Sesso e religione
La religione ha un sesso?
Per molti anni gli sforzi degli studiosi della religione hanno mirato a raggiungere conoscenze oggettive e avaloriali su Homo religiosus. Al centro del dibattito scientifico sulla religione c’era l’individuazione degli elementi che caratterizzano l’uomo in quanto uomo religioso. E come si cercava di scavare nell’essenza della religione, così bisognava decifrare anche l’essenza religiosa dell’uomo. Homo religiosus veniva trattato come una categoria sessualmente neutra; sicché per molto tempo nessuno si poneva interrogativi circa le differenze specifiche di sesso. È interessante notare come, accanto a questo indirizzo di fondo della ricerca religiosa, si trovino, sebbene in maniera frammentaria ma con sempre maggiore frequenza, annotazioni e accenni relativi a una speciale religiosità delle donne. Spesso si afferma anche che le donne siano in linea di principio più religiose degli uomini.
Lo studioso delle religioni Friedrich Heiler (1892-1967), fin dagli anni Trenta del 20° sec. si è occupato, nei suoi corsi d’insegnamento, del ruolo della donna nelle religioni. Il contenuto delle sue lezioni fu pubblicato postumo dalla moglie Anne Marie con il titolo Die Frau in den Religionen der Menschheit (1977). F. Heiler attribuisce l’origine e la diffusione del sacerdozio femminile alle peculiari forze e qualità della donna. Per lui, la donna è particolarmente adatta al servizio religioso, perché è in più stretto rapporto con le potenze misteriose e insieme pericolose, che si manifestano in essa per le sue specifiche funzioni biologiche (quali mestruazione, concepimento e parto). La sua forte sensibilità e suggestionabilità la rendono anche, si dice, più adatta del maschio alla dimensione estatico-visionaria della religione.
Benché raramente i ruoli più elevati dell’autorità religiosa nelle grandi religioni attuali siano occupati da donne, la sensibilità, la capacità di entusiasmo, e la suggestionabilità continuano a essere ampiamente considerate come presupposti di una più marcata religiosità. I vari studi sui valori condotti in Europa negli ultimi decenni e i più recenti studi sociologici dimostrano come esistano significative differenze di sesso per quanto riguarda i contenuti della fede e la pratica religiosa. Per es., le donne più degli uomini riflettono sul senso della vita e della morte e, in generale, credono a una vita dopo la morte, in particolare con riferimento alla moderna credenza nella reincarnazione.
Ma se le donne siano o no più religiose degli uomini, è una domanda cui non è facile rispondere. Non da ultimo la difficoltà è dovuta al fatto che la ricerca sul pensiero, il sentimento, la fede e la vita religiosa delle donne è cominciata – a parte poche eccezioni – solo una trentina d’anni fa e a tutt’oggi non è ancora veramente integrata nel quadro della scienza tradizionale. Solo un’ampia rassegna delle feminae religiosae del passato e del presente, una riflessione sul rapporto fra i sessi e un’analisi delle immagini e dei ruoli specifici relativi al sesso potranno consentire di affrontare la questione se davvero le donne siano più religiose degli uomini e perché.
La religione e il sesso sono collegati tra loro in vario modo. Prima di tutto, le tradizioni, le concezioni, i simboli e le pratiche religiose non sono sessualmente neutri, ma portano immancabilmente l’impronta delle specificità sessuali. Poi i ruoli dei sessi, le immagini, gli stereotipi, gli ideali e l’autocomprensione delle donne e degli uomini all’interno di una determinata cultura sono in costante interazione con le rispettive eredità religioso-filosofiche. E inoltre, la stessa ricerca e descrizione tradizionale delle religioni sono per lo più caratterizzate da una unilaterale prospettiva maschile. Rare sono state le indagini scientifiche sulla religione che si sono occupate in passato del tema della donna e i pochi studi che l’hanno preso in considerazione entro l’orizzonte della ricerca tradizionale hanno trattato le donne come oggetti di studio esterni. Così, per es., parlando della posizione della donna nella religione egiziana si dice che sotto molti aspetti gli egiziani riconoscevano alle loro donne uguali diritti. Ma il punto di vista della trattazione e i soggetti dei comportamenti sono i maschi egiziani, mentre le donne vi compaiono come oggetti che incarnano una realtà altra rispetto agli egiziani veri e propri. Negli studi classici sulle religioni, le donne in quanto soggetti religiosi non vengono considerate e il quadro concettuale proprio di una determinata tradizione religiosa – con i presupposti che ne sono alla base – non viene sottoposto ad alcuna analisi critica. Solo l’influenza della teoria critica femminista sulle ricerche di scienza delle religioni ha reso possibile un radicale cambiamento di prospettiva.
Sesso biologico e sesso sociale: natura, cultura e differenze
Con l’introduzione della categoria di genere si è affacciata in campo scientifico una nuova prospettiva di ricerca, che è stata considerata come una svolta significativa negli studi contemporanei delle religioni. Genere indicava in origine il sesso grammaticale, e a partire dagli anni Settanta del Novecento ha cominciato a essere usato per indicare il sesso sociale in quanto distinto dal ‘sesso’, inteso come biologico. Dietro questa distinzione c’è la sopravvenuta consapevolezza che le peculiarità e i comportamenti specifici di sesso non sono determinati semplicemente dalla biologia, ma recano l’impronta delle convenzioni socioculturali. Il genere, dunque, designa costrutti culturali che connotano la socializzazione dei sessi. Ma la distinzione un tempo chiara fra sesso biologico e sesso sociale ha cominciato a essere fortemente criticata a partire dagli anni Novanta, soprattutto perché poggia su una incongrua divisione fra biologia e società. Questa critica colpisce in maniera nuova la vecchia contrapposizione fra natura e cultura, materia e spirito, che ha segnato in modo decisivo il rapporto fra i sessi. Nella storia intellettuale dell’antichità e dell’Europa – ma non solo – le donne erano identificate con la natura e la materia e subordinate alla cultura e allo spirito, che invece erano di pertinenza del sesso maschile. Per superare la separazione dicotomica fra sesso biologico (sexus) e sesso sociale (genus), si può intendere genere in primo luogo come una categoria sociobiologica che abbraccia le interazioni fra le differenze sessuali e le interpretazioni socioculturali. C’è poi da considerare che nell’attuale ricerca postmoderna lo stesso sesso biologico è considerato come un risultato di processi costruttivi. Il sesso del corpo umano e il suo orientamento sessuale non sono semplicemente una parte predeterminata e fissa della biologia, ma costituiscono essi pure un’area di costruzione culturale – a cominciare dalle prescrizioni sull’abbigliamento e dal modo di muoversi per arrivare fino alla costrizione normativa, alla eterosessualità. Le ricerche sulla omosessualità, sulla transessualità e sulle diverse forme di ‘terzo sesso’ o di ‘sessi multipli’ hanno cancellato i confini apparentemente chiari fra natura e cultura. Esemplari, a questo proposito, sono gli hijra indiani (Reddy 2005). Si tratta di maschi che consacrano i loro genitali alla dea indù Bedhraj Mata e si fanno evirare con un’asportazione totale degli organi sessuali. Con questa operazione essi ottengono la benedizione della dea e la capacità di trasmetterne la forza vitale. Gli hijra indossano abiti femminili, portano nomi femminili e si comportano ‘come’ donne – assumono un ruolo passivo negli scambi sessuali (con partner esclusivamente maschili) ed eseguono attività tradizionalmente femminili. Il corpo originariamente maschile diventa parte di un’identità sessuale femminile.
