alla cura degli interessi pubblici coinvolti” (C. cost. 23.7.2002, n. 376).
Neppure l’attribuzione della competenza legislativa esclusiva con riferimento a molti e importanti settori economici, realizzata dalla riforma costituzionale del 2001, ha contribuito in modo sostanziale alla razionalizzazione delle procedure e delle regole e il frequente contenzioso tra Stato e Regioni ha portato ad un’interpretazione procedimentale e consensuale del principio di sussidiarietà, che determina un inevitabile appesantimento del processo decisionale (gli strumenti giuridici della leale collaborazione sono infatti i più vari – richiesta di informazioni, consultazioni, convenzioni, pareri, accordi di programma, intese –). Nel mutato contesto della nuova ripartizione di competenze, restano frequenti gli esempi di discipline regionali che reintroducono ostacoli all’esercizio della libertà di impresa eliminati a livello statale (in contrasto con la prevalenza della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, come più volte affermato dalla Corte Costituzionale e, per riprendere l’esempio della distribuzione commerciale, con la sentenza 14.12.2007, n. 430, seguita dall’intervento del Cons. St. 5.5.2009, n. 2808), ma anche di discipline amministrative locali che aggravano o introducono obblighi informativi (è quanto emerge dalla sperimentazione della misurazione degli oneri amministrativi-MOA nella distribuzione commerciale in Toscana, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, coordinata dal Formez nel periodo gennaio-giugno 2008). Al contempo, il soggetto con competenza normativa (la Regione) non conosce o ha limitate informazioni in ordine all’esito dell’esercizio del potere autorizzatorio locale (come quelle attinenti al numero e alla localizzazione degli operatori della media e grande distribuzione e degli esercizi di vicinato nella distribuzione commerciale).
Per favorire la diffusione delle politiche di semplificazione, la l. n. 59/1997 rivolge i principi e criteri di semplificazione anche alle Regioni a statuto ordinario e impone a quelle a statuto speciale e alle provincie autonome di adeguarsi; la legge prevede, inoltre, che vengano definiti principi ai quali le leggi regionali e gli atti normativi locali devono attenersi nel semplificare procedimenti relativi a funzioni o servizi di loro competenza. Con la l. n. 69/2009 di modifica della disciplina generale del procedimento amministrativo si espande ulteriormente “il peso del centro”: alcune norme della legge n. 241/1990 si applichino a tutte le amministrazioni pubbliche comprese quelle regionali e locali (come quella sulle conseguenze per il ritardo nella conclusione del procedimento), altre sono qualificate come «livelli essenziali delle prestazioni civili» così da legittimare la competenza esclusiva dello Stato a dettare la relativa disciplina e lasciando a Regioni e enti locali solo la facoltà di prevedere livelli superiori di tutela (Vesperini, G., Conclusioni, in Formez PA, L’attuazione nelle regioni e negli enti locali della legge n. 69/2009, 2012, 130). Ma anche questo approccio, che da più parti è stato segnalato come un vulnus all’autonomia regionale, non ha consentito di realizzare l’auspicata omogeneizzazione degli istituti di semplificazione procedimentale (e quando non supportato da una chiara normativa statale, come nel caso della s.c.i.a., ha finito per alimentare la differenziazione, sul punto si veda Calzolaio, S., Il caso della Segnalazione certificata di inizio attività in edilizia: semplificazione versus qualità?, in Istituzioni del federalismo, n. 1/2011, 71 ss.). La difficoltà di giungere a una strategia unitaria di semplificazione anche sulla base dei menzionati strumenti, ha portato il Consiglio di Stato (Cons. St., sez. cons. atti normativi, parere 9.7.2007, n. 2024/2007) a suggerire il ricorso a “valvole di sicurezza”, come una lettura evolutiva della Costituzione in chiave di effettività dei diritti e delle libertà fondamentali, che porti a individuare sul piano nazionale livelli minimi di semplificazione vincolanti per le autonomie territoriali.
