Abstract
Dopo aver considerato le servitù coattive quali diritti reali, e illustrato il carattere dell’utilità fondiaria, che le caratterizza in quanto tali, vengono analizzate le principali distinzioni che devono essere fatte in relazione al modo della loro costituzione,e la disciplina legislativa che ne consegue. Si espongono poi le regole essenziali riguardanti l’esercizio, la modificazione e l’estinzione delle servitù. Si accenna infine al modo della loro tutela giudiziaria.
La servitù (prediale, da praedium, fondo) è un diritto reale, in virtù del quale un fondo (servente) arreca determinate utilità a un altro fondo (dominante) appartenente a diverso proprietario. Talvolta un fondo (terreno o edificio) non possiede tutte le caratteristiche e qualità necessarie alla sua migliore utilizzazione. Ad es., può mancare di un comodo accesso alla pubblica via, perché circondato da fondi appartenenti ad altri proprietari; può mancare dell’acqua necessaria all’ottimale irrigazione di un’azienda agricola o addirittura all’ alimentazione umana. Può accadere, ancora, che il fondo non possa essere goduto, da parte del proprietario, nel modo più opportuno dal punto di vista della comodità o dell’estetica, senza che vengano imposte a carico del fondo, o dei fondi vicini, determinate limitazioni, ad es. di non costruire, allo scopo di garantire al proprietario del fondo interessato la fruizione di un panorama più bello o più ampio. Può avvenire, infine, che sul fondo vicino vengano svolte attività, fonte di rumori o d’immissioni d’altra natura, le quali, benché non superino i limiti stabiliti dalla legge, siano tuttavia causa di pregiudizio ad es., per l’attività, turistica o commerciale, che viene esercitata sul fondo che si vuole avvantaggiare. Alla soddisfazione di queste esigenze e di altre, analoghe o similari, provvede l’istituto delle servitù.
Secondo la definizione (più suggestiva che razionale) contenuta nell’art. 1027 del nostro codice civile, la servitù consiste nel «peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario». Ossia, per esprimerci in termini più tecnici, la servitù consiste appunto in una limitazione riguardante le facoltà del proprietario di un fondo (detto servente) per consentire al proprietario di un altro fondo (detto dominante) il godimento di alcune, specifiche, utilità inerenti al fondo servente (ad es. esercitarvi il passaggio, condurvi acquedotti, etc.); o, in altre ipotesi, la servitù dà luogo ad un obbligo, imposto al proprietario del fondo servente, di non esercitare determinate facoltà, che rientrano nel contenuto della proprietà, per avvantaggiare il proprietario del fondo servente (ad es. non costruire, o non costruire oltre una certa altezza). Il nostro codice, seguendo opportunamente la tradizione, si riferisce alle servitù come ad un rapporto che sembra quasi svolgersi tra i fondi stessi, anziché tra i loro titolari. (E qualche autore adopera a questo proposito l’espressione “collaborazione fondiaria”: v. Branca, G., Servitù prediali, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, 5). Naturalmente, rapporti di questo genere non esistono; ma la formulazione legislativa è non solo più semplice ed elegante dal punto di vista letterario, ma è anche valida sotto l’aspetto giuridico, perché richiama l’attenzione del lettore sulla necessità di considerare la servitù come un rapporto giuridico, che fa capo non solo agli attuali titolari dei fondi, ma a tutti coloro che ne saranno divenuti proprietari per acquisto fattone a qualsiasi titolo.
