Leone, Sergio
Regista e produttore cinematografico, nato a Roma il 3 gennaio 1929 e morto ivi il 30 aprile 1989. Figura originale del panorama cinematografico a partire dagli anni Sessanta, L. è stato tra i cineasti italiani più significativi sul piano internazionale. Le sue rivisitazioni del western, volte a ribaltare le convenzioni tradizionali del genere e a introdurne di nuove, furono inizialmente recepite come opere di scarso valore artistico. L'attenzione della critica, soprattutto francese e inglese, e la crisi del western statunitense fecero tuttavia emergere gli aspetti innovativi del suo cinema, non di rado avvicinato a quello di Sam Peckinpah, che nel corso degli anni è andato soggetto a una notevole rivalutazione, in particolare dopo Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America), la sua opera più complessa, tormentata e discussa, che valse al regista il riconoscimento dello status di autore. Lo stile ellittico e descrittivo, la passione per i dettagli, il tempo dilatato e la tecnica innovativa costantemente imitata ‒ piani-sequenza e dolly virtuosistici, carrellate sontuose, montaggio che alterna primissimi piani a campi lunghi ‒ caratterizzano i suoi sette film, rimasti, a buon diritto, nella storia del cinema.
Era figlio di Vincenzo Leone, direttore artistico, con lo pseudonimo di Roberto Roberti, di numerosi film dell'epoca del muto (tra cui una serie di melodrammi interpretati dalla celebre Francesca Bertini), e di Edvige Valcarenghi, un'attrice che, dopo aver recitato in molti film del marito con il nome d'arte di Bice Walerian, si era ritirata dalle scene poco prima che nascesse il suo unico figlio. L. trascorse nel quartiere Trastevere di Roma gran parte della sua infanzia, episodi della quale sarebbero poi confluiti e affiorati nei suoi film. Sebbene il padre fosse stato costretto negli anni Trenta a lunghi periodi di inattività per i difficili rapporti con il regime fascista, l'atmosfera in cui il piccolo Sergio cresceva lo avrebbe segnato in modo duraturo ("Io sono pressoché cresciuto nel cinema. Entrambi i miei genitori ci hanno lavorato. La mia vita, le mie letture, ogni cosa ruotava intorno al cinema"). Nel 1941, ancora in tenera età, cominciò a frequentare gli studi di Cinecittà, dove poté assistere alle riprese degli interni di La bocca sulla strada, diretto dal padre.
Non diversamente da molti italiani del periodo tra le due guerre, L. sin da bambino vedeva nell'America un modello di libertà, un barlume di modernità e di speranza da contrapporre alla chiusura del totalitarismo fascista. Tutti i suoi film maturi sono impregnati dei miti cinematografici americani, della forza da essi emanata e del loro conflitto con la realtà dell'esperienza adulta: L. considerava le sue opere come "favole per adulti", come un modo per ricreare e rievocare quel senso di timore reverenziale da cui era avvinto sin da quando, ancora bambino, assisteva ai film hollywoodiani doppiati in italiano. Il primo incontro con gli 'americani reali', d'altra parte, fu alquanto deludente: come ebbe a ricordare, i primi 'americani veri' che vide furono, all'età di quattordici anni, i soldati che nel 1943 avanzavano da Salerno verso Nord ("Erano venuti a liberarmi! Mi sembrarono pieni forza, ma anche molto falsi. Non erano più gli Americani del West").
