Servaggio
Nella Grecia antica e nel mondo ellenistico-romano furono sempre presenti - in forme più o meno diffuse, a seconda dell'epoca e della regione - gruppi di persone sottoposte a lavori coattivi oppure a obblighi di residenza su terre regie o appartenenti a un santuario, a una comunità o a un grande proprietario. Non erano individui in condizione di schiavitù, ma gli obblighi cui erano vincolati li ponevano in uno stato di libertà limitata, che è opportuno definire 'servaggio'. L'origine di questi gruppi è quanto mai eterogenea. Talvolta si trattava di popolazioni asservite a dominatori, oppure di immigrati che si impegnavano a svolgere lavori tributari a favore della comunità che li aveva accolti (v. Levi, 1976). Sono ben noti gli Iloti di Sparta o i Penesti di Tessaglia, ma sono altrettanto documentati i Claroti di Creta, i Cilliri di Sicilia e le popolazioni assoggettate a corvées obbligatorie, spesso non compatibili con la libertà personale (munera sordida le chiamavano in tal caso i Romani), dall'Asia Minore all'Egitto dei Tolomei (λαοί).
Se è relativamente semplice distinguere gli individui in stato di vera e propria schiavitù - quantunque la varietà di funzioni cui erano sottoposti gli schiavi e le stesse trasformazioni continue della condizione non ne consentano una visione unitaria e statica nel tempo -, è molto più difficile definire lo stato di servaggio. Che cos'hanno infatti in comune i 'liberti' condizionati e i 'coloni' del tardo Impero romano? Che cosa li differenzia dai 'servi' del Medioevo o dai 'servi della gleba' dell'età moderna presenti, in Europa, a est del fiume Elba? Di fronte alla variegata qualificazione di 'servi' (o 'non liberi'), non solo nel lungo periodo ma anche in una stessa area e in una stessa epoca, occorre individuare preliminarmente uno o più caratteri discriminanti che consentano di distinguere dal lavoratore dipendente libero colui il quale vede limitata la propria libertà da obblighi tali da produrre un divario, rispetto al primo, tanto marcato da essere percepibile sia dai suoi contemporanei (almeno dai conterranei), sia da chi oggi ne studia la condizione.
Per l'uomo dell'antichità e del Medioevo (che non fosse schiavo, cioè δοῦλοϚ nella lingua greca e servus in quella latina) erano per lo più la reale condizione di vita e la funzione socioeconomica a determinarne la posizione nella società, come del resto continuò ad avvenire in età moderna. Talvolta anche lo schiavo riusciva a prevalere economicamente - ed entro certi limiti anche socialmente (quando fosse stato, ad esempio, amministratore di un potente o funzionario del principe) - rispetto a tanti liberi di umile condizione. L'uomo libero però si differenziava dallo schiavo poiché non portava il segno della dipendenza ereditaria da una persona: un marchio, quest'ultimo, che segnava per sempre il servus, collocandolo in una posizione di inferiorità giuridica fin tanto che non fosse intervenuto uno specifico atto di emancipazione (manumissio) o egli stesso non avesse cercato con la frode di confondersi con i liberi, magari ricorrendo alla fuga.
Questa stessa macchia ereditaria - inerente però, di solito, alla sola prestazione di opere gratuite o all'obbligo di residenza - talvolta era attribuita, sulla base di una legge o attraverso patti perpetui, oppure a causa dell'indebitamento, a uomini personalmente liberi. Di conseguenza chi era tenuto a risiedere sulla terra coltivata o a prestare determinati servizi in forma ereditaria viveva indubbiamente in una condizione di inferiorità giuridica rispetto a chi - pur avendo stipulato patti per opere o per impegni analoghi - a certe condizioni o alla scadenza del contratto avrebbe potuto interrompere tali impegni. Da un lato, dunque, chi si trovava in condizione di servaggio era vincolato per sempre a certi obblighi, anche se non era propriamente uno 'strumento provvisto di voce' appartenente a una persona (com'era invece lo schiavo); dall'altro, prestava opere simili a quelle di tanti lavoratori dipendenti, i quali però potevano interrompere il loro rapporto di subordinazione cambiando residenza.
