sentimento
Rappresentazione cosciente di eventi emotivamente significativi, e quindi percezione, esperienza soggettiva delle emozioni. Nel pensiero antico il s. non viene riconosciuto come sfera autonoma e come categoria filosofica. La nozione di s. tende a identificarsi piuttosto con quella di emozione o di affetto (πάϑος), intesi come consapevolezza del piacere e del dolore, ossia del carattere piacevole o spiacevole di un evento rilevante per il benessere dell’individuo, i suoi motivi, i suoi scopi principali. Solo con l’analisi e la definizione della sfera della soggettività umana, inaugurate dal pensiero moderno, la nozione di s. comincia a precisarsi e ad acquistare una sua specificità concettuale quale categoria per ordinare e classificare le affezioni dell’anima (➔ affezione). Il s. viene così progressivamente riconosciuto come una delle dimensioni fondamentali della vita spirituale, come una delle facoltà o dei poteri dello spirito assieme alla conoscenza e alla volontà.
I presupposti concettuali del collegamento essenziale tra la categoria dei s. e la sfera della soggettività umana sono da ricercarsi nella dottrina cartesiana delle passioni, classificate come percezioni che non appartengono al corpo ma all’anima in quanto res cogitans, anche se sono suscitate in essa dal suo legame con il corpo, e rientrano quindi nell’esercizio della libertà e della razionalità. È soprattutto con Pascal, però, che il s. acquista un ruolo di primo piano come categoria dello spirito capace di cogliere intuitivamente gli stessi principi primi del ragionamento e di pervenire all’autentica fede religiosa: «Il cuore, e non la ragione sente Dio. Ecco cos’è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla ragione» (Pensieri, 278). Alla base di questa concezione vi è la distinzione tra la mera percezione empirica e l’intelletto, organo esclusivo dell’esprit de géométrie, da un lato, e il s. o «sentire del cuore», nel quale si esprime l’esprit de finesse, dall’altro. Successivamente, la fondazione della morale attraverso la categoria del s. sarà uno dei tratti distintivi della filosofia inglese del Settecento, in partic. dei cosiddetti sentimentalisti. Così, per Shaftesbury, le passioni, le intenzioni morali, le nostre stesse azioni si radicano nella vita emotiva dell’uomo, e solo in un secondo tempo vengono elaborate dalla ragione. Esse sono pertanto ‘s.’ rispetto a cui la ragione umana è solo uno strumento di realizzazione pratica. E il più importante di questi s. è il s. morale, un impulso che consente di distinguere in modo intuitivo e immediato il bene dal male e di operare le valutazioni morali. Basato sul senso dell’ordine e dell’armonia, il s. morale è considerato affine al s. estetico. Dal canto suo Hutcheson postula l’esistenza di un senso morale superiore e indipendente da tutti gli altri s., cui attribuisce i caratteri di una facoltà primitiva dell’uomo, di una determinazione della sua natura. Analogamente, Rousseau postula l’esistenza di un s. naturale concepito come istinto, tendenza originaria che porta l’uomo al bene. Sul primato del s. sulla ragione quale principio esplicativo della vita morale insisterà Hume, il quale parte dal presupposto che l’agire umano, pur non estraneo al raziocinio, è sostanzialmente governato dalla dimensione istintuale e affettiva. Il fondamento dell’etica, secondo Hume, va rintracciato non nella ragione, ma nel s., nella fattispecie nel s. morale, che consiste nella propensione propria della natura umana a provare un senso di compiacimento il fronte ad azioni virtuose e disapprovazione di fronte ad azioni malvagie. Anche nella sfera estetica, oltre che in quella morale, il s. assume per Hume un ruolo centrale. Nessun argomento di ordine razionale, egli afferma, ci consente di stabilire ciò che è bello e ciò che è brutto. La bellezza è un prodotto del gusto, e cioè di un complesso di s. di natura soggettiva. L’origine del bello è collegata a un insieme di operazioni attraverso cui il nostro spirito proietta certi s. sulle impressioni del mondo circostante ascrivendoli alle impressioni stesse e trasfigurandoli nella forma di una qualità propria della cosa. L’aspetto intersoggettivo rintracciabile nel gusto è dato dallo stato normale dei nostri organi di senso, che, fornendo un complesso di percezioni comuni agli uomini, consente di individuare parametri estetici intersoggettivi tali