Sul piano amministrativo, nell’attuazione del principio di sussidiarietà verticale delineato dal nuovo art. 118, co. 2, della Costituzione non si giunge ad una razionalizzazione delle competenze, che restano distribuite e coordinate attraverso accordi verticali (Stato-Regione) e orizzontali (tra Regioni), concerti, procedimenti composti, predeterminazione di criteri a diversi livelli di governo. Ad esempio, l’inquinamento dell’aria è oggetto di Piani per il raggiungimento e mantenimento dei valori obiettivo e per la riduzione del rischio del superamento dei valori limite (entrambi definiti a livello statale), che vengono adottati a livello regionale con la partecipazione degli enti locali e nel rispetto degli indirizzi posti da un organo di coordinamento statale; il potere di autorizzare la realizzazione di impianti che possano dar luogo ad emissioni in atmosfera per gli impianti non sottoposti ad autorizzazione unica ambientale spetta alle Regioni (che devono convocare una conferenza di servizi), ma può essere avocato dal Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri della salute e per lo sviluppo economico.
La pluralità di livelli di governo appare, dunque, un (inevitabile) fattore di complicazione e di ostacolo alla semplificazione, sia per la numerosità dei produttori di norme e per la sovrapposizione di competenze, sia perché sovente chi pone le regole non le applica e dunque non dispone di importanti informazioni in ordine all’implementazione.
Per arginare questi esiti, gli strumenti (embrionali) per una governance multilivello della politica di semplificazione amministrativa possono richiedere una riforma del disegno istituzionale (come avvenuto con la costituzione dell’ente pubblico inglese Local Better Regulation Office, che ha operato dal 2008 al 2012 per poi essere oggetto di soppressione e trasferimento di funzioni al Better Regulation Delivery Office del Department for Business, Innovation and Skills), la condivisione di obiettivi e metodologie di semplificazione (ad esempio, l’art. 12, l. n. 229/2003 impone alle autorità amministrative indipendenti di regolazione di fare ricorso all’analisi preventiva degli impatti della regolazione e il d.l. n. 70/2011, conv. in l. n 106/2011, estende loro, così come alle Regioni, l’obbligo di misurare gli oneri informativi) o attraverso intese-accordi. A quest’ultimo riguardo, gli esempi italiani vedono l’adozione di un Accordo tra Stato, Regioni, Province autonome, Province, Comuni e Comunità montane in sede di Conferenza unificata nel 2007 (non più operativo e che fissava l’obiettivo di riduzione degli oneri amministrativi e concordava sull’esigenza di utilizzare a tutti i livelli di governo gli strumenti dell’analisi tecnico-normativa, l’analisi di impatto della regolamentazione, la consultazione); un Protocollo di intesa tra Camera dei deputati, Senato e presidenti dei Consigli regionali nel 2007 (che ha portato all’istituzione di un comitato per l’armonizzazione dell’azione legislativa tra le assemblee parlamentari e i Consigli regionali e le Province autonome per lo scambio di esperienze tra assemblee legislative riguardanti, tra l’altro, i metodi della legislazione); un Tavolo permanente per la semplificazione presso la Conferenza unificata di raccordo tra Stato, Regioni ed enti locali, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri (d.P.C.m. 8.3.2007); un Comitato paritetico Stato-Regioni-autonomie locali presso la Conferenza Unificata per il coordinamento delle metodologie di misurazione degli oneri amministrativi (art. 6, d.l. n. 70/2011, convertito in l. n. 106/2011). I primi tre strumenti che intendevano affrontare il tema della qualità della regolazione nel suo complesso sono rimasti sostanzialmente inattuati. Resta tutta da scrivere l’efficacia quale strumenti di coordinamento multilivello del menzionato Comitato paritetico che, pur intervenendo sulla base di un oggetto (MOA) e obiettivo (coordinamento metodologico) ben definiti, è chiamato, tra l’altro, ad adempiere al difficile compito di ricondurre a uniformità i comportamenti differenziati spesso adottati da comuni e province nell’ambito del territorio regionale (peraltro a fronte della soppressione, per rispettare l’autonomia degli enti territoriali, dell’esplicito obiettivo di riduzione del 25% degli oneri informativi entro il 2012, nel nuovo art. 25, co. 3, del d.l. n. 112/2008). Inoltre, un ulteriore accordo tra Governo, Regioni, province autonome, ANCI e UPI è stato siglato nel 2012 in sede di Conferenza Unificata che prevede (per l’attuazione condivisa degli articoli 3, 12 e 14 del d.l. n. 5/2012): la creazione di un tavolo istituzionale in sede di Conferenza per l’individuazione dei procedimenti e delle misure di semplificazione; l’adozione mediante intesa di linee guida sulla semplificazione, razionalizzazione e coordinamento dei controlli sulle imprese; la predisposizione condivisa del «programma 2012-2015 per la riduzione degli oneri gravanti sulle pubbliche amministrazioni» e di quello per la «misurazione e riduzione dei tempi dei procedimenti e degli oneri regolatori»; l’approfondimento di metodologie di stima degli oneri ai fini dell’applicazione del criterio della compensazione tra oneri «regolatori, informativi o amministrativi» introdotti ed eliminati di cui all’art. 8 della legge n. 180/2011.