Da quanto abbiamo ora detto, risulta che le servitù appartengono alla categoria dei diritti limitati o parziari, le cui caratteristiche essenziali consistono nell’opponibilità e nell’assolutezza. Sono, dunque, in primo luogo, diritti opponibili, e ciò significa che possono essere fatte valere non soltanto nei confronti di un determinato soggetto (di regola la controparte contrattuale), come si verifica per i diritti personali (o di credito) ma anche verso ogni successore, a titolo universale e a titolo particolare, per atto tra vivi o mortis causa. Come ogni altro diritto reale, le servitù sono inoltre diritti assoluti: possono cioè essere tutelate contro ogni violazione che provenga non solo dal proprietario del fondo servente, ma anche dai terzi estranei al rapporto di servitù. Una conseguenza, più che una caratteristica delle servitù, in quanto diritti reali, è la qualificazione di possesso (e non di semplice detenzione) che assume il rapporto “materiale” del titolare rispetto alla cosa.
Pur nel vigore del principio di tipicità dei diritti reali (o del numero chiuso), secondo cui non è possibile modificare gli elementi caratterizzanti dei singoli diritti reali (e, per conseguenza, non se ne possono creare nuove figure), la servitù consente ai privati la più ampia espressione dell’autonomia negoziale compatibile con il principio di tipicità. Essi infatti sono liberi di dar vita a servitù del più vario contenuto, con l’unico ma essenziale limite dell’utilità fondiaria («l’utilità di un fondo» di cui all’art. 1027 c.c.). E l’utilità viene resa possibile dal correlativo «peso» gravante sul fondo servente: ciò che già a livello intuitivo esclude dal contenuto delle servitù un facere, ossia un’attività imposta al soggetto passivo del rapporto di servitù. Nel più antico diritto romano le servitù potevano riguardare solamente le esigenze dell’agricoltura (servitù rustiche); con lo sviluppo dell’economia si riconobbero le servitù urbane (che potevano trovarsi anche in campagna), destinate a soddisfare le crescenti esigenze di carattere edilizio. Al giorno d’oggi l’estensione delle servitù è indubbiamente più ampia. Secondo l’art. 1028 c.c. «L’utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Può del pari essere inerente alla destinazione industriale del fondo.» Oltre alle esigenze di carattere agricolo o edilizio, e quelle consistenti nel dare maggiore comodità o amenità al fondo, vi è nel codice attuale l’espresso riconoscimento delle cc.dd. servitù industriali, ossia delle servitù dirette ad avvantaggiare un fondo sul quale venga esercitata un’attività industriale, o, che è lo stesso, ad avvantaggiare un’attività industriale, strutturalmente collegata ad un fondo. (Cass., 4.4.1966, n. 864).
Nell’ambito delle servitù la summa divisio è rappresentata dalla distinzione tra servitù volontarie e servitù coattive. Le due categorie si differenziano tra loro perché per le prime esiste un numero aperto di fattispecie, in cui ha pieno vigore il principio dell’autonomia contrattuale (nei limiti, ovviamente, dello schema generale delle servitù). Le seconde, al contrario, formano dei tipi, le cui caratteristiche fondamentali sono determinate dal legislatore, in funzione del fatto che soltanto in relazione ad esse è previsto un “obbligo” di costituzione su iniziativa dell’avente diritto. E proprio la necessità di un titolo costitutivo distingue le servitù dai limiti legali della proprietà (art. 873 c.c.), con i quali pure hanno qualche attinenza. Il contenuto può infatti essere il medesimo e la reciprocità, che caratterizza i limiti legali, può aversi anche nelle servitù (cfr. del resto l’art. 1062 c.c., relativo alla cd. destinazione del padre di famiglia. Vedi in proposito Baralis, G., I diritti reali di godimento, in Lipari, N.-Rescigno, P., Diritto civile, II, t. 2, Milano, 2009, 235; Cass., 2.6.1992, n. 6552, a proposito dei limiti edificatori imposti, in una lottizzazione, ai singoli lotti nei confronti degli altri).
