Senofane
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Senofane è da sempre ritenuto poeta eclettico e originale, ma anche poeta-filosofo, in quanto autore di celebrate elegie simpotiche, di distici elegiaci dedicati alla storia contemporanea, di Silloi (genere poetico di cui è l’inventore), e di un Perì Physeos (un poema Sulla natura). Due fondamentalmente i problemi legati alla sua figura: la notizia che sia un rapsodo professionista itinerante (che tuttavia critica aspramente la rappresentazione omerica degli dèi, ma anche il sistema tradizionale di valori, diffuso dall’epica, dalla lirica simpotica e dalla melica corale), e la reale portata delle sue teorie filosofiche (che nell’antichità fanno sì che venga giudicato uno scettico o ritenuto il maestro di Empedocle).
Senofane nasce a Colofone, figlio di Dexio o di Orthomene, attorno al 570 a.C., se dobbiamo prestare fede al fatto che lascia la città a 25 anni (fr. 7, 3 Gent.-Pr.), e che tale episodio è determinato dalla conquista persiana della Lidia nel 545 a.C.; sempre sulla base dello stesso frammento (dal quale risulta che da ben 67 anni viaggia per la Grecia), possiamo affermare che muore oltre i 92 anni. Sicuramente la sua vita va posta fra Pitagora ed Eraclito, visto che allude al primo ed è criticato per la polymathia, l’erudizione, dal secondo. Diogene Laerzio (IX 18) ci informa che vive a Zancle e a Catania, in Sicilia, ma non parla di Elea (per cui molti studiosi hanno messo in dubbio un suo soggiorno in quella città, soggiorno al quale è inevitabilmente connesso il rapporto con Parmenide, di cui talune fonti lo fanno maestro). Il testo è tuttavia lacunoso, perciò si suppone che il nome della città sia caduto, tanto più che lo stesso Diogene (IX 20) ci fornisce anche la notizia che è autore di circa 2000 epe su La Fondazione di Colofone e la Colonizzazione di Elea, le due città fondamentali nella sua biografia – questi epe probabilmente non sono da intendersi come esametri, bensì come distici elegiaci; si pensi alla Smirneide di Mimnermo, poemetto in distici elegiaci, di cui rimane un solo frammento, e che, a sua volta, viene messa in parallelo con la perduta Archeologia dei Sami di Semonide.
Ancora una notizia, anche in questo caso controversa, ci è fornita da Diogene circa la sua attività: “scrisse versi epici, elegie e giambi contro Esiodo e Omero, biasimando quanto avevano detto sugli dèi; e tuttavia (allà kai) anch’egli recitava da rapsodo (errhapsodei) i propri componimenti”. La figura del rapsodo è altamente professionale: si tratta infatti di cantori itineranti che recitano i poemi epici in veri e propri agoni, come ad Atene durante le Panatenee.
Stando allo Ione di Platone, oltre ai nomi di Omero e di Esiodo fra gli autori recitati dai rapsodi compare anche quello di Archiloco, dunque il nome di un poeta la cui produzione comprende elegie, trimetri giambici, tetrametri trocaici, epodi, forse mele corali, ma non poemi esametrici. Tuttavia l’ultimo frammento restituitoci da un papiro di Ossirinco ci documenta, e sorprendentemente, l’esistenza di un poema archilocheo elegiaco e narrativo di argomento mitico (si tratta del mito di Telefo, che non compare nell’Iliade e nell’Odissea, ma fa parte del ciclo epico), tale da spiegare la curiosa notizia platonica, nonché la successiva asserzione che tutti i poeti citati si occupano “degli stessi argomenti”.
