DEL BENE, Sennuccio
Nacque a Firenze da Benuccio di Senno del Bene tra il 1270 e il 1275.
L'anno della nascita, che non è noto, si riesce ad approssimare tenendo conto che nel libro delle Consulte della Repubblica fiorentina il nome del D. compare come camerario tra i magistrati del Comune dell'anno 1297, con un incarico dunque che difficilmente potrebbe essere stato assegnato a un giovane appena ventenne; d'altra parte, avendo egli affrontato nel 1345 i disagi di un viaggio da Firenze ad Avignone, è improbabile, per opposte ragioni, che la sua nascita possa risalire più indietro del 1270.
Fu guelfo di parte bianca, seguendo l'orientamento politico tradizionale della sua famiglia: la qual cosa, quando i neri stabilirono definitivamente la loro supremazia su Firenze, ne determinò l'allontanamento dalla città, che non sappiamo se almeno in un primo tempo fu volontario o forzato.
Non pare che egli fosse accomunato a Dante nella diaspora bianca del 1302, ed è infondata la notizia diffusa da un letterato cinquecentesco, P. Mini (Difesa della città di Firenze..., Lione 1577, pp. 52 s.), secondo cui il D. avrebbe subito taglieggiamenti da parte di Carlo d'Angiò. L'episodio è raccontato nella Cronaca del Compagni (II, cap. XX), ma si riferisce a Rinuccio di Senno Rinucci. È anche incerto se il D. fosse proscritto da Firenze nel 1311 in seguito alla riforma di Baldo d'Aguglione.
Sta di fatto che il D. era a Milano nel gennaio del 1311 (Della Torre, p. 435), in concomitanza con il soggiorno milanese dell'imperatore Enrico VII. Del resto, anche se il D. aveva lasciato Firenze volontariamente, nel raggiungerlo aveva ottemperato a un obbligo cui erano tenuti i ghibellini e i partigiani bianchi. E per costoro la discesa di Enrico VII in Italia era l'occasione a lungo sperata del rovesciamento dei guelfi neri e dei loro protettori (si ricordi a questo proposito la celebre Epistola VII di Dante).
Il D. si arruolò nell'esercito imperiale e nel settembre-ottobre del 1312 fu tra le milizie che strinsero d'assedio Firenze.
La reazione del Comune fiorentino si sarebbe concretata, qualche mese più tardi, in una provvisione rogata dal notaio Gherardo Aldighieri, che comminava l'esilio perpetuo e la confisca dei beni a tutti quei cittadini che avevano preso parte all'assedio. Il D. era accusato con più di quattrocento altri fiorentini di aver fatto scorribande in armi nel territorio del Comune "occidendo et capiendo et derobando et redimi[as] faciendo et honestas mulieres violando" (Marchionne di Coppo Stefani). Era il 7 marzo 1313 e il bando era esteso anche ai figli maschi dei condannati.
La morte improvvisa dell'imperatore, avvenuta a Buonconvento presso Siena nell'agosto di quell'anno, vanificò definitivamente le attese dei partigiani filoimperiali. L'occasione detterà al D. la canzone "Da poi ch'io ho perduta ogni speranza", secondo il Corsi "uno dei più bei compianti che furono scritti per la morte dell'imperatore" (p. 112); il componimento sarà dedicato a Franceschino Malaspina marchese di Lunigiana, diventato alla morte di Enrico VII il punto di riferimento di tutti i ghibellini e i guelfi bianchi di Toscana (la Lunigiana ospitò anche Dante). Non è improbabile che il D., almeno in un primo tempo, trovasse rifugio presso il Malaspina. Se soggiornò in Lunigiana, quella permanenza non fu però di lunga durata, visto che già nel 1316, anno dell'elezione di papa Giovanni XXII, egli prestava servizio presso la Curia avignonese, da cui in seguito sarà impiegato in ambascerie in Italia e in Germania.
