SENOFANE (Ξενοϕάνης, Xenophanes) di Colofone
Poeta e filosofo greco del sec. VI a. C. Nato, secondo Apollodoro, nell'olimpiade 50a (580-77), era ancora in vita a 92 anni (giusta il vanto espresso da lui medesimo: v. il fr. 8 Diels); stando ad altre notizie, avrebbe superato il secolo. Lasciò presto la nativa città dell'Asia Minore e passò la maggior parte della vita errando pel mondo greco e recitando versi, secondo la tradizione degli aedi; solo nella tarda vecchiaia si fermò ad Elea (Ελέα, Velia), colonia dei Focesi nella Magna Grecia e poi centro della tradizione filosofica che si disse perciò "eleatica" (v. eleatica, scuola), e che una corrente dossografica considerò inaugurata dallo stesso S. Scrisse elegie, di cui è superstite qualche ampio brano: minori frammenti restano dei Σίλλοι (Silli, cioè componimenti satirico-polemici, coi quali forse s'identificano le Παρῳδίαι, Parodie) e del Περὶ ϕύσεως (Intorno alla natura delle cose), in cui più propriamente erano esposte le sue concezioni filosofiche. Di due suoi poemi Fondazione di Colofone e Fondazione della colonia di Elea non si ha che la notizia.
La fisionomia mentale di S. si manifesta già nei brani superstiti delle elegie, in cui pure doveva esser meno prevalente il contenuto polemico e filosofico. Nel fr. 1 S. loda chi, nei simposî, racconta non "le lotte dei Titani e dei Giganti e dei Centauri, invenzioni degfi antichi", bensì cose serie, conformi al suo ideale della ἀρετή. E questo nuovo ideale di "virtù" è tipicamente contrapposto all'antico, cioè all'ἀρετή omerica dell'aristocrazia greca, nel fr. 2, dove agli atleti, vincitori ad Olimpia, si contrappongono superbamente i rappresentanti dell'intelligenza, i σοϕοί, ché "de" a forza degli uomini e dei cavalli è migliore la nostra sapienza". Alla σοϕίη, l'abilità-eccellenza-sapienza", di cui, p. es., Pindaro è tipico banditore ancora un secolo più tardi, si sostituisce una σοϕίη che può dirsi quella del primo "sofista" della Grecia, quando con tal nome si alluda all'aspetto della reazione contro i dati della tradizione religiosa, sociale, politica. Di questa σοϕίη S. ha eccezionale senso ed orgoglio (anche nel fr. 8, contenente il già ricordato accenno autobiografico, i primi due versi andranno interpretati non come di consueto, "son già 67 anni che fanno errare qua e là il mio affanno per la terra ellenica" bensì, "son già 67 anni che diffondono il mio pensiero per la terra ellenica".
D'altra parte, questo atteggiamento di critica intellettualistica pone S. in contrasto con quella stessa tradizione rapsodico-aedica, che egli pure per certo aspetto continua nella sua professione di cantore girovago. Ma il rapsodo tradizionale è sostanzialmente un ripetitore di canti epici, che vede in Omero l'autore di ogni arte e scienza: S., che piuttosto recita versi suoi, si distacca dal gran maestro dell'Ellade anche sul piano del sapere. La polemica antiomerica si svolge precipuamente nei Silli: "tutti sono stati fin da principio a scuola da Omero" (fr. 10); e al pari di Omero è falso maestro Esiodo, appaiato al primo così come più tardi verso la fine del secolo, sarà per Eraclito, che per tale aspetto continua la polemica di S. pur senza simpatie per il suo stesso autore. La polemica antiomerica s'impernia (fr. 11 e 12) principalmente su quella confutazione delle inadeguate idee del divino, che costituisce uno dei momenti tipici del pensiero senofaneo. Gli antichi poeti, infatti, raffigurano gli dei come cattivi uomini, mentre già è erroneo rappresentarli come uomini. "I mortali credono che gli dei nascano, che abbiano veste, voce, fisionomia come la loro" (fr. 14); ma anche gli animali, se potessero dipingere, si raffigurerebbero gli dei a loro immagine e somiglianza, così come gli Etiopi li rappresentano negri e camusi e i Traci coi capelli biondi e con gli occhi azzurri (fr. 15 e 16). Motivo fondamentale della concezione religiosa di S. è con ciò l'avversione a quell'antropomorfismo, di cui l'immoralità di certe rappresentazioni mitologiche e poetiche non è che una conseguenza: s'intende quindi come nella sua raffigurazione della divinità debbano intervenire piuttosto negazioni di attributi tradizionali che determinate posizioni di attributi nuovi. Ed ecco, nel Περὶ ϕύσεως, il "dio unico, massimo fra gli dei e fra gli uomini, non simile ai mortali né nell'aspetto né nel pensiero" (fr. 23): dio che è "tutto sguardo, tutto pensiero, tutto orecchio" (fr. 24), e che non ha bisogno di moto né di sforzo per esercitare il suo dominio sulle cose (fr. 25 e 26).