Per quanto riguarda lo svolgimento del rapporto, la disciplina è sostanzialmente comune alle servitù coattive e alle volontarie. Si applicano le disposizioni generali, contenute negli artt. 1063-1071 c.c., in quanto non derogate dalle parti (per ciò che attiene alle servitù volontarie) o dalla legge (con riferimento alle servitù coattive). Nella categoria delle servitù volontarie rientrano in primo luogo quelle costituite tra le parti per contratto o, unilateralmente, con testamento. Il contratto dovrà avere forma scritta (art. 1350 c.c.) ed essere trascritto ai fini dell’opponibilità ai terzi (art. 2652 c.c.). Non presenta particolari problemi, quale fonte delle servitù, il testamento, giacché previsto dall’art. 1058 c.c. e ritenuto dalla giurisprudenza l’unico negozio unilaterale a disposizione dei privati al fine suddetto. La giurisprudenza esclude, infatti, contro l’opinione prevalente in dottrina (cfr. Granelli, C., La dichiarazione ricognitiva dei diritti reali, Milano, 1983, passim) l’applicabilità dell’art. 1988 c.c. alle servitù, e ai diritti reali in genere (v. Cass., 24.8.1990, n. 8660). Il principio di causalità delle attribuzioni non consente che alle disposizioni derogatorie dell’art. 1988 c.c., già espressamente limitate per quanto riguarda gli effetti obbligatori, venga data un’interpretazione più ampia di quanto risulta dalla lettera della legge.
L’art. 1031 c.c. afferma che le servitù possono essere costituite coattivamente o volontariamente e prosegue dicendo: «Possono anche essere costituire per usucapione o per destinazione del padre di famiglia». Le servitù alle quali si riferiscono questi modi di acquisto possono ricomprendersi nella più ampia categoria delle servitù volontarie. Il loro contenuto, infatti, è determinato dall’iniziativa volontaria dei privati e non si fondano invece, come le servitù coattive, su presupposti legali, determinati in definitiva dalla sentenza del giudice.
La giurisprudenza esclude che possano costituirsi per usucapione le servitù coattive (Cass., 1.8.2001, n. 10470). Le norme che le riguardano (da interpretarsi restrittivamente, in considerazione di un principio generale di libertà), non richiamano affatto, quali modi di costituzione delle stesse, l’usucapione e la destinazione del padre di famiglia. Inoltre l’eventuale conformità della servitù esercitata di fatto, rispetto al tipo legale, è puramente occasionale e fortuita, non il frutto consapevole di un esercizio corrispondente al diritto: non risulta, insomma, l’animus di possedere una servitù legale, ma soltanto quello di possedere una servitù, sia pure dello stesso tipo di quella prevista dalla legge. Perché una servitù possa acquistarsi per usucapione (o per destinazione del padre di famiglia) è necessario che si tratti di servitù apparenti (art. 1061 c.c.), ossia di servitù per le quali si hanno «opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio» (art. 1061, co. 2, c.c.). Si vuole, in sostanza, dare modo al proprietario del fondo, destinato a diventare servente, di reagire all’usurpazione del suo diritto, che culmina nell’acquisto della servitù in favore del possessore; si vuole, ancora, che attraverso le «opere visibili e permanenti» si riveli in modo non equivoco l’intenzione di esercitare la servitù e possa escludersi la “tolleranza” da parte del proprietario del fondo servente. Le «opere» visibili e permanenti, destinate all’esercizio della servitù, sono costituite, in primo luogo, da costruzioni o manufatti realizzati “dall’uomo”, di regola dal possessore. Sono perciò da considerarsi certamente apparenti le servitù di acquedotto o di elettrodotto, al cui esercizio sono destinate le opere, o costruzioni relative. E così pure la servitù di veduta, o di prospetto, e la servitù di passaggio, se, ad es., venga costruito all’ingresso un cancello, o se gli avvallamenti naturali del terreno vengano colmati