SENATO (XXXI, p. 362)
Diritto pubblico italiano (p. 368). - La riforma che la legge 19 gennaio 1939, n. 129, introdusse nell'istituto parlamentare con la soppressiom della Camera dei deputati e la istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, non apportò modificazioni alla costituzione del Senato, bensì riferì anche ad esso le varianti introdotte per la Camera nella tradizionale procedura di formazione delle leggi.
Anche il Senato era chiamato ad esercitare le sue funzioni per mezzo, oltre che dell'assemblea plenaria, della commissione di finanza e delle altre commissioni legislative formate dal presidente in relazione a determinate attività nazionali o di commissioni speciali costituite dallo stesso presidente per determinate materie, restando peraltro riservato all'assemblea - tranne contraria richiesta del capo del governo per ragioni di urgenza - l'esame di determinate materie di particolare importanza o di quelle per le quali tale forma di discussione fosse chiesta dal governo o dall'assemblea medesima o dalle commissioni e autorizzata dal capo del governo. Il Senato, d'altra parte, restava estraneo all'esame delle norme corporative elaborate dalle corporazioni e degli accordi economici collettivi stipulati dalle associazioni interessate che, quando stabilivano contribuzioni sotto qualsiasi forma o denominazione a carico degli appartenenti alle categorie cui le norme o gli accordi si riferivano, potevano, a giudizio del capo del governo, essere sottoposti all'esame della Camera dei fasci e delle corporazioni.
L'attività del Senato dal 1939 al 1943 non fu senza rilievo nel settore legislativo, nel quale tradizionalmente l'isperienza e la competenza dei suoi componenti avevano assicurato larghi contributi: invero, dei progetti discussi e approvati dal Senato nella XXX legislatura ben 189 furono da esso emendati. Risulta pure che un progetto fu respinto. Il Senato tenne, in tale periodo di attuazione della riforma del 1939, 22 riunioni pubbliche in assemblea plenaria, 4 comitati segreti e 480 riunioni di commissioni legislative. Non mancarono in serio ad esso ammonimenti sulla gravità del precipizio verso il quale il paese scendeva: ma, se il disastro poté verificarsi senza che si riuscisse dai suoi organi fondamentali a impedirlo, la rovina della patria segnava fra l'altro la loro condanna, mettendo in luce la necessità urgente di un adeguamento degli ordinamenti politici.
Così il problema della riforma del Senato, che del resto era stato agitato fin dalle stesse origini dell'istituto (è infatti del 1848 un articolo del Cavour in proposito), diveniva urgente ed infine (a tacere della soppressione del Senato vitalizio deliberata dalla stessa "repubblica sociale"), dopo la liberazione di Roma, fu in più momenti radicalmente risolto. Mentre già con decr. legge dell'agosto 1943, n. 175, all'indomani della caduta del fascismo, si era chiusa la legislatura e si erano previste le elezioni di una Camera dei deputati e la sua convocazione entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra, successivamente il decr. legge luog. 25 giugno 1944, n. 151, abrogando tali disposizioni, stabiliva che le forme istituzionali fossero scelte dal popolo italiano dopo la liberazione del territorio nazionale, con l'elezione di un'Assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello stato, e attribuiva al consiglio dei ministri il potere di deliberare i provvedimenti aventi forza di legge, fino all'entrata in funzione del nuovo parlamento.
Intanto, col decr. legge 27 luglio 1944, n. 159, si prevedeva, fra l'altro, la decadenza dalla carica dei membri del Senato che con i loro voti e atti avessero contribuito al mantenimento del regime fascista e a rendere possibile la guerra, demandandosi la decisione ad una speciale Alta corte di giustizia; e per effetto dei giudizî istituiti fu dichiarata la decadenza di 277 senatori, di cui 19 furono poi riammessi dall'Alta corte stessa in seguito a revoca della precedente ordinanza di decadenza, mentre per altri due sentenze della Cassazione (9 giugno-9 luglio 1947; 9 luglio-26 ottobre 1948), accogliendo il ricorso, cassavano senza rinvio le ordinanze di decadenza impugnate.
Dopo il referendum istituzionale, che ha portato alla forma repubblicana dello stato, col decr. legisl. presid. 24 giugno 1946, n. 48, veniva stabilita la cessazione del Senato dalle sue funzioni con effetto dal giorno successivo, nel quale si riuniva l'Assemblea costituente.