È importante sottolineare che la critica al concetto di genere non implica che esso sia privo di senso. Nella scienza religiosa – come d’altronde nelle scienze in generale – la ricerca di genere rimane prevalentemente una ricerca sulle donne, perché è da superare l’esistente asimmetria nella rappresentazione e nel sapere sui sessi. Ma poiché finora la ricerca si è occupata per lo più della vita e del pensiero dei maschi senza la minima consapevolezza della problematica di genere, è necessario che anche le costruzioni socioculturali dell’essere maschi siano analizzate criticamente (v. Redeeming men, 1996). Così come la ‘femminilità’, anche la ‘mascolinità’ non è una realtà naturale, bensì progetto e interpretazione. Le costruzioni della femminilità e della mascolinità sono in stretta connessione fra loro, in quanto tutti i campi della vita umana sono segnati da riferimenti al sesso e dalle relazioni fra i sessi. In linea di principio, dunque, entrambi i sessi e il loro rapporto reciproco sono al centro della ricerca di genere. Per evitare universalizzazioni errate, bisogna che l’attenzione puntata sul genere si allarghi sempre alle categorie differenzianti dell’appartenenza etnica e di quella di classe. Non esiste ‘la’ donna, così come non esiste ‘l’uomo’. Soltanto quando ci si dovette confrontare con le donne nere, latinoamericane e asiatiche ci si accorse, a volte dolorosamente, che anche le prime tappe della ricerca sulle donne erano state compiute sotto l’influenza delle deformazioni colonialistiche e imperialistiche della produzione scientifica occidentale. Oggi la ricerca sulle donne e di genere si caratterizza per l’autoriflessione critica e la sensibilità per l’intreccio di scienza, appartenenza culturale e interessi egemonici di potenza. Gli studi di genere che si riferiscono a tradizioni religiose di aree culturali esterne all’Europa e al Nordamerica sono consapevoli dei diversi contesti della vita femminile e maschile e danno spazio anche alle voci e alle prospettive di donne e uomini ‘non occidentali’ (Religion, gender and diversity, 2004).
Il maschio come misura dell’uomo?
Rita M. Gross, che può essere considerata una pioniera della ricerca sulle donne nell’ambito della scienza delle religioni, sollevò una quarantina d’anni fa la spinosa questione del perché il complesso dei temi attinenti al rapporto donna-religione fosse stato raramente preso in considerazione negli studi. Ebbe così inizio quella che lei stessa più tardi avrebbe chiamato la critica dell’androcentrismo e avrebbe considerato come la sfida fondamentale della ricerca sulle donne in tutti i campi della scienza. Mentre studiava scienza delle religioni all’università di Chicago, Gross si propose di scrivere un lavoro sul ruolo delle donne nelle religioni australiane e melanesiane. Ma in pratica non riuscì a trovare materiali per sviluppare il suo argomento. Si rivolse allora per qualche aiuto a uno specialista del settore e si sentì rispondere che in quelle religioni i maschi erano considerati sacri, mentre le donne erano trattate come profane e impure. Le donne, inoltre, non avevano una vera e propria vita religiosa di qualche peso. Passando al setaccio le fonti disponibili, Gross scoprì che esistevano alcuni miti secondo i quali in origine erano state le donne a possedere il potere e a insegnare ai maschi tutti i rituali religiosi. Ma i maschi avevano strappato il potere e il sapere alle donne. La studiosa trovò anche che molti rituali riecheggiavano processi fisiologici femminili (come la mestruazione e il parto), ma proprio le donne ne erano escluse. Queste scoperte la portarono a concludere che la ricerca tradizionale non aveva tenuto in alcun conto questo materiale.
La definizione di androcentrismo data da Gross nel 1977 (Beyond androcentrism, pp. 7 e sgg.) è ancora oggi illuminante.
«1. Nel pensiero androcentrico, norma maschile e norma umana vengono a coincidere e diventano identiche. Il maschio è la misura dell’uomo.
2. Poiché maschile e umano si identificano, viene dato per scontato che le donne siano assorbite nel pensiero maschile, nel senso di genere; lo stesso discorso vale per la lingua e la ricerca.
3. Nel momento in cui le donne – dopo che è diventato evidente che in ogni società esiste una forma di differenziazione dei ruoli dei sessi – vengono prese in considerazione in quanto tali, esse sono guardate come oggetti contrapposti all’umanità, […] che devono essere spiegati e inseriti nella propria concezione del mondo con lo stesso status ontologico ed epistemologico degli alberi, degli unicorni, delle divinità o di qualsiasi altro oggetto che dev’essere discusso per rendere intelligibile l’esperienza. Sono lì nel mondo, ma vengono discussi come ‘altro’ rispetto al soggetto umano che cerca di capire il suo mondo […]. Mentre i maschi vengono presentati come soggetti religiosi, le donne compaiono solo in quanto rapportate ai maschi, che costituiscono il vero oggetto della ricerca».
In molti studi dedicati specificamente alle donne negli ultimi tre decenni è stato portato alla luce l’androcentrismo spesso inconsapevole delle tradizioni religiose nonché della ricerca scientifica che le ha indagate. L’androcentrismo condiziona non soltanto i fatti e i dati della storia religiosa, ma anche la raccolta dei dati, la loro esposizione, e l’elaborazione teorica della scienza delle religioni come disciplina scientifica. Si è visto così che il cosiddetto Homo religiosus era in molti casi piuttosto il vir religiosus.