per mezzo di manufatti stabili; e anche se la sede del passaggio venga semplicemente ricoperta di ghiaia, per evitare gli inconvenienti causati dall’acqua e dalle intemperie. Si ritengono pure apparenti, e usucapibili, anche servitù riguardo alle quali non potrebbe parlarsi correttamente di «opere», ossia di manufatti. Così, ad es., il sentiero determinato dal continuo passaggio non è certamente un’opera, nel senso comune della parola. Si ritiene tuttavia che in casi del genere l’usucapione sia possibile; si supera infatti la lettera della legge, ma se ne rispetta l’esigenza fondamentale, insita nel requisito dell’apparenza, che è quella appunto di rivelare in modo non equivoco il possesso della servitù a favore del fondo dominante e l’assoggettamento del fondo servente (Cass., 12.7.2006, n. 15869)
Accanto all’usucapione, un altro modo di acquisto a titolo originario è costituito dalla destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.). La quale si verifica quando «consta, mediante qualunque genere di prova che due fondi, attualmente divisi, sono stati posseduti dallo stesso proprietario, e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù» (art. 1062, co. 1, c.c.). Per l’acquisto della servitù è necessario anzitutto che i fondi (o le parti di fondo) attualmente divisi, appartenessero originariamente allo stesso proprietario; in secondo luogo che sui fondi, i quali a seguito della divisione saranno dominante e servente, il proprietario abbia costruito, piantato o lasciato delle «opere» o «cose», visibili e permanenti, destinate all’esercizio della futura servitù. Ovviamente, finché il proprietario è uno solo non vi può essere servitù, ma solo uno stato di «asservimento» di una parte del fondo ad un’altra: ad esempio per la costruzione di una strada necessaria al collegamento di due appezzamenti di terreno, che fanno parte della stessa tenuta. La «destinazione», che dà il nome all’istituto non rileva tanto come atto volontario: il proprietario si limita, infatti, a porre o lasciare le cose, in modo tale da recare una certa utilità al proprio fondo, ma senza imprimere un vincolo giuridico al rapporto di «servizio» così determinato (Cass., 20.7.2009, n. 16842; in senso contrario cfr. Palazzolo, S., Servitù, I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1992, 24.) La servitù, corrispondente allo stato di fatto, si formerà a favore degli aventi diritto per il semplice fatto della separazione tra i due fondi originariamente uniti, che potrà avvenire per divisione propriamente detta, per alienazione di una parte del fondo, per usucapione, per espropriazione, etc. In sostanza, con l’istituto di cui stiamo parlando, si vogliono garantire ai fondi che risultano dalla divisione quelle medesime utilità che il “padre di famiglia” aveva inteso assicurare, mediante opere visibili e permanenti, alla proprietà, quand’era unita.
La volontà diretta alla costituzione della servitù è dunque irrilevante. Tuttavia il comma 2 dell’art. 1062 c.c. stabilisce che «[s]e i due fondi cessarono di appartenere allo stesso proprietario, senza alcuna disposizione relativa alla servitù, questa s’intende stabilita attivamente e passivamente a favore e sopra ciascuno dei fondi separati». Vi è posto dunque, nella destinazione del padre di famiglia, per un aspetto negoziale, in assenza del quale si darà luogo, compatibilmente con la situazione di fatto, alla nascita di servitù reciproche. La disposizione relativa alla servitù potrà pertanto escluderne la reciprocità, limitarne il contenuto o impedirne senz’altro la nascita. Secondo la giurisprudenza (Cass., 20.6.2011, n. 13534) tale disposizione deve risultare da un’apposita clausola che deve avere quindi forma scritta.
Secondo l’art. 1032, co. 1, c.c. «[q]uando, in forza di legge, il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa, in mancanza di contratto, è costituita con sentenza.»