Invero è da domandarsi se tale disposizione fosse necessaria, dato che la funzione legislativa del Senato, già sospesa dalla chiusura della legislatura, era ormai definitivamente impedita dall'attribuzione dei provvedimenti legislativi al consiglio dei ministri, come dal ricordato decr. legge n. 151, e poi anche alla Costituente indeterminate materie previste dal decr. legisl. luog. 16 marzo 1946, n. 98, fino all'entrata in funzione del nuovo parlamento. Sta ad ogni modo che la disposizione del decr. legisl. presid. n. 48 del 1946 fu intesa nel senso che la cessazione riguardasse solo la funzione legislativa del Senato, per impedire interferenze con i lavori della Costituente, e non la funzione giudiziaria speciale ad esso assegnata dallo statuto e che continuò ad esercitarsi per i procedimenti pendenti; e la razionalità di tale interpretazione fu confermata dalla legge che solo successivamente deliberò la soppressione del Senato vitalizio escludendo anche il mantenimento di ogni prerogativa ai senatori in atto discriminati (legge costituzionale 3 novembre 1947, n. 3).
Questa deliberazione, peraltro, veniva dopo che già la Costituente nello stesso senso sostenuto anche negli ultimi tempi dalla dottrina più diffusa, aveva discusso il problema del sistema bicamerale (dal 4 al 12 marzo 1947) e si era orientata per il suo mantenimento, assicurando anzi piena parità di attribuzioni alle due camere, non accogliendo però il principio della rappresentanza professionale a base della costituzione della seconda Camera, come pur la sopracitata dottrina più diffusa sosteneva, in armonia del resto a precedenti proposte parlamentari (cfr. la proposta della commissione senatoria Greppi-Ruffini del 1919) e come nella discussione stessa della Costituente fu largamente sostenuto.
L'istituto, quale è stato adottato dalla costituzione e quale risulta fissato nei suoi più precisi lineamenti dalla apposita legge elettorale 6 febbraio 1948, n. 29, si differenzia nettamente da quello precedente, sia pur conservando il titolo tradizionale di Senato, ma con l'aggiunta delle parole "della repubblica". Ad un Senato, i cui componenti, tranne una piccola aliquota di membri de iure, erano nominati a vita dal capo dello stato, è sostituita una camera essenzialmente elettiva, dal quale carattere fondamentale l'attribuzione della parità piena di poteri rispetto all'altro ramo del Parlamento deriva come conseguenza naturale.
È esclusa pertanto anche la precedenza, da parte della Camera dei deputati, nell'esame dei progetti finanziarî, mentre non è prevista più la competenza speciale giudiziaria del Senato. Inoltre, mentre la riunione è presieduta dal presidente della Camera dei deputati quando nei casi tassativamente stabiliti dalla costituzione il Senato si aduna con essa in seduta comune, - e non potrebbe essere diversamente, dato il maggior numero dei suoi membri -, in senso diverso è regolato il caso della sostituzione del presidente della repubblica nell'ipotesi di suo temporaneo impedimento, sostituzione affidata questa volta al presidente del Senato.
Il Senato della repubblica, dicono gli articoli 57 e segg. della costituzione, è eletto a base regionale e a ciascuna regione è attribuito un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila. Nessuna regione può avere un numero di senatori inferiore a sei, eccetto la Valle d'Aosta che ha un solo senatore e il Molise considerato per la prima elezione come regione a sé stante, che ne ha due. I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto. Si aggiunge un piccolo nucleo di senatori non elettivi; gli ex presidenti della repubblica, che sono senatori di diritto, salvo rinunzia, e i cittadini - in numero di cinque - che il presidente della repubblica ha facoltà di nominare senatori in quanto abbiano illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Entrambe queste categorie di senatori non elettivi sono a vita. Furono respinte altre proposte per ammettere un maggior numero di senatori di diritto o di nomina del capo dello stato, includendovi le persone che rivestano o abbiano rivestito alte cariche pubbliche estranee alla lotta elettorale, mentre la loro partecipazione ai lavori del Senato potrebbe essere particolarmente proficua per la loro esperienza e competenza.