Nella città provenzale il D. ebbe forse presso di sé il figlio Niccolò, che sarà canonico nel 1324 e, dopo aver ricoperto cariche ecclesiastiche a Lucca e Verona, otterrà nel 1339 il priorato della chiesa di S. Cecilia in Firenze, entrando nella Compagnia dei disciplinati della Misericordia del Salvatore e distinguendosi come uomo di intensa spiritualità, tanto da essere tenuto in grande considerazione da Agnolo Torini, a cui dedicò l'unico sonetto che di lui ci è rimasto (Hijmans-Tromp, p. 356); nato probabilmente intorno al 1300, Niccolò era già morto nel 1374.
La permanenza ad Avignone offrì al D. soprattutto l'occasione di conoscere Francesco Petrarca: tra i due nacque un'amicizia che darà i suoi frutti fino alla morte del Del Bene.
Anche il Petrarca era partecipe, attraverso il destino del padre, del dramma dei fuorusciti toscani, ma le passioni politiche e di parte venivano ormai decantandosi. Il sodalizio con il giovane Francesco fu probabilmente speso nel culto della poesia toscana, di Dante, nello studio dei classici, nelle conversazioni animate che avranno avuto come interlocutore anche Giovanni Colonna. Il D. estraniandosi dalle lotte comunali sembra andar progressivamente assumendo la fisionomia più moderna di un intellettuale cortigiano, secondo quel modello che proprio il Petrarca incarnerà nella forma più elevata.
Non desta dunque meraviglia che lo stesso D. abbia sollecitato Giovanni XXII e il cardinale legato in Toscana Giovanni di San Teodoro perché ottenessero dal Comune di Firenze la revoca del bando perpetuo comminatogli nel 1313. La risposta fiorentina giunse con una provvisione dei Priori approvata nel novembre del 1326. Si concedeva al D. di far ritorno a Firenze e gli si accordava la restituzione dei beni in virtù del servizio meritorio prestato in quegli anni presso la S. Sede: unica soddisfazione, di carattere più formale che sostanziale, pretesa dal Comune, era che il D. o un altro al suo Posto entrasse simbolicamente nelle Stinche, il carcere di Firenze, per uscirne immediatamente e andare a fare offerta di sé in S. Giovanni.
Non disponendo di alcuna notizia relativa al D. per gli anni successivi al 1326, non sappiamo se e quando le condizioni imposte dal Comune fiorentino furono soddisfatte. Non è escluso che il D. restasse ancora ad Avignone.
A Firenze ritroviamo il D. solo nel 1339, quando ottenne dalla S. Sede, su richiesta del fratello Albizzo, il rettorato dell'ospedale di S. Bartolomeo di Mugnone, fondato dal padre Benuccio nel 1295 e da questo posto sotto il controllo pontificio. In qualità di rettore di S. Bartolomeo il D. compare in documenti del 1346-47, concernenti la vendita di proprietà dell'ospedale. Alla sua morte subentrò in questo incarico il figlio Niccolò. Altri episodi della biografia del D., successivi al ritorno a Firenze, possono essere ricostruiti con il sussidio delle carte petrarchesche. In particolare, due viaggi: il primo a Napoli nel 1342, come risulta da una lettera del Petrarca a Giovanni Barrili (Var., LVII, ed. Fracassetti); il secondo ad Avignone, già ricordato, nel 1345, dove il D. scambiò dei sonetti con il Petrarca e, quasi certamente, incontrò Franceschino degli Albizzi, altro rimatore fiorentino in esilio.