Un esempio che illustra bene il formarsi di una teoria androcentrica è rappresentato dal citatissimo studio di Walter Burkert (Homo necans, 1997), che lavora con la categoria Homo religiosus. Burkert vede nel fenomeno della caccia la chiave decisiva del processo di ‘ominizzazione’. Strettamente collegata con la caccia è l’uccisione della vittima, come ci dicono molte testimonianze della preistoria e delle religioni etniche. Burkert interpreta l’atto di uccidere la vittima a conclusione dell’evento-caccia come l’impulso religioso originario. Benché insista ripetutamente sul fatto che la caccia sia una attività da maschi, la sua tesi centrale è che l’autocoscienza di Homo religiosus affondi le sue radici nel comportamento di Homo necans (p.9). «L’uomo – scrive – divenne uomo attraverso la caccia, attraverso l’atto dell’uccidere» (p. 30). Questo collegamento è risultato così affascinante che intorno a esso sono stati costruiti alcuni noti abbozzi di teoria delle religioni, che attribuiscono alla violenza espressa nell’atto di uccisione legato alla caccia, nel sacrificio e nella guerra, il ruolo centrale nell’esperienza religiosa umana. La tesi della sacralizzazione della violenza, tuttavia, appare problematica, tanto più dopo i moderni studi empirici sulle differenze specifiche di sesso nell’esercizio della violenza. Sullo sfondo della tesi si intravede una certa rappresentazione della mascolinità, definita da modi di comportamento, modelli di vita, esperienze e atteggiamenti particolari, ma trasformata in supporto generale per l’interpretazione del senso religioso dell’uomo.
Nella più recente scienza delle religioni la categoria di Homo religiosus è stata sottoposta a molte critiche, ma non tanto per il suo implicito androcentrismo, quanto per l’uso astorico e avulso dal contesto che ne è stato fatto. Nel frattempo, la ricerca di un’essenza dell’uomo religioso valida fuori dal tempo è stata abbandonata come impresa inadeguata. Questo, però, vuol dire soltanto che vengono considerate come insostenibili affermazioni universali sull’uomo religioso che prescindano dalle specifiche condizioni socioculturali. Si sottrae a questa critica il fatto che le conoscenze della scienza religiosa convenzionale si limitano nella maggioranza dei casi alla parte maschile dell’umanità.
Poiché i presupposti androcentrici inconsci che sono alla base della ricerca scientifica portano a risultati incompleti e distorti, si richiede un radicale cambiamento di paradigmi. Gli studi di genere vanno integrati nel quadro complessivo della ricerca. Il che non si realizza aggiungendo semplicemente al lavoro di ricerca un capitolo separato sulle donne; l’attuale indagine sulle esperienze religiose e le biografie di donne, sugli atteggiamenti verso le donne e sulle immagini e i simboli femminili, mette invece in discussione tutte le precedenti prospettive e metodologie. La ricerca di genere non è una sorta di complemento alla ricerca tradizionale, un’aggiunta che lascia proseguire quest’ultima per la sua strada senza toccarla nel fondo. Sul piano scientifico l’androcentrismo è obsoleto così come lo è l’eurocentrismo o l’etnocentrismo. Per comprendere la religiosità umana, ogni singolo problema specifico deve essere considerato dal punto di vista di entrambi i sessi. Quando si parla di religione, è sempre in discussione anche la questione dei sessi.
Religione e patriarcato
La consapevolezza che le grandi religioni contemporanee portano l’impronta di una concezione patriarcale, e che rispecchiano e sostengono il predominio maschile nella società, non ha ancora alle spalle un lungo passato. Il concetto di patriarcato rimanda principalmente alla struttura sociale di un aggregato umano, a cominciare dal sistema patrilineare della famiglia fino alle istituzioni sociali dominate dal maschio. Le grandi religioni attuali sono nate nel contesto di società organizzate in senso patriarcale e nel corso della loro storia hanno più o meno legittimato la struttura sociale a predominio maschile. È quindi giusto qualificarle come religioni patriarcali. Le differenze fra l’una e l’altra riguardano soprattutto la misura, le forme e le strutture argomentative con cui ciascuna legittima o rafforza il predominio maschile nella rispettiva società.
Solo lentamente va facendosi strada l’idea che proprio le tradizioni, i simboli, le visioni e le pratiche delle religioni che rivendicano validità universale e promettono la salvezza dell’uomo in generale, sono tutt’altro che neutrali sul piano sessuale. Perché nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam – nonostante l’asserita trascendenza rispetto al sesso – ci si rivolge a Dio usando la forma maschile? Perché nell’induismo brahmanico (i brahmani rappresentano lo strato più alto della società, e a essi appartengono gli esperti di religione e di rituali) le donne non possono studiare le sacre scritture e la reincarnazione nel corpo femminile viene considerata come il risultato di cattivi comportamenti? Perché nel jainismo (una religione dai caratteri marcatamente ascetici, nata in India prima del buddhismo) gli esperti maschi si sono spesi per secoli a discutere sulle capacità di redenzione della donna? Perché secondo il Corano i maschi stanno al di sopra delle donne (sura 4, 34)? Perché anche la monaca buddhista spiritualmente più elevata deve sottostare al più piccolo monaco e nel paradiso del Buddha Amida ci sono solo maschi? Perché nella maggior parte delle religioni attuali le donne sono escluse dal sacerdozio o dalle funzioni religiose direttive? Solo quando vengono poste queste domande appare chiaro fino a che punto le religioni stabiliscano fra i sessi differenze che implicano per lo più una discriminazione, una emarginazione o una sottomissione delle donne.
L’importanza della madre nel preservare la patrilinearità porta a un più stringente controllo maschile sulla donna, che viene legittimato in termini religiosi. Le donne sono vincolate alla fedeltà e all’obbedienza al marito. Il marito, in questo contesto, può ricevere uno status divino: così, per es., la donna hindu deve considerare il servizio al proprio sposo come il suo personale servizio divino. L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam sostengono il predominio maschile e il potere discrezionale sulla sessualità femminile con diversi mezzi, come il mitologema della creazione in prima battuta del maschio, l’efficace stereotipo di Eva peccatrice o della presunta maggiore istintività sessuale femminile. A questo è legato l’alto valore attribuito alla verginità e la severa punizione dell’adulterio, soprattutto di quello femminile. L’adulterio commesso dal maschio con una donna non sposata o con una prostituta viene punito in maniera relativamente più mite o viene addirittura tollerato. Con lo stretto controllo della donna in ogni fase della vita da parte del padre, del marito, del figlio o del fratello viene garantita la purezza della linea di discendenza. In questo quadro rientrano anche le numerose regole speciali riservate alle donne, come particolari prescrizioni sull’abbigliamento o la mirata limitazione della libertà di movimento. La rilevanza religiosa della donna si basa in gran parte sul suo ruolo di madre (di figli maschi). In quanto tale, la donna viene venerata oltre misura; tanto nella tradizione induista quanto in quella musulmana la venerazione per la madre supera sotto molti aspetti quella per il padre. In ogni caso, nell’induismo – a differenza che nell’islam – la venerazione per la madre è legata alla venerazione di una figura divina di madre.