Non si ritenne inoltre di precisare nella costituzione il sistema elettivo da adottarsi per il Senato ma, nel corso della discussione, fu approvato un ordine del giorno per l'adozione del collegio uninominale, in contrapposto al sistema proporzionale approvato con altro ordine del giorno per la Camera dei deputati. La deliberazione era naturalmente impegnativa fino ad un certo punto ed invero la predetta legge elettorale, subito dopo approvata, ha disposto che in ogni regione siano costituiti tanti collegi quanti sono i senatori ad essa assegnati (attualmente: 17 seggi al Piemonte, 31 alla Lombardia, 6 al Trentino-Alto Adige, 19 al Veneto, 6 al FriuliVenezia Giulia, 8 alla Liguria, 17 all'Emilia-Romagna, 15 alla Toscana, 6 all'Umbria, 7 alle Marche, 16 al Lazio, 6 agli Abruzzi, 2 al Molise, 21 alla Campania, 15 alle Puglie, 6 alla Basilicata, 10 alla Calabria, 22 alla Sicilia e 6 alla Sardegna, oltre ad un seggio per la Valle d'Aosta: complessivamente 237 senatori elettivi, in base alla popolazione residente al 31 dicembre 1946), aggiungendo, però, che in dipendenza dei suffragi ottenuti nei singoli collegi sono proclamati eletti solo quei candidati che abbiano ottenuto un numero di voti validi non inferiore al 65%. Per gli altri collegi della regione i seggi rimasti non assegnati sono attribuiti nell'ambito della regione con un procedimento che, partendo dai risultati ottenuti con una votazione uninominale nel collegio uninominale, si basa sul principio proporzionalistico e, per rendere possibile la realizzazione di tale principio, prevede l'istituto del collegamento obbligatorio tra i candidati (ogni candidato deve essere collegato con almeno altri due candidati di altri due collegi della stessa regione o con sé stesso se, come è ammesso, egli si presenta anche in altri collegi della regione medesima): in modo da costituire gruppi di candidati collegati, la cui funzione tecnica è analoga a quella delle liste nella rappresentanza proporzionale con lo scrutinio di lista, per quanto possa non esservi piena corrispondenza dal punto di vista dei partiti, dato che è ammesso il collegamento con candidati aventi diverso contrassegno.
Il sistema è particolarmente disciplinato dalla legge elettorale nei suoi varî momenti. Calcolato per ogni singolo gruppo di candidati il totale dei voti validi ottenuti dai candidati del gruppo stesso, presentatisi nei collegi per i quali non è avvenuta la proclamazione col quorum del 65% dei votanti (cifra elettorale), e divisa ciascuna cifra elettorale successivamente per uno, due, tre, quattro... sino alla concorrenza del numero dei senatori da eleggere, i seggi da ricoprire sono assegnati ai gruppi che hanno i quozienti, cosi ottenuti, più alti in numero eguale a quello dei senatori da eleggere. A parità di quoziente, il posto è attribuito al gruppo che ha conseguito la minore cifra elettorale e, se ad un gruppo spettano più posti di quanti sono i suoi candidati, è prescritto che i posti esuberanti siano distribuiti secondo l'ordine della graduatoria di quoziente.
Stabilito il numero di seggi spettanti ad ogni gruppo, la loro assegnazione ai candidati del gruppo stesso si fa, poi, con un criterio che non si limita a considerare solo il numero dei voti validi riportati da ciascuno; ma, poiché questi hanno valore in relazione al numero degli elettori iscritti nei singoli collegi nei quali i candidati hanno partecipato alla lotta elettorale, tiene giusto conto del rapporto fra i due predetti numeri; e precisamente, per rendere più agevoli le operazioni, è prescritto che in ogni gruppo siano proclamati eletti i candidati del gruppo stesso secondo la graduatoria delle cifre che si ottengono moltiplicando per cento il numero dei voti validi riportati da ciascuno e dividendo il prodotto per il numero degli elettori iscritti nel collegio, le cifre cioè individuali relative dei singoli candidati. In caso di parità di tali cifre è graduato prima il più anziano di età, e, nell'ipotesi di candidature presentate in più collegi, si assume, ai fini della graduatoria, la maggiore cifra individuale relativa riportata dal candidato. Nelle regioni dove si verifichi il caso che solo per un collegio non abbia avuto luogo la proclamazione col quorum del 65%, cosi come per la Valle d'Aosta, è proclamato eletto il candidato che in detto collegio ha avuto il maggior numero di voti validi e, in caso di parità di voti validi, il più anziano di età. La legge elettorale per il Senato regola anche l'ipotesi della vacanza dei posti di senatore che si verifichi per cause sia anteriori sia sopravvenienti all'elezione, disponendo che i posti stessi siano attribuiti ai candidati che nel medesimo gruppo hanno ottenuto la maggiore cifra relativa individuale e applicando la norma comune della distribuzione secondo l'ordine della graduatoria di quoziente se non vi sono più candidati nel predetto gruppo.
