Seneca politico, scienziato e drammaturgo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Seneca è il massimo filosofo latino di tutti i tempi e contemporaneamente è anche poeta, libellista, drammaturgo, pensatore politico. Dopo Cicerone, a lui si deve il progetto più ambizioso concepito dall’aristocrazia senatoria per riservare a se stessa un ruolo centrale nel governo dell’Impero: un progetto che Seneca cerca in prima persona di realizzare svolgendo all’ombra di Nerone il ruolo di consigliere e di eminenza grigia del principe e del cui fallimento finisce in ultima istanza per rimanere vittima. Ma Seneca è anche autore di un corpus di tragedie destinato a influenzare per secoli il teatro europeo: storie torbide, sanguinarie, espressione di un mondo segnato dall’oblio della ragione, esse costituiscono una sorta di pedagogia al rovescio, di alternativa drammatica a quel perfetto dominio sulle passioni teorizzato nella produzione filosofica.
Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova, in Spagna, intorno al 4 a.C. Il padre è un intellettuale di rilievo, appassionato di retorica e storico, con una larga rete di relazioni a Roma, la madre una donna colta e sensibile. Giunto piccolissimo a Roma, Seneca riceve un’accurata educazione letteraria e retorica, ma segue anche lezioni di filosofia; precocemente abbraccia la dottrina stoica, che interpreta con la libertà di pensiero tipica dei filosofi romani ma alla quale resta sostanzialmente fedele tutta la vita. Trascorre buona parte della giovinezza in Egitto, probabilmente per motivi di salute; di ritorno a Roma Seneca intraprende la carriera politica, ottenendo nel 33 la questura e avviandosi contemporaneamente a una promettente attività oratoria.
Nel 37 sale al potere Caligola: tra l’affermato retore e il giovane imperatore i rapporti si fanno presto tesi; col tempo il principe giunge a odiare Seneca al punto da volerne la condanna a morte, evitata solo perché una delle sue amanti gli fa notare che il malaticcio oratore è destinato comunque ad una morte precoce. Nel 41 Caligola viene liquidato da una congiura di palazzo che porta inaspettatamente al potere Claudio; ma appena pochi mesi dopo Seneca viene relegato in Corsica, accusato di aver commesso adulterio con una delle sorelle di Caligola.
Sull’isola, che è all’epoca poco più che uno scoglio deserto, il filosofo trascorre otto lunghi anni, poi nel 49 sopravviene la svolta: la nuova moglie di Claudio, la potentissima e ambiziosa Agrippina, non solo richiama a Roma Seneca, ma gli affida l’educazione del giovanissimo figlio Nerone, del quale sta meticolosamente preparando l’ascesa al trono.
Dalla condizione di esule Seneca si trova così nuovamente proiettato nel cuore del potere, specie quando nel 54, dopo la morte di Claudio, assassinato forse dalla stessa Agrippina, un Nerone appena diciassettenne sale al trono: del giovanissimo principe Seneca è la guida, l’eminenza grigia, il consigliere politico più ascoltato insieme al prefetto del pretorio Burro, comandante della guardia imperiale, e alla stessa Agrippina, e tale resterà per i primi cinque anni di governo di Nerone, passati alla storia con il nome di “quinquennio felice”. Per un attimo sembra realizzarsi l’antico sogno di Platone, secondo il quale le società umane sarebbero state felici solo quando a governarle fossero saliti dei filosofi.
All’anno dell’ascesa al principato di Nerone risale l’Apokolokyntosis (letteralmente “zucchificazione”), una feroce satira che mette in scena l’arrivo tra gli dèi dell’appena defunto Claudio, il processo cui questi viene sottoposto da una corte presieduta da Augusto e infine la sua condanna a diventare schiavo per l’eternità, velenoso contrappasso per un principe accusato tra l’altro di aver concesso un eccessivo potere ai propri liberti. All’anno 54 risale il De clementia, un trattato politico in due libri che Seneca dedica a Nerone all’esordio della sua esperienza di governo.
La clemenza, che Seneca definisce come “capacità di controllare il proprio animo riguardo la facoltà di punire” ovvero come “mitezza di un superiore nel fissare la pena contro un inferiore”, viene additata come la virtù che deve caratterizzare il giovane principe, guidarne l’opera di governo e il rapporto con i sudditi e soprattutto assicurargli la fedeltà e l’amore di questi ultimi, che costituisce la garanzia più sicura di un regime stabile e sostenuto dal consenso dei governati. Raccomandabile a tutti, la clemenza si addice soprattutto a chi governa: proprio chi possiede un potere virtualmente senza limiti dev’essere capace di imporsi una misura; il comportamento del principe è assimilato a quello di un medico, che si rassegna ad amputare un arto solo quando ogni altra terapia si è rivelata infruttuosa, o a quello di un padre indulgente, pronto a giustificare i propri figli e disposto a ricorrere a mezzi coercitivi solo come opzione estrema. La clemenza è dunque frutto di una scelta e di una valutazione razionale e non va confusa con la pietà, che nasce invece da considerazioni emotive.