Il buddhismo, il cristianesimo e l’islam, in quanto religioni in linea di principio universali, presentano delle somiglianze. Le religioni universali insistono sull’uguaglianza degli uomini per quanto riguarda la loro capacità di salvezza e l’esperienza personale. Rispetto al nuovo gruppo che si origina in base alla religione, la famiglia ha un’importanza solo secondaria. Di conseguenza, anche il ruolo della donna in quanto madre riceve una diversa sottolineatura. Mentre nell’islam domina largamente il modello di venerazione per la madre di stampo patriarcale, nel buddhismo al ruolo di madre della donna non viene attribuito in pratica alcun significato.
Il commercio sessuale e la nascita sono i simboli centrali della prigionia nel ciclo delle reincarnazioni, della sete di essere e divenire. Su questo sfondo, la maternità può non ricevere una valutazione positiva. Dall’attenzione concentrata sulla transitorietà dell’esistenza umana e sul suo irretimento nel dolore deriva uno stile di vita monastico o almeno sessualmente morigerato. La riproduzione può apparire in luce positiva solo come servizio agli esseri viventi che non hanno ancora raggiunto la visione liberatrice. Le leggende che raccontano della nascita del Siddharta Gautama, il futuro Buddha, stabiliscono un modello del concepimento e della nascita ideali. Secondo queste leggende, la regina Mayavati ricevette il futuro Buddha in una visione in forma di piccolo elefante bianco. Anche la nascita non si verificò per le vie consuete, dato che il bambino venne fuori dal fianco della madre. Il cristianesimo assume in qualche modo una posizione intermedia. Fin dai suoi primi tempi le autorità religiose cristiane mostrarono di apprezzare in linea di principio più una vita di verginità per le donne che non il ruolo di madre. Nel culto di Maria, l’ideale della verginità fu congiunto con la venerazione per la madre di Dio. Indubbiamente si intravedono qui sullo sfondo antiche tradizioni di divinità femminili – come, per es., la dea egiziana Iside, il cui culto nell’Europa meridionale e centrale durò fino a epoca cristiana avanzata. È noto che molti famosi santuari mariani sorgono in luoghi precedentemente dedicati a varie dee. Non a caso Maria è stata indicata nel cristianesimo come una dea segreta. In ogni caso, l’icona della madre di Dio rappresenta un ideale irraggiungibile per le donne mortali. Il modello della madre vergine si sottrae a ogni possibilità di imitazione.
Nella fase iniziale delle religioni universali le donne erano attivamente coinvolte e potevano assumere vari ruoli. Molte donne seguirono la chiamata di Buddha o lo sostennero efficacemente. Una famosa leggenda, spesso citata, racconta di una donna di nome Kisa Gotami come modello del cammino tipico di una persona che dall’esperienza della morte è spinta a seguire Buddha. I canti della suora illuminata (Therigāthās), che risalgono ai primi tempi del buddhismo, sono fra le più antiche testimonianze femminili della storia religiosa. Nella cerchia dei discepoli di Gesù Cristo certamente non c’erano donne, ma esse costituivano una parte essenziale del suo seguito. Molte di loro – come, per es., Maria Maddalena, Giovanna, la moglie di Cusa, Susanna, Marta e Maria – si conoscono per nome. Donne furono le prime testimoni della resurrezione e in epoca protocristiana poterono anche esercitare uffici religiosi (come, per es., la ‘apostola’ Tecla) o anche raggiungere gloria attraverso il martirio. Le mogli di Maometto non solo esercitarono una grande influenza su lui, ma giocarono anche un ruolo importante nella tradizione. Dopo la fase di fondazione, tuttavia, in tutte queste religioni le donne furono relegate in ruoli subordinati.
Le diverse tradizioni religiose presentano forti somiglianze, ma anche proprie peculiarità per quanto riguarda la valutazione e la posizione delle donne. Anche all’interno di una stessa religione si possono affermare vari modi di vedere e varie pratiche. Il protestantesimo e i singoli indirizzi del buddhismo assumono nei confronti delle donne posizioni ambivalenti. Per quanto gli orientamenti principali del protestantesimo siano caratterizzati dal predominio maschile, in alcune denominazioni protestanti ci sono parecchi esempi di donne in ruoli direttivi. Così, nel 17° sec. diversi gruppi puritani in Nordamerica si dichiararono a favore di uguali diritti religiosi per le donne nella predicazione e nella direzione delle chiese. Nel 18° sec., Ann Lee fondò in Nordamerica la libera chiesa cristiana degli shakers. Benché le scritture del buddhismo raccontino di molte donne illuminate, la struttura dell’organizzazione religiosa le pone fin dall’inizio in una posizione sociale secondaria. Secondo la tradizione che viene tramandata, l’ordine delle monache buddhiste ebbe origine solo dopo un’iniziale resistenza di Buddha; tale istituzione avrebbe segnato, secondo Buddha, l’inizio di un rapido declino dell’insegnamento buddhista. All’epoca delle conquiste musulmane e della demolizione dei monasteri buddhisti in India andò distrutta la linea di successione degli ordini monacali femminili, la tradizionale catena di successione. Da allora le autorità maschili del buddhismo Thēravāda, cioè l’indirizzo che rivendica di rappresentare la forma originaria del buddhismo, non hanno accettato più la piena validità dell’ordinazione delle monache buddhiste. Da molti anni le monache lottano all’interno del buddhismo Theravada per il loro riconoscimento, fino a ora senza successo, almeno ufficialmente. Nel buddhismo Mahāyāna esistono a tutt’oggi ordini di monache riconosciuti. Poiché la realtà empirica è considerata come ‘vuota’, le differenze di sesso sono viste come non importanti. E tuttavia permane l’idea che il sesso maschile sia uno dei caratteri della persona religiosamente perfetta. L’illuminazione è quindi legata al sesso maschile; per una donna spiritualmente molto elevata ciò significa che – per ottenere l’illuminazione – deve rinascere come maschio oppure, in determinate circostanze, deve conoscere già nella vita presente una trasformazione sessuale.
Le tradizioni del tantrismo (nel contesto dell’induismo o del buddhismo) e del taoismo cinese si assomigliano per quel che riguarda l’importanza del simbolismo femminile, e per il fatto che riconoscono alle donne alcuni ruoli autorevoli in ambito religioso come quelli di maestre, partner rituali, sciamane. Ma in ogni caso, anche all’interno del tantrismo le donne erano almeno in parte strumentalizzate ai fini della liberazione maschile. Benché sia stato fatto qualche passo nella direzione dell’uguaglianza religiosa dei sessi, questo non ha tuttavia portato a una riformulazione della struttura sociale. Né il tantrismo né il taoismo hanno fatto saltare il quadro patriarcale, e il simbolismo di impronta femminile serve come una sorta di compensazione religiosa per l’effettivo predominio maschile nella società.