Seguendo Diogene Laerzio, avremmo dunque notizia di un rapsodo che non solo recita l’epica tradizionale, ed è pertanto puramente ripetitivo, ma anche composizioni proprie. D’altro canto sappiamo che a Reggio, sempre in Magna Grecia, opera Teagene (negli anni di Cambise, re dal 529 al 522 a.C.), che sarebbe appunto un rapsodo, secondo quanto ritenne Wilamowitz, e ha autorevolmente sostenuto anche Rudolf Pfeiffer (altri ne parlano invece come di un grammaticus), il primo, per le fonti antiche (Porfirio e Taziano), che delinea un nucleo della biografia di Omero e soprattutto il primo che difende la sua poesia, a proposito degli dèi, giustificandola “allegoricamente” (lo scolio deriva da una fonte stoica, e per quanto concerne l’allegoria è lecito nutrire dubbi, ma circa la “difesa” di Omero sulla base di significati nascosti, possiamo ritenerla vera, visto che Platone riconosce l’esistenza di tale pratica nella Repubblica (II 378d). Se le antiche recite rapsodiche comprendono già quel “parlare su” Omero che Platone cita fra le abilità dei rapsodi, i quali ne conoscono “parole” e “pensiero”, non è improbabile che l’ambiente culturale della fine del VI secolo a.C. sia segnato da attacchi ad Omero (quali quelli di Senofane, appunto, oltre a quelli di filosofi come Eraclito) e speculari difese (da parte di un altro probabile rapsodo come Teagene o di filosofi come i sofisti), condotti dai primi esperti, dai primi “critici” in possesso di sequenze testuali ormai fissate. Ora, il verbo rhapsodeo è senza dubbio un indizio molto importante circa l’attività di Senofane, e certo nel VI secolo a.C. numerose sono le testimonianze che attestano un’ampia presenza di rapsodi, ma non è mancato chi ha semplicemente ritenuto che Diogene Laerzio volesse con tale verbo indicare nulla più che la recitazione orale in pubblico da parte di Senofane dei propri carmi, praticata come una vera professione per guadagnarsi da vivere, proprio come facevano i rapsodi.
I filosofi tendono per lo più a negare che Senofane fosse un rapsodo (così da ultimo, e recisamente, A. Long), mentre i filologi sono quasi concordi nell’affermarlo (fra gli altri, Bruno Gentili, con particolare forza). Il che non è privo di conseguenze per la valutazione dei suoi meriti, ora più spostati sul versante filosofico, ora su quello poetico, e soprattutto è rilevante per la spiegazione della sua scelta della poesia, piuttosto che della prosa, sia nella fase compositiva sia in quella divulgativa delle sue teorie filosofiche. Se è un rapsodo professionista, l’agonismo, quindi l’oralità della performance e della diffusione (opposta alla diffusione libraria, in absentia dell’autore), è probabilmente la chiave fondamentale per intendere tale scelta, un agonismo rivolto alla grande epica tradizionale, ma anche alla poesia lirica (elegiaca e destinata al simposio, più o meno allargato) e alla melica, con i suoi epinici in lode dei vincitori delle gare atletiche. Agonismo non solo inteso come partecipazione a vere e proprie gare, ma soprattutto come pratica dell’entrare in gara per il primato, superando predecessori e contemporanei, un atteggiamento che in Senofane appare particolarmente accentuato. Tanto che è l’autore e, molto probabilmente, l’inventore, di un nuovo genere, i Silli (l’etimologia del termine è incerta), poemetti esametrici satirici con qualche trimetro giambico, nei quali appunto egli mette in rilievo le pecche in particolare di Omero e di Esiodo.
I poemetti suscitano entusiastica ammirazione in un personaggio eclettico come Timone di Fliunte che con i suoi Silli riprende e dà fama al genere: adottando il consolidato espediente della catabasi, egli infatti sceglie Senofane come persona loquens che, parodiando Omero nella forma (cioè operando tecnicamente la detorsio Homeri praticata dai poeti parodici, detorsio che non è certa in Senofane), con un tono fra satira e invettiva, si occupa delle dispute tra i filosofi delle varie scuole.
