SERRA, Gian Battista , Gian Carlo e Girolamo
– Da Giacomo, patrizio genovese di buon rango e notevole cultura, e da Laura Serra, appartenente ad altro ramo della medesima famiglia, nacquero undici figli tra maschi e femmine. Primogenito fu Gian Carlo (Genova, 29 agosto 1760), seguito dopo breve tempo da Girolamo (Genova, 22 luglio 1761). Entrambi, dopo aver ricevuto una prima educazione sotto istitutori gesuiti, dal 1776 proseguirono gli studi presso il Collegium Theresianum di Vienna, scelto dal padre anche in considerazione dei suoi notevoli interessi finanziari in Austria.
Nel 1780 i due fratelli rientrarono a Genova, dove avevano mantenuto contatti con gli esponenti più illuminati del patriziato, come Giacomo Filippo Durazzo e Girolamo Grimaldi, quegli stessi che avevano garantito loro buone entrature nella società viennese; in quell’anno furono accolti nella colonia degli Arcadi liguri. Il 1° gennaio 1781 Gian Carlo fu cooptato anche nell’Accademia ligustica di belle arti, nella quale stavano maturando importanti iniziative riformatrici. Nel luglio seguente tornò a Vienna al seguito dell’inviato genovese Girolamo Durazzo, che lo impiegò nella legazione iniziandolo all’attività diplomatica, per la quale sembrava adatto anche in virtù delle sue vaste conoscenze linguistiche. Nella capitale austriaca, dove rimase sino all’agosto del 1783, da un lato strinse contatti con esponenti della nobiltà e dell’alta burocrazia imperiale, come il cancelliere Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg e il segretario del Dipartimento d’Italia Luigi Stefano Lambertenghi, dall’altro intensificò i suoi rapporti con la potente famiglia Durazzo, che proprio in Austria aveva forti interessi e grande influenza. Nel 1782 pubblicò con lo pseudonimo di Jean Prion l’opuscolo Qu’est-ce que le Pape n’est point? per controbattere le tesi episcopaliste sostenute nello scritto Was ist der Papst? da Joseph Valentin Eybel.
Nel 1783 entrò a far parte di un’accademia scientifico-letteraria fondata da Giacomo Filippo Durazzo con l’intento di farne il luogo d’incontro tra borghesi e aristocratici riformatori. Il 27 novembre di quell’anno vi lesse una memoria tutta centrata sui temi del rinnovamento sociopolitico della Repubblica e sulla critica alle degenerazioni oligarchiche della stessa. Contemporaneamente era assiduo frequentatore del salotto engagé e novatore di Anna Pieri Brignole e teneva contatti con numerose personalità della cultura italiana, come Girolamo Tiraboschi, Antonio Maria Lorgna, Giambattista Bodoni. Era tuttavia critico nei confronti di una facile divulgazione del sapere, come dimostra un suo duro giudizio sull’Encyclopédie, ritenuta «opera perniciosa» perché dava «l’ardire a qualunque di discorrere sopra qualunque materia e [...] ragionarne da ignorante pretenzioso» (Farinella, 1998, p. 111).
Nel 1785 partecipò, unitamente al fratello Girolamo, all’erezione di una Banca di sconto che nelle intenzioni dei promotori doveva essere uno strumento per rivitalizzare l’economia genovese. Ma l’istituto, che andava contro gli interessi del Banco di S. Giorgio, fu soppresso nel 1786, anno che vide però la nascita di quella Società patria delle arti e manifatture cui i due fratelli subito aderirono e che rappresentò l’esperienza più significativa del movimento riformatore genovese.
Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, le istanze innovatrici di Gian Carlo divennero più radicali. Nel febbraio del 1794, in Minor Consiglio, lamentò l’immobilismo di un governo che non si era mai curato di promuovere l’industria nazionale e auspicò una profonda riforma dell’assetto istituzionale in senso rappresentativo. La risposta del governo – preoccupato dal malcontento in seno all’aristocrazia minore, che in quell’anno diede vita alla cosiddetta cospirazione antioligarchica – fu l’arresto di Gian Carlo, sospettato anche di intelligenza con l’ambasciatore francese Jacques Tilly, il quale all’epoca si adoperava per attirare la Repubblica genovese nell’orbita del suo Paese.