Come si è già detto, la legge attribuisce ai privati il diritto di costituire servitù di qualsiasi contenuto, purché ricorra il requisito dell’utilitas rei. In alcuni casi, però, quando vi sia la necessità di soddisfare determinate esigenze economico-sociale, viene attribuito al proprietario di un fondo il diritto di ottenere a carico del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù. Si parla, in questi casi, di servitù coattiva. I bisogni, le esigenze per il cui soddisfacimento si prevede l’imposizione della servitù, sono stabilite dalla legge; la loro più precisa «estensione» sarà determinata dal giudice con la sentenza che dà luogo alla servitù e, «nei casi specialmente determinati dalla legge», dall’atto «dell’autorità amministrativa» (art. 1032, co. 1, c.c.). Le figure o tipi di servitù coattiva sono disciplinate, per la maggior parte, nel codice civile. Il quale ha recepito quelle di più antica tradizione, come la servitù di passaggio, di acquedotto, di somministrazione d’acqua (e altre minori relative all’uso delle acque). E vi ha aggiunto poche fattispecie nuove, corrispondenti ai nuovi bisogni, soprattutto di carattere industriale; dettando inoltre una specifica disciplina per le servitù di bonifica (art. 1044 ss. c.c.), in connessione con le leggi speciali in materia di bonifica e di vincolo forestale.
Le servitù coattive sono state inoltre separate dai limiti legali della proprietà, che nel codice del 1865 figuravano assieme, riunite nella categoria delle servitù stabilite dalla legge. Gli interessi inerenti alle servitù coattive possono ricondursi genericamente al concetto di necessità; più concretamente si specificano nei «bisogni della vita», soddisfatti dalla servitù di acquedotto (art. 1033 c.c.), nel «conveniente uso del proprio fondo» (art. 1051 c.c., in materia di servitù di passaggio), negli «usi agrari o industriali» (art. 1033 c.c.), o nelle «esigenze dell’agricoltura e dell’industria» (art. 1052 c.c.). Si tratta di interessi di carattere privato, che hanno un rilievo generale o pubblico (a cominciare dai più privati tra tali interessi, relativi ai «bisogni della vita»). Quando viene meno la necessità, in virtù della quale è la servitù coattiva è sorta, la giurisprudenza ritiene che possa venir meno la stessa servitù, in applicazione analogica del principio contenuto negli artt. 1055 c.c. e 1049, co. 3, c.c., secondo i quali le relative servitù possono essere soppresse dal giudice, a istanza del proprietario dell’uno o dell’altro fondo. A proposito di necessità e delle esigenze sociali sottostanti, va ricordato che si è ritenuto incostituzionale l’art. 1052, co. 2, c.c., nella parte in cui questo non prevede che il passaggio coattivo a favore di un fondo non intercluso possa essere concesso dall’autorità giudiziaria quando riconosca che la domanda risponde alle esigenze di accessibilità degli edifici destinati ad uso abitativo (con riguardo alla legislazione relativa ai portatori di handicap). Così C. Cost., 10.5.1999, n. 167, e, su tali basi, Cass., 28.1.2009, n. 2150.
Il contenuto o l’«estensione» della servitù e le modalità d’esercizio sono determinate in primo luogo dal titolo costitutivo, ossia dall’atto o dal fatto che ha dato loro origine: il contratto o il testamento, il possesso o lo stato di fatto, la sentenza o l’atto amministrativo. Se il titolo costitutivo riveli all’atto pratico delle lacune, soccorrono le norme (dispositive) contenute negli artt. 1063-1071 c.c.; norme che hanno dunque un valore interpretativo e integrativo del titolo e che sono ispirate ad un criterio, già previsto nel diritto romano (cfr. Celso, Digesta, VIII, I, 9) detto del minimo mezzo o dell’uso civile, secondo cui «[n]el dubbio circa l’estensione e le modalità di esercizio, la servitù deve ritenersi costituita in guisa da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minor aggravio del fondo servente». I bisogni del fondo dominante andranno valutati con riguardo al momento in cui la servitù è stata concessa. È chiaro però che vanno tenute in conto «l’evoluzione tecnica o le modificazioni della realtà sociale» (v. Comporti, M., Servitù, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 312): non si potrà certo pretendere di opporsi al passaggio con mezzi a trazione meccanica se la servitù, costituita in antica data, prevedeva il passaggio con carri trainati da buoi o da cavalli (Cass., 19.2.2007, n. 3747). Una conseguenza del criterio dell’uso civile, stabilita dalla stessa legge (art. 1064, co. 1, c.c.) è quella relativa ai c.d. accessori della servitù (o adminicula servitutis), secondo cui «[i]l diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne»: ad es., la servitù di attingere acqua comprenderà certamente il diritto di passaggio sul fondo dove la fonte si trova.