Nonostante il ripetuto richiamo ad Augusto, modello per tutti gli imperatori successivi, il De clementia rivela chiaramente quanta strada abbia fatto la trasformazione del principato in un regime assoluto: Nerone dispone di un potere immenso, pari solo a quello esercitato da Giove, e soprattutto di un potere che nessun’altra istituzione è in grado di controbilanciare o anche soltanto di limitare. Dall’arbitrio del principe dipende la sorte di uomini, città, popoli interi; la vita e la morte di cose e persone, da un capo all’altro dell’impero, sono legate alle sue scelte. In una situazione di questo genere, Seneca può solo fare appello a Nerone perché accetti una volontaria autolimitazione del suo potere: è il principe che dovrebbe scegliere – perché persuaso della sua preferibilità e della sua convenienza politica – la via della clemenza; ma né Seneca né l’aristocrazia senatoria cui questi appartiene potrebbero realmente opporsi se la scelta di Nerone fosse diversa (come in effetti sarà).
Seneca resta accanto a Nerone cinque anni; nel 59 l’uccisione di Agrippina, alla quale il filosofo non sa o non vuole opporsi, segna una prima incrinatura nei loro rapporti; al 62 risale la decisione di ritirarsi definitivamente dalla scena pubblica.
Come è nella tradizione aristocratica latina, quello di Seneca è però un ozio operoso: tra il 63 e il 65 il filosofo compone alcune delle sue opere più importanti, tra cui i sette libri delle Naturales quaestiones, dedicate al pupillo degli ultimi anni, Lucilio, destinatario anche della raccolta epistolare che Seneca va allestendo nel medesimo torno di tempo. Le Naturales quaestiones sono articolate in sette libri e affrontano una vasta gamma di fenomeni naturali, dall’arcobaleno al tuono, al fulmine, dalle acque – con una digressione sul problema delle piene del Nilo – a neve e grandine, dai venti e la loro origine ai terremoti, alle comete. Su ognuno di questi fenomeni Seneca discute le teorie dei suoi predecessori, quindi motivatamente aderisce all’una o all’altra di esse oppure avanza una propria interpretazione originale. Molto suggestiva la conclusione dell’opera: il cammino della scienza è appena agli inizi e l’universo un palazzo appena dischiuso alla conoscenza umana: ben piccola cosa sarebbe del resto il mondo se ogni generazione non potesse apportare il proprio contributo alla sua conoscenza.
Tuttavia, le Naturales quaestiones non possono essere definite senz’altro un’opera scientifica: gli interessi filosofici e i grandi temi della riflessione senecana fanno capolino continuamente nel corso della trattazione e ne chiariscono il senso ultimo. Seneca è certo incantato dall’indagine sull’universo, scrive pagine di grande intensità sul pensiero umano capace di muoversi fra le stelle e di penetrare i segreti del cosmo; la conoscenza della natura è uno dei fini della vita umana, uno dei compiti che distinguono l’esistenza degli uomini da quella delle belve e la rendono meritevole di essere vissuta. Eppure quella conoscenza non è il fine supremo, che coincide piuttosto con il perfezionamento morale dell’uomo. Ecco perché la trattazione scientifica viene spesso interrotta per fare posto alla riflessione etica, o meglio fornisce la base su cui fondare tale riflessione. Così, per limitarsi ad un solo esempio, la discussione sui terremoti e sulle loro cause offre il destro per una meditazione sulla fragilità umana, soccombente di fronte a minacce infinitamente meno gravi rispetto a quella di un sisma, e per un finale invito ad essere sempre pronti e vigili dinanzi alla morte.
Il genio multiforme di Seneca si esprime anche in ambito drammaturgico: sotto il nome del filosofo ci sono giunte infatti dieci tragedie, le uniche complete dell’intera letteratura latina; di queste una, l’Octavia – tecnicamente una pretesta, cioè una tragedia di ambiente romano, mentre le altre sono tutte coturnate, drammi di ambientazione greca –, è certamente spuria, su un’altra, l’Hercules Oetaeus, gravano forti sospetti di inautenticità; una terza tragedia, le Phoenissae, è certamente incompleta, perché priva dei cori e nettamente più breve rispetto alle altre.