Nell’autunno del 1794, cadute le accuse di complotto, Gian Carlo fu liberato e si ritirò a Milano. Lì, dopo che nel 1796 la città fu conquistata da Napoleone Bonaparte, strinse rapporti con esuli e patrioti. E da Milano fece ritorno a Genova il 27 novembre di quell’anno per accompagnarvi Giuseppina Bonaparte, accolta trionfalmente dagli esponenti filofrancesi dell’aristocrazia, tra i quali accanto a Gian Carlo figurava anche Girolamo.
Per volere di Bonaparte, Genova nel giugno del 1797 fu ‘democratizzata’ e Gian Carlo fu chiamato a far parte del governo provvisorio della neonata Repubblica Ligure, dove il 4 luglio fece approvare, su ispirazione dei gruppi giansenisti facenti capo a Eustachio Degola, il Piano di una missione patriottica da eseguirsi nella città e riviere per persuadere il popolo della perfetta concordanza tra i principi democratici e la morale cristiana. Il suo carattere altero, tuttavia, gli attirò ben presto l’antipatia di alcuni ‘giacobini’ genovesi i quali, scoppiata nel settembre di quell’anno una controrivoluzione, lo accusarono di averla appoggiata – accusa favorita dall’atteggiamento ostile dell’ambasciatore francese Guillaume-Charles Faypoult nei confronti sia di Gian Carlo sia dei suoi fratelli Girolamo e Gian Battista, giudicati troppo ‘indipendentisti’ nei confronti della Francia – e ne ottennero l’arresto, che durò dal 23 dicembre al 13 gennaio seguente, quando fu riconosciuto innocente, scarcerato e riammesso nel governo; preferì però abbandonare Genova per Parigi, dove poteva contare sul favore degli ambienti vicini a Bonaparte.
Nell’agosto del 1800, quando ormai l’esperienza democratica in Liguria aveva lasciato il posto a un regime autoritario, Bonaparte tentò inutilmente di far tornare Gian Carlo a Genova perché vi favorisse la fine dei contrasti di partito. L’anno successivo, d’accordo con Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, lo impose come rappresentante genovese per le trattative della pace di Lunéville, alle quali tuttavia le minori potenze non furono ammesse, ragion per cui Gian Carlo rimase a Parigi come inviato ligure sino all’inizio del 1803, e fu uno dei principali interlocutori di Bonaparte nel discutere i futuri assetti della Liguria, di cui perorava l’indipendenza nonché qualche ingrandimento territoriale, tanto che lo stesso Bonaparte, sul finire del 1802, meditò di sostituirlo, considerandolo troppo caldo difensore degli interessi della sua patria e non gradendo il fatto che intrattenesse autonomi rapporti con la diplomazia inglese e quella austriaca.
In una nota redatta dal governo francese nel 1811, lo si accusava di aver «joué à la baisse de nos fonds publics» durante gli anni del Consolato, dimostrando così scarsa fiducia nella tenuta di quel regime, anche se poi avrebbe di molto mutato il proprio atteggiamento, tanto che – si diceva in quella nota – «il est aujourd’hui dévoué [...] au souverain qui le comble d’honneurs et de bienfaits» (Paglieri, 1989, p. 115).
Nel febbraio del 1803 fu inviato come ministro plenipotenziario in Spagna, dove dispiegò un’intensa attività diplomatica sino al giugno del 1805, allorché l’annessione del Genovesato all’Impero francese, da lui vista con sfavore, lo privò delle sue funzioni. Rimase altri due anni a Parigi, in un otium studioso durante il quale compose un’opera in latino sulle guerre di Napoleone – i Commentarii de bello germanico – pubblicata tra il 1806 e il 1807.
Nel novembre del 1807 Napoleone lo nominò rappresentante francese presso il Granducato di Varsavia: incarico delicato che riguardava sia l’organizzazione di quel nuovo Stato, sia la sorveglianza degli eventi militari di Russia e Austria. Nel 1811 passò come inviato straordinario prima a Stoccarda, presso Federico di Württemberg, poi a Dresda, presso il re di Sassonia. Qui nel 1812 pubblicò un’altra opera in latino, i Commentarii de bello sarmatico, dedicata alla campagna napoleonica del 1807.
