SERRISTORI
– Famiglia originaria del territorio del castello di Figline Valdarno (contado fiorentino e diocesi di Fiesole), dove a metà circa degli anni Venti del Trecento nacque Ristoro figlio di ser Jacopo di ser Lippo (morto il 1400).
Completamente destituita di ogni fondamento è invece la ricostruzione, basata su false genealogie settecentesche riprese acriticamente da Roberto Palmarocchi nell’edizione dell’Enciclopedia italiana del 1938 (I Appendice, Roma, p. 1000; e cfr. ancora recentemente nella scheda del Sistema Unificato per le Sovrintendenze archivistiche: http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodfamiglia&Chiave=30924, 16 aprile 2018), secondo la quale i Serristori sarebbero derivati da un fantomatico Averardo da Figline vissuto nella seconda metà del XII secolo.
Appartenente a una progenie di notai vissuti all’ombra del potente lignaggio locale dei Franzesi Della Foresta, ser Ristoro emigrò a Firenze subito prima o giusto all’indomani della peste nera, andando a risiedere nel quartiere di Santa Croce, come erano soliti fare gli immigrati provenienti dalle comunità del Valdarno Superiore. Il notaio ebbe quindi modo di crearsi una vasta e articolata clientela, con un notevole aumento del giro d’affari.
Da un suo registro di rogiti degli anni 1374-76 emergono tra attori e testimoni degli atti molte famiglie dell’élite fiorentina, grandi lignaggi rurali (per esempio, vari rami dei conti Guidi), monasteri dell’ordine vallombrosano, notabili del Valdarno Superiore e messer Bonifacio Lupi (condottiero di ventura, diplomatico e marchese di Soragna: v. la voce in questo Dizionario).
Tuttavia, l’ambizione di scalare la società fiorentina fu a lungo inibita dalla politica ostruzionistica portata avanti dai circoli più conservatori del ceto dirigente cittadino arroccato nella parte guelfa, i quali dal 1358 al 1378 promossero la pratica dell’ammonizione per ghibellinismo con l’obiettivo di impedire l’accesso alle cariche pubbliche per gli esponenti della ‘gente nuova’.
Il tumulto dei ciompi e il successivo governo delle arti minori (1378-82) aprirono le porte della politica a Ristoro, che sino alla morte ricoprì un numero impressionante di cariche pubbliche, amministrative e corporative. In particolare, nel 1380 fu incaricato di stendere la pace tra Firenze e Carlo di Durazzo, futuro re di Napoli; nel 1384 svolse la funzione di notaio della Signoria; fu console dell’Arte dei giudici e notai nel 1384, 1388 e 1399 e proconsole nel 1386, 1392, 1397. Per quanto riguarda gli uffici maggiori, venne estratto tra i gonfalonieri di compagnia nel 1390, tra i Priori nel 1392 e tra i Codici buonuomini nel 1396. Questa tardiva e febbrile attività politica non impedì a ser Ristoro di continuare l’esercizio della professione, che anzi assunse una dimensione quasi internazionale, come testimoniano gli atti rogati per i da Carrara di Padova, i Manfredi di Faenza e alcuni grandi mercanti fiorentini operanti all’estero. Dotato di ambizione ed energia irrefrenabili, il notaio avviò pure una azienda di arte della lana che poi affidò ai figli Tommaso e Salvestro, entrambi destinati a morire con lui durante la peste dell’anno 1400, mentre un terzogenito (Giovanni, 1370 ca.-1414) fu inviato all’università di Bologna per seguire studi giuridici, culminati con l’ottenimento del dottorato nel 1397.