L. entrò nell'industria cinematografica italiana nel 1947, contro il parere paterno ma grazie all'aiuto di una fitta rete di contatti che aveva instaurato in seguito alle brevi apparizioni in un paio di opere del padre. Nel periodo che va da La signora delle camelie (1947) di Carmine Gallone a Gli ultimi giorni di Pompei (1959) di Mario Bonnard egli sostenne un lungo apprendistato, principalmente a Roma, come assistente alla regia in circa trentacinque film: la maggior parte erano produzioni italiane, una delle quali diretta dal suo padrino Mario Camerini, sei da Gallone, nove dal suo 'patron' Bonnard; altri, come Quo vadis (1951; Quo vadis?) di Mervyn LeRoy, Helen of Troy (1956; Elena di Troia) di Robert Wise, The nun's story (1959; La storia di una monaca) di Fred Zinnemann, Ben Hur (1959) di William Wyler, erano kolossal americani realizzati nell'epoca della 'Hollywood sul Tevere', ovvero Cinecittà, così ribattezzata da Federico Fellini. In quel periodo L. acquisì da un lato un'ossessione quasi maniacale per i dettagli documentaristici tipici del Neorealismo italiano, dall'altro un vivo interesse per la realizzazione delle complesse sequenze d'azione nei film di grande impegno produttivo. A Cinecittà inoltre aveva avuto modo di conoscere molti dei professionisti con cui avrebbe successivamente collaborato nelle sue opere maggiori, in particolare il direttore della fotografia Tonino Delli Colli, il montatore Nino Baragli, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni.Le prime opportunità di dirigere dei film gli si presentarono, in un periodo di malattia del regista Bonnard, con Gli ultimi giorni di Pompei e con Gastone (1960). Ma la prima opera che diresse in modo completo, e che firmò come regista, fu El coloso de Rodas (1961), noto anche come Il colosso di Rodi, film in cui contrapponeva un laconico eroe di stile americano (Rory Calhoun) alle interpretazioni teatrali e barocche di attori italiani e spagnoli. Dopo un infelice passo indietro ‒ la regia della seconda unità di Sodom and Gomorrah (1962; Sodoma e Gomorra) di Robert Aldrich ‒ diresse Per un pugno di dollari (1964). Nato come remake western di Yōjinbō (1961; La sfida del samurai), il film di Kurosawa Akira, da cui L. era rimasto fortemente impressionato, il primo western di L. fu girato tra Roma e la Spagna (nei pressi di Madrid e in Almeria) e, nonostante le difficilissime condizioni in cui fu realizzato (set di risulta di altri film, budget bassissimo), riportò un enorme successo e trasformò il western in un nuovo tipo di favola: brutale e realista in superficie, mitico nell'essenza. Esso inaugurò inoltre la fruttuosa collaborazione creativa del regista con il compositore Ennio Morricone (suo antico compagno di scuola elementare) e con lo scenografo Carlo Simi, imponendo Clint Eastwood come star europea di primo piano. Con Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966), in cui attori hollywoodiani (Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Eli Wallach) comparivano al fianco di attori italiani e spagnoli, L. proseguiva la sua saga sulla 'febbre dell'oro' nel western italiano, maturando la sua peculiare cifra stilistica. Nei due film ‒ ciascuno dal costo sempre più elevato e premiati, come il primo, da un grande successo popolare sia in Europa sia negli Stati Uniti ‒ il grossolano senso dell'umorismo di L., il suo modo ellittico di raccontare e la sua operazione di celebrazione e, insieme, decostruzione dei codici del western hollywoodiano classico, divennero via via più sofisticati. Il buono, il brutto, il cattivo, in particolare, si segnalò anche per la non comune cura scenografica, per la ricostruzione dello sfondo storico della vicenda (la guerra di Secessione), e per le notevoli scene di massa, soprattutto belliche; tutti elementi che conferirono al film un tono epico molto più marcato dei film precedenti.
Dopo la cosiddetta trilogia del dollaro L. cambiò direzione, realizzando, con C'era una volta il West (1968), un'elegia dalla splendida coreografia (in cui tutte le musiche erano state scritte in precedenza) su quell'età dell'oro narrata in tante favole americane e irrimediabilmente distrutta dalla realtà storica. Il film, alla stesura del cui soggetto collaborarono Bernardo Bertolucci e Dario Argento, pur conservando e, anzi, accentuando lo stile solenne ed epico delle opere precedenti, si avvicinava al western classico con maggiori ambizioni e maggior rispetto, e con un rigore filologico ancor più minuzioso. Come L. ebbe a dichiarare, esso metteva in scena pressoché tutti gli stereotipi del western americano (la prostituta redenta, il fuorilegge romantico e individualista, il pistolero cinico al servizio dell'uomo d'affari, il vendicatore solitario) nell'intento di rendere omaggio al genere americano per eccellenza. Intento ancor più evidente per le numerose citazioni dai classici: da High noon (1952) di Zinnemann, che aleggia nel prologo austero, lento e rituale, a Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, da Shane (1953) di George Stevens a The searchers (1956) e The man who shot Liberty Valance (1962) entrambi di John Ford.Successivamente, dopo aver rifiutato di dirigere The godfather (poi affidato a Francis Ford Coppola), L. realizzò Giù la testa (1971). Influenzata anche dalla realtà e dai dibattiti politici italiani dell'epoca, quest'opera fu una tarda reazione contro i western italiani idealisti e 'politici' ambientati durante la rivoluzione messicana (v. western all'italiana), e rappresenta il manifesto della disillusione politica di Leone. Il regista non ne rimase particolarmente soddisfatto; il suo messaggio politico pessimistico scontentò inoltre la critica di orientamento di sinistra. Il film, che in origine L. avrebbe dovuto solo produrre, affidandone la regia a Peter Bogdanovich o a Peckinpah, non ottenne il successo sperato (in specie negli Stati Uniti); e tuttavia, pur viziato da un certo tono retorico, testimonia ancora una volta il raffinato gusto citazionista di L.: il riferimento più diretto è a The informer (1935) di Ford e presenta non pochi momenti di elevata qualità visiva e spettacolare accanto ad altri di vivo coinvolgimento.
