Senso dell'ordine e dominio del mondo nell'arte flavia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alla dinastia Flavia sono legati alcuni tra i monumenti di Roma antica più conosciuti, come l’Arco di Tito e il Colosseo, elementi di una complessa ridefinizione dell’immagine dell’Urbe come centro di riferimento e luogo di rappresentazione ideale dell’impero universale; e al suo ultimo esponente, Domiziano, si deve la realizzazione del complesso residenziale sul Palatino, un punto fermo nella storia dell’architettura romana, in cui si attua la codificazione del modello del palazzo dinastico.
Al termine del turbolento periodo contrassegnato dal suicidio di Nerone (nel 68) e dai violenti scontri che accompagnano il rapido succedersi dei “tre imperatori”, Galba, Otone e Vitellio, ad assicurarsi il potere su Roma e sull’impero è un oscuro militare sessantenne, già governatore della Giudea: Tito Flavio Vespasiano. Nativo di Falacrinae presso Rieti, in Sabina, Vespasiano è un homo novus, di origini umili, come non mancano di rilevare gli scrittori antichi (ad esempio Svetonio, Vespasiano, 1); non fa parte dell’aristocrazia senatoria dell’Urbe, e non può vantare, al contrario degli imperatori della dinastia giulio-claudia, antenati illustri (come Giulio Cesare), mitici (come Enea), se non addirittura divini, come Venere Genitrice; e infine, non ha neppure un grande carisma personale, quello, per intendersi, che ha consentito ad Augusto di trasformare senza scosse l’agonizzante repubblica in una monarchia. Ma il nuovo imperatore può rappresentare, soprattutto per la plebe e per l’esercito, una garanzia di ritorno all’ordine e alla normalità dopo le follie neroniane, che hanno semidistrutto Roma e condotto lo stato sull’orlo della bancarotta, e dopo la violenza della guerra civile; e significativamente, infatti, saranno proprio Vespasiano e i suoi successori, i figli Tito (imperatore dal 79 all’81), e Domiziano (imperatore dall’81 al 96), ad avviare una ristrutturazione amministrativa dell’impero che rafforzerà le strutture di governo, garantendo i presupposti di quell’epoca aurea che gli scrittori successivi individueranno nel periodo che da Nerva (imperatore dal 96 al 98) giunge fino a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180).
La propaganda di Vespasiano punta proprio su questa sua “normalità”, sulla sua probità, sulla sua (proverbiale) parsimonia, sull’idea che il bene comune debba essere anteposto all’interesse personale, principi e virtù ben rappresentati dall’immagine che di sé offre il nuovo imperatore, mostrandosi alla gente comune come “uno di loro”: il celebre ritratto che lo mostra come un vecchio contadino dall’aspetto plebeo, rugoso, calvo e sdentato, che richiama alla mente la descrizione di Svetonio (“Fu di corporatura tarchiata, di membra compatte e robuste, con il viso disposto come di chi si sforzi”, Vespasiano, 20), ma che rivela anche una volontà ferrea e una notevole ambizione nel contrarsi della fronte e nell’acutezza dello sguardo. Di Vespasiano si conoscono anche altri ritratti, che ne restituiscono un’immagine più idealizzata e giovanile, più vicina ai canoni della ritrattistica imperiale giulio-claudia; ma, come assicura il confronto con le emissioni monetali, è l’immagine realistica che il princeps preferisce dare di sé, volutamente opposta all’asettico, frigido idealismo dei ritratti di Augusto e dei suoi successori. Tendenze realistiche caratterizzano anche i ritratti dei successori di Vespasiano, il grasso Tito e lo sgraziato Domiziano, dei quali si enfatizza la somiglianza al padre a giustificare la successione al trono con la stabilizzazione della dinastia (e dunque dell’impero); il realismo dei tratti è tuttavia addolcito da un’inclinazione al lusso e all’eleganza che si esprime soprattutto nelle sapienti acconciature, ricciolini artificiali e complicati riporti che nascondono la precoce calvizie che affligge Domiziano.