Nel 1399, ormai ultrasettantenne, ricco e pieno di onori, ma probabilmente tormentato per le conseguenze ultraterrene di una vita contrassegnata dalla bramosia del successo, Ristoro fece testamento nella chiesa di S. Croce (il suo sepolcro è collocato tra la tomba monumentale di Ugo Foscolo e quella di Gioachino Rossini), lasciando un corposo legato di 2000 fiorini per la costruzione di un ospedale nella sua Figline, dove per altro aveva accumulato una sterminata proprietà fondiaria, venendo progressivamente in possesso di gran parte delle terre e degli immobili già appartenuti ai Franzesi Della Foresta. L’ospedale di ser Ristoro, costruito all’epoca per assistere poveri e bisognosi (e dunque anche per espiare i peccati dei fondatori), è tuttora operante, anche se non nella sede originaria porticata che si affacciava (e si affaccia) sulla piazza principale del borgo, e la sua sontuosa dimora figlinese (la così detta Casagrande) è oggi sede di un lussuoso albergo-ristorante.
La grande ondata di peste del 1400 si portò via, oltre al notaio, anche un buon numero di suoi familiari. La discendenza, assicurata da alcuni nipoti in tenera età, fu posta sotto la tutela dell’unico figlio sopravvissuto, il giurista messer Giovanni. Costui, ricalcando l’operosità e l’eclettismo paterni, non si limitò a esercitare con grande profitto la sua onorata professione, per la quale divenne celebre oltre a essere profumatamente retribuito. Non solo fu ai vertici dell’Arte dei giudici e dei notai, ma assunse a più riprese importanti incarichi diplomatici per conto della Signoria fiorentina e soprattutto ebbe modo di sviluppare l’attività commerciale già avviata da Ristoro. Intestando fittiziamente ai nipoti una compagnia mercantile-bancaria, messer Giovanni mise in piedi un’azienda dotata di forti relazioni con le piazze estere, creando anche una filiale a Barcellona sotto forma di società in accomandita. Sotto l’abile guida del giurista, il nucleo familiare residente in un palazzo situato in piazza del Grano (edificio inglobato dalla costruzione degli Uffizi durante il XVI secolo) fu il terzo maggiormente tassato dell’intero quartiere di Santa Croce nella prestanza generale del 1403. La ricchezza accumulata sotto varie forme si riverberò presto anche sul piano delle alleanze matrimoniali: tra i mariti delle nipoti di ser Ristoro figurarono membri delle famiglie Peruzzi, Capponi, Magalotti e Bartoli.
La morte di Giovanni nel 1414 obbligò i figli di Tommaso e di Salvestro a dividersi l’asse ereditario rimasto sostanzialmente congelato per anni.
La procedura seguita per arrivare a un’equa spartizione del patrimonio fu quella del lodo arbitrale. Data la complessità dell’operazione, fu necessario nominare più periti di parte in modo da valutare non soltanto le proprietà immobiliari (in città e nel contado), ma soprattutto le partecipazioni societarie, l’esigibilità dei crediti, il valore di mercato dei titoli di Stato accumulatisi negli anni con il meccanismo dei prestiti forzosi imposti dal Comune.
Con l’arbitrato del 1416 i due rami familiari si separarono, finendo per seguire destini profondamente divergenti. A continuare lungo il tracciato di ascesa sociale fu unicamente la discendenza di Salvestro, in particolare con la figura di Antonio (1396-1448/1449). Costui non aveva ancora compiuto vent’anni, quando sposò Costanza di Averardo di Francesco de’ Medici (cugino di Cosimo il Vecchio). Il matrimonio si rivelò di capitale importanza per il successo di Antonio, perché da una parte lo inseriva nel circuito delle grandi banche d’affari fiorentine, dall’altra lo collegava alla fazione medicea, non di rado appoggiata proprio da famiglie di recente affermazione. Da allora e per secoli i nomi Antonio e Averardo divennero una costante nell’onomastica della famiglia. In questi stessi anni i nipoti di ser Ristoro acquisirono il cognome Serristori, riconoscendo nel nonno l’artefice primigenio di fortune familiari ulteriormente consolidate dal legame decisivo tra Antonio e la casa Medici.