Se non si tien conto da un lato di tale carattere di negatività polemica, e quindi di relativa indeterminatezza, della concezione di S., e d'all'altro della sua generale impostazione arcaica, perciò eminentemente indifferenziata rispetto alle seriori determinazioni dossografiche, non si sfugge alle difficoltà ermeneutiche su cui si è a lungo affaticata la critica. Vero è che la prima indeterminatezza è in fondo propria di ogni teologia, in quanto ogni avvicinamento al divino si svolge via negationis, per eliminazione di quelle limitatezze e deficienze che appaiono proprie del finito e dell'umano: ma S., che può dirsi il primo teologo dell'Occidente aggiunge a tale indeterminatezza quella caratteristica della mentalità arcaica, in cui convivono ancora indistinti i termini delle discriminazioni posteriori. Così, per quel che concerne il fr. 23, il fatto che il ϑεός vi si presenti da un lato come "uno" e dall'altro come "massimo tra gli dei e tra gli uomini" ha fatto chiedere ai critici se S. sia stato propriamente monoteista (la seconda formula persistendo solo per reminiscenza popolare letteraria), o se abbia invece voluto soltanto organizzar meglio il politeismo intorno a una divinità centrale e dominante. Ma già qualcuno (e anzitutto Eduard Meyer) ha avvertito come la distinzione fra monoteismo e politeismo abbia poco rilievo per la mentalità greca del tempo: e l'obiezione (Nestle) che ciò non valga per il "monista" S. è solo un riflesso dell'idea, come si vedrà assai discutibile, del suo "monismo" metafisico. Analogamente, nel fr. 24 οὗλος ὁρᾷ, οὗλος δὲ ξοεῖ, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ᾿ἀκούει è vano cercare la fonte (specie circa il rapporto del "vedere" e dell'"ascoltare" col νοεῖν, che è in generale, arcaicamente, il "percepire nella coscienza", l'"avvertire-pensare") di alcune formulazioni di Parmenide e di Epicarmo, che pur sembrano riecheggiarlo: quel che importa a S. non è già la determinazione precisa e positiva della divinità in quanto sintesi e totalità di vista, udito e pensiero, ma bensì l'esclusione dei limiti che ad essa pone la religiosità comune in quanto immagina i suoi poteri conoscitivi ristretti a quegli organi particolari in cui essi sì manifestano nell'uomo. Si è, insomma, sul piano mentale del bambino che apprende come "Dio veda oltre le mura", e che è con ciò meno primitivo di Omero, per cui p. es. Ares e Afrodite possono restar celati a tutti i numi, salvo che a Helios, il quale soltanto per la sua posizione "tutto vede e tutto sente".