Sono però i ritratti dei membri femminili della gens Flavia (basti ricordare la moglie di Domiziano, Domizia Longina, e la sua amante, la nipote Giulia, figlia di Tito) a rappresentare al meglio questo gusto per il lusso, che è poi in quest’epoca il gusto dominante dei ceti abbienti di Roma e delle province: le acconciature di queste raffinate dame sono vere e proprie torri di riccioli, realizzate almeno in parte con posticci se non con vere e proprie parrucche; creazioni di parrucchieri alla moda, che richiedono denaro e lunghe ore di posa, espressioni di una vita di corte dispendiosa e frivola, con buona pace della parsimonia e dell’operosità cui Vespasiano aveva inteso ispirare la propria azione di governo.
Quando Vespasiano assume il potere, Roma mostra le stimmate dei dolorosi avvenimenti degli ultimi anni: ampie aree della città ma anche edifici venerandi (come il tempio di Giove Capitolino) recano ancora i danni dell’incendio neroniano del 64 e del nuovo rogo che aveva arso il Campidoglio durante gli scontri del 69; mentre giganteggiano sfacciatamente le imponenti, lussuose, costosissime strutture, non ancora completate, della Domus Aurea, per la cui realizzazione Nerone aveva privatizzato un’area di circa 80 ettari in pieno centro urbano, sufficiente, a suo avviso, a consentirgli di vivere “come si conviene ad un uomo” (Svetonio, Nerone, 31).
La prima preoccupazione di Vespasiano è dunque quella di dare avvio ad un ampio programma edilizio (che comporta anche una significativa politica occupazionale per la plebe di Roma), che da un lato si concentri nel restauro degli edifici danneggiati (soprattutto dei templi), e dall’altro liberi l’area della Domus Aurea dall’invasiva presenza neroniana, restituendo all’uso pubblico ciò che il tiranno si era egoisticamente riservato per il proprio privato godimento. L’insistita, demagogica contrapposizione tra Vespasiano e il “tiranno” Nerone ispira l’accenno che Plinio il Vecchio (che di Vespasiano, e poi del figlio Tito, è un fedelissimo funzionario) fa a proposito del Templum Pacis (Storia Naturale, XXXIV, 84), nel quale l’imperatore flavio offre alla fruzione pubblica quei capolavori artistici che Nerone aveva razziato in Grecia e in Asia Minore per decorarne gli ambienti della propria dimora: la Vacca di Mirone e i gruppi bronzei dei donari di Pergamo, e poi sculture di Policleto, Fidia, Leocare, e quadri di Protogene e di Nicomaco.
Nel Tempio della Pace, di cui scavi recenti hanno restituito un’immagine piuttosto definita, queste opere d’arte sono collocate nell’ampio giardino piantato a rose e ricco, forse, anche di piante officinali, scandito da canali con acqua corrente (euripi) e circondato su tre lati da un porticato con colonne in granito rosa di Assuan, sul quale a sud si apre l’aula di culto di Pax: una struttura, dunque, che sembra in qualche modo ispirata a quelle, come i Saepta o le Terme di Agrippa, che erano sorte in età augustea per concedere alla plebe di Roma piaceri élitari e costosi, quali le passeggiate in parchi ombrosi e freschi, popolati di statue famose. Ma il Tempio della Pace è ben più di questo: costruito, sull’area già occupata dal macellum (“mercato”) di età repubblicana tra il 71 e il 75 con il bottino della repressione della rivolta giudaica e della presa di Gerusalemme, di quella vittoria custodisce celebri simboli, le trombe d’argento e il candelabro a sette bracci del Tempio di Gerusalemme, ed è dedicato a quella pace che Vespasiano ha saputo assicurare a Roma sul fronte esterno ma anche su quello interno, con la conclusione delle guerre civili; e si configura, altresì, come un monumento-simbolo della centralità di Roma, ormai pacificata, nell’impero e del suo dominio sul mondo, custodendo, fissata sulla parete di un ambiente laterale probabilmente destinato a sede della Prefectura Urbis, la grandiosa pianta marmorea della città, di cui si conservano i frammenti (preziosissime testimonianze per la ricostruzione della topografia dell’Urbe) del rifacimento di età severiana, la cosiddetta Forma Urbis.