Il fatto che il rapsodo sia figura itinerante, la cui opera si svolge presso le corti dei tiranni e presso le diverse comunità, e che componga quindi per occasioni private, ma anche su committenza pubblica, spiegherebbe anche la vasta gamma di una produzione tanto differenziata (e come tale considerata anche da Eraclito, come abbiamo accennato, al quale egli appare come rappresentante di una polymathia vana: “il suo mucchio di conoscenze non gli apportò intelligenza”, fr. 40).
Secondo Giulio Polluce (VI 46 590) e Stobeo (I 10), autori del II e del V secolo, scrive infine un Perì physeos, Sulla natura – lo stesso titolo attribuito all’opera in prosa di Anassimandro, a quella, sempre in prosa, di Anassimene, quindi ai poemi di Parmenide e di Empedocle; il titolo è comune del resto a non meno di 15 opere fra il VI secolo a.C. e l’età di Platone –, al quale forse appartengono sia le riflessioni fisiche sia quelle teologiche (frr. 23-46 Gent.- Pr.).
Alcuni frammenti, in particolare, sono importanti per delineare la poetica e il pensiero di Senofane. Nell’ambito della produzione elegiaca fondamentale è il fr. 1 Gent.Pr., un’elegia acefala, che consta di 24 versi, 12 dedicati all’apparato simposiale, 12 all’etica simposiale, nella quale la persona loquens assume il ruolo del simposiarca (dell’arbiter bibendi cioè, che stabilisce la proporzione fra vino e acqua, nonché la successione degli interventi, e che propone anche il tema della riunione come Fedro, definito “padre del discorso” nel Simposio di Platone).
Per quanto concerne l’apparato simposiale, si veda alla voce Simposio, ma qui varrà la pena di sottolineare l’ambiguità che anche in questo caso, come altrove, caratterizza gli studi su Senofane: l’esclusione delle lotte dei Titani e dei Giganti (narrate da Esiodo nella Teogonia), ma anche della Centauromachia (esempio negativo già per Omero, Od. 21, 295-304) e quella delle rivolte civili, possono configurarsi come esclusione di una tematica inadeguata all’occasione, vale a dire tale da turbare l’atmosfera serena del simposio – non più che una sorta di galateo simposiale, o almeno all’origine, di un topos presente anche in Anacreonte (fr. 56 Gent.) e in Bacchilide (Ep. 14, 12 ss.) –, oppure come critica, reale o funzionale, rivolta a generi poetici diversi da quello elegiaco, o più seriamente come rifiuto di un modo di intendere il mito e la figura degli dèi, e infine come sentita esaltazione della pace. A questo ultimo aspetto sembrerebbe puntare la norma che invita a non cantare le lotte interne alla città, esortazione che è stata invece interpretata da alcuni studiosi come un’aperta sconfessione di canti quali quelli di Alceo, sempre simpotici, ma ben diversi: al lirico eolico appartengono infatti componimenti che delineano un simposio “bellico”, lontano dal simposio “ideale” di Senofane, che si configura come un simposio di pace e di pietas nei confronti degli dèi, di celebrazione di atti giusti, di tensione alla virtù. La citazione di Titani, Giganti e Centauri, d’altro canto, che sembrerebbe con chiarezza alludere all’esclusione dell’epica in quanto genere poetico, a favore dell’elegia, è stata anche intesa come un precedente alla censura del mito da parte di Platone, alla sua critica alla rappresentazione negativa degli dèi (come ha sostenuto G. Cerri). Nonostante ciò, non si può però dimenticare un componimento lirico come l’Encomio a Policrate di Ibico, con praeteritio iniziale della guerra di Troia e dei suoi eroi, nell’ambito della quale figurano il nome di un eroe bellissimo e la menzione della flotta, con l’evidente intenzione di alludere alla bellezza di Policrate (che Ibico dichiarerà poi di voler cantare, secondo uno dei topoi classici dell’encomio) e alla sua grande e famosa flotta.