5. Regole semplici anche perché coerenti, chiare e comprensibili
Nell’affrontare il tema della Sécurité juridique et complexité du droit il Conseil d’Etat evidenziava nel 2006 che le leggi devono essere comprensibili: «l’intelligibilité implique la lisibilité autant que la clarté et la précision de énoncés ainsi que leur cohérence». Il riconoscimento dell’esigenza di prestare attenzione alla qualità formale delle leggi (e di tutte le regole, indipendentemente dalla fonte che le supporta), oltre che a quella sostanziale (così la felice formulazione del Cons. Stato. A.G., parere 25.10.2004, n. 10548, codice dei diritti di proprietà industriale), costituisce un passaggio imprescindibile per il rafforzamento delle politiche di semplificazione. Ed invero (come già evidenziato) in tal modo le semplificazioni possono non solo essere comprese, ma anche percepite da cittadini e imprese. La formulazione di regole e di semplificazioni chiare consentirebbe, ad esempio, di arginare il diffuso fenomeno dell’intermediazione da parte di professionisti che, nel farsi carico di numerosi adempimenti imposti dalla normativa ad imprese (soprattutto di piccola e media dimensione) o cittadini, finiscono per fungere da schermo che impedisce ai regolati di beneficiare di una diminuzione dei costi o dei tempi necessari per adempiere.
A livello regionale è quasi trentennale l’“esperienza pilota” della Toscana che delinea suggerimenti per la redazione dei testi normativi, seguita da varie altre Regioni, per poi arrivare ad un unico manuale di tecnica legislativa, predisposto nel 1992 dall’Osservatorio legislativo interregionale su impulso della Conferenza dei presidenti dell’assemblea, dei Consigli regionali e delle Province autonome (edizione aggiornata nel 2007). Un ulteriore sintomo della «sensibilità e dell’attenzione mostrate dalle Regioni verso metodologie volte a curare la crisi del diritto» emerge dall’introduzione di principi sulla qualità della normativa regionale in molti statuti adottati dopo la riforma del 2001 (per un’analisi dettagliata si veda Salza, I., Le regole sulla qualità normativa regionale, in Codice di drafting, coordinato da P. Costanzo, III, in www.tecnichenormative.it). Un manuale di Regole e suggerimenti per la redazione degli atti amministrativi del 2010 (redatto da un gruppo di lavoro coordinato dall’Istituto di teoria e tecniche dell’informazione giuridica del CNR di Firenze) è, poi, stato indirizzato agli operatori degli enti locali, ma gli autori ne auspicano l’adozione da parte di tutte le amministrazioni regionali e statali.
Oggetto di specifiche previsioni sono, invece, le tecniche di drafting predisposte a livello statale, una sicura anomalia e un esempio della difficoltà di giungere ad un strategia unitaria di semplificazione, basata sulla condivisione di obiettivi e strumenti (Ainis, M., La legge oscura. Come e perché non funziona, Bari, 1997, 83-84). In tale contesto, gli obiettivi della coerenza, chiarezza e comprensibilità delle regole sono stati tradizionalmente oggetto di indicazioni di drafting definite attraverso circolari (tre con analogo contenuto sono state adottate dai presidenti dalla Camera dei Deputati, del Senato e del Consiglio dei ministri nel 1986, poi superate dalle circolari dei presidenti del Senato e della Camera dei deputati nel 2001 e una circolare della presidenza del C.m. 2001; due circolari di analogo contenuto sull’istruttoria legislativa nelle Commissioni sono state adottate dai presidenti delle assemblee parlamentari nel 1997), per assurgere a “principi generali per la produzione normativa” disciplinati con disposizioni di rango primario (art. 13 bis della l. 23.8.1988, n. 400, come modificata dalla l. 18.6.2009, n. 69), dunque vincolanti nei confronti della normativa di rango secondario. Inalterata resta, tuttavia, la sostanziale inefficacia di tali previsioni, sol che si consideri, a mero titolo esemplificativo, la frequenza delle abrogazioni innominate (che non identificano con precisione il loro oggetto), dei rinvii a catena ad altre norme, così come il ricorso ad espressioni mai utilizzate in precedenza che creano incertezze e «spesso affermano principi e prescrizioni diversi da quelli che erano nell’intenzione di chi le ha scritte» (Mattarella, B.G., La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, cit., 80).
