Settimio Severo e gli altri imperatori dopo Marco
Il cap. xix del Principe dal titolo De contemptu et odio fugiendo («Come sottrarsi al disprezzo e all’odio») ha una notevole rilevanza per comprendere, tra l’altro, le regole politiche alle quali dovrebbe attenersi, secondo l’autore, «uno principe nuovo in uno principato nuovo» (xix 69), l’apporto derivante dall’analisi di esempi storici tratti dalla storia romana, la tensione tra quelle regole e le varianti rappresentate dalle personalità individuali, l’effettivo valore dell’ipotesi di una composizione dell’opera in due redazioni molto distanziate nel tempo. Esso è infine una delle parti del trattato in cui «il tema tragico della politica» (Sasso, in N. Machiavelli, Il Principe. Testo e saggi, nuova ed. critica a cura di G. Inglese, 2013, p. 32) emerge con maggior forza, fino a lambire i margini dell’aporia. Non è trascurabile che vi compaiono le celebri figure allegoriche del «lione» e della «golpe», rappresentate ampiamente nel cap. xviii e qui attribuite all’imperatore Settimio Severo, la cui figura riveste infatti, come si vedrà, un ruolo importante in questo capitolo.
Il discorso è arduo e la sua articolazione complessa, lo stile alterna enunciati di grande nitore a formulazioni accidentate, alcuni passaggi logici sono talmente rapidi da rasentare l’implicitezza, in alcune parti la sequenza degli argomenti non appare adeguatamente elaborata. Anche se la scrittura di getto è una caratteristica spesso presente nel Principe, al lettore di questo capitolo si richiede un impegno particolare, a causa della lunghezza dell’esposizione, del sommarsi di molti argomenti e delle loro reciproche interferenze. Tuttavia, contrariamente a quanto si è talvolta sostenuto, il capitolo non ha nulla d’irrimediabilmente caotico: la torsione espressiva ha un suo pathos perché coincide con una delle chiavi di volta nell’architettura del trattato ma non giunge mai alla frattura, ovvero all’oscurità. Il fatto che uno o più punti possano essere giudicati irrisolti, e in particolar modo il ragionamento conclusivo, non significa necessariamente che ciò dipenda da carenze argomentative o espositive, e non piuttosto dall’impossibilità di ricavare sempre e comunque, dall’analisi del potere e dall’esempio degli uomini illustri, regole politiche di carattere generale.
M. premette di aver già parlato delle qualità «più importanti» necessarie al principe e di volere ora soffermarsi su altre, evidentemente meno importanti: «l’altre voglio discorrere brevemente sotto queste generalità: che el principe pensi [...] di fuggire quelle cose che lo faccino odioso o contennendo» (xix 1). Tuttavia, il capitolo sarà tutt’altro che breve e le qualità analizzate appariranno non minori ma fondamentali, come l’autore dichiarerà in modo esplicito più avanti:
E gli stati bene ordinati e e’ principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non disperare e’ grandi e satisfare al populo e tenerlo contento, perché questa è una delle più importanti materie che abbi uno principe (§ 19; corsivo nostro).
Il criterio generale esposto all’inizio del capitolo è molto semplice. Per mantenere stabile il potere, il principe deve ottenere e preservare il consenso delle «universalità delli uomini», cioè del popolo o dei popoli da lui governati. M. si riferisce al rapporto tra un principe e la sua collettività globale di riferimento, sia essa una città o un insieme più ampio, come accade, per es., nei «principati misti» trattati nel cap. iii. Per non rischiare di essere abbattuto, il principe deve evitare l’odio e il disprezzo. L’odio prende corpo quando sono lesi i beni e l’onore dei sudditi, quest’ultimo esemplificato dalla violenza esercitata sulle donne (un riferimento ai beni e alle donne anche in xvii 13; ma cfr. Discorsi III vi 14 e 18, sempre sulle congiure, dove si parla dei danni inferti ai sudditi «nella roba, nel sangue o nell’onore» e si precisa che «degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più»). Il disprezzo monta quando il principe si palesa «vario, leggeri, effeminato, pusillanime, irresoluto» e risulta invece precluso dal possesso di virtù simmetricamente opposte a quei vizi, «grandezza, animosità, gravità, fortezza», unite alla fermezza nelle decisioni (Principe xix 4). Un evento che può perturbare l’ordine interno è rappresentato dalle aggressioni esterne. Questo argomento è liquidato rapidamente con le ovvie constatazioni che i nemici esterni si tengono a bada con eserciti efficienti e con buoni alleati (§§ 5-7); d’altronde M. lo aveva affrontato ampiamente, per es. nel cap. iii (ma dalla prospettiva dei principi aggressori e non, come nel cap. xix, dei principi aggrediti) e nel cap. ix 19, a proposito di Nabide spartano (per un esame approfondito della figura di Nabide in M., cfr. Cadoni 1985, pp. 136-47 e la voce dello stesso autore in questa Enciclopedia; per i modelli greci nel Principe, cfr. Ruggiero, in Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, a cura di A. Campi, 2013; sempre importante, sull’ispirazione greca di M., Mazzarino 1966, pp. 330-33); al tema degli eserciti egli aveva inoltre dedicato i capitoli centrali del trattato, dal xii al xiv, mentre al problema delle fortificazioni e dei loro risvolti politici è dedicato il cap. xx.