Più delicato è il problema del fr. 25. Anzitutto è assai verosimile (Reinhardt, Parmenides, Bonn 1916, p. 112) che esso sia immediatamente preceduto dal fr. 26, dov'è affermata l'immobilità di Dio, che "resta sempre nello stesso luogo", giacché "non gli si addice lo spostarsi or qua or là". Quel che importa, qui (sia per la mentalità primitiva di S., sia per il suo presunto nesso con l'eleatismo, su cui cfr. più oltre), è che l'immobilità è dimostrata non mercé quell'antitesi dell'essere al non essere che, creata da Parmenide (v.), conduce poi attraverso Melisso (v.) alla negazione propriamente eleatica del divenire e del moto, ma solo con l'empirico rilievo dell'incongruenza di una concezione della divinità come tale che abbia bisogno di "andare or qua or là" (μετέρχεσϑαι ἄλλοτε ἄλλῃ, che non è un astratto κινεῖσϑαι) al pari di un comune mortale. Perché, d'altronde, questo "andar qua e là"? Anche qui non c'è che da presupporre, come termine della polemica, il mondo omerico: per attuare i loro intenti, i numi vi si spostano da luogo a luogo, e non di rado è l'assenza, o il ritardo, che rende loro impossibile l'azione. S'intende allora benissimo qual'è lo "sforzo" di cui, nel fr. 26 (ἀλλ' ἀπάνευϑε πόνοιο νόου ϕρενὶ πάντα κραδαίνει), il dio senofaneo è esonerato: per compiere quel che deve compiere, esso non deve recarsi sul luogo: basta che ci pensi, ed è fatto. Resta bensì un punto oscuro: il κραδαίνει, descrivente l'azione che la divinità compie senza sforzo, solo pensandoci. Già il Reinhardt ha messo in rilievo l'insostenibilità dell'interpretazione di πάντα κραδαίνει come "fa vibrare l'universo", nel seriore senso stoico della mens che agitat molem: κταδαίνει può esser qui solo "scuote", nel senso dell'antica idea onde il divino fa tremare la terra. "In Omero (Il., I, 530) Zeus ha bisogno solo di accennare col sopracciglio, per scuotere il grande Olimpo: al dio di S. basta il puro pensiero, per far tremare di fronte a sé l'universo". Ma era un πόνος, una "fatica", muovere il sopracciglio? E, se s'intende che squassi l'Olimpo Zeus, fratello di Posidone "scuotiterra", che senso ha, specie per il dio senofaneo, lo "scuotere tutte le cose"? Di fatto, proprio l'omericità di una simile intuizione la rende sospetta presso un avversario della religiosità omerica. La difficoltà sparisce bensì quando si pensi che il κραδαίνει non sia in realtà che un κρααίνει. Questo è di fatto il verbo che, nel linguaggio omerico, si contrappone tipicamente al νοεῖν come il "tradurre in atto" al "concepire l'intento": in quanto il "recare ad effetto" è funzione precipuamente divina rispetto alle intenzioni degli uomini, quel verbo designa propriamente tale funzione (v. per es. Il., I, 41, 504; V, 508), mentre, in quanto la stessa vita divina è esemplata su quella umana, anche per essa vale la dualità dell'intenzione e dell'azione, del νοῆσαι e del χρῆναι (v. per ciò Od., V, 170). Ed ecco nettissima la distinzione tra le divinità omeriche e quella senofanea: mentre per le prime altro è il "concepir l'idea" e altro il "metterla in atto", la seconda "col solo pensare, e senza la fatica dell'intervenire, realizza tutto". E anche Empedocle, che nei primi versi del fr. 134 riprende senza dubbio la polemica di S. contro l'antropomorfismo negando che la divinità abbia membra umane e concependola solo come una "mente", non le attribuisce che un "percorrere coi veloci pensieri tutto l'universo": dove il motivo della velocilà con cui "si scaglia (ἀίσσει) il pensiero" è del resto già in Omero (Il., XV, 80 segg.), ma proprio adoperato solo come termine di paragone per la rapidità con cui Era si muove per andare a tradurre in atto l'ordine di Zeus. Per Omero, insomma, la divinità prima pensa e poi agisce, e tutt'al più, agendo, è veloce "come" il pensiero: per chi combatte il suo antropomorfismo è lo stesso pensiero della divinità che "si muove" e "attua", con la velocità, e superiorità allo sforzo, che gli è propria. Così entrambi i motivi del brano costituito dai frammenti 26 e 25 di S. risultano chiari anche nel loro nesso.