Al perseguimento degli obiettivi della coerenza, chiarezza e comprensibilità delle regole adottate a livello centrale contribuisce, poi, l’analisi tecnico normativa-ATN, tesa alla valutazione della necessità, residualità ed adeguatezza delle regole, in termini di coerenza con l’ordinamento comunitario, conformità alla Costituzione e rispetto delle competenze regionali e locali. Si tratta di una tecnica introdotta, per la regolazione statale, con dir.P.C.m. del 2000 poi disciplinata con d.P.C.m. del 2008, e diffusa anche a livello regionale, normalmente con diversa configurazione (come emerge dal Rapporto 2009 sulla legislazione dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati, 58) anche se la previsione del ricorso all’ATN si trova in alcune leggi regionali (ad esempio, quella della Toscana del 2008 e dell’Abruzzo del 2010). Questa tecnica dovrebbe anche dare conto della correttezza delle definizioni e dei riferimenti normativi contenuti nel testo della normativa, nonché delle tecniche di modificazione e abrogazione delle disposizioni vigenti, riportando eventuali soluzioni alternative prese in considerazione ed escluse. Anche l’ATN deve ancora trovare un’attuazione non formale nella produzione normativa centrale.
La diffusa inosservanza dei criteri di qualità formale delle regole, certamente alimentata dall’oggettiva difficoltà di redigere in modo semplice e comprensibile una normativa che si inserisce in un sistema particolarmente complicato (basti pensare alla difficoltà di individuare le norme che vanno abrogate con l’adozione di una nuova disciplina), sono ampiamente riconducibili all’urgenza (vera o presunta) che spesso connota le decisioni politiche, che risulta inconciliabile con i tempi necessari per un uso non formale delle tecniche di drafting (così come di quelle basate sulla misurazione delle regole, come l’AIR e la MOA). A ciò contribuisce l’assenza di una specifica formazione al riguardo, che risente in Italia della tradizionale contrapposizione tra una (mai decollata) scienza della legislazione e una tecnica legislativa prevalentemente affidata agli operatori, la cui voce è sovente coperta dalle esigenze della politica, troppo spesso dettate dall’urgenza del decidere e dalla ricerca del consenso immediato (su questi temi sia consentito rinviare a Martelli, M.- De Benedetto, M.-Rangone, N., La qualità della regole, Bologna, 2011, 102 ss. ed ivi numerosi riferimenti bibliografici).
Fonti normative
L. 23.8.1988, n. 400; l. 7.8.1990, n. 241; l. 24.12.1993, n. 537; l. 15.3.1997, n. 59; d.P.R. 28.12.2000, n. 445; l. 29.7.2003, n. 229; l. 28.11.2005, n. 246; dir. 2006/123/CE; d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. con modificazioni nella l. 6.8.2008, n. 133; d.P.C.m. 11.9.2008, n. 170; d.l. 29.11.2008, n. 185, conv. con modificazioni nella l. 28.1.2009, n. 2; l. 18.6.2009, n. 69; l. 23.7.2009, n. 99; d.P.C.m. 19.11.2009, n. 212; d.l. 31.5.2010, n. 78, conv. con modificazioni nella l. 30.7.2010 n. 122; d.P.R. 9.7.2010, n. 159; d.P.R. 7.9.2010, n. 160; d.l. 13.5.2011, n. 70, conv. con modificazioni nella l. 12.7.2011, n. 106; d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. con modificazioni nella l. 14.9.2011, n. 148; l. 11.11.2011, n. 180; l. 12.11.2011, n. 183; d.l. 6.12.2011, n. 201, conv. con modificazioni nella l. 22.12.2011, n. 214; d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. con modificazioni nella l. 24.3.2012, n. 27; d.l. 9.2.2012, n. 5, conv. con modificazioni nella l. 4.4.2012, n. 35.
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