Ma se i legami del D. col Petrarca sono accertabili sul filo di una consistente documentazione, per quanto parzialmente e solo per via congetturale è possibile far luce anche sui rapporti che egli dovette tenere con l'altra corona trecentesca, Giovanni Boccaccio. Le ipotesi avanzate dal Billanovich a questo riguardo (Petrarca letterato, pp. 79 ss.) risultano infatti sufficientemente persuasive. Intanto è certo che il D. si è incontrato con il Boccaccio nel novembre del 1341, nel periodo del breve soggiorno fiorentino di Niccolò Acciaiuoli e Giovanni Barrili, inviati in missione nella città toscana da Roberto d'Angiò. Se la consuetudine che il D. tenne in quel giorni col Barrili è accertata sulla scorta dell'epistolario petrarchesco, da quegli incontri non poteva essere escluso il Boccaccio, legato al Barrili da saldissima amicizia e a lui vicinissimo durante quel soggiorno. Ma il Billanovich lascia anche intravedere che l'amicizia col Boccaccio può risalire ad anni più lontani. Proprio il D. potrebbe avere inviato al Boccaccio, quando questi ancora era a Napoli, il sonetto petrarchesco "Sennuccio, i' vo' che sapi in qual manera", poi riecheggiato nel Filostrato (V, 54 s.); ed anche le epistole dantesche a Cino da Pistoia e Moroello Malaspina, a noi note solo attraverso la trascrizione del Boccaccio, ma di cui alcuni brani lasciano echi nelle rime del D., potrebbero essere state acquisite dal Boccaccio per lo stesso tramite. È certo che quando Boccaccio pianse la morte del Petrarca con il sonetto "Or sei salito, caro signor mio" (ed. Branca, pp. 150 ss.), scrivendo nei vv. 9-10: "Or con Sennuccio e con Cino e con Dante / vivi, sicuro d'etterno riposo", tributava di fatto un altro riconoscimento al Del Bene.
Ma già il Petrarca nel sonetto in morte del D. (Rime, CCLXXXVII) ne aveva accostato il nome a quelli di Guittone, Dante e Cino, e nei Trionfi lo aveva chiamato a sfilare nel corteo dei poeti con Alceo, Virgilio, Ovidio, Dante, Cino e tutti gli altri (Tr. Am., IV, 37). Tanta era l'opinione in cui il Petrarca teneva la poesia del Del Bene. La considerazione che nutriva verso l'uomo già risultava dai sonetti dedicatigli in vita (Rime, CVIII, CXII, CXIII, CXLIV; Rime disperse, ed. Solerti, pp. 110, 112 s.), dall'epistola XIV del libro IV delle Familiares, e soprattutto dall'annotazione accorata con cui in data 28 novembre 1349 egli aveva trascritto, sui margini del ms. Vat. lat. 3196 (c. 12), la notizia della morte dell'amico.
Il D. morì in Firenze intorno al 15-20 novembre del 1349.
Il canzoniere del D., nella parte che a noi è pervenuta, assomma a quattordici componimenti, di cui la maggioranza sonetti. Una produzione esigua, che ci permette di iscrivere il nostro rimatore negli epigoni toscani della corrente stilnovista, tra i quali però si distingue, soprattutto nei sonetti, per una particolare grazia ed eleganza del dettato. Ma i momenti di maggior originalità dell'arte del D. si colgono piuttosto nelle canzoni "Da poi ch'i' ho perduta ogni speranza" e "Amor, tu sai ch'i' son col capo cano". Nella prima, scritta come si è già detto per la morte di Enrico VII, il tema politico si stempera nel tema amoroso, con un procedimento innovativo rispetto alla tradizione di poesia civile e politica risalente a Guittone: la morte dell'imperatore duole al poeta anche perché rende impossibile il suo ritorno a Firenze, dov'è la sua donna. Nella seconda, riprendendo un tema già toccato da Cino da Pistoia, canta con una punta di tristezza non priva di ironia un suo innamoramento senile. In questi momenti, in cui l'ispirazione autobiografica sopraffà l'astrattezza delle situazioni stilnoviste, il D., seguendo lo stesso percorso di Cino, si pone sulla strada che dallo stilnuovo porta al Petrarca.
Manca un'edizione critica soddisfacente delle rime di Sennuccio. Un'epistola sull'incoronazione del Petrarca, stampata più volte dal 1549 in poi sotto il nome del D., risulta un falso cinquecentesco.
