sentenza
La sentenza è un enunciato in forma concisa, il cui contenuto ha un valore generale che non necessita di passaggi probatori. La sentenza appartiene al dominio delle figure retoriche di pensiero (➔ retorica), e specificamente a quello dei loci communes con i quali si dà fondamento all’argomentazione (Laus-berg (1966-1968): § 872).
Nella retorica classica la definizione della figura, come di quasi tutte le figure di pensiero, muove da un dato identificativo di ordine semantico e non propriamente formale: «un pensiero infinito, formulato in una frase», secondo Lausberg, che fa seguire alcune precisazioni (§ 873) relative al suo riferirsi a cose o persone, alla portata universale dei suoi contenuti – come in Quintiliano (Inst. or. VIII, 5, 3) che cita Cicerone:
(1) Nihil est tam populare quam bonitas
«Nulla è tanto popolare quanto la bontà» (Pro Q. Ligario)
ed eventualmente al suo orientamento etico:
(2) Omnes bene vivendi rationes in virtute sunt collocandae
«Tutte le regole del buon vivere devono essere improntate alla virtù» (Rhetorica ad Herennium IV, 17, 24)
Lausberg (1969: § 398) così sintetizza le proprietà semantiche della sentenza: «norma riconosciuta della conoscenza del mondo e rilevante per la condotta di vita o [...] norma di vita stessa». Cui si può aggiungere, con Fontanier (1827: 386), che semanticamente la sentenza deve staccare nettamente dal contesto «per il suo carattere generale o per il suo oggetto particolare». È solo in virtù di questa soluzione di continuità che essa diviene contestualmente identificabile.
La mancanza di tratti distintivi di carattere formale di questa figura implica una certa sfocatura dei suoi confini. In essa pertanto sono confluiti procedimenti e strutture di varia natura: «Sentenza può essere considerato un termine generico per più varietà specifiche» (Mortara Garavelli 1988: 249). Vi si possono annoverare:
(a) la massima, enunciazione che assume un carattere assoluto e onnivalente (Beccaria 1989: ad vocem «sentenza»);
(b) il motto «o detto, da qualificare secondo le diverse specie: arguto, proverbiale, memorabile ecc.» (Mortara Garavelli 1988: 249); in particolare, il Witz o motto arguto, che sovverte la linearità di senso del contesto nella forma della battuta estemporanea (Beccaria 1989); esso cerca spesso l’effetto del paradosso, come nel seguente esempio di Karl Kraus sul tema della brevità:
(3) Ci sono certi scrittori che riescono a esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe (Detti e contraddetti, Milano, Adelphi, 1992, p. 136)
(c) l’aforisma, «sentenza dotata di capacità definitoria [...] che contiene in una sola proposizione o in una composizione brevissima giudizi e riflessioni morali, resoconti di esperienze, asserzioni riguardanti un sapere specifico» (Mortara Garavelli 1988: 250).
Proprio la semantica della sentenza, tendente all’autosufficienza in quanto puntata apoditticamente su verità universali, è la condizione della sua autonoma fruibilità, e del suo conseguente costituirsi come genere letterario fin dall’antichità: da Marco Aurelio ai Ricordi di ➔ F. Guicciardini, alle Maximes di F. de La Rochefoucauld, fino a J.W. Goethe, L. Wittgenstein, T. Adorno e allo stesso Kraus.
Dal punto di vista formale è possibile caratterizzare la sentenza con un ridotto insieme di tratti:
(a) la brevità, condizione perché la sentenza procuri la delectatio (Lausberg 1966-1968: § 875): il «dire molto con poco» comporta che si instauri «un rapporto in absentia del detto con ciò che è sottinteso» (Beccaria 1989). Tale condensazione è la condizione dell’efficacia della sentenza. Il seguente aforisma di Kraus, per es., istituisce implicitamente l’equivalenza molestatori = assassini, e allude all’impossibilità di difendersi dai secondi:
(4) Molti desiderano assassinarmi. Molti desiderano fare un’oretta di chiacchiere con me. Dai primi mi difende la legge (Kraus, Detti e contraddetti, cit., p. 100)
(b) le sue varie forme enunciative, che si articolano nelle seguenti sottospecie:
(i) forma assertiva:
(5) Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria
(Dante, Inf. V, 121-123)
(6) Il sonno è veramente qual uom dice
parente della morte
(Petrarca, Canz. CCXXVI, 9-10)
(ii) forma interrogativa:
(7) Quale amore più grande che dare la vita per i propri amici? (cit. in Mortara Garavelli 1988: 249)
(iii) forma esclamativa:
(8) Oh, Austerità, quanti peccati si commisero in tuo nome!
(Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, Milano, Adelphi, 1987, p. 8);
(9) O umane speranze cieche e false!
(Petrarca, Trionfo della morte I, 129);
(10) Ahi, nulla altro che pianto, al mondo dura!
(Petrarca, Canz. CCCXXIII, 72)
(iv) forma esortativa:
(11) A nemico che fugge, ponti d’oro
(cit. in Mortara Garavelli 1988: 249).
(12) Studisi ognun giovare altrui; che rade
volte il ben far senza il suo premio fia
(Ludovico Ariosto, Orl. fur. XXIII, 1-2)
Quando la sentenza è collocata in posizione finale, tende a specializzarsi come ➔ epifonema (Lausberg 1966-1968: § 879):
(13) Nihil potest placere quod non decet
«Nulla può piacere che non sia conveniente» (Quintiliano, Inst. or. I, 11, 11)
In una forma meno scolpita, l’epifonema è esemplificato modernamente da Mortara Garavelli (1988: 250) nel seguente esempio di ➔ Carlo E. Gadda:
(14) Montale e Ungaretti (li cito in ordine alfabetico). Ciascuno dei due ha attinto dalla profondità del suo spirito quella nota che ci accompagna e consola nell’ora disperata (Gli anni)
Dal regesto delle sentenze petrarchesche di Vitale (1996: 410-411) desumiamo inoltre la tendenza della figura, specie nella sua forma epifonematica, a essere marcata da procedimenti retorici di vario genere. Menzioniamo:
(a) l’anafora:
(15) ché gran temenza gran desire affrena [fine periodo e fine della seconda quartina del sonetto] (Canz. CXLVII, 11)
(b) la repetitio:
(16) ché ben pò nulla chi non pò morire [ultimo verso del sonetto] (Canz. CLII, 14)
(c) l’antitesi (con allitterazione tra i suoi membri):
(17) Ira è breve furore, et chi no ’l frena
è furor lungo (Canz. CCXXXII, 13)
(d) la dittologia:
(18) Cosa bella mortal passa e non dura (Canz. CCXLVIII, 8)
(19) Veramente siam noi polvere et ombra (Canz. CCXLIX, 12)
In quanto verità posta apoditticamente, la sentenza tende a bastare a se stessa. Se tuttavia le si affianca una premessa che la motiva, o dalla quale essa deriva deduttivamente, la figura tende e diventare la conclusio dell’entimema. Tale posizione è il presupposto del suo costituirsi come epifonema (Lausberg 1966-1968: § 875). Viceversa, la sentenza può rappresentare la praemissa maior del sillogismo; e poiché l’entimema consiste perlopiù in un sillogismo di cui si tace la praemissa maior, «si trova un gran numero di sentenze nascoste nell’argomentazione» (Lausberg 1969: § 398).
Fontanier, Pierre (1827), Des figures du discours autres que les tropes, Paris, Maire-Nyon Les figures du discours (nuova ed. Les figures du discours, introduction de G. Genette, Paris, Flammarion, 1977).
Beccaria, Gian Luigi (dir.) (1989), Dizionario di linguistica, Torino, Einaudi.
Lausberg, Heinrich (1966-1968), Manual de retórica literaria. Fundamentos de una ciencia de la literatura, Madrid, Editorial Gredos, 3 voll. (ed. orig. Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, München, Max Hueber Verlag, 2 voll., 1960).
Lausberg, Heinrich (1969), Elementi di retorica, Bologna, il Mulino (ed. orig. Elemente der literarischen Rhetorik, München, Max Hueber Verlag, 1949).
Mortara Garavelli, Bice (1988), Manuale di retorica, Milano, Bompiani.
Vitale, Maurizio (1996), La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore.