sermocinatio
Figura retorica consistente, secondo la definizione che dalla Rhetorica ad Herennium (IV LII 65) passa nelle poetiche medievali (cfr. Goffredo di Vinsauf Poetria nova 1265-66), nell'attribuire a un personaggio un discorso imitandone il carattere. Quest'ultimo particolare, in virtù del quale la figura assume la denominazione di ethopeia o mimesis, non è tuttavia sempre necessario, specie dove la s. non fa che riflettere l'obiezione di un ipotetico avversario (percontatio), cui l'autore si accinge a rispondere. È propria comunque di questa figura l'oggettivazione del pensiero dell'autore in un discorso diretto, nella forma del dialogo o del monologo.
D. si vale largamente della s., nelle opere a carattere letterario più che in quelle dottrinali, anche se essa non è sempre riportabile al suo schema più consueto. È comprensibile che nelle opere dottrinali, dove predomina il procedimento sillogistico, non abbia luogo la s., che è più adatta al genere sofistico o all'oratoria deliberativa. Non è un caso che fra le opere in prosa le epistole, dove abbondano i ‛ flores ', contengano un esempio tipico della percontatio: Sed an non miserebitur cuiquam? Ymo ignoscet... Anne propterea nequam hominum applaudet audacias, et initis praesumptionum pocula propinabit? Absit, quoniam Augustus est (V 9). Dove il colloquio del poeta con l'ipotetico avversario, in cui si rispecchia un dubbio della mente, ricorda qualche esempio, che vedremo, più ampio e complesso del poema.
Sin dalla Vita Nuova D. rivela la tendenza a tradurre la riflessione interiore o i moti dell'animo nella forma sensibile del discorso diretto. Per non dire del caso frequente in cui nelle parole di Amore si riflette la meditazione del poeta, che appartiene alla struttura mitologica del racconto e all'uso della personificazione (v. PROSOPOPEA), si pensi all'uso di tradurre in parole il monologo mentale del poeta. Così questo si addormenta dicendo " Amore, aiuta lo tuo fedele " (XII 2), e ritiratosi nella sua camera dice fra sé: Se questa donna sapesse la mia condizione... (XIV 9); e dopo il dialogo con le donne nel cap. XVIII, che può esser considerato nel complesso una s., perché non fa che rispecchiare l'interiore crisi del poeta, questo va dicendo fra sé: Poi che è tanta beatitudine... (§ 8). E in forma dialogica il poeta riflette sull'ardire dei suoi occhi (cap. XXXVII) e sull'esperienza della Donna gentile (cap. XXXVIII), costruendo in tal senso anche i sonetti relativi. Si può aggiungere il frequente ricorso al discorso diretto nel cap. XXIII, per tradurre in formule minacciose l'incubo del poeta.
La s. domina nel sonetto (Rime LXXI), in cui lo stupore per la vista della ' beatrice ' così mutata e il desiderio di consolazione si traducono nella domanda del poeta e nella risposta delle donne. La descrizione della pargoletta (LXXXVII) avviene attraverso un discorso di lei (I' mi son...) e in un altro sonetto, per citare un'altra tipica variante della s., il poeta pone in bocca a una donna una risposta alla baldanzosa Lisetta (CXVII), oggettivando in un discorso diretto il suo pensiero.
Nella Commedia la s. risulta fra gli elementi strutturali più notevoli, solo che si pensi al continuo rapporto dialogico guida-discepolo, che dà il senso al ‛ viaggio ' e rappresenta una pressoché continua aversio del narratore, l'oggettivarsi della sua meditazione. Né è il caso di ricordare come i discorsi attribuiti ai numerosi personaggi obbediscano in gran parte allo schema dell'ethopeia. Sarà il caso invece di mostrare l'impiego della figura in alcune tipiche soluzioni.
Anzitutto in quella collegata col carattere dialettico di alcuni passi di notevole impegno problematico. In If II 13 ss. il poeta riprende le autorevoli citazioni di Virgilio (Tu dici che di Silvïo il parente...) per opporre le sue obiezioni; in Pd VII 124 ss. Beatrice prevede un dubbio di D. e lo formula col discorso diretto (Tu dici: " Io veggio l'acqua, io veggio il foco ... ") per procedere alla spiegazione. Un caso simile è quello di XIX 70 (tu dicevi: " Un uom nasce a la riva / de l'Indo... "). In tutti e tre i casi l'intervento dialogico è incluso in un più ampio discorso diretto e vi registriamo lo schema della percontatio, anche se non è presente la forma interrogativa.
All'esigenza di variare i modi della narrazione, accentuando l'effetto suggestivo di certe apparizioni, risponde l'uso d'introdurre i personaggi attraverso il discorso diretto, che riporta il lettore al momento del viaggio. Così nelle parole con cui Virgilio annuncia la presenza di Lucifero (" Vexilla regis prodeunt inferni... ", If XXXIV 1-3) o in quelle che mostrano Farinata (X 31-33), o nelle presentazioni fatte dagli stessi personaggi con un certo senso della rivelazione inattesa (Io son Manfredi, Pg III 112), o nelle parole stupite del poeta (non se' tu Oderisi ...?, XI 79). Anche certe didascalie, che chiariscono al lettore i particolari del viaggio, trovano nella s. una più incisiva enunciazione: cfr. ad es. Pg IX 49 (Tu se' omai al purgatorio giunto), XVI 22-24 (" Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo? ", diss'io. Ed elli a me: " Tu vero apprendi, / e d'iracundia van solvendo il nodo "), Pd XXIII 19 ss. (" Ecco le schiere / del trïunfo di Cristo... "), XXX 128 (" Mira / quanto è 'l convento de le bianche stole! Vedi nostra città... "). Più drammatico, meno retorico ma più espressivo, è nel racconto di Ugolino l'inserimento delle parole di Anselmuccio, che valgono a dipingere lo sguardo sul quale il tragico narratore tace (" Tu guardi si, padre! che hai? ", If XXXIII 51).
Spesso D. preferisce la viva espressione diretta alla consueta formula narrativa, come allorché riferisce per intero la semplice domanda di Sordello (e disse: " Voi, chi siete? " (Pg VII 3), o riassume le parole di Lucia (ne disse: " Andate là: quivi è la porta ", IX 90), o crea circonlocuzioni per variare il verso: la cagion che 'l mosse, / quando fu detto ‛ Chiedi ', a dimandare (Pd XIII 92-93); ma de la bocca, " Che cose son queste? ", / mi pinse (XX 82-83). L'espressione diretta ha talora, pur nell'ambito di una ricerca di perifrasi amplificativa, la funzione di render più grave l'immagine: e grida " I' mi sobbarco! " (Pg VI 135); gridando a Dio: " Omai più non ti temo! " (XIII 122). Appartiene al colorito comico e drammatico di tutto il racconto di Guido da Montefeltro, in cui ben due volte la narrazione si scioglie in colloquio, la descrizione del giudizio di Minosse, che si conclude con le sue icastiche parole contenenti una perifrasi condita dall'allitterazione: " Questi è d'i rei del foco furo " (If XXVII 127).
Più evidente carattere di perifrasi ha questo genere di s. in una serie di casi, nei quali, come al solito, la rima è insieme condizione della scelta ed elemento complementare dell'effetto stilistico: che crede e non, dicendo " Ella è... non è... " (Pg VII 12); come dicesse a Dio: ‛ D'altro non calme ' (VIII 12); Com'io voleva dicer ‛ Tu m'appaghe ' (XV 82); faceva dir l'un ‛ No ', l'altro ‛ Si, canta ' (X 60; lo stesso canto, tutto costruito sullo scambio fra atteggiamento figurativo ed espressione verbale, si conclude con una figura simile: piangendo parea dicer: ‛ Più non posso ' (v. 139), e ad esso appartiene uno dei più significativi esempi di s., quello del dialogo fra la vedovella e Traiano, una vera scenetta drammatica che sostituisce l'immagine visiva e racconto del poeta, non per mero ornamento, ma con la specifica funzione di far risaltare il miracolo della scultura); e se volesse alcun dir ‛ Come? ' (XIII 101); cui più si convenia dicer ‛ mal feci ' (Pd V 67); u' leggerebbe " I' mi son quel ch'i' soglio " (XII 123); come dicesse: ‛ Io son venuto a questo ' (v. 78); potesse, risplendendo, dir " Subsisto " (XXIX 15).
Per quel che riguarda quella variante della s. consistente nell'aversio del poeta, che si rivolge alla Musa o al lettore direttamente, cfr. APOSTROFE.