In applicazione del criterio, ora richiamato, di contemperamento degli interessi tra proprietario del fondo servente e dominante, la legge stabilisce che «[i]l proprietario del fondo dominante non può fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente» (art. 1067, co. 1, c.c.) e, in modo simmetrico, vieta al proprietario del fondo servente il compimento «di alcuna cosa che tenda a diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo» (art. 1067, co. 2, c.c.). L’art. 1069 c.c. prevede inoltre che «le opere sul fondo servente», necessarie «per conservare la servitù» (ad es. la riparazione di un acquedotto nella relativa servitù), siano compiute dal proprietario del fondo dominante, e a sue spese, salvo che giovino anche al proprietario del fondo servente; nel qual caso saranno sostenute «in proporzione dei rispettivi vantaggi». L’art. 1068 c.c., stabilisce, infine, che il cd. locus servitutis (ossia lo spazio, precisamente determinato, sul quale si esercita la servitù – che va distinto dal fondo servente –) possa essere modificato, su iniziativa del proprietario di quest’ultimo, quando l’originario esercizio sia divenuto, nel corso del tempo, «più gravoso», salva però l’«eguale comodità» per il titolare della servitù. Analoga iniziativa può essere presa, del resto, anche da quest’ultimo, quando provi che il cambiamento sia per lui «di notevole vantaggio», senza che si determinino pregiudizi a carico del fondo servente. Si attua, infine, un vero e proprio trasferimento della servitù, quando, su istanza del proprietario del fondo servente, l’autorità giuridizia disponga che la servitù sia «trasferita su altro fondo del proprietario del fondo servente o di un terzo che vi acconsenta», a condizione però che l’esercizio della servitù «riesca egualmente agevole al proprietario del fondo dominante» (Cass., 13.10.2004, n. 20204). In tutti i casi ora descritti si ha, comunque, una modificazione del titolo costitutivo, che richiederà la forma scritta e la trascrizione. Se il fondo dominante venga diviso (ad es. per vera e propria divisione o per alienazione a più soggetti, la servitù rimane ed è «dovuta a ciascuna porzione» (art. 1071, co., 1, c.c.). L’unico diritto originario si trasforma dunque in più rapporti di servitù autonomi, il cui esercizio non dovrà però rendere «più gravosa la condizione del fondo servente» (art. 1071, co. 1, c.c.). Quando la divisione riguarda il fondo servente, se la servitù ricade su una parte determinata del fondo servente (cd. locus servitutis), «le altre parti sono liberate» (art. 1071, co. 2, c.c.).