Tornando all’analisi della politica interna, M. si sofferma sul tema delle congiure, un fenomeno che oltre a essere di grande rilevanza nella realtà politica italiana contemporanea suscitava in lui emozioni particolari, considerato il fatto che pochi mesi prima, nel febbraio del 1513, egli era stato coinvolto nella trama antimedicea ordita da Agostino Capponi e Pietro Paolo Boscoli, arrestato, sottoposto a tortura e liberato il mese successivo grazie all’amnistia proclamata per festeggiare l’elezione al pontificato di Giovanni de’ Medici.
Le congiure, afferma M., sono pericolose unicamente in mancanza del requisito fondamentale rappresentato dal consenso popolare: «E uno de’ più potenti remedi che abbia uno principe contro alle congiure è non essere odiato da lo universale», poiché «sempre chi coniura crede con la morte del principe satisfare al populo; ma quando creda offenderlo non piglia animo a prendere simile partito» (§ 10).
Quella del congiurare è un’arte difficile, perché comporta l’associazione di più individui che non hanno necessariamente gli stessi interessi o motivazioni parimenti intense:
E per ridurre la cosa in brevi termini dico che da la parte del coniurante non è se non paura, gelosia [ovvero «apprensione»: cfr. ed. Inglese 2013, p. 132] e sospetto di pena che lo sbigottisce: ma da la parte del principe è la maestà del principato, la legge, le difese delli amici e dello stato che lo difendono (§ 13).
Debolezza del congiurato e forza del principe è inoltre «la benivolenzia populare» (§ 14), che si trasforma in violenza punitiva nei confronti di chi ha fatto l’errore di eliminare un principe oggetto di consenso. Al riguardo M. ricorda il caso della congiura bolognese ordita nel 1445 dai Canneschi, la fazione che si riconosceva nella famiglia dei Canetoli (Marcelli 2005), a danno del principe Annibale Bentivoglio (§§ 15-17).
Il canone politico fondamentale cui il buon principe deve ispirarsi appare a questo punto espresso con grande chiarezza, e tuttavia M. avverte la necessità di ribadirlo con una formula limpida: «Concludo pertanto che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto quando il populo gli sia benivolo, ma quando gli sia nimico e abbilo in odio debbe temere d’ogni cosa e di ognuno» (§ 18). Seguono una precisazione riguardante la necessità che un principe, pur godendo del favore popolare, non susciti l’avversione dei «grandi», e un riferimento in positivo all’assetto del regno di Francia che, mediante l’istituzione del parlamento, aveva dato vita a «uno iudice terzo», che rappresentava gli interessi del popolo ed esercitava contemporaneamente una funzione coercitiva nei confronti dei «grandi», esentando il re da un coinvolgimento in prima persona nel castigo (§§ 19-24; per le fonti antiche di questa teoria, cfr. ed. Inglese 2013, p. 136 nota 69; sul senso e sui problemi posti dal riferimento al regno di Francia, Cadoni 1985, pp. 171-76). Incontriamo poi un’altra enunciazione sintetica: «E di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e’ grandi ma non si fare odiare dal populo» (§ 24). In altre parole, poiché il popolo e i grandi sono in stabile – attivo o potenziale – conflitto, il principe deve riuscire a porre in equilibrio la sua politica nei confronti delle due componenti. Non sembra che i §§ 19-24 costituiscano una «correzione di tiro» rispetto a quanto precedentemente affermato (ed. Martelli 2006, p. 250 nota 44). Si tratta piuttosto di un approfondimento della questione del consenso: se escludiamo il riferimento al rischio