Il programma di restituzione alla città degli spazi della Domus Aurea verrà portato avanti da Tito, con l’apertura sull’Esquilino di un sontuoso impianto termale (del quale non resta nulla, eccezion fatta per una pianta realizzata da Andrea Palladio intorno al 1540) che, vista la rapidità di costruzione, è probabilmente da interpretare come un riadattamento delle stesse terme private della residenza neroniana; ma, soprattutto, con il completamento di quel monumento, già progettato da Vespasiano, che di Roma, da secoli, è l’emblema più noto e più amato nel mondo: l’Anfiteatro Flavio, cui il familiare appellativo Colosseo deriva non dalle pur notevoli dimensioni, bensì dalla vicinanza con il Colosso di Nerone, la statua in bronzo alta 35 metri (la più grande, dunque, di cui si abbia notizia) realizzata per l’ultimo imperatore giulio-claudio da un artista greco, Zenodoro, e poi trasformata da Vespasiano in una statua di Helios (il sole divinizzato) tramite la rilavorazione della maschera facciale e l’aggiunta di una corona radiata. Gli edifici da spettacolo costituiscono a Roma luoghi importanti per la manipolazione del consenso popolare, come avevano già ben capito Pompeo Magno, Giulio Cesare e Augusto, e la costruzione del Colosseo, incastonato nella valle tra Palatino, Esquilino e Celio, sul luogo già occupato dallo stagno artificiale al centro della Domus Aurea, è una eloquente espressione della politica demagogica dei Flavi, tesa alla soddisfazione delle esigenze della plebe. L’erezione del grandioso edificio (alto circa 50 m per un diametro massimo dell’ellissi di 188 m) comporta anche la ridefinizione di tutta l’area circostante, che diventa un enorme complesso legato agli spettacoli, comprensivo di quattro caserme (tra cui il Ludus Magnus) per l’allenamento e l’alloggiamento dei gladiatori, un armamentarium per custodire le armi utilizzate dai combattenti e un summum choragium per la costruzione dei macchinari di scena utilizzati durante i giochi. L’anfiteatro rappresenta una sintesi perfetta tra grandiosità della struttura e armonia delle forme, tra eleganza e semplicità, esempio sommo della perizia edificatoria e delle notevoli capacità tecniche che caratterizzano l’architettura di età flavia: l’anello esterno è suddiviso in quattro piani sovrapposti, dei quali i primi tre sono scanditi ritmicamente da arcate inquadrate da semicolonne (di ordine tuscanico al primo piano, ionico al secondo, corinzio al terzo), mentre l’ultimo, chiuso, presenta una serie di lesene corinzie, tra le quali si aprono finestre. Le arcate a pianterreno danno accesso alle gradinate che conducono alla cavea, che può accogliere tra i 50 mila e i 75 mila spettatori, rigidamente separati nei cinque ordini di posti a seconda della loro posizione sociale come a dare una rappresentazione visibile della composizione rigorosamente classista della società romana; al centro della cavea, l’arena è coperta da un tavolato di legno, al di sotto del quale si snoda un labirinto di corridoi e di ambienti di servizio necessari alla custodia degli animali feroci, delle armi e dei macchinari indispensabili allo svolgimento delle venationes (cacce agli animali selvatici) e dei munera (combattimenti tra gladiatori). L’inaugurazione solenne del monumento avviene sotto Tito, nell’80, con festeggiamenti che si protraggono per 100 giorni e comportano il massacro di circa 5000 fiere; ma sarà solo il suo successore, Domiziano, a portare a termine il monumento, completando l’attico, ornato di scudi dorati, e apportando notevoli cambiamenti, soprattutto nei settori sotterranei.