Negli artt. 1072-1078 il codice civile regola le fattispecie che danno luogo all’estinzione delle servitù. Si tratta essenzialmente della confusione e della prescrizione. Non viene invece richiamata la scadenza del termine, che pure è ammissibile, non essendo la perpetuità un requisito delle servitù, come accadeva nel diritto romano. Né viene disciplinato, diversamente da quanto si verifica a proposito dell’usufrutto, il perimento della cosa sulla quale il diritto è costituito. Non presenta particolari difficoltà d’interpretazione la confusione, che si ha «quando in una sola persona si riunisce la proprietà del fondo dominante con quella del fondo servente» (art. 1072 c.c.). Più delicato è invece il problema riguardo alla prescrizione, che si realizza, secondo l’art. 1073 c.c., quando della servitù «non se ne usa per venti anni». Non è sempre facile, infatti, determinare il termine da cui la prescrizione comincia a decorrere. Nelle servitù «che si esercitano a intervalli» (ad es. una servitù di pascolo) il termine decorre, secondo la regola generale «dal giorno in cui la servitù si sarebbe potuta esercitare e non ne fu ripreso l’esercizio» (art. 1073, co. 3, c.c.). Nelle servitù negative e in quelle continue, «per il cui esercizio non è necessario il fatto dell’uomo», il termine decorre invece «dal giorno in cui si è verificato un fatto che ne ha impedito l’esercizio» (ad es. da quando il proprietario del fondo servente ha iniziato a costruire, contro il divieto risultante da una servitus non aedificandi). Tuttavia, nelle servitù continue, quando è necessario, almeno nella fase iniziale, «il fatto dell’uomo» (così, ad es., nella servitù di acquedotto) il termine decorre, secondo la regola generale, dal non uso. L’art. 1074 c.c. stabilisce inoltre che «[l]’impossibilità di fatto di usare delle servitù e il venir meno dell’utilità della medesima non fanno estinguere la servitù, se non è decorso il termine indicato dall’articolo precedente», ossia il termine di prescrizione (Cass., 30.1.2006, n. 1854). Naturalmente non dovrà trattarsi di impossibilità totale e definitiva, ché altrimenti la servitù si estinguerebbe immediatamente .
Quanto al perimento del fondo servente o dominante, si ritiene generalmente che esso determini l’estinzione della servitù (v. Comporti, M., Servitù prediali, cit., 320). La prescrizione della servitù è interrotta dall’esercizio effettivo della servitù da parte del titolare, dalla «notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio» (art. 2943 c.c.; Cass., 14.12.1978, n. 5958), e così pure per effetto del riconoscimento da parte del proprietario del fondo servente (art. 2944 c.c.; Cass., 20.1.2010, n. 938).
Il contenuto delle servitù non può consistere in un facere o in un dare. Coerentemente l’art. 1969 c.c. pone, di regola, a carico del proprietario del fondo dominante le opere e le spese necessarie alla conservazione delle servitù. È possibile, tuttavia, che il titolo costitutivo o la legge stabiliscano che determinate prestazioni gravino sul proprietario del fondo servente. Ciò può avvenire tuttavia se tali prestazioni siano puramente accessorie (art. 1030 c.c.). Ad es, in una servitù di passaggio, il proprietario del fondo servente può obbligarsi ad applicare un congegno elettronico al cancello che chiude l’accesso al fondo, e a provvedere alla sua manutenzione. Gli obblighi relativi alle prestazioni accessorie, poiché fanno parte del contenuto della servitù, «seguono» naturalmente la cosa e durano quanto la servitù stessa, cioè tendenzialmente in perpetuo. Possono quindi divenire con il tempo troppo gravose per il proprietario del fondo servente ed è naturale perciò che gli sia consentito di sciogliersi da un rapporto obbligatorio di durata tendenzialmente indeterminata, analogamente a quanto avviene nei rapporti obbligatori non determinati nel tempo. Tuttavia si deve tener conto del vincolo che lega le prestazioni accessorie alla proprietà del fondo servente: il soggetto passivo non potrà liberarsi, se non rinunciando al diritto di proprietà, che ne costituisce il fondamento. L’art. 1070 c.c. dispone, a tale riguardo, che quando il proprietario del fondo servente «è tenuto, in forza del titolo o della legge alle spese necessarie per la conservazione della servitù, può sempre liberarsene, rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante.» La disposizione legislativa non chiarisce in quale modo si determini il cd. abbandono liberatorio. E sono state fatte varie ipotesi in dottrina. A nostro parere, con l’abbandono liberatorio il proprietario del fondo servente si libera immediatamente dagli obblighi a suo carico offrendo, sostanzialmente secondo lo schema del contratto unilaterale (art. 1333 c.c.), la proprietà del fondo servente al titolare della servitù. Questi, a sua volta, potrà avvantaggiarsi dell’offerta, senza bisogno di accettazione, o escludere invece l’acquisto offertogli, rifiutando in un congruo termine (art. 1333 c.c): in quest’ultimo caso il fondo servente sarà acquistato dallo Stato (art. 823 c.c.). (Natucci, A., Le servitù, in Tratt. Bessone, VII, 2, Torino, 2001, 145; in giurisprudenza, Cass., 22.6.1963, n. 168: l’estinzione degli obblighi e l’acquisto della proprietà sono effetto immediato dell’atto di rinuncia).