Un rapporto di subordinazione spiccatamente agraria è quello che caratterizza i λαοί regi dell'Asia Minore seleucide: obbligati alla prestazione di opere, essi sono vincolati al domicilio e possono essere ceduti insieme con le terre che lavorano e sulle quali sembra che in taluni casi possano vantare diritti di possesso. Lo stesso termine nell'Egitto tolemaico indica invece la popolazione di etnia egizia soggetta a prestazioni d'opera di tipo pubblico: ciò consente una differenziazione dai primi, poiché la presenza di un onere pubblico - opera o tributo in cui questa sia stata eventualmente convertita - non è di per sé sufficiente perché si possa ravvisare una relazione di tipo servile. D'altro canto bisogna tener presente che lo status dei λαοί dei regni ellenistici può alterarsi in seguito a un accrescimento degli oneri a favore del principe o dell'aristocrazia che ne sostiene il regime, cosicché può talvolta verificarsi un avvicinamento della loro condizione a quella degli schiavi dotati di terre da coltivare in proprio.
Nel mondo romano arcaico anche le relazioni fra patrono e cliente possono talvolta determinare situazioni di libertà limitata. Alcune analogie sono riscontrabili nella condizione del liberto (lo schiavo liberato), che continua a essere sottoposto a limitate forme di ubbidienza all'ex padrone senza potervisi sottrarre. Diversa per origine, ma abbastanza simile negli effetti, è poi la condizione di libertà vincolata dei dediticii, quali sono, ad esempio, i Capuani che, sconfitti dai Romani, anziché essere deportati, nel 211 a.C. subiscono la confisca delle loro terre e sono assoggettati a un forte tributo.
Nella società romana antica il più evidente segno di limitazione della libertà personale di uomini che non siano schiavi è però rilevabile nell'istituto del 'colonato'. Nei primi due secoli dell'Impero il termine colonus indicava il contadino dipendente libero che coltivava terre altrui. Già nel II secolo d.C. nelle regioni africane - probabilmente sotto l'influenza della tradizione ellenistica dei λαοί - per alcuni coloni comincia a venir meno la libertà di movimento, mentre è sempre più frequente, da parte dei grandi proprietari, il ricorso alla conduzione indiretta. Sotto Marco Aurelio (161-180 d.C.) sono attestati casi di legami alla terra per gli inquilini. Intanto è documentata la pratica di trattenere sul fondo i conduttori morosi verso i proprietari, cosa che la legge dapprima vieta, ma alla fine del III secolo tollera sia per evitare fughe di contadini indebitati, sia per ragioni fiscali. Infatti con la riforma di Diocleziano i contribuenti sono vincolati a un domicilio, cosa che dovrebbe assicurare una regolare riscossione dei tributi. Per questo il proprietario del fondo diventa responsabile verso lo Stato per le imposte dovute dai suoi coloni.
La famiglia colonica viene ascritta al fondo e, pur non essendo declassata in senso servile, di fatto perde una delle libertà fondamentali, quella di scegliere il proprio domicilio. Il colono diventa inamovibile (questa è una garanzia per lui e per il fisco) ma è perseguito come se fosse uno schiavo in caso di fuga, mentre i proprietari possono appropriarsi dei beni mobili dei fuggitivi. Tralasciando di evidenziare le differenze esistenti fra coloni ascripticii, coloni conditionales, inquilini, basti ricordare che in un testo di legge di Teodosio, in relazione ai coloni della Tracia, si dispone che "quantunque siano di condizione ingenuile, siano considerati schiavi della terra (servi terrae) nella quale sono nati" (Codice di Giustiniano, XI, 52, 1).
L'efficacia dell'istituto del colonato romano dipendeva soprattutto dalla capacità dello Stato di perseguire i coloni fuggitivi, perciò con la crisi dell'Impero anche i legami alla terra previsti per i contadini dipendenti liberi si avviano al declino: nonostante Giustiniano consolidi la normativa in materia, nel VI secolo il colonato bassoimperiale è già in una fase di avanzato cambiamento, che prelude alla sua scomparsa (v. Bloch, 1921; v. Kaplan, 1992).
