SERVI
Termine ampio e non univoco al tempo di Federico, la parola servus ha indotto anche gli storici moderni a estese discussioni. Celebre è stata la critica di Marc Bloch, che in un paio di noti saggi mise in discussione l'uso comune di definire la dipendenza medievale facendo ricorso all'espressione 'servo della gleba', che aveva acquisito importanza tale da caratterizzare l'intera società medievale ma che secondo il grande storico francese non esprimeva affatto il senso della condizione umana e giuridica dei dipendenti rurali medievali. I documenti della pratica medievale si esprimono con terminologie variate, alludenti al corpus, alla condizione di permanenza sul fondo altrui, all'obbligo dell'uomo nei confronti del suo signore: homines de corpore, manentes, homines alterius, erano i contadini legati alla terra con rapporti diversi da luogo a luogo, accomunati dall'elemento della dipendenza della persona dal proprietario della terra o dal signore del luogo. Chiamare servi questi dipendenti poteva richiamare l'istituto antico della schiavitù, certamente ben diverso dalla servitù medievale, e dunque fuorviare la corretta comprensione storica di una grande struttura della società medievale. Ma anche la precisazione 'servo della gleba' si adattava male, secondo Bloch, al Medioevo. Essa era nata nelle menti dei primi giuristi della Scuola di Bologna, probabilmente dello stesso Irnerio, che l'aveva inventata per chiarire il senso di un'istituzione tardoantica come il colonato, che sembrava sfuggire alla summa divisio del genere umano in liberi e servi. Formalmente liberi, ma legati alla terra che coltivavano e impossibilitati a lasciarla, i coloni giustinianei furono perciò definiti dai giuristi medievali come servi non del loro padrone in linea diretta, ma della terra che egli possedeva. Una definizione che, a giudizio di Bloch, poteva adattarsi alla situazione tardoantica, ma non a quella medievale. I servi del Medioevo erano invece propriamente homines de corpore: così li aveva chiamati il Medioevo, e così Bloch proponeva di continuare a chiamarli, per non lasciarsi fuorviare da una denominazione che, pur essendosi affermata da secoli, in realtà rifletteva sul Medioevo la luce deformante del mondo giustinianeo.
La critica mossa da Bloch all'espressione 'servi della gleba' muoveva dalla considerazione della sua scarsa aderenza alla pratica medievale, che non sentiva più le rigide distinzioni di status del diritto romano e adottava, invece, una varietà di denominazioni diverse per indicare la soggezione più o meno marcata dei rustici al potere dei loro signori.
Ma se nella terminologia d'Oltralpe l'espressione entra a far parte del vocabolario giuridico soltanto relativamente tardi, e ad opera di giuristi colti, nell'Italia meridionale è la stessa legislazione sovrana a introdurre l'espressione servi glebae. Essa compare infatti in entrambi i manoscritti che tramandano la legislazione normanna, il Vaticano e il Cassinese (v. Assise di Ariano), che dispongono in materia di diritto d'asilo presso le chiese e di limiti all'accesso ai sacri ordini facendo ricorso all'espressione ascripticii o servi glebae. È una terminologia proveniente con ogni probabilità dalle fonti del diritto giustinianeo, o meglio dalle prime interpretazioni scolastiche di quelle fonti: cosa che ha suscitato alcuni dubbi sulla datazione del testo conservato dai due manoscritti, sui quali come si sa aleggia il sospetto del rimaneggiamento di età federiciana (Conte, 1996, p. 214; Nef, 2000, pp. 583-585, entrambi con riferimento a un classico studio di Menager). Sospetto che coinvolge anche il terzo testo delle Assise che si occupa di servi, tramandato dal manoscritto Cassinese nella forma di un rescritto interpretativo sovrano. Preoccupato di precisare il contenuto della norma che impedisce l'accesso ai sacri ordini a tutti i soggetti non liberi, il rescritto deve distinguere fra obblighi servili perpetui, dovuti in ragione di una particolare condizione personale, e servizi dovuti al signore eminente di una terra concessa in beneficio, dei quali ci si può liberare rinunciando alla concessione: i primi sono incompatibili con lo status sacerdotale, i secondi invece non impediscono di ricevere l'ordine.