Il figlio di Salvestro si rivelò ben presto un uomo d’affari di notevole intraprendenza. La sua compagnia operava abitualmente sui mercati esteri, con una filiale a Barcellona (diretta da Calvano Salviati e Giovanni Ventura) e numerosi corrispondenti attivi a Roma, Venezia, Londra, Bruges, Valencia, Siviglia, Montpellier, Avignone, Genova, Bologna, Ferrara, Pisa, Siena, Perugia, Foligno, L’Aquila, Gaeta, Palermo. I suoi traffici non conoscevano specializzazioni di sorta e spaziavano dai manufatti (per lo più tessili) alle materie prime e alle derrate alimentari, dal mercato assicurativo a quello cambiario e finanziario. Lo stesso cancelliere Leonardo Bruni tenne per alcuni anni una grossa somma presso il banco Serristori sotto forma di deposito vincolato a interesse. L’impresa presto divenne una delle maggiori banche d’affari di Firenze (e dunque d’Italia), tant’è che i Malatesta di Rimini ottennero dai Serristori prestiti dell’ordine di 15.000 fiorini. Fu forse per suggellare un affare evidentemente assai redditizio che nel 1431 Antonio chiamò uno dei suoi numerosi figli Malatesta. Già alla fine degli anni Venti, il facoltoso mercante-banchiere acquisì anche un ruolo strategico nell’ambito della fazione medicea, rappresentando l’ala ‘finanziaria’ e moderata dello schieramento coagulatosi attorno a Cosimo.
Nel frattempo sua moglie partoriva figli con cadenza quasi annuale e, assai sorprendentemente per l’epoca, la prole raggiunse la maggior età quasi nella sua interezza: nella dichiarazione catastale del 1433 Antonio denunciò ben dieci figli (otto maschi e due femmine) e dopo quella data gli sarebbero nate almeno altre quattro figlie femmine. Il nucleo familiare in rapida espansione cominciò a risiedere in borgo Santa Croce, a due passi dalla omonima basilica francescana, dove Antonio prese ad accumulare molteplici edifici adiacenti che i suoi nipoti avrebbero completamente ristrutturato facendone un palazzo vero e proprio tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento (oggi palazzo Antinori-Corsini).
Il biennio 1433-34, cruciale per la storia politica fiorentina, vide Serristori recitare un ruolo da protagonista. Nel settembre del 1433, quando Cosimo il Vecchio venne esiliato a Venezia dalla fazione oligarchica guidata dagli Albizzi, ad Antonio venne risparmiato un destino analogo. A lui venne quindi affidata l’amministrazione fiduciaria della sede fiorentina della holding medicea, così come le ricchezze di altri fiorentini sottoposti ad analoghi provvedimenti di esilio. Quando l’anno successivo, per l’insipienza dello schieramento albizzesco, Antonio fu estratto tra i priori, assieme ad altri amici di Cosimo, provvide subito a votare il rientro in città del suo lontano parente acquisito. Il rovesciamento totale del reggimento fiorentino fu attuato da una balìa plenipotenziaria di cui ovviamente il Serristori era parte integrante. Dal 1434 e sino alla morte, Antonio ricoprì incarichi di grande rilievo negli uffici dello Stato (fu capitano di Pistoia nel 1437, capitano di Pisa nel 1438, tra i Dieci di Balìa nel 1439, 1440 e 1441, tra gli Otto di guardia nel 1444), così come nell’ambito dell’Arte del cambio e del tribunale della Mercanzia. In particolare, dal 1434 al 1439 fu accoppiatore per le elezioni a mano: una procedura inventata dai Medici per scegliere la signoria a ragion veduta, anziché estrarla a sorte.