Gli storici della società e del diritto condividono sostanzialmente l'opinione secondo la quale nell'alto Medioevo il colonato antico cambiò fisionomia, salvo poi recuperarne indebitamente in certi casi - come si dirà - alcune caratteristiche quando si manifesta l'esigenza di definire il complesso gruppo dei contadini dipendenti dell'età carolingia e postcarolingia, che vivevano fianco a fianco con i servi casati nella curtis, ossia nella grande azienda agricola signorile. Poiché, oltre ai contadini liberi, sulla parte della curtis a gestione indiretta (massaricio) risiedevano anche discendenti di antichi schiavi (servi), si ritiene che questi ultimi vivessero in condizioni economiche migliori rispetto ai servi praebendarii residenti sul dominico (il settore curtense a gestione diretta), dove svolgevano lavori agricoli, artigianali e domestici e dove erano nutriti e vestiti a spese dei proprietari, i quali però esercitavano un più rigido controllo nei loro confronti.
Per la maggior parte degli storici francesi i servi praebendarii rientrerebbero nella categoria degli schiavi. Invece i servi casati - impegnati nel lavoro delle terre avute in concessione e debitori di opere (corvées) sul dominico - fondendosi con i liberti e con i gruppi di ex liberi asserviti avrebbero costituito per gradi in età postcarolingia un nuovo gruppo servile, differenziato dall'esclavage e dunque classificato come servage. Recentemente Dominique Barthélemy ha distinto perentoriamente il servage dell'XI secolo dall'esclavage dei secoli precedenti. Ciò che contraddistingue il servaggio dalla schiavitù sarebbe l'inserimento a pieno titolo dei servi nella famiglia del signore, intesa in senso lato; ormai il serf ha acquisito una dignità umana che allo schiavo non era riconosciuta, e accanto ai servi discendenti da schiavi carolingi vi sono persone di umili condizioni che rinunciano alla libertà personale per ottenere protezione e soccorso economico (v. Barthélemy, 1993, pp. 477-479). Il servaggio francese dei secoli X-XII non sarebbe quindi altro che il prodotto della trasformazione della schiavitù tardoantica e altomedievale, con l'aggregazione di settori più o meno ampi del contadiname già libero.
Questa idea della formazione di un ampio gruppo di contadini dalle caratteristiche servili in 'età feudale', peraltro già formulata da Bloch, non trova sempre consenso tra gli storici che studiano la realtà italiana. Alcuni infatti rilevano che i servi carolingi e postcarolingi - pur vedendo mutata la loro condizione economica e, in parte, anche quella giuridica - continuano a costituire una categoria sociale distinta dai contadini dipendenti liberi (v. Violante, 1953, pp. 91 ss.; v. Panero, 1990, pp. 29 ss.). Invece l'idea degli storici del diritto italiano sostanzialmente concorda con l'interpretazione storiografica francese, anche se si preferisce per lo più parlare di 'servitù', proprio per rimarcare la continuità con la schiavitù altomedievale (v. Leicht, 1959²), leggibile sia nell'ereditarietà della condizione personale sia nelle forti limitazioni alle capacità giuridiche dei servi italiani postcarolingi (incapacità di testimoniare, di possedere terre allodiali, di abbandonare la signoria), già proprie degli schiavi. Sul piano terminologico la scelta della storiografia giuridica italiana è condivisibile perché consente di evidenziare le differenze che già in età carolingia sono documentate - in atti di tipo economico e normativo - fra 'servi' e 'schiavi', ma soprattutto perché permette di seguire parallelamente la dinamica autonoma delle relazioni fra contadini dipendenti liberi e proprietari, che solo in condizioni particolari sfociano in nuovi rapporti di servaggio. Riguardo ai contenuti è invece una scelta solo parzialmente condivisibile. Infatti da un lato si deve continuare a distinguere la 'servitù' dalla 'libera dipendenza', e dall'altro occorre sgombrare il terreno da alcuni equivoci che per decenni hanno fuorviato la ricerca storica sul problema delle origini del servaggio medievale, spesso definito impropriamente 'servitù della gleba'.