Questa rapida rassegna dello status delle donne nelle grandi religioni attuali di stampo patriarcale si basa sull’analisi delle posizioni tradizionali. Ne sono state tratte alcune linee generali, che vanno completate e raffinate.
Se si prendono in considerazione gli sviluppi più recenti e i movimenti di riforma, che mettono in di-scussione il predominio maschile e si sforzano di cambiare lo status e i ruoli delle donne, il quadro risulta di gran lunga più complesso.
Status e ruoli di donne e uomini
Gli studi tradizionali di ricerca religiosa hanno raccolto e analizzato dati dettagliati su eminenti fondatori, riformatori, maestri, teologi e santi di sesso maschile. Di fronte allo squilibrio esistente, la ricerca sulle donne e di genere si è preoccupata e si preoccupa di colmare la lacuna conoscitiva sullo status e i ruoli delle donne. Nell’insieme, si deve dire che nelle società/religioni poco istituzionalizzate le donne godono di uno status più elevato che nelle società complesse, le quali hanno sviluppato forme gerarchiche di organizzazione (anche in campo religioso).
Quale fosse lo status sociale e religioso delle donne nella protostoria non è chiaro. Ma dagli indizi presenti in molte fonti si può cautamente pensare a una larga diffusione e importanza del simbolismo religioso femminile, a diverse forme di convivenza fra i sessi e all’esistenza di ruoli centrali per le donne in ambito religioso in qualità di sacerdotesse, veggenti, guaritrici e sciamane. In molte religioni etniche le donne rivestono vari ruoli religiosi e a volte anche in posizione elevata. Si riscontrano molteplici forme di distribuzione del potere sociale, politico, economico e religioso-rituale fra i sessi. Anche nelle religioni dell’antico Oriente e in altre religioni del passato (quella greca, romana, celtica, germanica) le donne potevano assumere diversi ruoli religiosi, fungendo da sacerdotesse, veggenti, profetesse o guaritrici.
Le grandi religioni di oggi, invece, presentano molte somiglianze riguardo alla posizione delle donne e ai ruoli che possono ricoprire. Le cariche e le funzioni direttive importanti sono tradizionalmente appannaggio dei fedeli maschi. Spesso l’esclusione delle donne dai ruoli e dagli uffici religiosi deriva dalle funzioni biologiche femminili della mestruazione e del parto, che vengono considerate impure. Queste religioni legittimano le relazioni fra i sessi improntate al predominio maschile e alla sottomissione femminile. La gerarchia sessuale è ancorata alle strutture organizzative. Entro i confini della dottrina salvifica religiosa, le relazioni dominanti fra i sessi possono essere disattivate, come ci suggeriscono prima di tutto l’assioma induista dell’asessualità del principio spirituale atman, il ‘Sé’, e poi la concezione buddhista della vuotezza/mancanza di sostanza della sessualità, e infine la capacità di salvezza fondamentalmente uguale di maschi e femmine i quali nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam sono concepiti gli uni e le altre come immagini o rappresentanti di Dio. Richiamandosi a questi elementi di uguaglianza dei sessi delle rispettive tradizioni, i movimenti riformistici interni alle religioni tradizionalmente patriarcali, sotto l’influenza della modernità e dei ruoli socialmente mutati dei sessi, hanno messo in moto cambiamenti più o meno riusciti nello status delle donne. Le donne cominciano ad avere accesso a ruoli religiosi come quelli di teologhe, di maestre o rabbine, dotate di autorità e forza di interpretazione. Negli ultimi decenni nell’ebraismo e nel cristianesimo si sono sviluppate teologie femministe con molte sfaccettature. Pure nell’islam le donne vanno riflettendo sul loro ruolo, sull’eredità storica e sulla loro autocomprensione religiosa (Mir-Hosseini 1999). Nelle tradizioni buddhiste, grazie anche al crescente numero di buddhiste occidentali, il ruolo delle donne è diventato un tema importante (Buddhist women and social justice, 2004). Nell’induismo moderno s’intravede oggi qualche accenno di discussione critica femminista con la tradizione, ma si riscontrano diversi modelli di emancipazione femminile per quanto riguarda i ruoli e le norme tradizionalmente previste per le donne. Già dal 20° sec. le donne rivendicano per sé stesse ruoli di autorità religiosa che nella tradizione brahmanica classica erano riservati agli uomini. Fra questi, c’è soprattutto il ruolo della ‘rinunciante’ (v. Khandelwal 2004), ma anche quello di guru, di maestra. Istruttivo è l’esempio di un moderno movimento di riforma induista, la cui guida attuale Mate Mahadevi porta il titolo Mahajagadguru, alla lettera ‘grande maestra dei mondi’ (v. Heller 1999).
Nei testi informativi ufficiali pubblicati dal movimento, Mate Mahadevi viene indicata come ‘papessa’ e inserita nella lista dei più grandi maestri religiosi dell’attuale società induista. Mate Mahadevi nacque il 13 marzo 1946, figlia maggiore di una ricca famiglia di Chitradurga, nello Stato della Federazione indiana di Karnataka. Da giovane studentessa incontrò un guru di nome Swami Lingananda, che durante gli anni Sessanta fondò nel Karnataka un movimento di riforma religiosa, che si riallacciava a una ricca eredità passata di critica alle strutture gerarchiche della società. Questo movimento si inseriva nel solco della tradizione dei Lingayat, che nel 12° sec. del nostro calendario avevano abolito la gerarchia delle caste e il monopolio religioso della élite sacerdotale. Swami Lingananda voleva ridare vita al tradizionale ethos di uguaglianza tipico dei Lingayat e appoggiò quindi anche gli sforzi di emancipazione delle donne. In Mate Mahadevi trovò una congeniale compagna di lotta. Essa diede una svolta alla sua vita, rifiutò di sposarsi e si fece iniziare, invece, alla vita monastica. Con il sostegno di Swami Lingananda fondò un ashram, un’organizzazione simile a un monastero, di cui fu fatta capo supremo ufficiale, Jagadguru (maestro/a mondiale) nel 1970. I due concordarono che la direzione dell’ashram, fino a quel momento appannaggio esclusivo dei maschi, dovesse essere riservata in questo caso soltanto a donne: con ciò intendevano anche dare un segnale per affermare e mettere in pratica gli originari ideali dei Lingayat. Swami Lingananda e Mate Mahadevi consideravano l’uguale diritto di maschi e femmine a svolgere compiti di autorità come una componente essenziale della tradizione Lingayat: questo dal punto di vista storico è forse in qualche modo un’idealizzazione, ma non mancano indizi che autorizzino a pensarlo.