Con la morte relativamente precoce di Antonio, i suoi otto figli maschi decisero di mantenere in comune il patrimonio familiare per alcuni anni. Questo vero e proprio clan era ora guidato dal primogenito Giovanni (1419-1494), sposatosi con Alessandra di Uguccione Capponi nel 1443. Tra i fratelli che ebbero una discendenza vi furono Ristoro (1424-1507), che prese per moglie Alessandra di Antonio Salutati, e Averardo (1428-1491), che si sposò con Alessandra di Antonio Strozzi. Un ruolo di rilievo, tanto nell’ambito imprenditoriale quanto in quello politico, ebbero però anche Niccolò (1422-1479), Carlo (1425-1494), Salvestro (1430-1485) e Malatesta (1431-1485/6). È comunque indubbio che un simile nucleo familiare costituì una formidabile anomalia sul piano della rappresentanza nelle istituzioni pubbliche, registrata anche da Piero Guicciardini, padre del più famoso Francesco, il quale ebbe a rimarcare come i Serristori, per quanto non appartenenti alle tradizionali famiglie del popolo grasso, erano onnipresenti negli uffici dello Stato.
I mariti delle loro sorelle (Dini, Pazzi, Peruzzi, Alessandri, Portinari) dimostrano che in casa Serristori si guardava strategicamente a trecentosessanta gradi, talvolta anche prendendosi qualche rischio, come nel caso di Maddalena, sposata a messer Jacopo de’ Pazzi, uno dei celebri congiurati antimedicei del 1478. In quel caso il pericolo fu trasformato in opportunità, perché la vedova Maddalena lasciò per testamento ai figli dei suoi fratelli beni appartenenti alla famiglia del marito, nonostante una causa protrattasi per alcuni decenni tra fori mercantili e civili.
Se lo sterminato elenco di cariche ricoperte così come le lettere di Lorenzo il Magnifico registrano ad abundantiam il ruolo politico di punta esercitato dai figli di Antonio Serristori (in particolare da Giovanni, vero e proprio grand commis d’État), non è meno rimarchevole la parabola imprenditoriale da essi intrapresa nella seconda metà del secolo. Pienamente consci del valore morale che la società fiorentina dava all’intraprendenza e al successo economico, i fratelli Serristori liquidarono l’impresa paterna per dirottarne i capitali verso una compagnia di Arte della seta e battiloro. Non casualmente la documentazione quattrocentesca più abbondante e preziosa conservata nell’archivio di famiglia fa proprio riferimento a questa azienda, ed è bene rimarcare come la manifattura serica costituisse al tempo un settore in forte espansione, sia sul piano della qualità dei manufatti sia dal punto di vista dei mercati di sbocco. Prova ne è che solo tra il 1470 e il 1491 il capitale societario si moltiplicò per quattro volte e mezzo grazie agli utili accumulati, toccando la somma astronomica di 24.000 fiorini larghi. Per acquistare le materie prime ed esitare i drappi fuori Firenze, la compagnia Serristori si avvaleva di filiali e corrispondenti esteri, con una predilezione per i mercati di Lione, Bruges, Anversa, Napoli e Roma. Gli insaziabili fratelli Serristori investirono pure nel settore laniero con alcune imprese loro o di terzi, nell’allevamento di bovini, ovini e suini al pascolo nella Maremma pisana, gestito attraverso un’associazione in compartecipazione definita maona del bestiame, e persino in una società a carati per lo sfruttamento delle Chiane di Arezzo.
Nel frattempo il patrimonio immobiliare cresceva e con esso quello dell’ospedale figlinese. Sempre Giovanni acquisì nei primi anni Sessanta una vera e propria villa appena fuori le mura del castello, in località San Cerbone, dove nella seconda metà del XIX secolo sarebbe stato trasferito l’ospedale Serristori (si tratta della sede tuttora funzionante). Il dominio nel centro valdarnese era tale che nel 1493 lo stesso Giovanni ottenne il patronato sulla pieve di Figline, poi divenuta collegiata nel corso del XVI secolo: ancora oggi sulla facciata della chiesa campeggia lo stemma della famiglia Serristori.