Gino Luzzatto in un fondamentale saggio del 1909 sui servi ecclesiastici italiani rilevava che, nell'ambito della curtis del X secolo, i servi praebendarii nel momento in cui venivano accasati su un manso erano di fatto sottoposti a vincoli 'reali', gli stessi vincoli alla terra cui erano ancora soggetti alcuni coloni di origine tardoantica e ai quali si tendeva ad assoggettare anche i contadini dipendenti liberi nei secoli successivi alla dissoluzione dell'Impero carolingio. Era un'interpretazione in linea con quella della storiografia marxista e con le tesi della scuola economico-giuridica, che di lì a poco tempo Pietro Vaccari (v., 1926) avrebbe definitivamente confermato.
In quegli stessi anni Marc Bloch notava invece che i contadini che fin dal Settecento storici e filosofi definivano 'servi della gleba' non erano propriamente i servi altomedievali (legati principalmente a una persona, come gli schiavi tardoantichi), bensì i coloni del basso Impero, effettivamente vincolati alla terra, pur essendo personalmente liberi. Era stato il giurista bolognese Irnerio (fine secolo XI-inizio XII) a coniare l'espressione "servi glebae", mutuata dalla ricordata legge teodosiana, in cui si utilizza la locuzione "servi terrae" per indicare i coloni della Tracia. Il colonato antico, però, era tramontato con la fine dell'Impero romano e nel Medioevo - continua lo storico francese - "il frazionamento delle giustizie, la loro reciproca impenetrabilità, l'assenza di un qualsiasi potere capace di imporre la propria volontà alle infinite dinastie locali" svuotano "di qualsiasi valore pratico" ogni tentativo di imporre vincoli alla terra per i contadini dipendenti liberi, com'era invece accaduto ai coloni del basso Impero (v. Bloch, 1933; tr. it., p. 78). Del resto la glossa irneriana si riferisce ai coloni antichi e non ai contadini del Medioevo: soltanto dopo il XII secolo nella Francia meridionale sono attestate forme di servaggio fondiario (v. Bloch, 1921).
Le ricerche svolte dagli anni ottanta in poi consentono di confermare le osservazioni di Bloch e di aggiungere che la glossa di Irnerio trova molto presto applicazione in formulari notarili e, attraverso questi, viene talvolta utilizzata nei patti agrari dai grandi proprietari per imporre vincoli contrattuali alla terra per i coltivatori più sprovveduti. Infatti se gli impegni alla residenza contenuti nei contratti dei secoli VIII-XI prevedono in genere che in caso di inadempienza il coltivatore paghi una penale o rinunci al dominio utile (o al diritto d'uso) sulla terra in concessione, all'inizio del XII secolo è possibile trovare atti in cui il contadino si impegna a rimanere sulla terra "sicut ascripticius", ossia come un antico colono romano. Ecco quindi che patti del genere producono una condizione di servaggio, che invece non è ravvisabile nei contratti altomedievali. In questo nuovo tipo di rapporto, mentre canoni in natura e in denaro, corvées, tributi, doveri di ospitalità, sottomissione alla giustizia signorile, donativi di piccoli animali o di altro sono analoghi a quelli dei contadini dipendenti liberi, diventa ereditaria la subordinazione al signore rurale.
È l'accentuata mobilità dei contadini - diretti dal contado verso la città, oppure emigranti da località a località del contado, alla ricerca di condizioni migliori - che a partire dai secoli XII-XIII crea spesso problemi ai proprietari che vedono le terre temporaneamente abbandonate, senza che per questo possano rientrare immediatamente nella piena disponibilità del fondo; infatti i contratti di lunga durata consentono spesso ai coltivatori di ottenere un diritto duraturo al possesso della terra in concessione. Dunque il ricorso al diritto romano e l'inserimento nei patti agrari di clausole tendenti a ripristinare la condizione degli antichi 'ascrittizi-servi della terra' rappresentano una risposta dei proprietari a una congiuntura favorevole ai contadini. La 'servitù della gleba' dei secoli XII-XIII è quindi essenzialmente un tentativo di appesantire, in forma contrattuale, gli oneri dei coltivatori dipendenti. Gli effetti di queste iniziative signorili restano tuttavia molto circoscritti, perché anche nelle regioni in cui è più precoce la rinascita del diritto romano (Romagna e Toscana) i contratti di questo tipo rappresentano soltanto una minoranza fra i patti agrari stipulati; del resto anche i giuristi medievali insistono sulla necessità della piena consapevolezza dei contadini che accettano, nel contratto, i legami alla terra. Nell'Italia padana, in Francia e nella Germania occidentale essi sono poi assai limitati e in alcune regioni del tutto assenti.