che corrono i congiurati che abbattono un principe amato dal popolo, in precedenza M. ha considerato separatamente i rapporti tra il principe e i grandi; ora egli sviluppa invece un argomento fondamentale, rappresentato dal contrasto oggettivo fra gli interessi del popolo e quelli dei grandi e dalle deduzioni che il principe deve trarne per non esserne travolto (cfr. Sasso 1988, pp. 388-96). Il principe deve farsi amare dal popolo ed evitare di inimicarsi i grandi, ma al tempo stesso deve tener presente che quelle due entità sono intrinsecamente antitetiche. Il consenso popolare appare tuttavia, ancora una volta, come l’elemento decisivo, a conferma dell’orientamento filopopolare di M. (basti a titolo di esempio il confronto con la formulazione di ix 6: «non si può con onestà satisfare a’ grandi e sanza iniuria di altri, ma sì bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso»; sull’apertura di prospettiva che caratterizza questo capitolo proprio in virtù dell’analisi della «struttura profonda» della vita sociale, cfr. Sasso, in Il Principe. Testo e saggi, nuova ed. critica a cura di G. Inglese, 2013, pp. 21-31). L’intervento della fortuna, che altrove nel trattato (cap. xxv) è indicato come rilevante, in questo capitolo non è mai preso in considerazione né sia pur brevemente anticipato.
Arrivato a questo punto dell’analisi, M. si rende conto della critica che avrebbe potuto opporgli un conoscitore della storia dell’impero romano:
Parrebbe forse a molti, considerato la vita e morte di alcuno imperadore romano, che fussino essempli contrari a questa mia opinione, trovando alcuno essere vissuto sempre egregiamente e mostro gran virtù d’animo, tamen avere perso lo imperio o vero essere stato morto da’ sua, che gli hanno congiurato contro (xix 25).
Gli esempi romani mostravano in altre parole che i requisiti di una condotta di vita moralmente degna e di tempra energica e coraggiosa, che M. aveva in precedenza indicato come decisivi per mettere il principe al riparo dalle congiure, non costituivano una legge storica universale. Per dimostrarlo, egli ritiene significativo e sufficiente esaminare le vicende dei dieci imperatori che si succedettero da Marco Aurelio a Massimino il Trace. Non precisa quali siano le sue fonti, ma basta questa indicazione a segnalare che egli intende attingere all’opera scritta in greco da Erodiano, il cui titolo originario è sconosciuto ma che è solitamente indicata come Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, oppure Storia degli imperatori romani da Marco Aurelio a Gordiano III o in altri modi simili. La narrazione copre infatti l’intero periodo della storia dell’impero romano compreso tra l’ascesa al trono di Commodo (180 d.C.) e la morte di Massimino il Trace (238 d.C.). In apertura si raccontano brevemente gli ultimi giorni di vita di Marco Aurelio e l’espressione delle sue estreme volontà; in chiusura si accenna all’assunzione del potere da parte del tredicenne Gordiano III (238 d.C.). Solo la lettura di quanto segue chiarisce in modo inequivocabile che M. si ispira unicamente a Erodiano e che non prende in considerazione nessun’altra fonte: non ricorre ovviamente a Cassio Dione, altro autore greco che trattò di quel periodo e che allora non gli era conoscibile né direttamente per via della lingua né indirettamente per la mancanza di traduzioni (differente il caso delle Sentenze diverse: Mazzarino 1972, pp. 33-34 nota 5), né al redattore dell’Historia Augusta, che scrisse le biografie di quegli imperatori (Bertrand 1986).