Questa mentalità di tipo arcaico-empirico, che si è veduta fin qui presupposta dalla polemica e dalla dottrina religiosa di S., quadra d'altronde anche con quegli elementi di teoria naturalistica e gnoseologica che si possono parimenti considerare come suoi, in quanto attestati da suoi frammenti autentici. La terra è principio e fine di tutto (fr. 27); noi ne vediamo, sotto i piedi, il limite superiore, confinante con l'aria, ma al di sotto essa si estende all'infinito (fr. 28); più propriamente, tutte le cose non derivano che da terra e acqua (fr. 29 e 33). Quest'ultima, com'è noto, è concezione antichissima, di cui sono tracce già in Omero (Il., VII, 99): ma S. cerca di riempirla di un contenuto nuovo, mostrando per es. come le nubi, i venti, le piogge e quindi anche i fiumi nascano dal mare (fr. 30). Ed ecco il frammento che con ogni probabilità ci spiega meglio il significato di questa considerazione senofanea della natura: "E quella che chiamano Iride, non è anch'essa di sua natura che una nube, purpurea e rossa e verde allo sguardo" (fr. 32). L'interpretazione naturalistica dei fenomeni serve cioè, principalmente, come ausilio nella lotta contro il politeismo antropomorfico della fede comune: il suo spirito di empiria positivistica è soprattutto in funzione polemica della mitologia religiosa a cui si oppone. Parimenti, non conviene conferire eccessivo rigore alle osservazioni gnoseologiche di S., che sono anch'esse evidentemente legate alla polemica contro la religione volgare, contestando agli oppositori che su tali argomenti sia possibile aver nozioni dirette, cioè attinte alla visione stessa delle cose, e non soltanto "opinioni", cioè idee acquisite indirettamente per riflessione (fr. 34).
Anche a proposito di queste dottrine senofanee, d'altronde, il mancato o non sufficiente avvertimento del loro carattere empirico e polemico, e la sovrapposizione del dossografico all'autentico, hanno posto non di rado la critica in difficoltà. A questo proposito, il dato dossografico più importante è, com'è noto, quello concernente il "monismo" metafisico di S., e la conseguente sua inaugurazione dell'eleatismo, poi condotto a massimo fiore dal suo "scolaro" Parmenide. Ma basta esaminare i documenti più antichi e validi di questa tradizione, e cioè gli accenni di Platone e di Aristotele, per notare come siano poco probanti. Il primo, che parla della "stirpe eleatica, iniziantesi con S. e ancor prima", è assai vago; il secondo, che del resto accenna nello stesso brano a Parmenide, Melisso e Zenone in forme che la critica più recente ha riconosciute inadeguate per tutti e tre, mostra di congetturare su dati mnemonici (in dieci righe s'incontrano tre "sembra" e un "si dice"). D'altra parte, è proprio a questo testo aristotelico che risale la considerazinne di S. come "primo unizzatore" sia pure attenuata con l'avvertenza che egli "non chiarì affatto" il senso di tale unità, e che "verosimilmente, considerando la totalità del cielo, disse l'uno essere il dio". Anche quando si ammetta che questa ambigua e oscura frase aristotelica contenga qualcosa di più che un'arbitraria estensione ontologica di quella tesi dell'unità teologica, che sola ci è nota per documenti diretti, si dovrà concludere che a S. non può legittimamente ascriversi altro che una generica tendenza verso l'unità. Analoghe osservazioni valgono per tutti i restanti dati dossografici concernenti questo "monismo" senofaneo, e che, quando non riecheggiano semplicemente il testo (e forse la confusione) di Aristotele, modernizzano ancora più il suo pensiero, formulandolo attraverso termini che presuppongono la problematica, parmenidea e zenoniana, dell'"ente" e dell'"uno".