Al Colosseo Domiziano affianca altri edifici destinati al tempo libero, dotando Roma di uno stadio (la cui pista è occupata, come è noto, da piazza Navona, straordinario esempio di continuità urbanistica tra evo antico ed età moderna) per lo svolgimento di giochi atletici, e di un Odeion destinato ad accogliere gare musicali: con queste strutture, sorte per ospitare le competizioni dei ludi Capitolini istituiti da Domiziano nell’86 ad imitazione degli agoni dei santuari panellenici, si perfeziona la destinazione ricreativa e ludica del settore meridionale del Campo Marzio, inaugurata da Pompeo nel 55 a.C. con il grande teatro marmoreo che porta il suo nome. Il regno di Domiziano è caratterizzato da una attività edilizia addirittura frenetica, che lascia le proprie tracce pressoché in tutti i quartieri dell’Urbe, e che comporta, come durante il regno di Vepasiano, sia restauri di edifici già esistenti (nell’80 Roma è colpita da un nuovo, violentissimo incendio, che distrugge il Campidoglio e il Campo Marzio, interessando ampiamente anche altre zone della città) che la realizzazione di nuovi complessi monumentali.
Ma i progetti domizianei per Roma sono assai più ambiziosi di quelli del padre e del fratello: progetti tesi ad inserire nel tessuto urbano monumenti destinati a celebrare sia la gens Flavia da cui il princeps discende che le sue personali imprese, e pensati per conferire alla città una nuova immagine urbana, rappresentativa delle tendenze autocratiche assunte dal principato. Domiziano tende a dare di sé un’immagine ispirata ai valori tradizionali del cittadino romano, quali la virtus militare, ma anche la pietas religiosa: durante il suo regno, l’edilizia sacra ha a Roma una nuova fioritura, in particolare per la realizzazione di templi dedicati a divinità con cui il princeps ostenta un rapporto particolarmente privilegiato. È Minerva la dea che Domiziano riconosce come propria protettrice, e alla quale riserva un culto addirittura superstizioso (Svetonio, Domiziano, 15); e a questa dea è dedicato il tempio che chiude a nord-est la stretta piazza del Foro Transitorio, realizzato da Domiziano e certamente già funzionante nel 95, ma inaugurato solo nel 97 da Nerva: un complesso che si pone a cerniera tra il Templum Pacis di Vespasiano e i fori di Cesare e di Augusto, a ribadire la legittimità del passaggio dei poteri dai Giulio-Claudi ai Flavi, che come i primi sanno assicurare a Roma ordine e magnificenza.
Le dimensioni ridotte dello spazio a disposizione (120x45 m) impongono la ricerca di soluzioni architettoniche innovative, che troveranno ampio sviluppo nell’architettura del II secolo, come la sostituzione del canonico porticato intorno alla piazza con un colonnato corinzio addossato al muro di fondo, e ad esso connesso tramite tratti di architrave: ne restano in piedi due colonne (note come “le colonnacce”) con un tratto del fregio scolpito a bassorilievo con scene di lavori femminili, filatura e tessitura, sottoposti alla protezione della dea (nella sua epiclesi di Ergane, “industriosa”), della quale compare un’immagine a rilievo sull’attico sovrastante; è probabile che le sezioni dell’attico in aggetto sopra le colonne recassero originariamente immagini delle nationes assoggettate da Roma, ad enfatizzare l’altro carattere di Atena-Minerva, quello guerresco. Il ricco colorismo dell’insieme, vivacizzato dal deciso contrasto chiaroscurale imposto dal dinamismo del fronte colonnato, doveva essere accentuato dalla policromia e dall’uso di inserti in bronzo dorato che è possibile restituire alla partitura decorativa. Domiziano inserisce nel tessuto urbano anche edifici destinati al culto dinastico, che arrivano ad imporsi con prepotenza fin nel teatro delle istituzioni repubblicane, il Foro Romano: è qui, ai piedi del Tabularium, che l’imperatore fa realizzare il tempio dedicato a Vespasiano divinizzato, che eloquentemente fronteggia quello del Divo Giulio posto sul lato est della piazza.
