sensibili comuni
comuni D. allude alla dottrina dei s. comuni nei due passi di Cv III IX 6 e IV VIII 6, e in Pg XXIX 46-48. Il primo testo del Convivio espone, con notevole chiarezza, tale concezione gnoseologica, secondo la linea comune della tradizione peripatetica e scolastica: Dove è da sapere che, propriamente, è visibile lo colore e la luce, sì come Aristotile vuole nel secondo de l'Anima, e nel libro del Senso e Sensato. Ben è altra cosa visibile, ma non propriamente, però che [anche] altro senso sente quello, sì che non si può dire che sia propriamente visibile, né propriamente tangibile; sì come è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo stare fermo, che sensibili [comuni] si chiamano: le quali cose con più sensi comprendiamo. Ma lo colore e la luce sono propriamente; perché solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso (l'integrazione [comuni] è proposta da E. Moore, Studies in D., I 146). Ma anche il secondo passo (che muove dal testo di Eth. Nic. I 8, 1098b 28, 9) conferma la precedente dottrina: Dico adunque che quando lo Filosofo dice: " Quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso ", non intende dicere del parere dì fuori, cioè sensuale, ma di quello di dentro, cioè razionale; con ciò sia cosa che 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato. I versi del Purgatorio riecheggiano, in breve, gli stessi temi: ma quand'i' fui sì presso di lor fatto, / che l'obietto comun, che 'l senso inganna, / non perdea per distanza alcun suo atto...
Le fonti alle quali D. si riferisce sono indicate - si è visto - chiaramente in Cv III IX 6; e si tratta, appunto, del De Anima (II 6, 418a 10 ss.) e del De Sensu et sensato (1, 437a 5-9) di Aristotele, i cui testi, nelle versioni medievali, suonano rispettivamente così: " Duorum autem [per se sensibilium] aliud quidem proprium est uniuscuiusque sensus, aliud autem commune omnium. Dico autem proprium quidem quod non contingit altero sensu sentiri et circa quod non contingit errare, ut visus coloris, et auditus soni et gustus saporis... Communia autem sunt motus, quies, numerus, figura, magnitudo: huiusmodi enim nullius sensus sunt propria, sed communia omnibus. Tactu enim motus aliquis sensibilis et visu; per se igitur sunt sensibilia haec " (An. II lect. XII c. 6; ma in particolare, per il riferimento dantesco, cfr. anche An. II 7 418a 26 ss. [II lect. XIV c. 7]: " Visibile enim est color: hic autem est de quo visibile per se praedicatur, secundum se autem, non rationem, sed quoniam in seipso habet causam essendi visibile. Omnis enim color motivus est eius quod secundum actum est, diaphani, et haec est ipsius natura: unde nihil est visibile sine lumine, sed omnino unusquisque color per lumen visibilis est "); " Omnia corpora colore partecipant. Quare et communia magis per hunc sentiuntur. Dico autem communia magnitudinem, motum, quietem, figuram, numerum " (Sensu et sens. lect. II). Aristotele intende dunque affermare che ciascun senso esterno percepisce alcune specie particolari di s. (" sensibilia propria ") ed è capace di cogliere le loro qualità peculiari; ma che esistono però talune ‛ percezioni comuni ' a più sensi (" κοινὴ αἴσθησις ") riferibili a quei dati s., come la ‛ figura ', ‛ grandezza ', ‛ movimento ', ‛ quiete ', ‛ numero ', ‛ unità ', che sono oggetto contemporaneamente di diverse potenze sensitive. Perciò, mentre i sensi esterni, quando non siano intrinsecamente viziati e si trovino nelle condizioni richieste non sono mai soggetti a errore nella conoscenza dei s. propri, possono essere invece ingannati nella loro percezione dei s. comuni, suscettibili di diverse deformazioni (e cfr. An. III 1, 424b 22 ss.).
Quest'accezione del concetto di " κοινὴ αἴσθησις " è, in ogni caso, del tutto distinta dall'altro significato che lo stesso concetto ha assunto in alcuni interpreti aristotelici che lo hanno usato per designare il ‛ senso unico ' (" sensus communis "), capace di giudicare e riconoscere le differenze intercorrenti tra i s. eterogenei (ad es. il ‛ dolce ' e il ‛ freddo ') percepiti da sensi diversi; né tanto meno indica una potenza specifica sensitiva, diversa e distinta dagli altri sensi (e cfr. An. III 2, 427a 12). Tale distinzione non fu però sempre chiaramente percepita dai commentatori ellenistici, bizantini e medievali che chiosarono questi testi (cfr. in particolare: AVERROÈ An. II IV 5; Alb. Magno An. II III 5; Tomm. An. II lect. XIII, nn. 384-385; III lect. III, n. 609; Sensu et sens. lect. II, nn. 28 ss.; Sum. theol. I 78 4 ad 2). Ma occorre osservare che s. Tommaso distingue chiaramente il ‛ senso comune ', come facoltà capace di percepire tutte le operazioni dei sensi e, addirittura, la stessa unità della coscienza sensitiva, dalla funzione limitata e specifica della ‛ percezione comune '.
Bibl. - E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 146; III, ibid. 1917, 338; F. D'Ovidio, Studi sulla D.C., Palermo 1901, 453; B. Nardi, D. e la cultura medioevale, Bari 1949², 172-173. Ma cfr. anche Busnelli-Vandelli, e, per le discussioni intorno al concetto di ‛ senso comune ' negl'interpreti soprattutto medievali di Aristotele: C. Fabro, Percezione e pensiero, Milano 1941 (Brescia 1962²), 60-83.