senso
Il termine in D. designa innanzi tutto la facoltà sensitiva, mediante la quale l'uomo coglie il mondo esterno; di conseguenza designa i singoli s.; indica anche, più generalmente, ‛ la capacità di comprendere ' e quella di orientarsi moralmente (con riferimento alle facoltà superiori dell'uomo). In rapporto all'esegesi di un testo, s. indica il " significato " o l'" interpretazione " di esso. In due luoghi (Cv III IX 6 e 10) il termine è usato a indicare l'opera di Aristotele Del Senso e del Sensato.
1. Secondo Aristotele, la facoltà o potenza (v.) sensitiva è la seconda nell'anima umana, posta com'è tra la vegetativa, a essa inferiore, e la ragione, che è la più alta facoltà dell'uomo. Alla potenza sensitiva è connessa quella del muoversi, però che ogni anima che sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove (Cv III II 11). La vegetativa, il s. e la ragione sono facoltà dell'anima-forma del corpo; poiché ‛ proprio ' dell'anima umana e più alta perfezione o ‛ nobiltà ' di essa è l'attività razionale, l'uomo dev'essere denominato da questa, e non dalla vegetativa o dalla sensitiva (è da sapere che le cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de la loro forma; sì come l'uomo da la ragione e non dal senso né d'altro che sia meno nobile, II VII 3). Vegetativa e sensitiva, legate a organi corporei, appartengono a esseri forniti di corpo; le Intelligenze separate non hanno corpo: perciò in II VI 1, dei movitori del cielo di Venere D. dice che non hanno senso. Il termine s. (greco αἴσθησις) designa, in questi contesti, la vita sensibile nel suo complesso.
Lo stesso uso è in If XXVI 115 (il termine è al plurale), nel discorso di Ulisse ai compagni di viaggio: a questa tanto picciola vigilia / d'i nostri sensi ch'è del rimanente / non vogliate negar l'esperïenza / ... del mondo sanza gente; Benvenuto costruisce " vigilia ch'è del rimanente dei nostri sensi " e glossa: " id est, vestrae vitae "; il Buti mette in luce il rapporto s.-vigilia e interpreta " a questo sì poco di vita: imperò che quando viviamo vegghiamo i nostri sentimenti ". Particolare attenzione merita l'occorrenza di Rime CIII 31 per tema non traluca / lo mio penser di fuor sì che si scopra, / ch'io non fo de la morte, che ogni senso / co li denti d'Amor già mi manduca; / ciò è che 'l pensier bruca / la lor vertù sì che n'allenta l'opra; gli ultimi due versi forniscono l'interpretazione dell'immagine contenuta nei versi precedenti ma sono variamente intesi: per il Pernicone la vertù è quella dei s. (" voglio dire che il pensiero amoroso corrode [bruca] in ciascun senso la sua specifica facoltà [vertù] in modo che la loro [dei ‛ sensi '] operazione ne risulti menomata "), ma il Contini ha: " Poiché, in altre parole, la potenza dei denti d'Amore logora pian piano l'intelletto... sì da invalidarne l'operazione "; allo stesso modo intende il Mattalia, per il quale la lor vertù sta per " la forza dei denti d'Amore " che corrode il pensiero tanto da menomarne l'attività.
Secondo D., la totalità della vita umana dipende dall'interrelazione del s. e della ragione (così, a indicare la personificazione di cose inanimate a opera dei poeti, si dice che questi parlano a esse come se avessero senso e ragione, Vn XXV 8); ma in genere l'autore sottolinea il primato dell'attività della ragione dell'uomo. Vivendo secondo ragione, infatti, l'uomo vive secondo la sua specifica natura, giacché nell'attività razionale si esplica in sommo grado la sua essenza; quando l'attività razionale è carente, o quando la ragione non è guida, si ha vita non conforme a ragione, e perciò non propriamente umana, ma piuttosto degna di bruti. Di qui la contrapposizione, che si carica di forte connotazione morale, tra ‛ vivere secondo s. ' e ‛ vivere secondo ragione ', dove il primo membro esclude il secondo (Cv I IV 3 La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli, e III XIII 4 grandissima parte de li uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e quelli che secondo lo senso vivono di questa [la Filosofia] innamorare è impossibile), alla quale corre parallela l'altra ‛ giudicare secondo s. ' - ‛ giudicare secondo ragione ' (I IV 4 lo imperfetto giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente; cfr. VE I VI 3 Nos... rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus; v. anche GIUDIZIO).