Funzione sia cultuale e celebrativa che sepolcrale è da attribuire al Templum Gentis Flaviae, che le fonti letterarie ci dicono costruito sui resti della casa natale dello stesso Domiziano; per lungo tempo localizzato sul Quirinale (dove probabilmente sorgeva la casa dello zio Tito Flavio Sabino, ritenuto luogo di nascita del princeps) è probabilmente da identificare piuttosto negli imponenti resti di strutture di età domizianea messe in luce nell’area delle Terme di Diocleziano, che comprendono tratti di un vasto portico con esedre quadrangolari e semicircolari alternate; da quest’area provengono sia una testa ritratto colossale di Tito, oggi conservata presso il Museo Archeologico di Napoli, che numerosi frammenti di rilievo (i cosiddetti e celebri rilievi Hartwig, dal nome del collezionista che li aveva acquistati agli inizi del XX secolo), probabilmente pertinenti ad un altare monumentale o ad un arco di ingresso di questo complesso dinastico, che costituisce il mausoleo dei membri della gens Flavia. Domiziano ha un debole per gli archi onorari, e ne fa realizzare un tale numero nell’Urbe da provocare le ironie e le proteste (prudentemente anonime) dei romani: e gli archi domizianei sembrano essere stati bersaglio prediletto delle devastazioni che seguono la damnatio memoriae decretata dal senato dopo l’uccisione di Domiziano, tanto che di essi restano solo numerosi frammenti di rilievi a carattere celebrativo e le immagini presenti nella decorazione a rilievo del noto sepolcro degli Haterii, scoperto nei pressi di Centocelle e riconducibile ad un Q. Haterius Tychicus, imprenditore edile che evidentemente aveva lavorato per Domiziano (nella stessa tomba compare anche un’interessante rappresentazione del Colosseo, ancora privo dell’attico ma con le arcate del secondo e del terzo piano ornate da sculture a tutto tondo).
Unico superstite degli archi domizianei è il celebre Arco di Tito alle pendici del Palatino, evidentemente risparmiato dalle devastazioni perché la semplice iscrizione dedicatoria riporta solo il nome di Tito divinizzato, il che ne consente la datazione a dopo l’81, data della sua consecratio; l’apoteosi dell’imperatore defunto è il soggetto del rilievo che compare nel cervello della volta, e che lo mostra a cavallo di un’aquila. Sul lato orientale dell’arco si conserva un tratto del fregio ad altissimo rilievo che descrive il trionfo di Vespasiano e Tito del 71 a seguito della presa di Gerusalemme, mentre nell’interno del fornice i due grandi pannelli focalizzano due momenti della medesima processione: quello settentrionale mostra, preceduto dalla dea Roma e dai littori con i fasci, Tito sulla quadriga trionfale, coronato dalla Vittoria e seguito dai geni del Senato e del Popolo Romano, quello meridionale si concentra sul corteo che attraversa la Porta Triumphalis, recando su portantine le prede del bottino sottratto a Gerusalemme, tra cui spiccano il candelabro a sette bracci e le trombe d’argento del Tempio di Salomone.
In questi pannelli, di grandissima importanza per la comprensione del rilievo storico romano nella sua fase di piena maturità, emerge un linguaggio stilistico nuovo e audace, che nel variato rilievo delle figure, nella complessa sovrapposizione di piani, nella rappresentazione prospettica della porta manifesta una concezione dello spazio e del movimento di notevole effetto illusionistico. In uno stile più compassato e tradizionale, erede del classicimo augusteo, sono scolpiti i due noti rilievi rinvenuti nel 1939 sotto il palazzo della Cancelleria apostolica, il primo dei quali (rilievo “A”) rappresenta l’adventus (cioè il ritorno) di Vespasiano a Roma dopo la guerra giudaica e il suo incontro con il giovane Domiziano, mentre il secondo raffigura una profectio (una partenza per un’impresa militare) o forse un adventus di Domiziano stesso, il cui volto è stato in un secondo momento rilavorato per assumere le fattezze di Nerva, evidentemente in previsione del reimpiego dei rilievi in un nuovo monumento. I leitmotiv della propaganda per immagini di età flavia, la continuità dinastica e la virtus militare dell’imperatore, sono trattati con un gusto solenne ed enfatico, che accosta ai personaggi reali personificazioni come quelle del Senato e del Popolo Romano, che salutano Domiziano, e divinità, come la sua protettrice Minerva e Marte che lo accompagnano, mentre la dea Roma lo sospinge per il braccio (verso la vittoria?).