A Giù la testa seguì un decennio in cui L. operò come produttore "di stampo fitzgeraldiano". In tale periodo produsse alcuni film, tra cui Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii (1973) e Il gatto (1977) di Luigi Comencini, diresse spot commerciali per la televisione, favorì l'esordio cinematografico di Carlo Verdone, e, soprattutto, si dedicò alla lunga e sofferta preparazione di Once upon a time in America, un progetto ispirato all'autobiografia romanzata di un ex gangster ebreo che aveva colpito L. per la singolare commistione di eventi reali e miti cinematografici. Quando finalmente quest'opera vide la luce nel 1984 risultò per il gangster film quello che C'era una volta il West era stato per il western, benché si tratti di un film più tetro, complesso e malinconico rispetto al primo, dal quale si distingue, inoltre, per il rilievo predominante dei rapporti umani. Nella storia di un loser, il piccolo gangster ebreo fallito e tradito che, dopo trent'anni, torna nei luoghi della sua giovinezza miserabile e violenta ma rischiarata dal conforto dell'amicizia, il regista italiano, con un originale montaggio che giustappone ricordi teneri e struggenti, tragedie private e scene tipiche dei film degli anni Quaranta, concentrò tutta la sua nostalgia per il cinema noir (l'altro genere, accanto al western, che lo affascinava), sottolineando con partecipazione i mutamenti irreversibili indotti dal tempo. I problemi di distribuzione ai quali il film andò incontro negli Stati Uniti ‒ ridotto da 218 a 144 minuti e rimontato in ordine cronologico a dispetto dell'affascinante e complessa struttura a flashback realizzata dal regista ‒ gli impedirono tuttavia di riscuotere il successo a cui sembrava destinato. L. fu colto dalla morte mentre stava preparando un'opera, ancor più impegnativa e monumentale della precedente, sull'assedio di Leningrado (1941-1944), traendo ispirazione dalla Settima sinfonia di D.D. Šostakovič e disponendo della collaborazione dell'esercito sovietico.
L. è stato il primo cineasta moderno a realizzare film autenticamente popolari che, al tempo stesso, rivelano in maniera sorprendente un'impronta decisamente personale (i ricordi d'infanzia e del periodo di guerra; le citazioni dai film amati). Con le parole di Jean Baudrillard, si potrebbe dire che egli sia stato "il primo regista postmoderno". Nonostante abbia diretto soltanto sette film, la sua influenza sul cinema contemporaneo è stata profonda: sul moderno film d'azione, sul cinema sul cinema, sull'interazione di musica e immagine, sull'impatto del sonoro, sull'opera di registi quali Stanley Kubrick, Steven Spielberg, John Carpenter, Dario Argento, Quentin Tarantino e altri. E tuttavia L. ha costituito un enigma e un motivo di confusione per i critici, ai quali la sua opera è apparsa di difficile categorizzazione, oscillando dall'una all'altra delle contrapposte classificazioni convenzionali: film d'arte-film popolare; tragedia-commedia; miti americani-storie italiane; Hollywood-Cinecittà. A causa di tali oscillazioni L. è stato spesso gravemente e ingiustamente sottovalutato.
O. De Fornari, Sergio Leone, Milano 1977.
N. Simsolo, Conversations avec Sergio Leone, Paris 1987.
C. Aguilar, Sergio Leone, Madrid 1990.
G. Di Claudio, Directed by Sergio Leone, Chieti 1990.
F. Mininni, Sergio Leone, Milano 1994.
M. Garofalo, Tutto il cinema di Sergio Leone, Milano 1999.
C. Frayling, Sergio Leone: something to do with death, London 2000 (trad. it. Milano 2002).