Un discorso a parte va fatto per l'Italia meridionale, soggetta alla monarchia normanno-sveva: qui i 'villani' di origine araba e alcuni coloni greci e cristiani già assoggettati agli Arabi di Sicilia sono assimilati nelle leggi normanne agli antichi ascrittizi romani, quindi legati alla terra, quantunque non siano considerati schiavi. In Inghilterra, accanto ai discendenti di antichi servi, dal XII secolo è dato di trovare dei villani (villeins), che prestano corvées coattive e sono soggetti alla giustizia del manor con il consenso della monarchia. Anche nella Spagna dei secoli XIII-XV i remensas sono contadini legati alla terra. Questi dipendenti - che non si devono sopravvalutare numericamente - si differenziano notevolmente sul piano del diritto e delle effettive condizioni di vita (dal momento che la signoria rurale sottrae loro parte del lavoro, richiesto sotto forma di corvée gratuita) dai contadini dipendenti liberi, che rappresentano la maggioranza della popolazione dell'Europa occidentale negli ultimi secoli del Medioevo.Il riferimento alle prestazioni d'opera gratuite è oggetto di un altro equivoco piuttosto frequente. Se infatti è vero che le corvées sono richieste sia agli schiavi casati sia ai liberi asserviti, è altrettanto vero che sono spesso svolte anche da contadini che conservano la loro piena libertà personale e dai residenti in libere comunità rurali. Dunque la corvée da sola non può mai essere assunta come segno di asservimento.
Gli oneri connotanti un particolare legame di persone già libere con un potente cominciano a essere limitati e aboliti fin dal XII secolo, quando i Comuni cittadini - nell'Italia centrosettentrionale -, il Regno normanno nel sud della penisola e le monarchie nazionali europee avviano un progetto tendente a emarginare i poteri signorili delle aristocrazie locali. Soprattutto nel corso del Duecento i Comuni italiani vietano alla nobiltà del contado di creare nuovi legami personali e di stipulare patti di adscriptio glebae, ma intervengono anche per sottrarre uomini e diritti signorili 'tradizionali' (quali l'amministrazione della giustizia, l'imposizione di tributi, la chiamata all'esercito di uomini giuridicamente liberi), creando borghi franchi o affrancando l'intero contado: in questi casi di norma non vengono aboliti oneri propriamente servili, ma formalmente si libera la popolazione da tributi e carichi economici a favore dei signori, per sottoporla agli oneri pubblici della città (è, ad esempio, il caso dell'affrancazione vercellese del 1243). Altre volte si tratta di abolire quella particolare condizione di colonato che i signori hanno imposto ad alcuni gruppi di contadini in tempi più o meno recenti (affrancazione fiorentina del 1289-1290). Più raramente è documentata una vera e propria liberazione collettiva dalla dipendenza servile (manumissione dei servi bolognesi del 1256-1257).
Anche le monarchie occidentali e i principati regionali tra la fine del Medioevo e la prima età moderna, per imporre una piena sudditanza al potere pubblico, intervengono ad abolire oneri di dipendenza signorile, ma solo poche volte questi sono vincoli ereditari di tipo servile, perché le trasformazioni della servitù postcarolingia hanno portato da tempo i discendenti degli schiavi altomedievali a confondersi con i dipendenti liberi delle signorie rurali: perciò non tutte le affrancazioni vanno interpretate come segno di abolizione del servaggio, perché tale - per esempio - non è di norma la dipendenza di una comunità rurale da un signore di banno o da un principe territoriale.