Queste le edizioni complete delle rime del D.: M. Szombathely, Le rime di Sennuccio del Bene, Bologna-Trieste 1925; A. M. Cuomo, Le rime di Sennuccio del Bene, Salerno 1927; A. L. Silvestro, S. del Bene, Catania 1931; A. Altamura, Il Canzoniere di Sennuccio del Bene, Napoli 1950. Tra le edizioni antologiche meritano la citazione: G. Carducci, Rime di Cino da Pistoia e d'altri del sec. XIV, Firenze 1862, pp. 228-42; Rime di trecentisti minori, a cura di G. Volpi, Firenze 1907, pp. 27-39; Poeti minori del Trecento, a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli 1952, pp. 43-55; e soprattutto Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino 1969, pp. 111-40, che si raccomanda per l'impegno filologico e l'accuratezza del commento.
Fonti e Bibl.: Le fonti note della biografia del D. sono tutte edite: Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, in Rerum Ital. Scriptores, 2 ed., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, ad Ind.; Consulte della Repubblica fiorentina, a cura di A. Gherardi, II, Firenze 1896, p. 539; O. Zenatti, Dante e Firenze, Firenze s. d. [ma 1902], pp. 517 s.; A. Della Torre, Una notizia ignorata su S. del Bene, in Arch. stor. ital., s. 5, XXXIX (1907), pp. 431-35; F. D'Ovidio, Studii sul Petrarca e sul Tasso, Roma 1926, pp. 164-68. Cfr. inoltre R. Davidsohn, Storia di Firenze, ad Ind. (VIII, Firenze 1968). Giudizi critici sulle rime, oltre che nelle introduzioni delle succitate edizioni, si trovano in: F. Flamini, Studi di st. letter. ital. e straniera, Livorno 1895, pp. 10-13; M. Scherillo, Le origini e lo svolgimento d. letter. ital., I, Le Origini, Milano 1919, p. 341; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1946, pp. 112 ss.; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1955, pp. 56 ss.; A. Tartaro, Diffusione e persistenza..., in Letteratura ital., Storia e testi, a cura di C. Muscetta, II, 1, pp. 434-42. Per i rapporti con il Petrarca, con il Boccaccio e con altri trecentisti minori sivedano: G. Volpi, La canzone di maestro Gregorio d'Arezzo e S. del Bene, s. l. 1895; D. Bianchi, Intorno alle rime disperse del Petrarca…, in Boll. stor. pavese, n. s., III(1940), pp. 33-43; C. Calcaterra, Nella selva del Petrarca, Bologna 1942, p. 145 s.;G. Billanovich, Prime ricerche dantesche, Roma 1947, p. 77 n.; Id., Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, pp. 79-83 e passim; Id., Tra Dante e Petrarca, in Italia medioev. e umanistica, VIII (1965), pp. 3, 5, 40, 43; M. Saccenti, D. S., in Enciclopedia dantesca, II, Roma 1970, pp. 344 s., V. Branca, Boccaccio medievale, Firenze 1975, pp. 247 s.; Id., G. Boccaccio. Profilo biografico, Firenze 1977, p. 63 e passim. Sono state citate abbreviatamente le seguenti edizioni di testi di Petrarca e Boccaccio: F. Petrarca, Epistolae de Rebus familiaribus et Variae, a cura di G. Fracassetti, III, Firenze 1863; Rime disperse di F. Petrarca, a cura di A. Solerti, Firenze 1909" G. Boccaccio, Rime, Caccia di Diana, a cura di V. Branca, Padova 1958. Su Niccolò Del Bene si vedano: F. D'Ovidio, Studii, cit., pp. 167 s.; N. Sapegno, Il Trecento, cit., p. 473; e, soprattutto: I. Hijmans-Tromp, Vita e opere di Agnolo Torini, Leiden 1957, pp. 18 s., 31, 35, 356.