A Dresda – dopo che Napoleone aveva manifestato scontentezza nei suoi confronti e meditava di esonerarlo perché non aveva saputo impedire il disimpegno sassone dopo la campagna di Russia – trovò la morte il 27 ottobre 1813, in circostanze misteriose, nel quadro dei moti seguiti in quella città alla battaglia di Lipsia.
La biografia di Gian Carlo si intreccia a lungo con quella del fratello Girolamo. Questi, tornato da Vienna, si impegnò subito in varie attività culturali: nel 1783 entrò nella neonata Accademia degli Industriosi divenendone principe nel 1785-86. L’Accademia, che annoverava figure di spicco come l’ex doge Agostino Lomellini, Pietro Paolo Celesia e alcuni personaggi che avrebbero partecipato attivamente all’esperienza democratica del triennio, si proponeva lo studio delle scienze naturali. Ma già nel 1784 vi si svilupparono interessi per la storia patria: si progettò tra l’altro un dizionario dei liguri illustri cui Girolamo si impegnò a collaborare. Partecipò alla nascita della Banca di sconto nel 1785 e, nel 1786, della Società patria delle arti e manifatture, di cui fu presidente nel 1790-91.
Frattanto riceveva i primi incarichi pubblici. Nel 1788 fece parte della Deputazione per l’armamento contro i barbareschi e si adoperò per comperare una fregata inglese destinata al pattugliamento marittimo, appoggiandosi al fratello Gian Carlo, il quale fu poi accusato di avere indebitamente lucrato su tale acquisto. Entrato nel Minor Consiglio nel 1790, vi iniziò una lunga battaglia per l’istituzione di una Camera di commercio aperta al ceto mercantile, che però venne approvata – insieme a una nuova Banca di sconto – solo nell’aprile del 1797. Analogamente a Gian Carlo, Girolamo era consapevole dell’arretratezza della società e dell’economia genovesi, quindi della necessità di un loro profondo rinnovamento.
Compì viaggi in Francia e in Inghilterra, e nel giugno del 1792, a Parigi, assisté disgustato agli atti di violenza contro Luigi XVI. Tornato in patria, nel 1793 fu nominato tenente colonnello in una milizia cittadina detta dei volontari liguri. L’anno successivo fu mandato alla Spezia come commissario generale del golfo e dei forti, e si adoperò con energia per far rispettare la neutralità della Repubblica. La stessa accorata difesa della neutralità la esercitò poi in Minor Consiglio, nei confronti tanto delle prepotenze inglesi quanto delle pressioni degli agenti diplomatici francesi Tilly e Faypoult. Nel 1796, però, le vittorie di Bonaparte indussero il governo genovese a firmare, il 9 ottobre, quella Convenzione di Parigi che di fatto rese la Repubblica alleata della Francia. Girolamo fu allora tra quanti spinsero in direzione di un franco accordo con il Direttorio, da cui potevano derivare per Genova significativi ingrandimenti territoriali.
Nel maggio del 1797 la città, fra tentativi di rivolta dei giacobini locali e moti controrivoluzionari del basso popolo, viveva momenti di grave instabilità, che persuasero Bonaparte a imporvi un cambiamento di governo. Una deputazione composta da Girolamo Serra, Michelangelo Cambiaso e Luigi Carbonara fu quindi spedita a Mombello, in Brianza, dove Bonaparte aveva il suo quartier generale, per negoziare con lui quella Convenzione di Mombello (5-6 giugno) che sancì la caduta del regime aristocratico genovese. Girolamo ottenne allora da Bonaparte l’annessione alla Liguria dei feudi imperiali della val Trebbia e della valle Scrivia, ufficializzata nell’agosto successivo, e nelle sue Memorie si sarebbe vantato di aver stretto un accordo nient’affatto gravoso, visto che la democratizzazione di Genova fu molto moderata e per nulla punitiva nei confronti della vecchia oligarchia.
L’adesione alla causa francese e l’ammirazione per Bonaparte non impedirono però a Girolamo di formulare liberamente giudizi sulla situazione del proprio Paese. In una lettera inviata al generale il 22 settembre 1797, dopo che erano scoppiati in Liguria i moti controrivoluzionari, protestò contro le prepotenze di Faypoult, individuò tra le cause dei moti stessi l’eccessivo peso fiscale («il governo costituzionale costerà un milione dugentomila franchi, mentre l’antico non ne costava la sesta parte») e contro lo scarso rispetto per le convinzioni religiose del popolo sostenne che si era approvata una «costituzione straniera» senza tener conto delle specificità e dei bisogni del Paese (Bigoni, 1897, p. 339). Girolamo e Gian Carlo – nonché il più giovane Gian Battista – erano infatti favorevoli alla trasformazione in senso liberale della loro Repubblica, ma nel contempo volevano salvaguardarne gelosamente l’indipendenza.