Con riferimento ai singoli s., il termine è usato in Pg X 59, dove i due mie' sensi sono l'udito e la vista, in contrasto tra loro di fronte alla rappresentazione in rilievo sul marmo (nella prima cornice) del corteo che accompagna l'arca, diviso in sette cori raffigurati nell'atto di cantare; l'udito non coglie i suoni, ma l'occhio è portato ad assentire a causa della vivezza della scena; in XXXII 3 gli occhi di D., attratti dalla visione di Beatrice che torna al poeta dopo dieci anni, monopolizzano l'attenzione al punto che li altri sensi sono come spenti, incapaci di cogliere i loro specifici oggetti; in If XI 11 il termine designa l'odorato.
È dottrina aristotelica (Anima II 6, 418a 17-20) che ogni s. abbia un oggetto (sensibile) proprio, e che vi siano oggetti che possono essere ‛ sentiti ' da più s. (sensibili comuni); cfr. Cv III IX 6 Ben è altra cosa visibile, ma non propriamente, però che [anche] altro senso sente quello, sì che non si può dire che sia propriamente visibile, né propriamente tangibile; sì come è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo stare fermo, che sensibili [comuni] si chiamano: le quali cose con più sensi comprendiamo. Ma lo colore e la luce sono propriamente; perché solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso. Ciascun s. non sbaglia nel cogliere il proprio oggetto, mentre può facilmente intervenire l'errore quando la facoltà sensitiva coglie il sensibile comune (cfr. Arist. Anima II 6, 418a 11-12 e 17-20): Cv IV VIII 6 con ciò sia cosa che 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato, e Pg XXIX 47 l'obietto comun, che 'l senso inganna. In generale, in If XXXI 26 Virgilio invita D. a tener conto che 'l senso s'inganna di lontano (in un contesto in cui il riferimento specifico è al s. della vista), per cui s'impone la necessità di un controllo sulle sensazioni (cfr. v. 25 Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, se giungerai là, constaterai, ecc.).
Ma, precisati così i limiti della validità della conoscenza sensibile, D. afferma, seguendo l'insegnamento di Aristotele, che la nostra conoscenza comincia dalla sensazione (Cv II IV 17 Poi che non avendo di loro [cioè, delle sostanze separate] alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza); al s. si alimenta la facoltà razionale, ma anche la fantasia (v.) o immaginativa (v.), a eccezione dei casi in cui questa riceve immagini per ispirazione dall'alto (Pg XVII 16 chi muove te [immaginativa] se 'l senso non ti porge?). Per tutto ciò al s. si riconosce valore primario e insostituibile quando ci si riferisca all'esperienza sensibile (cfr. Quaestio 8 minor [scil. videtur patere] per sensum, e 21 sunt... haec principia inventa sensu et inductione); sul s., infine, si fonda l'opinione o, in negativo, l'opinione che sia contraddetta dal s. è falsa opinione (Quaestio 11 e 82 Omnis oppinio quae contradicit sensui est mala oppino; D. rinvia ad Averroè Com. Anima III, ma cfr. Com. Phys. VIII 65 " omnis opinio cui contradicit sensus non est bona opinio ").
