Daney, Serge
Critico cinematografico francese, nato a Parigi il 4 giugno 1944 e morto ivi il 12 giugno 1992. È stato uno degli esponenti di maggior rilievo della riflessione critica successiva al periodo della Nouvelle vague cui ha dato un contributo rilevante con le sue intuizioni folgoranti, anche se a volte assai personali e metodologicamente eterogenee.
Visse un'infanzia segnata dall'assenza della figura paterna e fu proprio questo vuoto a spingerlo verso il cinema. Assiduo frequentatore delle sale cinematografiche, rimase profondamente colpito quando, durante gli anni al liceo Voltaire, ebbe modo di vedere film emo-tivamente forti come Le sang des bêtes (1949) di Georges Franju e soprattutto Nuit et brouillard (1955; Notte e nebbia), il documentario di Alain Resnais sui campi di concentramento nazisti. Alla fine degli anni Cinquanta (in particolare dopo l'uscita di Hiroshima mon amour, 1959, di Resnais) D. decise che il cinema sarebbe stato la sua ragione di vita; di qui anche il termine da lui inventato per definirsi, ciné-fils, un calembour che nel riecheggiare l'espressione cinéphile crea una sorta di mostro linguistico: il 'cine-figlio'. Fu il cinema dunque a donare a D. una seconda esistenza anagrafica, divenendo l'ancora di salvataggio di un'adolescenza indecisa, complessa, vissuta in condizioni spesso dure.D. cominciò a collaborare ai "Cahiers du cinéma" nel 1964, dopo aver scritto per due anni sulle pagine di "Visages du cinéma". Il primo articolo commissionatogli riguardava Jerry Lewis (giugno 1964, nr. 156). Era quello un periodo di grande fermento critico: dopo la riscoperta degli autori hollywoodiani, e la battaglia per l'affermazione della politique des auteurs, la rivista mostrava un'apertura verso le nuove cinematografie emergenti in Europa, ma anche in Asia e in America Meridionale. In quegli anni D. sviluppò e affinò la sua visione del cinema, rivedendo i rapporti con l'eredità critica di André Bazin, con il marxismo, la psicoanalisi, lo strutturalismo. Nel 1973 prese in mano (con Serge Toubiana) le redini della rivista, di cui fu redattore capo dal 1979 al 1981, correggendone il rigido orientamento maoista del periodo. Il volume La rampe: cahier critique 1970-1982 (1983) documenta il risultato delle sue riflessioni teoriche, mentre l'intero corpus degli articoli scritti da D. per la rivista è stato raccolto in La maison cinéma et le monde, 1. Le temps des 'Cahiers', 1962-1981 (2001).Dal 1981 al 1991 diresse le pagine cinematografiche del quotidiano francese "Libération", impegnandosi al tempo stesso in cronache tennistiche; in questi anni crebbe anche il suo interesse per il mezzo televisivo. Nel bel volume Ciné journal. 1981-1986 (1986, con una lunga e toccante lettera di Gilles Deleuze che fa da prefazione) D. sottolinea come il cinema (avvicinato metaforicamente al tennis e alla corrida) rappresenti la crucialità del tempo presente, qualcosa che passa, l'elemento della fuggevolezza: un'esperienza unica e irripetibile a cui lo spettatore-critico deve rispondere con una presenza attiva che coinvolge percezione e pensiero. Nel 1991 D. lasciò il quotidiano e fondò un'interessante rivista, "Trafic", cui poté dedicarsi solo per un anno a causa della morte prematura. È stato pubblicato postumo Persévérance (1994), libro-intervista curato da S. Toubiana, comprendente Il carrello di Kapò, primo e unico capitolo della cinebiografia di D., in cui l'autore, a partire da un breve intervento del 1961 di Jacques Rivette dedicato al film Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, ripercorre la propria vita di spettatore ciné-fils. La sua argomentazione critica trova esemplificazione in un particolare movimento di macchina che viene effettuato in una scena cruciale del film di Pontecorvo: un carrello in avanti di troppo. "Non ci si deve mai mettere dove non si è, né parlare al posto degli altri" commenta D., con una riflessione che si rivela estrema sintesi di una vita spesa alla ricerca di una 'giustezza' delle immagini e della loro collocazione etica, piuttosto che della loro bellezza.