Perciò si andava coagulando intorno a loro un vero e proprio partito che da un lato manteneva legami molto stretti con Bonaparte, dall’altro contrastava l’eccessiva ingerenza francese negli affari interni del Genovesato: un partito che, su queste basi, avrebbe continuato ad agire anche negli anni successivi, attirandosi l’ostilità sia dei democratici più accesi, sia degli esponenti più conservatori, sia infine delle autorità transalpine. Non è un caso, infatti, se nel settembre del 1798 Girolamo e Gian Battista furono richiamati a Milano, perché la loro presenza a Genova era ritenuta scomoda.
Il 4 giugno 1800 Genova, dopo un terribile assedio, si arrese agli austriaci, ma la vittoria di Marengo la riportò sotto l’influenza francese. Il 23 giugno Bonaparte stabilì il nuovo assetto della Repubblica Ligure formando una Consulta legislativa di trenta membri e una Commissione straordinaria di governo di sette: in questa trovò posto Girolamo, che nelle Memorie ne avrebbe giudicato molto positivamente l’operato, benché la sua azione in realtà fosse assai limitata dalla presenza del generale Jean-François Dejean, il vero padrone del Paese per designazione del primo console.
Tra il 1800 e il 1802 la Repubblica Ligure ebbe un regime provvisorio in attesa di una nuova costituzione, circa la quale molto si dibatteva a Genova. Girolamo fu tra coloro disposti ad accettare un calco di quella francese dell’anno VIII, ritenendo che potesse garantire l’ordine e porre termine alle lotte di partito. Quando poi nel giugno del 1802 entrò in vigore il nuovo testo costituzionale, firmato da Bonaparte che provvide anche a nominare le massime autorità liguri, Girolamo fu designato al Senato e chiamato a presiedere il Magistrato di guerra e marina. Tuttavia, nel giugno del 1804 il plenipotenziario francese a Genova, Antonio Cristoforo Saliceti, riuscì a estrometterlo giudicandolo troppo indipendentista. Egli infatti si batteva a favore di una neutralità ritenuta vitale per gli interessi commerciali del proprio Paese, e in un discorso al Senato del 30 dicembre 1803 era giunto ad affermare che «la Liguria [era] implicata in una guerra disastrosa come alleata della Francia» e che doveva chiedere con forza «di rendere meno gravoso il blocco marittimo» e di ridurre sia le spese militari sia i dazi alle frontiere (Assereto, 2000, pp. 143 s.). Prima di essere costretto alle dimissioni, Girolamo fu tra coloro che ottennero la riapertura dell’Università di Genova, la quale ebbe il suo nuovo regolamento il 3 novembre 1803.
Il favore di Napoleone, tuttavia, non gli venne meno. Annessa la Liguria all’Impero francese, fu nel Consiglio generale del Dipartimento di Genova; nel maggio del 1809 fu nominato rettore dell’Accademia imperiale, ovvero del rinnovato Ateneo genovese; nel 1811 fu candidato – ma non eletto – al Senato conservatore e fece parte di una deputazione inviata all’imperatore dal collegio elettorale genovese.
Caduto il regime napoleonico, il comandante inglese William Bentinck promise la restaurazione della Repubblica di Genova e ne nominò il governo provvisorio di cui Girolamo fu presidente; di quella Repubblica difese la sopravvivenza contro l’opposta volontà delle potenze europee, che infine decretarono l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna. Pur deprecandola, cercò di favorire un trapasso pacifico dei poteri, il che non impedì che un’informativa della polizia piemontese lo definisse «cattivissimo, napoleonista, democratico, libero muratore, intrigante in grado supremo» (Vitale, 1932, p. 225). Certo è che a questo punto la sua lunga vicenda politica si concluse.