Nel delicato momento segnato dalla calata in Italia delle armate francesi di Carlo VIII e dalla concomitante espulsione dei Medici da Firenze, i Serristori persero quella che era stata per decenni la loro guida. Dopo la morte di Giovanni, per una manciata di anni la leadership venne infatti assunta dal figlio Battista (1456-1499/ 1500), ma la sua precoce scomparsa fece passare il testimone ai numerosi figli del defunto Averardo. Fu il primogenito Antonio (1464-1521), sposato con Maddalena di Francesco Gherardi, a gestire in prima persona le imprese di famiglia e gli interessi politici dei Serristori dalla fine del XV secolo. A lui, e in minor misura al secondogenito Francesco (1470-1542), si dovettero l’avvio di una nuova impresa di battiloro, l’apertura di una filiale commerciale a Londra gestita dal quartogenito Giuliano (che per altro nel 1512 rischiò l’incarcerazione per debiti), la creazione di una grande conceria a Figline e la completa ristrutturazione del patrimonio immobiliare di borgo Santa Croce culminata in un nuovo palazzo. La vasta dimora, nonostante il vincolo di un fedecommesso, fu ceduta ai Corsini nel 1587 e da questi venne passata agli Antinori nel 1886.
L’attuale palazzo Serristori, situato Oltrarno e dunque fuori dal quartiere di Santa Croce, fu invece eretto nei primi decenni del Cinquecento da Lorenzo di Averardo (1472-1543), altro fratello di Antonio, canonico di S. Maria del Fiore e vescovo della cittadina pugliese di Bitetto tra il 1528 e il 1532. Profondamente ampliato nei secoli XVIII e XIX, esso fu la sede privilegiata dei Serristori in età moderna e contemporanea, conservando sino agli anni Settanta del secolo scorso l’imponente archivio familiare quand’esso fu trasferito nell’Archivio di Stato in seguito all’estinzione dell’ultimo ramo collaterale di una schiatta plurisecolare.
L’aspetto sorprendente è che nel periodo durante il quale i Medici furono esiliati da Firenze (1494-1512), i Serristori non ebbero a soffrire alcuna forma di ostracismo politico. Eppure, quando il pontefice Clemente VII (Giulio de’ Medici) ebbe modo di passare dalla sua città natale non si fece scrupolo di sostare nella Casagrande figlinese, facendo chiaramente capire quale fosse il legame tra i Medici e i Serristori. Solo tra il 1527 e il 1530 la famiglia ebbe vita difficile per via dello scontro drammatico tra partigiani della Repubblica e fautori medicei. Con l’ingresso delle truppe di Carlo V a Firenze, e la definitiva restaurazione medicea seguita al disastroso assedio, i Serristori tornarono subito in sella, come dimostra la brillante carriera diplomatica di Averardo di Antonio di Averardo (1497-1569), ambasciatore del granduca Cosimo presso i pontefici Paolo III, Giulio III, Paolo IV, Pio IV e Pio V.
Fonti e Bibl.: Tutta la bibliografia precedente il 2002 si può reperire in S. Tognetti, Un’industria di lusso al servizio del grande commercio. Il mercato dei drappi serici e della seta nella Firenze del Quattrocento, Firenze 2002, pp. 43 ss., nonché in Id., Da Figline a Firenze. Ascesa economica e politica della famiglia S. (secoli XIV-XVI), Firenze 2003. Successive notizie si trovano in M.E. Soldani, Uomini d’affari e mercanti toscani nella Barcellona del Quattrocento, Barcellona 2010, ad ind.; S. Tognetti, La conceria S. di Figline Valdarno nel primo Cinquecento, in Il castello, il borgo e la piazza. I mille anni di storia di Figline Valdarno, 1008-2008, a cura di P. Pirillo - A. Zorzi, Firenze 2012, pp. 195-219; Id., La rappresaglia a Firenze nel secondo Trecento. Due vicende di uomini d’affari in Romagna e a Napoli, in «Mercatura è arte». Uomini d’affari toscani in Europa e nel Mediterraneo tardomedievale, a cura di L. Tanzini - S. Tognetti, Roma 2012, pp. 249-270; Lorenzo di Francesco Guidetti, Ricordanze, a cura di L. Boeninger, Roma 2014, pp. 60-63; L. Sandri, L’ospedale ‘dei S.’ nel contesto assistenziale di Figline tra XIV e XVI secolo, in Annali aretini, XXIV (2016), pp. 193-222.