È sintomatico che anche in questo caso gli studiosi abbiano pensato ad un vero e proprio rifiuto della produzione epico-lirica, abbandonata definitivamente a favore di quella amorosa, invece che a un espediente retorico, di genere, e molto elaborato, messo in atto per fare risaltare le caratteristiche dell’oggetto della lode. Analogamente, anche nel caso di Senofane l’epica potrebbe essere citata nei suoi aspetti più tumultuosi, e “rifiutata” in nome della specifica occasione, un simposio che richiede appunto una particolare elegia, serena, equilibrata e rispettosa degli dèi. Né mi sembra da sottovalutare, infine, l’ipotesi di D. Babut, il quale ritiene che tali temi vadano tralasciati, secondo Senofane, in quanto ne comportent rien d’utile per la città (Xénophane critique des poètes, “Antiquité class”. 43, 1977, p. 100). Con Senofane siamo all’origine di una lunghissima storia che porterà, a Roma, alle numerose recusationes del poema epico, rappresentato proprio dal mito dei Titani e dei Giganti, ad opera di una generazione che opta per l’elegia e per la lirica, ed è di fatto uscita da devastanti guerre civili, come Orazio (Carm. II 12,7); Properzio (II 1, 19s.); Ovidio (Am. II 1,11s.) o l’autore del Culex (26ss.).
Ora, quello che caratterizza l’elegia senofanea è senz’altro il fatto che le lotte citate vengano definite “invenzioni degli antichi” (anche per Solone, fr. 25 Gent.-Pr., gli aedi dicono “molte cose false”), e che il poeta dunque rivendichi sia la verità sia la novità della propria opera. Il terreno è arduo, ben più di quanto possa apparire, poiché parlare in tal modo dei miti cosmologici significa entrare in aperta rotta di collisione con i grandi poeti tradizionali, e sul punto più significativo e fondante: anche Omero ed Esiodo proclamano di dire la verità, ma sempre attraverso le Muse. Nell’Iliade le Muse sono dee, onnipresenti e onniscienti, e grazie a loro il poeta, che non sa nulla, può attingere alla sua memoria mitica, quindi essere detentore di un lungo catalogo veritiero (II 484-493); nell’Odissea Demodoco può affrontare, su richiesta, l’episodio del canto del cavallo di legno, recuperandolo sempre dalla memoria mitica, e insieme per ispirazione (nei poemi epici vale sempre la “doppia motivazione”, umana e divina), come se fosse stato presente o glielo avessero raccontato (VIII 491-499); dal proemio della Teogonia, infine, per quanto le interpretazioni divergano, è evidente che alle Muse appartiene la verità, il che consente loro anche di mentire, a differenza di quanto avviene agli uomini, non in grado di giungere alla verità a meno che non siano, come Esiodo, ispirati dalle dee.
Dal fr. 2 di Senofane, ancora una elegia, ricaviamo una forte critica all’atletismo, in nome della propria “sapienza”, della propria abilità poetica e superiorità intellettuale: a chi vince le gare toccano tutti gli onori, anche quello di essere nutrito a spese dello stato (come non pensare al Socrate dell’Apologia platonica? Anche nell’episodio cumano della Vita Homeri pseudo-erodotea Omero chiede di essere mantenuto demosie, “a spese pubbliche”, cosa che gli viene rifiutata), ma l’onore è individuale; alla forza è dunque preferibile la sapienza, o meglio una “buona sapienza”, che è l’unica cosa dalla quale la città possa ricavare il buongoverno (l’eunomia), quindi la prosperità economica (cfr. Esiodo, Opere 225-237). Ma Senofane attacca anche la metempsicosi dei pitagorici nel fr. 6 (Pitagora avrebbe riconosciuto dalla voce di un cagnolino l’anima dell’amico defunto), il cui verso di apertura è particolarmente interessante: “E ora passerò a un altro discorso, indicherò la via” (cfr. Esiodo, Opere 106). Da tale verso parrebbe lecito dedurre che il suo “sistema” compositivo consisteva in una organizzazione per sezioni di tipo didattico.