E di fatto questa critica quadra anche con ciò che deriva da un esame della raffigurazione tiadizionale di S. come padre dell'eleatismo. Qui ha avuto importanza decisiva l'interpretazione parmenidea del Reinhardt (op. cit.), il quale, mostrando come il pensiero del massimo rappresentante dell'eleatismo nasca da un'impostazione affatto nuova e originale del problema logico-ontologico, ha insieme chiarito come esso non presupponga affatto, per la sua genesi, il monismo teologico, e presuntivamente ontologico, di S. Approfondendo questa interpretazione, la critica più recente (v. parmenide) ha messo in luce il sostrato propriamente arcaicolinguistico della logica ed ontologia parmenidea, e quindi segnata più nettamente la distinzione tra la sua forma mentis e quella di S. Ma per ciò stesso ha reso vano anche il paradossale capovolgimento della tesi tradizionale, che il Reinhardt compiva in quanto considerava Parmenide non solo indipendente da S. ma addirittura suo maestro (stabilitosi nella tarda vecchiaia ad Elea, S. avrebbe appreso da lui a ragionare in senso dialettico-metafisico). Questo capovolgimento, che non ha mai persuaso la critica, è del resto basato non solo su un troppo fiducioso accoglimento della tradizione dossografica (già sopra esaminata) circa la presunta metafisica di S., ma anche, e soprattutto, su ciò che a proposito di tale "metafisica" e del suo carattere "dialettico" dice lo pseudoaristotelico De Melisso Xenophane Gorgia. Nei capitoli 3 e 4, questo scritto attribuisce infatti a un pensatore non nominato, ma che taluni elementi, e la coincidenza con altri dati di Simplicio (in phys., 22, 26 segg.) han fatto identificare con S., anche un'asserzione circa la natura né finita né infinita, né mobile né immobile, di Dio. Ma questa asserzione quadrerebbe piuttosto con la nota mentalità "dialettica" e antinomica di Zenone. (E a Zenone era invero attribuita, fino a circa un secolo fa, quella stessa parte dello scritto, il quale s'intitolava allora De Xenophane Zenone Gorgia). Del resto, se il riferimento della terza parte dello scritto a Gorgia è sempre stato fuori discussione, ed oggi certo è il fatto che la prima concerna non S. ma Melisso, ciò non esclude affatto che il riferimento della seconda a S. piuttosto che a Zenone non possa essere rimesso in discussione. Da studiare nuovamente, comunque, è anche l'ipotesi che fu già dibattuta nella prima metà dell'Ottocento, e cioè che nel brano siano mescolate tesi senofanee con tesi zenoniane. In ogni modo, già il Diels, in base all'evidente incompatibilità di un'asserzione della parallela finità e infinità, moto e quiete del divino con le parole stesse di S., considerava ciò come errore dell'anonimo autore dello scritto, e faceva dipendere da esso anche l'analogo accenno che s'incontra nella già citata pagina di Simplicio, sia pure inserito in mezzo a una citazione teofrastea. Ma il Reinhardt ha mostrato come tanto l'Anonimo quanto Simplicio dipendano da Teofrasto, la figura del S. "metafisico-dialettico" risultando così convalidata dalla più autorevole dossografia peripatetica. Contro quest'ultima conclusione basta d'altronde ricordare (Zeller, Covotti) come Teofrasto non dica tanto che S. teorizzò il dio-uno come "né finito né infinito né mobile né immoto", quanto che "S. non pose il dio-uno né come finito né come infinito né come mobile né come immoto". Non si tratta, cioè, che di quella "mancanza di precisazioni", e cioè indeterminatezza arcaica, che già, come s'è visto, imputava a S. Aristotele. L'Anonimo interpretò il passo teofrasteo nell'altro senso: donde la genesi del S. antinomico, e le polemiche che ancora duravano al tempo di Simplicio. Così anche il fondamento più cospicuo della tesi reinhardtiana del S. metafisico-dialettico si manifesta insussistente.