Già durante la sua vita Swami Lingananda aveva scelto quale successore Mate Mahadevi. Quando il 30 giugno 1995 inaspettatamente morì, in conformità con la sua volontà Mate Mahadevi fu chiamata a guidare l’intero movimento. Il 13 gennaio 1996 fu solennemente insediata come Mahajagadguru. Nei vari discorsi furono messi in risalto in particolare l’eliminazione delle caste, l’intangibilità e la parità di posizione fra uomo e donna. Le numerose oratrici ricordavano in continuazione quanto fosse importante e necessario che le donne assumessero importanti posizioni nella società. L’apertura dei ruoli religiosi alle donne doveva essere vista come motore per il cambiamento dello status delle donne nella società.
Nelle nuove religioni e movimenti religiosi i ruoli tradizionali delle donne, da un lato, vengono confermati ma, dall’altro, possono anche essere riconcepiti. Così, le donne assumono funzioni direttive un tempo riservate agli uomini, si presentano come fondatrici di religioni e riportano l’autocomprensione femminile al centro dell’attenzione.
Immagini di donne e uomini
Importanti elementi per penetrare nella costruzione simbolica e normativa dei sessi sono forniti dall’analisi dei vari aspetti delle immagini di donne e uomini: gli stereotipi culturali, e gli ideali e le norme che ne derivano. In molti studi classici, il cacciatore, il sacerdote sacrificante, l’asceta, il guerriero e l’eroe compaiono come le fondamentali immagini religiose di maschi. Fra le attività maschili idealizzate rientrano la creazione, la fondazione dell’ordinamento della vita, l’apporto delle conquiste culturali. Simboli tipici della sacralità maschile sono il cielo, i monti, il tuono, la pioggia o gli animali con corna. L’ordine, la stabilità, la grandezza e la luce vengono pensati come valori e qualità sacre maschili. Che si tratti qui in buona misura di costrutti e stereotipi, diviene chiarissimo quando si guardi ai risultati della ricerca sui maschi e su quella di genere.
In molte tradizioni religiose la donna è vista come incarnazione della sensibilità ed è valutata in termini negativi soprattutto nella spiritualità di indirizzo ascetico di diverse religioni. In ambito cristiano, in un suo scritto parenetico il padre della chiesa Tertulliano vuole che le donne si vestano con modestia e pudicizia. Ogni donna è una Eva, che porta nel mondo peccato e morte; essa è perciò, secondo Tertulliano, ‘la porta dell’inferno’. Lo stereotipo della donna seduttrice non è limitato alla tradizione cristiana, ma è diffuso trasversalmente nelle religioni. Soprattutto in ambiente ascetico esso affiora ripetutamente in combinazione con affermazioni di sapore misogino. Così, per es., in un testo buddhista si dice che le donne sono come pescatrici, che prendono gli uomini con la loro rete: il coltello delle donne andrebbe perciò temuto più di quello dell’assassino. Per la verità, affermazioni di questo tipo gettano più luce sulle paure e gli istinti dei loro autori maschi che sulla natura femminile. Nelle spiritualità di impronta ascetica, quali quelle dell’induismo, del buddhismo e del cristianesimo, i rapporti sessuali vengono respinti come un impedimento alla salvezza visti dalla prospettiva del maschio che appunto cerca la salvezza.
Gli stereotipi misogini, presentando la donna come un essere impulsivo con caratteristici deficit come l’instabilità, la leggerezza, l’infedeltà o l’avidità di piaceri, ne giustificano l’esclusione dal sapere religioso. La sessualità femminile e il corpo femminile sono diametralmente opposti al mondo dello spirito. Dato che in molte culture diverse la donna viene identificata con le sue funzioni corporali, i campi del suo dominio sono la nascita, i figli e la cucina. Per non ostacolarla nei compiti legati a questi campi di attività definiti come femminili, nelle tradizioni religiose patriarcali essa viene esclusa dall’acquisizione del sapere religioso. Benché dopo la distruzione del Tempio lo studio della Torah fosse diventato il centro della vita giudaica e fosse rubricato come il più importante di tutti i comandamenti, le donne ne erano esentate. Secondo l’antica tradizione dei dottori della legge, le donne erano dispensate da certi doveri religiosi per poter attendere ai loro specifici compiti domestici. Ben presto fu imposta per le donne la proibizione di fatto dello studio, una proibizione che aveva come ulteriore conseguenza di impedire loro il diritto a una piena partecipazione al culto. Le donne, per es., fondamentalmente non vengono conteggiate per il minjan, cioè il numero minimo di dieci oranti richiesto per poter tenere nella sinagoga un servizio di culto pubblico. Per le donne hindu lo studio delle sacre scritture secondo la tradizione del brahmanesimo classico non costituisce un merito religioso, poiché la loro religione consiste nel servizio al marito. Al posto dell’iniziazione, che autorizza allo studio della scrittura ed è considerata come una vera nuova nascita, c’è per le donne il rituale del matrimonio. Il monopolio maschile del sapere ha portato in molte religioni a uno status religioso modesto per le donne.
Conseguenza della proibizione di fatto della formazione fu un basso livello d’istruzione delle donne che ebbero così il ‘marchio’ di ignoranza, che divenne in ultima analisi una debolezza del carattere femminile, che a sua volta giustificò l’esclusione dal sapere religioso e altre discriminazioni. A questo punto i ruoli di autorità e le funzioni direttive in ambito religioso, ma anche il diritto alla piena partecipazione al culto erano automaticamente riservati agli uomini. Le proibizioni o le limitazioni all’acquisizione del sapere religioso hanno ridotto al silenzio le voci delle donne e hanno contribuito in maniera sostanziale alla loro emarginazione.
Lo stereotipo della donna ignorante è in rapporto inverso con le numerose divinità femminili della conoscenza e della sapienza. Per es., la dea induista Sarasvati è indicata come forza della conoscenza. È la fonte e la protettrice delle arti e delle scienze, ma comunica anche la sapienza spirituale, che libera dal mondo dell’ignoranza. Nel buddhismo tibetano la sapienza si presenta sotto forma di figure divine femminili. La tradizione ebraico-cristiana esalta la ‘signora sapienza’ come sorella, amica, sposa e figlia diletta di Dio. Nel Medioevo, le tradizioni mistiche dell’ebraismo e del cristianesimo si ricollegano a questa rappresentazione e considerano la sapienza come un principio divino femminile che è parte essenziale dell’immagine di Dio.