Di qui l'affermazione di Pd II 54 e 56 " S'elli erra / l'oppinion ", mi disse, " d'i mortali / dove chiave di senso non diserra, / certo non ti dovrien punger li strali / d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi / vedi che la ragione ha corte l'ali... ": se la facoltà di opinare, cioè l'intelletto, erra quando il s. non fornisce conoscenze certe, non ti dovresti meravigliare, giacché di per sé la ragione non va molto lontano ‛ anche ' quando segue le indicazioni dei s., o, meglio, quando segue ‛ solo ' le indicazioni dei s.; cfr. infatti Cv II IV 17, citato, e III 2 prima dirò del cielo, poi dirò di loro a cu'io parlo. E avvegna che quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano, quel cotanto che l'umana ragione ne vede ha più dilettazione che 'l molto e 'l certo de le cose de le quali si giudica [secondo lo senso], secondo la sentenza del Filosofo in quello de li Animali: cfr. Arist. Part. animal. I 5, 644b 23-33 " Sed partem illam aeternam, et proinde nobilem ac divinam, minus contemplari propterea possumus, quod admodum pauca illius modo sensui patent, quorum beneficio, tum de ea ipsa parte divina, tum de iis quae nosse cupimus, facultas nobis cogitandi indignandique suppeditetur... Res... illas superiores, tametsi leviter attingere possumus, tamen ob eius cognoscendi generis eccellentiam amplius oblectamur, quam cum haec nobis iuncta omnia tenemus ".
Il poeta afferma, nei due citati luoghi del Convivio e nel passo del Paradiso, che il sensibile non esaurisce l'ambito di ciò che è conoscibile da parte dell'uomo, e che la sensazione ha il valore di principio della conoscenza in quanto la conoscenza stessa comincia con la sensazione, ma non si esaurisce nella sensazione; all'uomo infatti D. attribuisce la capacità di partecipare alla sapienza (v.) divina, e ciò lo rende capace di tendere oltre le esperienze conoscitive di questa vita, per raggiungere una piena realizzazione, per quanto proporzionata alle possibilità di ciascuno, nell'esperienza oltremondana della conoscenza del sommo vero.
2. In Cv II XII 6 sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo poeta volgere da quella, la locuzione ‛ s. di vero ' sta per la ‛ capacità o facoltà di percepire la verità '; questa capacità mirava la Donna gentile o Filosofia con tale intensità che il poeta riusciva a fatica a distoglierla dalla considerazione di essa. L'uso di s. in quest'accezione è nella Volgata; cfr. Alano di Lilla Distinctiones dictionum theologicarum (Patrol. Lat. CCX 941b): " Sensus proprie dicitur intellectus, unde Luc. [24, 45] ‛ Aperuit illis sensum, ut intelligerent Scripturas ' ".
Nell'opera di D., in altre due occorrenze, in citazione diretta o indiretta dalla Bibbia, s. sta per " mente " intesa come ‛ capacità di orientarsi moralmente ': Ep V 29 Non igitur ambuletis sicut et gentes ambulant in vanitate sensus (da Paul. Ephes. 4, 17-18 " Hoc igitur dico... ut iam non ambuletis, sicut et Gentes ambulant in vanitate sensus [τοῦ νοός] sui, tenebris obscuratum habentes intellectum ") ed Ep VII 28 Nam saepe quis in reprobum sensum traditur, ut traditus faciat ea quae non conveniunt (cfr. Paul. Rom. 1, 28 " tradidit illos Deus in reprobum sensum [νοῦν]: ut faciant ea, quae non conveniunt ").
Il termine sensus dei due passi biblici era in genere interpretato nel Medioevo come denotante la facoltà sensitiva; ma nei commenti medievali non mancano indicazioni che permettono d'intendere che in questi luoghi s. designa un orientamento morale, che coinvolge tutto l'uomo (comprese le sue facoltà superiori). Per Ephes. 4, 17-18, cfr. Pietro Lombardo (Patrol. Lat. CXCII 203 C): " quia transitoria amant: quae sensualitas suggerit "; per Rom. 1, 28, cfr. Abelardo Comm. Rom. I (ediz. Buytaert, Turnholt 1969, 73): " hoc est ita penitus excaecari permisit, ut omnino impudentes effecti, nulla penitus honestatis signa in se ostenderent de qua tamen multa conscripserant " (ma è da vedere il commento a Rom. 12, 2 [ibid. IV, p. 277]: " sed reformamini, hoc est studete reparare ac renovare humanae rationis sensum, peccatis iamdudum obtenebrati "), e Pietro Lombardo (Patrol. Lat. CXCI 1335 b): " scilicet ut nihil intelligant nisi quod a probitate remotum est, quos sua caecitas a veritatis lumine funditus excludit ".