Si ritirò per un certo tempo in Toscana, dove tornò spesso negli anni seguenti; ma era certamente in patria, precisamente a Novi, nel marzo del 1821, allorché, in seguito ai moti di quell’anno, fu chiamato a far parte di una giunta provvisoria costituita a Torino il 20 di quel mese, ma rifiutò. Tornò poi a viaggiare in Italia, soggiornando a Napoli e a Roma, e rientrò a Genova all’inizio del regno di Carlo Alberto, con cui strinse rapporti cordiali e che il 2 settembre 1831 lo nominò al neonato Consiglio di Stato, ma Girolamo preferì ‘scusarsi’. Invece nell’aprile del 1833, quando il sovrano fondò la Regia Deputazione di storia patria comprendente una sezione genovese, Girolamo accettò la presidenza di quest’ultima. Subito dopo, il 13 maggio di quell’anno, fu fatto cavaliere di gran croce dell’Ordine mauriziano.
A Genova lo si criticò per la sua adesione alla monarchia, ma l’ingresso nella Deputazione veniva a coronare una lunga passione per gli studi storici, in lui sempre congiunta con gli ideali patriottici. Una sua Storia de’ liguri era apparsa nel 1797: lavoro di scarso pregio, che tuttavia, contrapponendo il valore degli antichi abitanti della Liguria alla fiacchezza del presente, intendeva risvegliare l’orgoglio dei suoi conterranei. Temi analoghi si ritrovano in una dissertazione del 1809 relativa alla Tavola di Polcevera, ma soprattutto nella Storia dell’antica Liguria che pubblicò nel 1834, con il dichiarato intento di «tener viva o ridestare in altrui la purissima fiamma» dell’«amore della propria nazione» (Assereto, 2015, p. 14): un amore che in Girolamo e in molti uomini del suo ceto si colorava d’un forte rimpianto per la perduta indipendenza. Proprio una lunga riflessione sugli anni tra il 1789 e il 1814, in cui era maturata la fine della Repubblica genovese, sono le sue Memorie – pubblicate solo nel 1930 – che stese poco prima della morte, avvenuta a Genova il 31 marzo 1837.
Al lungo protagonismo di Girolamo – che aveva attraversato tutti i regimi succedutisi tra la fine del Settecento e la Restaurazione, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio fra conservazione e rivoluzione, fra l’autonomia della sua piccola patria e gli interessi delle grandi potenze – fa da contrasto la breve ma intensa stagione di Gian Battista, nato a Genova il 16 maggio 1768. Si ignora tutto della sua formazione e dei suoi studi, ma certo era nutrito di succhi illuministici e novatori, e lui stesso si definiva lettore attento di Jean-Jacques Rousseau. Nel 1789, a soli 21 anni, firmandosi «un jeune républicain» aveva pubblicato una Lettre à un françois ou réponse aux lettres de M. Du Paty sur Gênes che conteneva un’accorata difesa della Repubblica genovese dalle critiche a essa rivolte da Charles-Marguerite Dupaty nelle sue Lettres sur l’Italie, ed esprimeva la persuasione che esistesse «une jeunesse patriotique» composta da «dignes héritiers des vertus [...] de leurs ancêtres [...] animés du zèle le plus ardent pour les vrais intérêts de la patrie» (Farinella, 1998, p. 61). Condivideva d’altronde, sia pure con maggiore enfasi, le idee dei suoi fratelli maggiori, convinti allora che occorresse un rinnovamento delle strutture economiche e politiche del loro Stato, ma che questo potesse aver luogo per autonoma iniziativa di una parte del patriziato.