Ai Silli (denominati anche Parodie, genericamente, dai testimoni), vengono fatti risalire numerosi frammenti (alcuni dalle fonti, altri dai filologi). L’opera presenta un interesse particolare, innanzitutto per la forma metrica, una mistione di ritmo dattilico e giambico caratteristica delle parodie (di alcuni epodi archilochei, dell’Eiresione, ma anche del Margite, che qualche studioso ha attribuito proprio a Senofane), ma soprattutto per le critiche ad Omero e ad Esiodo, in particolare nella sezione che va dal fr. 14 al fr. 20, a proposito dell’antropomorfismo e della rappresentazione degli dèi come di esseri immorali (sulla stessa linea, almeno in apparenza, che condurrà Platone nella Repubblica a criticare i miti dell’epica). Di particolare interesse, come sottolinea Long, la tendenza alla “parodia beffarda di un argomento serio”: nel fr. 15, Senofane fa rilevare come gli animali, se avessero dèi, li rappresenterebbero a loro immagine e somiglianza, così come nel fr. 16 ricorda che le divinità degli Etiopi hanno la faccia nera e il naso camuso, e quelle dei Traci occhi celesti e capelli rossi.
Al di là delle critiche al politeismo e all’antropomorfismo, Senofane però propone anche una teologia almeno apparentemente (data la scarsità dei frammenti e la deformazione alla quale vengono sottoposti dalle fonti) di grande rilievo, e tale certamente valutata da Jonathan Barnes (The Presocratic Philosophers, I, 1979): parla “di un dio unico, sommo nel mondo divino e umano, dissimile dall’uomo in forma e in pensiero”, un dio che “con il pensiero puro tutto scuote, assolutamente immobile” (frr. 26-29).
Ancora a Barnes si deve soprattutto la rivalutazione delle teorie di Senofane sulla conoscenza umana, dalle quali gli deriva la reputazione di essere all’origine dello scetticismo, da un lato, dall’altro di porsi come capostipite della teoria del progresso. Le considerazioni sul suo scetticismo nascono probabilmente dall’esegesi del solo fr. 35, il cui senso è per la verità molto controverso, ed è invece ricostruito da Barnes come prologo di un poema che si aprirebbe con l’asserzione che nessun uomo “ha conosciuto” (iden), né vi sarà “qualcuno che conosca” (estai eidos) la sicura verità su “certe cose”, cose che saranno da limitare a quelle divine e di scienza naturale di cui egli va parlando.
Condivisibile la debolezza della conoscenza umana nei due ambiti indicati, non per quanto concerne tutti i possibili soggetti, ma anche la traduzione del verbo eidenai come “conoscere”, non come “vedere” (altri hanno infatti inteso nell’impossibilità di “vedere” una considerazione sulla totale fallacia dei sensi umani), sia per i validi motivi che lo studioso individua, vale a dire il significato del verbo alla fine del VI secolo e la contrapposizione con dokos, “opinione”, nel v. 4 (ouk oide, dokos de), sia alla luce dei già citati versi 484 ss. del II libro dell’Iliade, dove lo stesso verbo è ugualmente impiegato due volte: “Ditemi ora, o Muse, voi che siete dee, siete ovunque, e tutto sapete (iste) mentre noi udiamo solo la fama e nulla sappiamo (idmen)”. Anche il “dire ciò che è stato portato a compimento” (tetelesmenon), unico eventuale successo dell’uomo (v. 3), il quale tuttavia anche in quel caso non sarebbe in possesso della conoscenza, sembra riprendere, correggendoli, gli orgogliosi proclami iliadici: “questo ti dico, e questo si compirà (tetelesmenon estai)”, espressione formulare ad indicare in qualche caso la potenza divina, ma anche una conoscenza sicura, la “verità” di ciò che viene asserito da parte di un eroe. L’epilogo del poema, dal quale trae conferma alla propria ipotesi interpretativa, sarebbe costituito per Barnes dal fr. 36, un solo verso che, proprio perché conclusivo, indicherebbe come opinione e verosimiglianza, non conoscenza e verità, “segnino la meta del viaggio cognitivo dell’uomo”.