Infine, anche gli accenni gnoseologici, di cui si è cercato di segnalare il carattere empirico-polemico, sono stati, sulla base dell'interpretazione datane da Sesto Empirico, spesso accentuati e sistematizzati in una sorta di negazione scettica della possibilità del conoscere, onde l'uomo rimarrebbe condannato al mero δόκος, cioè alla semplice "impressione soggettiva" sulle cose, a lui eternamente celate nella loro oggettività. Ma è noto come la dossografia di Sesto Empirico, tendendo a trovare dappertutto precursori e testimonî del verbo scettico, imponga molto spesso al pensiero antico una patina seriore. D'altronde, come questo δόκος senofaneo non ha niente a che vedere col relativisrno soggettivistico più tardi prospettato e lamentato dagli scettici, così neppure è paragonabile alla δόξα di Parmenide: l'analogia attrae naturalmente chi si ponga dal punto di vista della tradizionale collocazione di S. a capo dell'eleatismo, ma viene a cadere per chiunque si renda conto della genesi affatto originale della δόξα nel pensiero parmenideo. Quest'ultima dottrina è infatti direttamente determinata da quella tipica impostazione linguistica, onde nasce l'antitesi parmenidea del "non è" all'"è" e tutta la sua problematica; mentre in S. (nonostante che il contrario sia stato affermato - ma solo in base alla "dialettica" dello scritto pseudaristotelico - da A. Rivaud e ripetuto da A. Rey e da R. Mondolfo) non s'incontra alcuna traccia d'influenza arcaica del linguaggio nella determinazione della verità-realtà. Commisurata, quindi, a quella grande lotta fra le esigenze del linguaggio e quelle della visione mentale, che determina la genesi e l'evoluzione della logica greca, si può dire che la mentalità senofanea sta senz'altro dalla parte della contemplazione: il che conferma da più vasto angolo visuale la nota interpretazione data da H. Fraenkel al fr. 34. Anche i fr. 18 e 36 consuonano con questo ideale della scienza e verità, che corrisponde alla contrapposizione del "celato" al "palese", comune alla cultura greca del tempo: tanto si conosce quanto effettivamente si vede, e finché non si è veduto non si può che congetturare. Ancora immune delle angoscie linguistiche di Eraclito e di Parmenide, S. non può temere che il correttamente espresso si opponga all'esattamente veduto e la visione diretta resta quindi per lui l'unica veste ideale della verità.
Bibl.: Frammenti e testimonianze in H. Diels, Fragmente der Vorsokratiker, 5ª ed. a cura di W. Kranz, I, Berlino 1934. Cfr. inoltre i Poëtarum philosophorum fragmenta dello stesso Diels, p. 20 segg. e H. Diehl, Anthologia lyrica graeca, I, p. 53 segg. Per la interpretazione oltre il Reinhardt citato nel testo, G. Calogero, Studi sull'eleatismo, Roma 1932; A. Rey, La jeunesse de la science grecque, Parigi 1933; R. Mondolfo, Problemi del pensiero antico, Bologna 1935; H. Fraenkel, in Hermes, LX (1925), p. 185. Fra le trattazioni generali, per cui sono da vedere le storie del pensiero antico, particolarmente ricco (anche per la bibliografia precedente) Zeller-Nestle, Philosophie der Griechen, I, i, 7ª ed., Lipsia 1923, pp. 617-78. Bibliografia ulteriore in Ueberweg-Praechter, Grundr. d. Gesch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, p. 47*. Per la posizione di S. nella storia degli ideali etici greci: W. Jaeger, Paideia, I, Berlino 1934, p. 230 segg.