Accolto poi nel Liber Augustalis (III, 3), il rescriptum riportato dal manoscritto Cassinese non fa che recepire la dottrina canonistica che si era precisata nella seconda metà del XII sec. (di qui le perplessità sulla datazione) proprio per interpretare le norme canoniche che escludevano i servi dai sacramenti dell'ordine e del matrimonio. Se infatti era chiaro che lo status servile vero e proprio rendeva impossibile la libera scelta di assumere il caracter sacramentale di coniugato o di presbitero, meno evidente era stabilire in quale misura gli obblighi gravanti sul semilibero ne impedissero la capacità di accedere ai sacramenti. La dottrina risolse di configurare il problema a partire non tanto dallo status personale quanto dai diritti di terzi che potevano venir lesi dall'acquisto della nuova condizione sacramentale. Se i diritti sorgenti da obbligazioni potevano sempre esser convertiti in somme di denaro, da pagarsi a titolo di risarcimento dell'eventuale danno contrattuale, i diritti gravanti stabilmente sulle persone degli asserviti non si prestavano a essere estinti unilateralmente e condannavano il rustico dipendente a prestare in perpetuo i beni e i servizi dovuti al signore. La qualità di servus glebae prese perciò a essere intesa come un complesso di obblighi cui un uomo poteva essere assoggettato in perpetuo nei confronti di un altro, senza che ciò conducesse a una vera e propria deminutio capitis. Sul punto i canonisti sviluppavano suggerimenti presenti nelle opere più antiche dei civilisti, che qualificavano la servitù della gleba non come uno status delle persone, ma come una particolare forma assunta dall'istituto della servitù, cioè del diritto reale che può gravare su una cosa altrui oppure, come si diceva, su di una persona libera. L'espressione dottrinale servus glebae non stava dunque a indicare l'appartenenza a una determinata categoria di persone definita dall'ordinamento, ma rinviava piuttosto alla figura del diritto reale su cosa altrui, esteso fino al punto da poter gravare sul corpo dei lavoratori tenuti alla coltivazione della terra.
Se letta in questo senso, l'espressione servus glebae risulta assai meno estranea alla mentalità medievale di quanto ritenesse Bloch. Anzi, questa estensione della categoria del diritto reale nella fattispecie della soggezione servile stride palesemente con i principi del diritto romano classico e tardo, mentre appare del tutto coerente con il mondo economico del Medioevo, con la mutevolezza dei rapporti di dipendenza rurali che trovavano nella categoria dei diritti reali su cosa altrui (in questo caso iura in hominem) uno strumento di razionalizzazione assai più flessibile di quanto fosse la rigida divisione di status.
I servi che popolavano le campagne dell'età federiciana erano insomma uomini formalmente liberi, tenuti però alla prestazione di servitia e di derrate a vantaggio del proprietario del fondo sul quale vivevano e lavoravano. Questi obblighi di fare e di dare erano stati definiti dai giuristi come diritti reali, non dipendenti cioè da un contratto obbligatorio ma gravanti direttamente sulle persone degli asserviti. E in quanto diritti reali si conservavano immutati lungo le generazioni, trasmettendosi agli eredi sia dei titolari sia dei soggetti gravati, limitandone di fatto la libertà. Erano perciò dovuti, nella terminologia federiciana, intuitu personae, e non ratione tenimenti, perché gravavano sulla persona stessa e non dipendevano da un rapporto reciproco che concedeva un terreno in cambio di un certo numero di prestazioni.
Questa particolare configurazione della condizione di servo può aiutare a cogliere il senso di una discussa costituzione di Federico (Const. III, 9, Quia frequenter), che proibisce ai sudditi liberi di "obbligare la propria persona a compiere servizi" a vantaggio di nobili o di ecclesiastici: il che configurerebbe il passaggio dell'uomo libero al dominium altrui. Qualificando se stesso come dominus personarum, Federico subordina tali asservimenti al proprio assenso. Di-scussa da più parti (Mazzarese Fardella, 1961; Trombetti Budriesi, 1987; Martino, 1988; Conte, 1996), la costituzione muove dalla valutazione del servitium come servitù reale gravante in perpetuo sull'asservito e sui suoi eredi e ne valuta le gravi conseguenze sulla libertà personale. La quale libertà tende perciò a coincidere con la protezione regia, la tuitio che è garantita a tutti gli uomini liberi abitanti su terre demaniali, sicché finisce per confondersi con l'appartenenza al dominium del re, che tiene all'indipendenza dei suoi sudditi come un proprietario tiene a conservare le proprie cose libere da altrui diritti di sfruttamento.