Dopo le crisi economiche e demografiche del Trecento e del primo Quattrocento i signori rurali, per far fronte alla diminuzione delle rendite e dei dipendenti, cercano spesso di appesantire i tributi e di limitare l'uso delle terre comuni, intaccando così uno dei diritti principali delle comunità rurali. Nell'alta Svevia i principi territoriali riescono talvolta a estorcere alle comunità e a singoli coltivatori impegni alla residenza, rafforzati da atti formali di fedeltà: non è perciò un caso che nel 1525 proprio qui sia particolarmente aspra la 'guerra dei contadini' contro i loro signori. La reazione contadina è in genere violenta e in Occidente l'opposizione all'esosità signorile e la difesa delle consuetudini mobilitano per almeno due secoli le collettività rurali dall'Italia all'Inghilterra, dalla Germania alla Francia e alla Spagna. La sollevazione dei contadini inglesi del 1381 è fallimentare ma, vista nel lungo periodo, può essere considerata una tappa nel processo di difesa e conquista di diritti nei confronti del manor, che nel corso del Quattrocento finisce per trasformare i rapporti di servaggio villanale in affitti ereditari.
È invece soprattutto a est del fiume Elba che dalla fine del XV secolo si rafforza la proprietà signorile, attraverso l'appropriazione di una parte delle terre comuni e l'acquisizione di poteri giurisdizionali. L'appesantimento dei carichi per i contadini - dopo un relativo benessere al momento della colonizzazione nel XII e XIII secolo - avviene spesso in concomitanza con il passaggio della terra dai signori territoriali alla piccola aristocrazia locale, che la gestisce in forma diretta attraverso corvées obbligatorie. Dal Brandeburgo alla Pomerania, dalla Prussia orientale alla Polonia, dalla Russia alla Moldavia si diffonde dal XVI secolo in poi il 'secondo servaggio', che per la prima volta - dopo il colonato antico - coinvolge masse di contadini, gradualmente espropriati delle terre e legati al fondo come coloni perpetui con il consenso dei detentori del potere territoriale.La bassa densità demografica dei paesi dell'Europa orientale (5-10 abitanti per kmq, a seconda delle regioni) registra un'inversione di tendenza nel corso del Cinquecento. Gli squilibri del popolamento e dell'economia che ne conseguono (aumento dei prezzi, desiderio di incrementare la produzione da parte dei nobili) sono fattori non marginali per un mutamento dei rapporti sociali e giuridici, in cui il servaggio vale in qualche modo a razionalizzare la vita economica. Ma la diffusione di nuovi vincoli di tipo servile (ossia ereditari) è possibile soprattutto perché "in Oriente mancavano quei contrappesi alla forza nobiliare tipici dell'area occidentale che costituivano un argine all'arbitrio garantendo un rapporto contrattuale fra chi possedeva la terra e chi la lavorava. [...] Le comunità contadine erano molto meno numerose e certamente meno forti che in Occidente a causa della coincidenza fra villaggio e signoria fondiaria e dello stretto controllo esercitato da quest'ultima sul primo" (v. Malanima, 1987, p. 149).
Nei principati danubiani, fra Cinque e Seicento, sono ancora molte le comunità libere in cui "l'assemblea plenaria della popolazione [...] ha diritto alla sorveglianza e all'amministrazione su qualsiasi azione [...] delle famiglie che compongono la popolazione locale. In un villaggio asservito è il boiardo signore del villaggio che, sostituendosi ai diritti delle assemblee, dispone di un complesso di diritti che è un ricalco quasi perfetto di quello delle assemblee" (v. Stahl, 1969; tr. it., pp. 191-192). Inizialmente è in sostanza l'acquisizione della maggior parte delle proprietà nel territorio di un villaggio che consente ai grandi proprietari di imporre la loro signoria sulle persone, attraverso l'amministrazione della bassa giustizia e l'imposizione di corvées. In Valacchia, però, intorno al 1596 viene emanata, per motivi fiscali, una legge che vincola i contadini al villaggio di residenza, soprattutto al fine di risolvere il problema delle migrazioni di massa incontrollate, avvenute in seguito all'invasione turca.