3. In un gruppo rilevante di occorrenze, s. ha il valore di " significato " di un termine o di una proposizione, e designa quindi anche l' " interpretazione " del termine o della proposizione (secondo una tradizione fissata da testi molto noti nel Medioevo, come il Doctr. christ. di Agostino [IV 19]: " Sapienter autem dicit homo tanto magis vel minus, quanto in scripturis sanctis magis minusve proficit, non dico in eis multum legendis memoriaeque mandandis, sed bene intelligendis et diligenter earum sensibus indagandis ", e il Comm. in Donatum di Servio [ediz. Keil, in Grammatici latini IV, Lipsia 1864, 418]: " Coniunctiones... copulativae dicuntur eo, quod et verba et sensum copulant, ut si qui dicat ‛ ego et tu eamus '. Nam in hac elocutione et verba coniuncta sunt et sensus: utrumque enim iturum significat "). Così in If III 12 Maestro, il senso lor m'è duro, ci si riferisce al " significato " delle parole scolpite sulla porta della città di Dite; in Mn II IX 20 Videant nunc iuristae praesumptuosi... et sileant secundum sensum legis consilium et iudicium exhibere contenti, dar consiglio e giudicare secondo il s. della legge vale attenersi a una corretta " interpretazione " della legge che miri a cogliere l'intenzione del legislatore; in VE II XII si ad eorum sensum subtiliter intrare velimus, s. sta per il " sentimento " dei poeti che hanno cominciato tragedie con verso settenario, o per " ciò che essi hanno voluto propriamente significare "; in Mn II X 4 Inferunt... se contradictoria invicem a contrario sensu, il termine designa il valore di verità di una proposizione, mentre la locuzione ‛ s. contrario ' indica il valore opposto ottenuto preponendo la negazione; quando una proposizione inferisce un'altra, dalla negazione di quest'ultima si può inferire il contraddittorio della prima.
In Mn III IV 13 (Quod... ille sensus omnino sustineri non possit), IX 2 (ad hoc dicendum per interemptionem sensus in quo fundant argumentum) e 18 (referenda sunt ad sensum illius gladii), il termine ha il valore di " interpretazione " di due passi della Scrittura (si tratta di Gen. 1, 16 [relativo al sole e alla luna] nel cap. IV, e di Luc. 22, 38 [le due spade] nel cap. IX). In entrambi i casi D. usa locuzioni (illa duo luminaria typice importare, IV 12; si verba illa Cristi et Petri typice sunt accipienda, IX 18) che fanno riferimento all'interpretazione ‛ figurata ' della Scrittura: poiché " Typus proprie dicitur figura " (Alano di Lilla op. cit. 984b), typice vale ‛ figuraliter '. ‛ Figura ' è detta una realtà che sta in luogo di un'altra; in genere l'interpretazione figurata è proposta per il Vecchio Testamento in quanto si ritiene che le persone e gli eventi di cui in esso si parla sono ‛ tipi ' e ' figure ' che anticipano e significano persone ed eventi del Nuovo Testamento; si può perciò intendere nei luoghi danteschi che i due astri, sole e luna (cfr. anche al riguardo B. Smalley, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, traduz. ital. Bologna 1972, 363-365) e le due spade sono due ' figure' che simboleggiano e significano, anticipandole, le due somme autorità del mondo cristiano, il Papato e l'Impero; in altre parole, le ' figure ' della Scrittura significano e anticipano le due guide della società cristiana, di modo che all'interno di un unico ordine, che è quello della storia della salvezza, i simboli scritturali e gl'istituti storici significati sono momenti diversi ma correlati; cfr. anche Mn III VII 2 per la distinzione lictera-sensus.