Per la prima composizione del Senato, a deroga dei principî in precedenza adottati, nelle disposizioni transitorie e finali della costituzione si è ammesso che, salvo rinunzia prima del decreto (anche l'accettazione della candidatura politica implicava rinunzia), fossero nominati senatori con decreto del presidente della repubblica: a) i deputati dell'Assemblea costituente che, possedendo i requisiti di legge per essere senatori, rientravano in una delle seguenti categorie: presidenti del consiglio dei ministri o di assemblee legislative; membri del Senato disciolto; coloro che avessero avuto almeno tre elezioni, compresa quella alla Costituente; o fossero stati dichiarati decaduti nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926 o avessero scontato la pena della reclusione non inferiore a cinque anni in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la difesa dello stato; b) i membri del disciolto Senato che avevano fatto parte della Consulta nazionale.
Alla Costituente, nel deliberare il nuovo ordinamento del Senato, non può essere mancata la preoccupazione di differenziare le due assemblee; ed invero diversità fra di esse si riscontrano sotto molti aspetti, e per il numero dei componenti (alla Camera un deputato ogni 80mila abitanti, in contrapposto ai 200 mila per il Senato), e per la base regionale attribuita a quest'ultimo (non meno di 6 senatori per regione, salvo la situazione speciale della Valle d'Aosta e del Molise), e per il requisito dell'età minima degli elettori e degli eleggibili (rispettivamente 21 e 25 anni per la Camera, in contrapposto agli anni 25 e 40 richiesti per il Senato), e per la durata delle due assemblee (5 anni per la Camera, di fronte ai 6 previsti per il Senato), e per lo stesso sistema elettivo di formazione dell'una e dell'altra, il quale sistema è senz'altro proporzionale per la Camera, in contrapposto a quello per il Senato, che, almeno per quel che riguarda la prima fase, è uninominale.
Di tali differenze non è peraltro da sopravalutare la entità, a cominciare dalla base regionale che non può incidere sulla portata della funzione rappresentativa. La stessa diversità di durata delle due assemblee appare dubbio possa essere attuata in pratica se in concreto non può escludersi che si manifesti la opportunità di non prolungare la vita di una Camera quando l'altra rinnovata esprima nuove situazioni molto diverse nel paese. D'altra parte il sistema elettivo adottato per il Senato in sostanza non differisce molto da quello approvato per l'altra Camera se in pratica il quorum del 65% non potrà essere raggiunto nei singoli collegi che solo molto raramente e l'assegnazione dei seggi perciò, nella maggior parte dei casi, non potrà farsi che col sistema della Camera dei deputati, anche se non si riproduca esattamente la sua stessa situazione, dato che è ammesso un collegamento fra candidati aventi contrassegni diversi. Infine, quella che potrebbe essere, conseguentemente a quanto ora accennato, una notevole differenza fra i due istituti - e cioè la diversa fisionomia (se in concreto si verificasse) dei partiti nelle due Camere in relazione al diverso sistema elettorale adottato - potrebbe proprio essa determinare difficoltà notevoli di vita dei due rami del Parlamento e proprio nel periodo normale della loro attività. Dirà, ad ogni modo, l'esperienza se l'ordinamento adottato sia vitale o se la giustificazione e i benefici della bicameralità debbano collegarsi ad una più sostanziale e profonda differenza dei due rami, come quella che può assicurarsi con l'adozione del principio della rappresentanza professionale o organica d'interessi o valori sociali, culturali e spirituali per il Senato in contrapposto alla rappresentanza indiscriminata per la Camera e che garantirebbe nel primo una funzione nettamente integrativa di quella esercitata dall'altra e della cui piena adeguatezza alla tutela dei bisogni della vita attuale è ben lecito dubitare. Non si darebbe cioè allora solo soddisfazione a motivi di opportunità, ma si risponderebbe ad una necessità ineluttabile per l'integrale esercizio della sovranità popolare, in quanto con un tale orientamento sarebbe difficile pensare di poter escludere la rappresentanza di forze essenziali della nazione costituenti la realtà vivente del tessuto sociale.
Bibl.: G. Gonella, Democrazia e socialismo, in Il Popolo, 21 giugno 1944; P. Nenni, Dal separatismo siciliano alle autonomie regionali, nell'Avanti!, 30 giugno 1944; M. Ruini, Verso la Costituente, Roma 1945, pp. 60 e 164; I. Bonomi, Rappresentanza dei partiti e degli interessi, in Giornale del mattino, 21 ottobre 1945; G. Ambrosini, La rappresentanza degli interessi e il voto obbligatorio, Roma 1945; G. Tupini, Il Senato, 1946; U. Tupini, La nuova Costituzione: presupposti, lineamenti, garanzie, Roma 1946; Ministero della Costituente, Relazione all'Assemblea Costituente, vol. I, Roma 1946, p. 191 segg.