per cui il gusto personale dei singoli risulta regolato da norme di carattere generale. L’idea che il s. possa favorire conoscenze o norme morali è esclusa invece da Kant, il quale ammette quale unico s. morale il rispetto, di sé o degli altri, che accompagna l’osservanza della legge morale, ma che è un effetto, e non un movente, di tale osservanza. E tuttavia Kant è stato il primo filosofo ad aver introdotto esplicitamente la categoria del s. come facoltà autonoma dello spirito accanto a quelle tradizionali della ragione e della volontà. «Tutti i poteri o le facoltà dell’anima possono essere ricondotte a tre, che non si lasciano ulteriormente ridurre a un principio comune: il potere conoscitivo, il s. del piacere o del dolore e il potere di desiderare» (Critica del giudizio, 1790, Intr., III). Il s. del piacere o del dolore viene inserito in posizione intermedia tra intelletto e ragione, e viene definito come il lato irriducibilmente soggettivo di ogni rappresentazione che, come tale, «non può costituire assolutamente una rappresentazione di un oggetto». Tuttavia, in quanto facoltà autonoma, il s. è alla base di una classe particolare del giudizio, ossia il giudizio riflettente, che muove dal s. di piacere e dispiacere connesso a una rappresentazione. Il giudizio riflettente riguarda pertanto il campo estetico, relativo al bello e al sublime, e il giudizio teleologico, che considera i fenomeni naturali dal punto di vita della loro finalità interna.
L’idea kantiana del s. come facoltà autonoma verrà ripresa e sviluppata dalla filosofia romantica, in cui il s. diventa intuizione originaria dell’infinito, e quindi l’organo proprio dell’arte e della religione. Così Schleiermacher interpreta l’esperienza religiosa come rivelazione individuale dell’infinito nell’uomo, come s. cosmico dell’unità panteistica del tutto. In quanto intuizione spirituale, il s. è svincolato da ogni legge, soprattutto nell’artista e nel genio (Schelling). L’esaltazione del s. come componente decisiva rispetto alla conoscenza e all’azione si ritrova anche in correnti estranee al Romanticismo, per es., nel positivismo dell’ultimo Comte, che individua nel s. sociale la facoltà fondamentale che può permettere la creazione di una società compiutamente organica. Contro la metafisica romantica del s. polemizzerà invece Hegel, che, pur assumendo il s. come una delle determinazioni dello spirito oggettivo, gli attribuisce la forma di una «particolarità accidentale». Lo spirito trova nel s. la sua «forma intima e peggiore, nella quale egli non è come libero, come universalità infinita, ma il suo contenuto gli è piuttosto come accidentale, soggettivo, particolare» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, 1816-17, 447). Se a partire dalla fine dell’Ottocento la definizione, la classificazione e l’analisi dei s. diventano in misura crescente dominio dei differenti indirizzi della psicologia, specializzatasi come disciplina autonoma, un approccio schiettamente filosofico al tema del s. viene riproposto da Scheler. Partendo dalla prospettiva intenzionalista della filosofia fenomenologica (Brentano), secondo cui i s. sono fenomeni intenzionali, cioè modalità della relazione soggetto-oggetto e percezioni di significati, Scheler opera una distinzione tra stati emotivi, puramente fenomenici, privi di carattere intenzionale in quanto non si riferiscono a un loro proprio oggetto, e i s., cui pertiene invece l’intenzionalità. I s. per Scheler consistono nelle reazioni dell’Io a tali stati emotivi, e si riferiscono immediatamente a un loro oggetto specifico, i valori, di natura assoluta e irriducibili alle realtà percepite o conosciute. Egli distingue quattro specie di valori corrispondenti a quattro gradi del s. (sensibilità, s. psichici, s. spirituali). Una concezione analoga si ritrova in N. Hartmann, il quale considera il s. come sede primaria della datità dei valori e lo pone a fondamento della sua etica. Depurato da ogni psicologismo e interpretato in termini di «situazione affettiva» (Befindlichkeit), infine, il s. assume un ruolo importante nella filosofia esistenzialistica di Heidegger, per il quale esso è radicato nella struttura ontologica dell’esistenza umana. La situazione affettiva fondamentale è per Heidegger l’angoscia, che apre «la continua e radicale minaccia che viene dall’essere più proprio dell’uomo», ossia la minaccia della morte.