Scoppiata la Rivoluzione francese, Gian Battista se n’era subito infatuato e si era stabilito a Parigi per esserne testimone diretto. Lì fece pubblicare sul Moniteur del 17 ottobre 1792 una Lettre d’un génois in cui dichiarava la propria totale adesione al verbo rivoluzionario: «La révolution, même parmi les français, a eu peu de partisans aussi sincères que moi. [...] Depuis longtemps je me regarde comme français; il suffira de savoir que tous ceux qui me connaissent, soit français, soit génois, soit démocrates, soit aristocrates m’appellaient Serra le jacobin»: nome di cui si gloriava benché non facesse parte di quel club «foyer des lumières et du patriotisme épuré» (Nurra, 1933, p. 222). Ma la lettera conteneva anche un programma politico per Genova, che a suo parere, anziché limitarsi a osservare una posizione neutrale, avrebbe dovuto dimostrare riconoscenza alla Francia per aver umiliato il re di Sardegna, suo «ennemi naturel». Dal canto suo la Francia aveva tutto l’interesse ad allearsi con la Repubblica di San Giorgio, i cui marinai avrebbero potuto equipaggiarne le flotte, mentre il porto di Genova era in grado di approvvigionarne le province meridionali e i contadini della montagna ligure potevano servire da guide ai generali francesi per condurli vittoriosi a Torino o a Milano, attraversando quel «sol de la Ligurie» che era «digne de la liberté». Sugli stessi temi tornava in una lettera pubblicata anch’essa sul Moniteur il 30 gennaio 1793, contenente inoltre duri attacchi al governo genovese. E poco dopo, in un appello ai suoi concittadini, approvava «la giusta punizione di un re tiranno, di un discendente di Luigi XIV la cui memoria [doveva] essere esecrata», esaltava i successi della Francia rivoluzionaria, si entusiasmava per i colpi che aveva inferto al Piemonte, togliendogli Nizza e la Savoia. Sosteneva di trovarsi a Parigi per fare l’interesse della sua patria promuovendo un’alleanza con la Francia, che avrebbe sventato «un complotto fra tutte le teste coronate» destinato a spartire il Genovesato fra il Regno di Sardegna e l’Austria (Nurra, 1933, pp. 13 s.).
All’inizio del 1794, portatosi a Nizza, vi fu ben accolto da Augustin Robespierre; ma cominciava ad accorgersi che le sorti degli italiani sarebbero sempre rimaste subordinate agli interessi della Francia. In una lettera del 28 marzo 1794 al fratello Gian Carlo scriveva: «No, mio amico, non aspettare la regenerazione del tuo Paese dalla mano dei francesi» (p. 16). Occorreva viceversa che l’Italia facesse da sé, come pensava il piccolo gruppo di ‘unitari’ allora presenti a Nizza.
Convocato a Genova dagli Inquisitori di Stato rifiutò di andarvi, e il 9 agosto 1794 fu condannato in contumacia a cinque anni di carcere. Frattanto Termidoro aveva mutato il quadro politico ed era fallita la cospirazione antioligarchica, ragion per cui le speranze rivoluzionarie di Gian Battista sembravano tramontare. Ma, quando Bonaparte impose la ‘rigenerazione’ della Repubblica Genovese, egli se ne dimostrò entusiasta, tanto che fu chiamato a far parte della Commissione legislativa incaricata di redigere la nuova costituzione ligure. Il 24 giugno 1797, all’indomani dell’insediamento di quella Commissione, scrisse al generale una lettera in cui, mentre lo elogiava per aver operato senza violenza «la plus belle des révolutions» e si proponeva come suo biografo, gli dava alcuni suggerimenti: «ne point toucher du tout à la religion» per non urtare la sensibilità del popolo, e perché i preti non avrebbero ostacolato il nuovo regime «que dans le cas où nous irions nous embarrasser dans des questions théologiques» (Arato, 2015, p. 81); cercare però di illustrare a quello stesso popolo la bontà delle nuove istituzioni; snellire l’apparato di governo che la Convenzione di Mombello aveva delineato in modo troppo pesante e costoso; estendere il privilegio di portofranco a tutte le comunità marittime della Liguria; conservare, ammodernandolo, il Banco di S. Giorgio. Idee non particolarmente eversive e assai vicine a quelle manifestate, allora o poco dopo, dai fratelli maggiori.
In un’altra lettera del 5 luglio esortava lo stesso Bonaparte a non abbandonare l’Italia, a eliminarvi le ultime monarchie – il Regno di Sardegna e quello di Napoli – e a vegliare perché non sorgessero contrasti tra la Repubblica Cisalpina e la Ligure: «Tâchez que les deux soeurs ne prennent pas un esprit d’aliénation reciproque. Je le crains cet esprit qui a perdu l’Italie dans le moyen âge» (p. 82).
Nel nuovo governo costituzionale insediatosi all’inizio del 1798 non ebbe incarichi, ma non cessò la sua attività politica al fianco dei fratelli, con sfumature più radicali e con propositi vagamente unitari. Certo è che il suo protagonismo lo mise in urto con le autorità francesi, e nel settembre del 1798 fu richiamato d’autorità a Milano.