Da questa base fluida, sganciata dalla definizione rigida di uno status, scaturisce nell'Italia meridionale una effettiva definizione dei ceti sociali, perché per quanto la struttura reale consenta di graduarne a piacimento l'entità, i servitia dovuti intuitu personae condizionano profondamente la fruizione della libertà, come un onere reale può gravare la proprietà privata rendendola un diritto astratto e vuoto. Di qui, da una parte l'identificazione di una categoria di villani percepita come tale sul piano sociale, dall'altra l'adozione da parte del legislatore di una politica rivolta alla limitazione del numero dei nuovi asservimenti che, per quanto non inducessero una formale deminutio capitis, limitavano la libertà personale e rappresentavano ‒ forse in primo luogo ‒ un pericolo per l'integrità dei diritti del sovrano sui suoi sudditi. Se i villani possono in teoria acquisire beni liberi ed esserne titolari a buon diritto (Const. III, 10), d'altra parte essi sono tenuti a non abbandonare la terra del loro signore; le cariche pubbliche ed ecclesiastiche sono loro precluse, così come il matrimonio con dipendenti altrui, salvo ottenere il consenso del proprio signore. Questa condizione di oggettiva limitazione della libertà fu poi aggravata da una lunga serie di 'abusi feudali', che si accumularono per secoli fino all'abolizione ottocentesca: esazioni per l'uso di forni e mulini e per il pascolo, limitazioni alla libertà di commerciare i prodotti della terra, estensioni abusive dei diritti dei signori al loro lavoro sono oggetto di un gran numero di descrizioni che qualificano quella di villano come la categoria più bassa della struttura sociale federiciana. Al di sotto dei coltivatori gravati da condizione servile vi sono infatti soltanto gli schiavi musulmani, correntemente chiamati agareni nei documenti, a sottolinearne la discendenza dalla schiava biblica Agar, dalla quale sarebbe discesa per via materna una progenie di condizione servile. A parte il piccolo gruppo di armati di Lucera, che erano qualificati servi diretti del re, la maggior parte dei servi arabi lavorava nelle campagne di Sicilia. Vincolati alla terra in conseguenza della conquista normanna, essi erano naturalmente assai più numerosi in Sicilia che nel resto del Regnum. Assumono denominazioni diverse nella documentazione, ma all'epoca federiciana finiscono per rientrare nella categoria dei villani, anche se l'ampiezza della qualifica impedisce di connotarla con un significato tecnico. Ma se per i cristiani l'affrancazione per privilegio o per esercizio di fatto della libertà costituiva una possibilità concreta di emancipazione dalla condizione servile, per i villani agareni l'unica speranza di libertà era rappresentata dalla fuga. Che infatti fu praticata approfittando dei non pochi anni di disordine che segnarono la fine della dominazione normanna e l'inizio di quella sveva. Il regno di Federico fu un periodo di relativa stabilità del numero dei villani, ma nella seconda metà del sec. XIII le crisi demografiche produssero un sensibile calo della popolazione di condizione servile.
Fonti e Bibl.: Die Konstitutionen Friedrichs II. für das König-reich Sizilien, a cura di W. Stürner, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, Supplementum, 1996. M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, III, Firenze 1868, pp. 233-251. La più recente edizione dei saggi di M. Bloch sulla servitù è in Id., Rois et serfs et autres écrits sur le servage, Paris 1996. Bibliografia completa è reperibile nei due volumi di F. Panero, Terre in concessione e mobilità contadina. Le campagne fra Po, Sesia e Dora Baltea (secoli XII e XIII), Bologna 1984, appendice intitolata La cosiddetta 'servitù della gleba': un problema aperto, pp. 207-276, e Id., Schiavi, servi e villani nell'Italia medievale, Torino 1999, nonché in E. Conte, Servi medievali. Dinamiche del diritto comune, Roma 1996. V. inoltre: E. Mazzarese Fardella, Osservazioni sul suffeudo in Sicilia, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 34, 1961, pp. 99-183; A.L. Trombetti Budriesi, Una proposta di lettura del Liber Augustalis in tema di signoria e feudalesimo (1982), in Il 'Liber Augustalis' di Federico II di Svevia nella storiografia, a cura di Ead., Bologna 1987; F. Martino, Federico II: il legislatore e gli interpreti, Milano 1988; I. Peri, Il villanaggio in Sicilia (1965), in Id., Villani e cavalieri nella Sicilia medievale, Bari 1993, pp. 3-121; D. Abulafia, The Servitude of Jews and Muslims in the Medieval Mediterranean: Origins and Diffusion, "Mélanges de l'École Française de Rome. Moyen Âge", 112, 2000, pp. 687-714; E. Conte, Declino e rilancio della servitù: tra teoria e pratica giuridica, ibid., 663-685; A. Nef, Conquêtes et reconquêtes médiévales: la Sicile Normande est-elle une terre de réduction en servitude généralisée?, ibid., pp. 579-607; F. Panero, Le nouveau servage et l'attache à la glèbe aux XIIe et XIIIe siècles: l'interprétation de Marc Bloch et la documentation italienne, ibid., pp. 551-561.