L’esistenza di immagini e incarnazioni femminili del divino solleva un’interessante questione, ossia in quale relazione stiano le dee e le donne realmente viventi. La connessione fra la venerazione di una dea e lo status delle donne appare molto stratificata e complessa: non è lineare e non può essere compresa in termini generali. L’esistenza di una dea non comporta automaticamente uno status elevato delle donne. Le dee possono rafforzare e giustificare i dominanti stereotipi e ideali sociali; possono legittimare i tradizionali ruoli dei sessi ed essere utilizzate per ratificare i rapporti di potere esistenti. Così, per es., molte casate di principi guerrieri del Rajasthan, nell’India settentrionale, venerano una dea come signora protettrice e garante della loro potenza. Ma nelle dee vengono simboleggiati anche le esperienze e i forti potenziali delle donne: esse rappresentano delle controimmagini rispetto ai ruoli patriarcali e offrono modelli alternativi per la formazione dell’identità femminile. Questa ambivalenza della dea-simbolo appare con chiarezza nel caso di Sarada Devi. Il famoso mistico hindu Ramakrishna venerava la moglie Sarada Devi, nel quadro di un rituale tantrico, come la santa madre, come manifestazione della dea Kali. Ma questa trasposizione simbolica non ne cambiò minimamente la vita. In conformità con l’ideale classico di una moglie hindu, Sarada Devi si dedicò fino alla morte di Ramakrishna soprattutto al benessere fisico del marito; solo dopo la morte di Ramakrishna, al quale sopravvisse per molti anni, Sarada Devi sviluppò un ruolo diverso per sé stessa. Divenne guru e figura di rilievo nell’ordine fondato dai discepoli di Ramakrishna. In qualità di santa madre fu ammantata di autorità divina e ancora oggi è venerata come manifestazione della dea Kali e ispira l’autonomia religiosa delle donne, che sono sue seguaci e vivono in un ordine femminile a sé stante.
Altrettanto ambivalente è la risposta alla domanda circa il significato sociale delle figure divine maschili. Nella cultura di impronta cristiana, l’alleanza fra Dio padre e Adamo, sua immagine, conferma la struttura patriarcale della società. Ma, almeno in teoria, un Dio personificato in termini maschili possiede anche il potere di mettere in discussione la forza della parte maschile dell’umanità: per Gesù, l’autorità del Padre spetta solo a Dio stesso.
La relazione fra i sessi come metafora religiosa
La relazione fra i sessi è spesso utilizzata come metafora religiosa. Ciò può essere fatto nella forma della coppia divina, che ha un ruolo importante in molte religioni etniche, nelle religioni orientali antiche e nelle religioni dell’antichità classica nonché nell’induismo. La coppia divina può rispecchiare le dominanti relazioni dei sessi o rovesciarle completamente. Per es., le divinità induiste Vishnu e Lakshmi costituiscono il modello della coppia divina ideale, che rispecchia e conferma la sottomissione e la devozione della donna al marito. In molte rappresentazioni visive compare Lakshmi che massaggia i piedi al suo divino sposo. La terrificante dea Kali, invece, danza sul cadavere del suo partner divino. Molto diffuso è l’uso della relazione fra i sessi come metafora del rapporto Dio-uomo. Nella religiosità tantrica dell’induismo e del buddhismo il maschio dell’uomo incontra la dea che si manifesta in una donna concreta, e in questo modo anche la sessualità può essere ritualmente integrata. Nella mistica cristiana, induista e musulmana la persona di entrambi i sessi assume il ruolo di findanzata o sposa rispetto a un Dio personificato in termini maschili. Entrambe le varianti possono influenzare o relativizzare le relazioni sociali fra i sessi. Il sesso (maschile o femminile) di una divinità può servire tanto a legittimare i ruoli di sesso dominanti nella società, quanto a dispiegare una forza emancipatoria.
Così, il legame con un marito divino rende possibile a molte mistiche un’alternativa alla situazione esistente del rapporto fra i sessi (Heller 2007, pp. 99-110). Il fatto di potersi rivolgere in maniera assoluta all’incomparabile marito divino libera le donne dalle tradizionali costrizioni dei ruoli sociali. In molti casi gli sposi ‘mortali’ vengono radicalmente svalutati. Le donne che venerano Dio come il loro vero marito, ottengono con ciò stesso una legittimazione al rifiuto del ruolo culturalmente imposto di moglie. La relazione con Dio vissuta in maniera esclusiva può portare alla demolizione del rapporto sessuale. Le donne destinate tradizionalmente a una vita di dipendenza, sostituiscono tutte le forme di dipendenza sociale con il legame con Dio. In ogni caso, il simbolo della fidanzata di Dio non fa che confermare contemporaneamente gli stereotipi femminili; la fidanzata di Dio è caratterizzata dalla capacità – considerata come tipicamente femminile – di dedizione, sottomissione e ricettività. Ciò significa che, in realtà, la gerarchia dei sessi non viene messa in discussione.
Le donne come soggetti religiosi
Centrali per la nostra questione di religione e sesso sono indubbiamente la vita e la riflessione religiosa delle donne. Ma le donne in quanto soggetti religiosi non vengono trattate separatamente: a costituire il quadro dell’analisi e dell’interpretazione sono le interazioni e i molteplici rapporti fra i sessi e le costruzioni di genere. Esistono differenze fra le esperienze e le esigenze maschili e quelle femminili? Per questa interessante domanda non esistono ancora risposte soddisfacenti. Qualche fruttuosa indicazione viene fornita dalle ricerche sulla mistica cristiana. Così, per es., i mistici e le mistiche cristiane medievali si differenziano nella maniera in cui vedono e impiegano il corpo o i processi fisiologici come strumenti delle loro esperienze religiose.
Le concezioni e le prescrizioni sulla vita delle donne vigenti all’interno di una tradizione religiosa normata non necessariamente corrispondono all’effettiva vita religiosa delle donne. Concezioni e modi di vivere inconsueti delle donne, che prescindono dalla norma, si trovano in tutte le tradizioni religiose. Colpisce l’esempio di una mistica induista vissuta nel 12° sec., una delle più eminenti sante della storia religiosa indiana. Akkamahadevi è legata strettamente con la già citata tradizione dei Lingayat, nota soprattutto per aver abbattuto la gerarchia delle caste e aver accantonato il monopolio dell’egemonia brahmanica. Per i Lingayat di oggi, Akkamahadevi è il simbolo più importante della parità di diritti della donna. La ricerca di Sé da lei condotta in maniera radicale e senza compromessi scavalca tutte le norme della vita femminile tradizionale in contesto induista, e viene interpretata come un segnale dell’emancipazione.