Estremamente difficile risulta precisare la cronologia delle tragedie: scritte in età giovanile, durante l’esilio in Corsica secondo alcuni, nel corso dell’esperienza accanto a Nerone come strumento pedagogico per l’allievo imperiale secondo altri, o ancora dopo il ritiro dalla vita politica. Un’altra questione dibattuta riguarda la destinazione finale dei drammi: si trattava di copioni pensati per una effettiva messa in scena o di semplici testi destinati alla lettura? Entrambe le ipotesi sono state sostenute con buoni argomenti e il problema resta insoluto. Quanto alla scelta dei temi, infine, Seneca seleziona vicende già largamente frequentate dai drammaturghi precedenti: il ciclo troiano (Agamemnon, Troades), il mito di Fedra e Ippolito (Phaedra), quello di Edipo (Oedipus, Phoenissae), Ercole (Hercules furens), il ciclo degli Argonauti (Medea), il mito di Atreo e Tieste (Thyestes).
Tutti i drammi di Seneca chiamano in causa vicende di sangue e morte; i protagonisti delle tragedie sono invariabilmente mossi da passioni distruttive, spesso coincidenti con il desiderio di vendetta: Clitemnestra intende punire il marito Agamennone che ha sacrificato la figlia Ifigenia per assicurare alla flotta greca una felice navigazione per Troia; Medea è furiosa per essere stata abbandonata da Giasone, il principe greco per il quale ha lasciato patria e famiglia, e si vendica uccidendone moglie e figli; Fedra, innamoratasi del figliastro Ippolito e da questi rifiutata, lo accusa falsamente di violenza presso il marito Teseo, che a sua volta lo maledice e ne provoca la morte; e così via. Alla sete di vendetta si associa talora quella di potere: è il caso di Atreo, che imbandisce al fratello Tieste le carni dei suoi figli morti non solo per vendicare l’adulterio da questi a suo tempo commesso con la moglie di Atreo stesso, ma anche per consolidare il proprio dominio; assetato di potere è Egisto, l’amante di Clitemnestra, che proprio per questo istiga la donna a uccidere il marito, mentre intorno al regno di Tebe si scontrano fino a uccidersi reciprocamente i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice. Anche la passione d’amore trascina spesso i personaggi senecani, ma sembra destinata a tramutarsi presto nel suo opposto: per amore Fedra ha macchiato il suo onore di moglie, dichiarando la propria passione al figliastro Ippolito, salvo poi provocarne la morte dopo essere stata respinta; per amore Medea ha commesso delitti efferati, ma altri, ancora più crudeli, ne commette quando la passione per Giasone cede il posto alla rabbia feroce di un’amante abbandonata. Infine, non mancano casi in cui alla base del dramma c’è un intervento divino, mosso a sua volta da desiderio di vendetta, come quando per odio nei confronti di Ercole, Giunone precipita l’eroe in un accesso di follia che lo induce a sterminare i propri familiari.
Le tragedie senecane sono dunque particolarmente cupe, dominate da passioni che si manifestano sin dall’inizio all’apice della loro forza; a volte i personaggi che ne sono travolti accennano qualche resistenza, provano a dominare le emozioni che stanno per sopraffarli, o vengono invitati a compiere questo tentativo dalle figure che li circondano, ma tutto risulta inutile: rabbia, amore, vendetta, sete di potere sembrano demoni incontrollabili, che presto sbaragliano ogni possibile argine, si impossessano del personaggio e lo inducono a compiere delitti di inaudita ferocia, in un’orgia di sangue, di corpi fatti a pezzi, di atti di cannibalismo di cui l’autore non cerca in alcun modo di attenuare l’orrore. Non per questo i protagonisti delle tragedie senecane agiscono d’impulso, in modo irrazionale: al contrario, essi sono di solito perfettamente lucidi e pienamente coscienti della gravità delle proprie azioni, in una singolare mescolanza di passione e ragione.
Il teatro costituisce insomma in Seneca il rovesciamento del suo insegnamento filosofico, tutto incentrato sul controllo delle passioni e sul dominio razionale della propria sostanza emotiva; esso mette in scena ciò che accade quando questo dominio viene meno, lasciando il fondo buio dell’animo umano libero di scatenarsi. Le tragedie rappresentano un mondo che ha esiliato la ragione e nel quale c’è spazio solo per l’odio, la vendetta, il sangue, la morte. Il sapiente tratteggiato nelle opere filosofiche, che attraverso la ragione è in grado di raggiungere la felicità, e il protagonista delle tragedie, governato invece dalla propria follia, disegnano così i due poli di ogni esperienza umana, sospesa tra il vertice di una felicità possibile e l’abisso sempre incombente dell’orrore assoluto.