Più interessante risulta però il discorso nel Convivio e nell'epistola XIII, dov'è ripresa la dottrina tradizionale dell'esegesi biblica nel tentativo di adattarla alle interpretazioni delle composizioni poetiche di D. (canzoni e Commedia). Secondo l'esegesi biblica medievale, la Scrittura va letta a un duplice livello: uno mirante a fissare il s. ‛ letterale ' e ‛ storico ' del testo, e un altro che opera sul s. previamente fissato, per ricavarne ‛ significati ' e ‛ insegnamenti ' spirituali o mistici; questi ultimi poi si articolano in allegoria (v.), s. morale o tropologico, e s. anagogico; cfr. Ep XIII 20 Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus; § 21 si ad litteram solam inspiciamus... si ad allegoriam... si ad moralem sensum... si ad anagogicum; Cv II I 2-6 le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale [...L'altro si chiama allegorico]... Lo terzo senso si chiama morale... Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria.
L'impostazione matura del metodo interpretativo della Scrittura secondo i quattro s. si può leggere in Niccolò di Lira Prolegomena alla Glossa ordinaria (Patrol. Lat. CXIII 28 C-D): " Habet... hic liber [la Bibbia] hoc speciale quod una littera continet plures sensus. Cuius ratio est quia principalis huius libri autor est ipse Deus: in cuius potestate est non solum uti vocibus ad aliquid significandum (quod etiam homines facere possunt et faciunt), sed etiam rebus significatis per vocem utimur ad significandum alias res: et ideo commune est omnibus libris, quod voces aliquid significent, sed speciale est huic libro quod res significatae per voces aliud significent. Secundum igitur primam significationem, quae est per voces, accipitur sensus litteralis seu historicus: secundum vero aliam significationem, quae est per ipsas res, accipitur sensus mysticus, seu spiritualis, qui est triplex in generali; quia si res significatae per voces referantur ad significandum ea quae sunt in nova lege credenda, sic accipitur sensus allegoricus; si autem referantur ad significandum ea quae per nos sunt agenda, sic est sensus moralis vel tropologicus; si autem referantur ad significandum ea quae sunt speranda in beatitudine futura, sic est sensus anagogicus "; per tutto ciò cfr. A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950, 372-400, e H. de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l'Êcriture, I I, Parigi 1959, 24-169.
In Mn III IV 6 D. mette in guardia circa gli errori nei quali si può incorrere nella ricerca del s. mistico (circa sensum misticum dupliciter errare contingit: aut quaerendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quatti accipi debeat); altrove sottolinea l'importanza della corretta interpretazione del s. letterale (litterale sentenza o senso de la lettera, in Cv III XII 1) al fine di non svuotare di ogni valore la susseguente operazione mirante a enucleare gli altri sensi (II I 14).
Tutti i s. mistici o spirituali possono esser detti allegorici secondo D. (Ep XIII 22 Et quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi); ma il poeta sa che l'allegoria è intesa diversamente dai poeti, che la nascondono sotto le favole di cui sono tessuti i loro scritti, e altrimenti dai teologi, per i quali essa è solo uno dei tre s. in cui si articola il s. spirituale, e decide di attenersi all'uso dei poeti nell'esposizione delle sue composizioni (cfr. Cv II I 4 Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato); alla stessa esigenza va ricondotto il proposito di D. di limitarsi all'illustrazione dei s. letterale e allegorico delle canzoni del Convivio (§ 15 sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosta veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente; a questi due s. forse ci si riferisce in VI 2 secondo l'uno senso [il letterale] e l'altro [l'allegorico], lo ‛ core ' si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de l'anima e del corpo, mentre gli alterni sensus di Ep XIII 23 sono certamente la lettera e l'allegoria). Sulla difficoltà di adattare i quattro s. della Scrittura all'interpretazione dei testi poetici di D., cfr. B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944, 55-61, e G. Padoan, La " mirabile visione " di D., in Atti del Convegno di Studi su D. e Roma, Firenze 1965, 283-314.