Numerose le ipotesi che sono state proposte circa il monumento di cui i rilievi facevano originariamente parte; è possibile, vista anche la solennità dell’insieme, che si tratti della porta trionfale, fatta probabilmente erigere da Domiziano a seguito della sua vittoria sui Catti nell’83. Il trionfo sui Catti e sui Daci, celebrato nell’89, offre all’ambizioso imperatore l’occasione per realizzare il suo monumento forse più provocatorio ed offensivo nei confronti delle tradizioni della politica romana: l’Equus Domitiani celebrato da Stazio nella prima delle sue Silvae, il gigantesco monumento equestre in bronzo, collocato nel bel mezzo del Foro repubblicano, e del quale restano soltanto una riproduzione su moneta e le tracce del basamento, che consentono di attribuirgli dimensioni davvero imponenti (un’altezza di almeno 11 metri per circa 10 di lunghezza). L’imperatore era raffigurato con una statua di Minerva sulla mano sinistra, mentre la destra era tesa in avanti, in gesto di pacificazione; il suo cavallo schiacciava con lo zoccolo la testa del Reno, simbolo delle popolazioni vinte, e il plinto della statua doveva recare una magniloquente iscrizione in distici elegiaci, ricostruibile sulla base delle citazioni di umanisti (tra cui quella, importantissima, di Francesco Petrarca nel De remediis utruisque Fortunae, I, CXIII), con la quale il princeps, parlando in prima persona, esaltava le proprie imprese.
Un monumento degno di un dominus et deus, come Domiziano vuole essere chiamato, così come degna di un dio è la straordinaria residenza che l’imperatore si fa realizzare sul Palatino, affidandola alle cure dell’architetto Rabirio, forse responsabile anche di altri edifici domizianei, tra cui il Foro Transitorio. La dimora, destinata a rimanere (pur con ampliamenti e rimaneggiamenti) residenza urbana degli imperatori fino alla fine dell’età imperiale, costituisce la codificazione del modello del palazzo dinastico, con un settore di rappresentanza (la cosiddetta Domus Flavia) e un settore destinato ad abitazione privata (la Domus Augustana). È ancora notevole l’effetto che sul visitatore moderno esercitano la varietà e il gigantismo delle strutture conservate, disposte su più livelli e circondate di ampi giardini (tra cui il cosiddetto stadio, cui è possibile attribuire anche le funzioni di un ippodromo privato), ornati di grandi fontane di forma complessa (celebre quella ottagonale in forma di labirinto al centro dell’immenso peristilio rettangolare della Domus Flavia), e certo in antico abbelliti da un ricco arredo scultoreo. Pochi, purtroppo, sono gli elementi che consentono di farsi un’idea del lusso e della magnificenza originari degli interni, dei sontuosi rivestimenti marmorei e dell’arredo scultoreo delle stanze private, delle grandi sale destinate ad ospitare banchetti per centinaia di invitati, come la Coenatio Iovis di cui parlano le fonti, e degli ambienti di ricevimento. Uno di questi è sicuramente riconoscibile in una imponente sala absidata aperta sul peristilio della Domus Flavia, e nota come Aula Regia, delimitata da pareti con nicchie mistilinee, all’interno delle quali sono state rinvenute, nel XVIII secolo, colossali statue di divinità in marmi colorati: qui l’imperatore doveva ricevere le salutationes dei sudditi, certo seduto in trono al centro dell’abside, in una scenografica e suggestiva epifania accuratamente predisposta per enfatizzare la maestà di Domiziano, dominus et deus.