Vita e leggenda, per quanto concerne i santi, sono inestricabilmente intrecciate. Mahadevi era nata da una devota coppia di un villaggio del Karnataka occidentale. Non conosciamo la data di nascita. Fin dall’infanzia deve essersi consacrata al dio Śiva, al cui culto era stata iniziata da un ignoto guru. Quando un giorno il re Kaushika la conobbe, se ne innamorò e decise di sposarla; dopo un’iniziale resistenza, Mahadevi, per evitare fastidi ai genitori, acconsentì a contrarre l’indesiderato matrimonio. Ma legò il suo assenso a tre condizioni: che Kaushika le riconoscesse piena libertà e non la intralciasse minimamente nel suo culto a Śiva, nel tempo che avrebbe trascorso con i santi di Śiva e durante il servizio che avrebbe prestato al suo guru. Kaushika accettò queste condizioni. Nei testi tramandatici traspare chiaramente la sofferenza di Mahadevi nel rapporto con il suo (futuro) marito, da lei vissuto come un impedimento nella relazione con il suo vero marito Śiva. Alla madre, Mahadevi indirizza una poesia in cui descrive il suo amore per il marito Śiva infinito, bello, non toccato dalla morte, e che si chiude con le parole «Prendi questi mariti che muoiono e si decompongono, e bruciali nel fuoco della tua cucina» (Speaking of Śiva, 1973, p. 283).
Ben presto Kaushika viene meno agli accordi, e Mahadevi abbandona il palazzo. Con gesto estremo, si libera dello stile di vita in cui era stata costretta a vivere e getta via i suoi vestiti; nel momento in cui, nuda e senza protezione, lascia il palazzo e la sua patria, rompe con tutte le convenzioni sociali. Se ne va sola, vestita solo dei suoi lunghi capelli, in direzione di Kalyana, il centro dei Lingayat consacrato esclusivamente al culto del dio Śiva. In più occasioni è costretta ad affrontare e a resistere alle molestie maschili. Quando finalmente raggiunge la meta, viene sottoposta dalle autorità spirituali maschili a una dura prova, tesa a verificare la maturità spirituale di quella ragazza non convenzionale, prova da cui esce con una patente di autorità spirituale e riceve il titolo onorifico di Akka, ‘sorella maggiore’. Akkamahadevi trascorre cinque o sei anni nel centro di Kalyana come una delle personalità più autorevoli, e vi completa il suo sviluppo spirituale. Infine s’incammina verso un luogo santo in direzione nord, per unirsi con Śiva e lì raggiunge anche la fine del suo itinerario spirituale. Al momento della morte ha circa 24 o 25 anni. Per Akkamahadevi non era possibile essere allo stesso tempo moglie di Dio e moglie di un uomo mortale; con il legame esclusivo a Dio essa ha creato un paradigma che si contrappone irriducibilmente al ruolo tradizionale della moglie induista.
Profetesse, sacerdotesse, guaritrici, mistiche, ascete, teologhe, predicatrici, maestre o sante attestano l’autonomia religiosa delle donne in tutte le tradizioni religiose. Questa molteplicità di funzioni religiose effettivamente esercitate è spesso limitata, certo, a poche eccezioni, ma rende chiaro l’abisso esistente fra la norma religiosa e la realtà vissuta.
Impulsi, sfide, visioni
Quella di trattare il tema di sesso e religione non è un’impresa neutrale, avaloriale, in cui prevalgano l’analisi fredda e la distanza accademica in nome dell’oggettività e dell’assenza di vincoli. A partire dall’Illuminismo, i postulati dell’oggettività, della avalorialità nonché quelli della distanza critica si sono insediati stabilmente nella scienza. Ma la teoria critica, il costruttivismo, il postcolonialismo e la dottrina femminista hanno chiarito che la scienza è sempre legata a contesti, a punti di vista, a interessi e valori. L’ideale di una ragione indipendente, disincarnata e oggettiva è, su questo sfondo, un’illusione. L’etnocentrismo, l’eurocentrismo e l’androcentrismo rendono evidente che la scienza non nasce in uno spazio vuoto, ma in specifici contesti sociali e storici. Una volta che si pone attenzione alla categoria del genere, ci si accorge che i risultati delle indagini sulla religione svolte fino a ora si relativizzano, perché la tanto conclamata pretesa di obiettività si è rivelata troppo spesso come una maschera dietro cui si nascondevano interessi, punti di vista e valori particolari.
In molti ambiti sociali come la medicina, i mezzi di comunicazione, l’economia, il confronto con l’etica assume attualmente una crescente importanza. A che serve la riflessione sulle connessioni fra sesso, genere e religione? Chi si occupa di questo tema (uomo o donna che sia) si trova subito davanti a questa sfida: se debba sentirsi impegnato/a verso il mito di dover produrre conoscenza oggettiva o debba cercare invece un mondo più giusto. Ursula King, che da molti anni si occupa delle questioni di genere e religione, abbozza la visione di una meta, cioè l’idea che sono disponibili alternative ricche di creatività e che può nascere un mondo non gerarchico, premuroso, con molteplici possibilità di partecipazione. Questo mondo non corrisponde a un unico modello maschile di uguaglianza, ma offre spazi per il gioco della varietà culturale e religiosa (King 20052, p. 3305).
Bibliografia
Redeeming men. Religion and masculinities, ed. S.B. Boyd, W.M. Longwood, M.W. Muesse, Louisville (Ky.) 1996.
W. Burkert, Homo necans, Berlin-New York 19972 (trad. it. Torino 1981).
Women and goddess traditions. In antiquity and today, ed. K.L. King, Minneapolis 1997.
B. Heller, Heilige Mutter und Gottesbraut. Frauenemanzipation im modernen Hinduismus, Wien 1999.
Z. Mir-Hosseini, Islam and gender. The religious debate in contemporary Iran, London 1999.
Encyclopedia of women and world religions, ed. S. Young, 2 voll., New York 1999.
Feminism in the study of religion, ed. D. Juschka, London 2001.
Methodology in religious studies. The interface with women’s studies, ed. A. Sharma, Albany (N.Y.) 2002.
M. Khandelwal, Women in ochre robes. Gendering hindu renunciation, Albany (N.Y.) 2004.
Buddhist women and social justice. Ideals, challenges, and achievements, ed. K.L. Tsomo, Albany (N.Y.) 2004.
Religion, gender and diversity. Cross-cultural perspectives, ed. U. King, T. Beattie, London 2004.
U. King, Gender and religion. An overview, in Encyclopedia of religion, ed. L. Jones, 5° vol., Detroit (Mich.) 20052, pp. 3296-310.
G. Reddy, With respect to sex. Negotiating hijra identity in South India, Chicago 2005.
B. Heller, ‘The bride of God’ as religious role in the contexts of hinduism and christianity, in Donne tra saperi e poteri nella storia delle religioni, a cura di S. Boesch Gajano, E. Pace, Brescia 2007, pp. 99-110.
Handbuch Gender und Religion, hrsg. A.-K. Höpflinger, A. Jeffers, D. Pezzoli-Olgiati, Göttingen 2008.