In Russia sino alla fine del XVI secolo sembra ancora predominante la condizione di libertà per i lavoratori della terra, nonostante fin dal secolo precedente si sia affermato, in Moscovia e in altre regioni, il principio piuttosto rigido secondo il quale gli affittuari avrebbero potuto allontanarsi dal fondo coltivato soltanto alla festa di san Giorgio in autunno, cioè alla fine dall'annata agricola (v. Eck, 1959, pp. 245 ss.). La fissazione di un termine legale per l'interruzione di un rapporto di lavoro non è però un elemento sufficiente per instaurare una subordinazione servile; lo può essere invece l'indebitamento contadino, che alla metà del Cinquecento diventa un mezzo per vincolare al proprietario il lavoratore insolvente fino a quando non abbia pagato i suoi debiti. Sono soprattutto, però, alcune norme emanate dal potere centrale a vincolare i contadini alla terra. Dal 1582 in poi la normativa inerente alla catastazione prevede anche divieti temporanei d'abbandono della terra in locazione. Con il Codice del 1649 i tenutari e i manovali delle terre fiscali, nobiliari ed ecclesiastiche sono legati "ereditariamente" alla terra che coltivano: il contadino diventa così parte integrante dell'azienda in cui lavora e può essere alienato con la stessa. Questa normativa è senz'altro funzionale alla stabilità fiscale ed economica dello Stato e dei grandi proprietari terrieri, che diventano però civilmente responsabili delle azioni dei propri contadini nei confronti dello Stato e verso terzi. Il consolidamento della servitù della gleba in Russia si compie con Pietro il Grande, sotto il quale viene introdotta l'imposta di capitatio, che di fatto equipara i servi propriamente detti (o schiavi) ai contadini legati alla terra (ordinanze del 1718-1723).
La liberazione dal servaggio avviene in particolare tra la metà del Settecento e gli anni sessanta dell'Ottocento e spesso affianca l'affrancazione dagli oneri signorili o feudali (che comunque è ugualmente finalizzata alla costituzione di un rapporto diretto fra contadini-sudditi e Stato). Ricordiamo soltanto l'abolizione del servaggio in Valacchia nel 1746, in Moldavia nel 1749 e nei territori dell'Impero asburgico nel 1789, la soppressione dei vincoli servili e alla terra in Prussia nel 1807 e la liberazione dei contadini russi dalla servitù della gleba tra il 1858 e il 1861. In Russia la fine del servaggio avviene sotto la spinta di fattori politici ed economici (guerra di Crimea, ritardo nella formazione di un mercato capitalistico del lavoro), che denunciano l'arretratezza del paese. Queste emancipazioni, favorite dai riscatti pagati dai contadini con la cessione di terre o con somme in denaro (come prevede la riforma agraria in Romania nel 1864), sono per lo più suggerite da esigenze economico-politiche o conseguenti a fermenti sociali, e solo in alcuni casi si possono inquadrare nel processo delle riforme illuminate avviate nell'Europa occidentale nel corso del Settecento. L'abolizione del servaggio per molti contadini ha come conseguenza la caduta in stato di miseria, poiché spesso parte della terra lavorata dalla famiglia da più generazioni ritorna nella piena proprietà dei signori: si incrementa così la classe dei braccianti esclusi dal possesso terriero.
Le vicende del servaggio si rivelano essere, in conclusione, soprattutto storia di rapporti economico-sociali, anche se per la loro analisi non si può prescindere dalla storia istituzionale. Infatti tanto il colonato antico quanto la seconda servitù della gleba dell'Europa orientale moderna ('seconda' rispetto al colonato del basso Impero romano) nascono per esigenze fiscali in presenza di Stati con poteri coercitivi e giudiziari estesi a tutto il territorio, vale a dire nell'ambito di istituzioni molto diverse dalla signoria di banno medievale, che è invece l'emblema del frazionamento politico e perciò è incapace di realizzare forme durature e diffuse di servitù della gleba. (V. anche Contadini; Latifondo; Nobiltà; Schiavitú).
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