Senofane si occupa infine di cosmologia (terra e acqua costituiscono per lui le radici di tutto ciò che vive) e di meteorologia: famoso è il fr. 33 sull’arcobaleno, “che chiamano Iride”, una sorta di passaggio dal mito alla descrizione del fenomeno fisico, in chiave comunque “poetica”: una “nube cupa, e rossa e verde a vedersi” (cfr. Il. XVII 547- 551 “come quando Zeus distende un cupo arcobaleno [...] così Atena avvolta in una nube cupa” ecc.). Anche in questo caso, Barnes enfatizza il significato del verbo idesthai, spostandolo da “vedere” a “osservare”, e nel frammento ravvisa non solo la testimonianza che i sensi sono legittima fonte di conoscenza, ma anche una sorta di incoraggiamento rivolto all’uditorio, affinché “impieghi le sue capacità di osservazione per imparare di più sul mondo che lo circonda”.
Senofane
Distici elegiaci, Fr. 1 Gent.-Pr. e Fr. 2 Gent.-Pr. Fr. 1 Gent.-Pr.
Ora, dunque, è pulito il pavimento e le mani di tutti
e le coppe; uno pone sul capo corone intrecciate,
un altro porge unguento profumato;
il cratere si erge pieno di letizia;
pronto è altro vino, che promette di non prosciugarsi mai,
dolce, nelle anfore, profumato di fiori;
al centro della sala l’incenso effonde il profumo sacro,
l’acqua è fredda, e dolce, e pura;
accanto sono allineati pani biondi e la tavola rituale è
carica di formaggio e di miele denso;
l’altare, al centro, è tutto infiorato.
Canto, danza e festa risuonano tutt’attorno al santuario.
Bisogna anzitutto che uomini dall’animo lieto celebrino il dio
con parole devote e discorsi puri,
libando e pregando di potere compiere
atti giusti – questo è infatti più agevole –,
non violenze, e bere quanto ti consenta di tornare
a casa senza un servo, se non sei molto vecchio;
e bisogna lodare l’uomo che bevendo rivela nobili pensieri,
secondo la sua memoria e la tensione alla virtù,
non raccontare battaglie né di Titani né di Giganti
né di Centauri, invenzioni degli antichi,
o contese violente, tutti racconti che non hanno nulla in sé di utile alla vita civile,
ma bisogna sempre avere un nobile rispetto degli dèi.
Fr. 2 Gent.-Pr.
Ma se uno raggiungesse la vittoria per la velocità dei piedi
o gareggiando nel pentathlon, là dove è il recinto sacro di Zeus
presso le correnti del Pisa, a Olimpia, o nella lotta,
o anche praticando la dolorosa arte del pugilato,
o quella terribile gara che chiamano pancrazio,
allo sguardo dei cittadini sarebbe più glorioso,
e otterrebbe il diritto di sedere in prima fila, ben evidente, agli spettacoli,
e gli verrebbe concesso di venire nutrito a pubbliche spese
dalla città, e otterrebbe un dono, un cimelio per lui;
se anche vincesse nelle gare equestri, otterrebbe tutti questi vantaggi
non essendone degno come lo sono io: superiore alla forza,
di uomini o di cavalli, è la nostra sapienza.
Ma questa valutazione avviene del tutto al caso, e non è giusto
anteporre la forza alla buona sapienza.
Nè infatti se fra il popolo ci fosse uno valente nel pugilato,
o nel pentathlon o nella lotta,
e nemmeno nella velocità dei piedi, specialità particolarmente onorata
fra le prove di forza che si svolgono negli agoni,
non per questo la città avrebbe un buon governo:
alla città deriverebbe una ben misera gioia,
se uno vincesse gareggiando presso le rive del Pisa.
Queste cose non impinguano infatti le casse della città.
Senofane
Silli, Fr. 15 Gent. Pr. Ogni cosa hanno attribuito agli dèi Omero ed Esiodo,
tutto quanto è motivo di vergogna e di biasimo per gli uomini,
rubare, commettere adulterio, ingannarsi reciprocamente.