Tornato a Genova dopo l’assedio e la breve occupazione austriaca, entrò a far parte della Consulta legislativa che Bonaparte aveva istituito il 23 giugno 1800, all’interno della quale – secondo il diplomatico Giulio Cesare Tassoni – egli rappresentava una fazione fortemente avversa all’unione con la Cisalpina. A parte ciò, non risulta una sua particolare attività; anzi, con la creazione del nuovo governo costituzionale nel 1802 Gian Battista sparì del tutto dalla scena politica. Ricomparve solo nel 1814, a Parigi, come uno dei firmatari di un articolo fatto inserire nei giornali francesi per sostenere la restaurazione dell’antico governo a Genova; e di una memoria di analogo tenore stesa da Luigi Corvetto e inviata ai ministri delle quattro potenze alleate.
Dopo di allora, per quarant’anni si disinteressò di politica, e le sue rade testimonianze epistolari dopo il 1815 lo presentano come un tranquillo aristocratico, preoccupato della gestione del patrimonio e intento solo ad arricchire di oggetti d’arte la sua dimora patrizia, sino al giorno della morte, avvenuta a Genova il 24 ottobre 1855.
Un cenno merita infine un altro fratello, Vincenzo (Genova, 17 luglio 1778-19 settembre 1846), che dal 1828 alla morte fu a capo della Deputazione agli studi incaricata di reggere l’Università di Genova, e che fu l’unico a sposarsi e ad assicurare, con i suoi nove figli, la discendenza della famiglia.
Fonti e Bibl.: L.T. Belgrano, Della vita e delle opere del marchese Gerolamo Serra, Genova 1859; L. Grillo, Elogi di liguri illustri. Appendice, Genova 1873, pp. 62-89; M.G. Canale, Della vita e delle opere del marchese Gian Carlo Serra, Genova 1890; G. Bigoni, La caduta della Repubblica di Genova nel 1797, in Giornale ligustico, XXII (1897), pp. 233-340; V. Palazzi, Il marchese Girolamo Serra e la sua storia dell’antica Liguria e di Genova, Genova 1917; G. Serra, Memorie per la storia di Genova dagli ultimi anni del secolo XVIII alla fine dell’anno 1814, a cura di P. Nurra, in Atti della Società ligure di storia patria, 1930, vol. 58; V. Vitale, Onofrio Scassi e la vita genovese del suo tempo (1768-1836), ibid., 1932, vol. 59; P. Nurra, La coalizione europea contro la Repubblica di Genova (1793-96), ibid., 1933, vol. 62, ad indices; Id., Genova nel Risorgimento. Pensiero ed azione, Milano 1948, pp. 25-30; M. Calegari, La Società patria delle arti e manifatture, Firenze 1969, ad ind.; G. Assereto, La Repubblica Ligure. Lotte politiche e problemi finanziari (1797-1799), Torino 1975, ad ind.; G. Isoleri, L’istituzione di una Camera di commercio a Genova nel dibattito politico dal 1789 al 1797, Genova 1987, ad ind.; M. Damonte, La famiglia Serra e Gian Carlo Serra, in La storia dei genovesi, VIII, Genova 1988, pp. 243-271; C. Paglieri, Agostino Pareto. Un genovese tra rivoluzione e restaurazione, Genova 1989; C. Farinella, Gli anni di formazione di Gio. Carlo e Girolamo Serra, in Loano 1795. Tra Francia e Italia dall’ancien régime ai tempi nuovi, a cura di J. Costa Restagno, Bordighera 1998, pp. 55-127; E. Podestà - S. Musella - F. Augurio, I Serra, a cura di A. Serra di Cassano, Torino 1999, pp. 300-339; G. Assereto, La seconda Repubblica Ligure, Milano 2000, ad ind.; F. Arato, La lunga vita e la breve carriera di Serra le jacobin, in Quaderni di Palazzo Serra, 2015, n. 27, pp. 69-88; G. Assereto, Girolamo Serra storico, ibid., pp. 7-23; R. De Pol, Gian Carlo Serra, storico, e il mito di Austerlitz, ibid., pp. 25-40; S. Verdino, I fratelli Serra e le lettere, ibid., pp. 41-68.
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Girolamo