Le «azioni a difesa delle servitù» come dice il capo VII del codice civile in materia di servitù sono regolate da un’unica disposizione, l’art. 1079 c.c. A questa breve disciplina bisogna peraltro aggiungere le disposizioni degli artt. 1168-1170 c.c., riguardanti la tutela del possesso, quelle degli artt. 1171 e 1172 c.c., relative alle azioni di nuova opera e di danno temuto, la norma dell’art. 2653, n. 1, c.c., in cui sono menzionate (accanto alle domande di accertamento) «le domande dirette a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento» e le varie altre norme, sparse nel codice di procedura civile, relative ai procedimenti speciali, suscettibili di essere applicate anche alle servitù (v., in particolare i provvedimenti di urgenza di cui all’art. 700 c.p.c.). L’art. 1079 riunisce quattro diverse fattispecie: a) l’azione di accertamento diretta contro chi ne contesta l’esercizio; b) l’azione volta a far cessare eventuali impedimenti o turbative; c) l’azione di riduzione in pristino; d) l’azione di risarcimento del danno; le prime tre definite in dottrina azioni reali, l’ultima, azione personale.
La formulazione della norma non è troppo precisa, e si deve fare qualche chiarimento. Può darsi innanzitutto che, indipendentemente da ogni pregiudizio attuale, il titolare della servitù intenda far accertare il suo diritto. Purché esista un interesse ad agire, l’azione di puro e semplice accertamento sarà ammissibile (ad es. nel caso di acquisto per usucapione, allo scopo di fissare, mediante una sentenza l’appartenenza e il contenuto della servitù, e per poter trascrivere l’acquisto (art. 2651 c.c.). Se sussistono da parte di terzi turbative o molestie all’esercizio della servitù (come pure contestazioni della titolarità), il titolare della servitù può chiedere l’accertamento del suo diritto al fine far cessare le molestie, e nel caso che sia stato privato del possesso della servitù, può – analogamente al proprietario che agisce con l’azione di rivendica – far condannare il convenuto alla restituzione del possesso. Espressione processuale del diritto di servitù, e perciò di natura “reale” è infine l’azione volta ad ottenere la riduzione in pristino, secondo quanto prevede l’ultima parte dell’art. 1079 c.c. Questo mezzo di tutela, come pure quelli già considerati tendono all’affermazione e alla reintegrazione del diritto violato e prescindono da ogni profilo soggettivo di colpevolezza. L’ultima delle azioni menzionate nell’art. 1079 c.c. riguarda invece il risarcimento dei danni, disciplinato dall’art. 2043 c.c. e ss. e potrà farsi valere solo in presenza della colpa del danneggiante (richiesta, in via di principio dall’art. 2043 c.c.) o in base agli altri criteri d’imputazione stabiliti dalle norme “speciali” in materia di fatti illeciti. Qualche problema interpretativo sorge a proposito della legittimazione passiva alle azioni reali a tutela delle servitù (sintetizzate genericamente nella cd. azione confessoria). La dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono, a tale proposito, che l’azione confessoria servitutis debba essere rivolta contro coloro che non solo contestino l’esistenza della servitù, ma abbiano altresì un rapporto attuale con il fondo servente, ossia contro il proprietario, il titolare di un diritto reale o il possessore del fondo servente (Cass., 11.2.1994, n. 1383).
Artt. 1027 – 1099 c.c.
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