La critica è abbastanza concorde nel giudicare negativamente le qualità letterarie di Erodiano, mentre si divide sulla sua intelligenza storica, alcuni negandola altri valorizzando la sua sensibilità sociale e l’interesse per aspetti trascurati da altri storici. La sua personalità traspare soltanto dall’opera, poiché non disponiamo di testimonianze parallele. All’inizio lo storico antico fornisce tuttavia tre indicazioni preziose che riguardano l’epoca in cui egli scrisse, il suo ruolo sociale, il fatto che in conseguenza di quest’ultimo egli abbia potuto disporre di informazioni, dirette o indirette, ma comunque attendibili, degli eventi narrati:
Molti storici sapienti hanno raccontato le imprese che Marco ha compiuto combattendo contro le genti che vivono nelle regioni settentrionali e orientali, a dimostrazione del suo talento militare e politico. Io ho narrato gli avvenimenti successivi alla morte di Marco, dei quali, nel corso della mia vita, sono stato testimone o ho avuto notizia. In alcuni di essi ho avuto parte attiva, quando mi trovavo a ricoprire funzioni imperiali e pubbliche (I ii 5; sul suo ruolo di testimone diretto cfr. anche II xv 7).
Erodiano fu dunque un contemporaneo delle vicende oggetto della sua opera ed esercitò «funzioni imperiali e pubbliche» (en basilikàis e demosìais hyperesìais ghenòmenos). Poiché queste funzioni gli consentirono di essere testimone diretto di una parte degli avvenimenti narrati, mentre di altri fu testimone indiretto, dobbiamo dedurne che egli fu per un certo tempo adibito a funzioni che si svolgevano nell’ambito degli uffici centrali e, per il resto, in imprecisabili funzioni pubbliche di altro genere; è improbabile, tuttavia, che queste ultime fossero cariche municipali (cfr. A. Galimberti, in Erodiano e Commodo, 2014, p. 11; in questo volume anche un’aggiornata bibliografia), che ben difficilmente avrebbero consentito di fare di lui un testimone diretto o indiretto particolarmente attendibile rispetto a un semplice cittadino. L’ipotesi che egli sia stato un liberto si basa unicamente sul fatto che sono attestati in età imperiale alcuni liberti-storici – come Giulio Igino liberto di Augusto, Flegonte di Tralles liberto di Adriano e Crisero liberto di Marco Aurelio – e che nella sua opera sarebbero evidenti interessi tipici di quella categoria. È probabile tuttavia che Erodiano sia stato un addetto (apparitor) agli uffici centrali (probabilmente dotato di uno status equestre più che libertino: C.R. Whittaker, in Herodian, 1° vol., 1969, p. XXIII) e che furono soprattutto quelle funzioni «imperiali» a permettergli di essere testimone oculare di eventi dei quali un determinato sovrano fu protagonista. Dall’opera risulta effettivamente che egli era bene informato sia sulle vicende della corte e della città di Roma sia sulle realtà provinciali, che poteva aver conosciuto al seguito di un sovrano oppure in quanto incaricato di missioni specifiche. Ma un certo peso, anche se minore, dovette avere quella sfera indeterminata di attività da lui designate come «pubbliche» e che non siamo in grado di precisare.
Perché M. abbia preferito attingere a Erodiano, a lui accessibile tramite la traduzione latina di Angelo Poliziano, che ne abbellisce la qualità letteraria (v. infra), e non a Svetonio o a Tacito, è domanda che merita di esser formulata, purché la risposta non si fondi esclusivamente sulla novità rappresentata dalla circolazione dell’Erodiano latino di Poliziano (cfr. Il Principe, a cura di M. Martelli, 2006, pp. 465-68; ma alle fonti teoricamente possibili dobbiamo necessariamente aggiungere, come si è accennato, l’Historia Augusta), pur essendo M. un uomo talmente attratto dalle novità da privilegiare spesso la lettura più recente (ed. Pedullà 2013, p. 230 nota 24). M. considerava Erodiano uno storico autorevole, degno di grande considerazione. Questo giudizio è presente nel già ricordato capitolo del libro III dei Discorsi dedicato alle congiure. M. parla dell’estrema difficoltà di congiurare contemporaneamente «contro a due capi», e ne deduce un principio di ordine generale:
Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo in diversi luoghi è quasi impossibile; perché in diversi tempi non si può fare, non volendo che l’una guasti l’altra. In modo che se il congiurare contro a uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco prudente; congiurare contro a due è al tutto vana e leggieri (III vi 129-30).
Per esemplificare ricorda quanto Erodiano racconta della congiura ordita da Plauziano contemporaneamente contro Settimio Severo e Caracalla e dell’ordine da lui dato al tribuno Saturnino di uccidere i due che pure alloggiavano in quartieri diversi del palazzo. M. dichiara che la notizia apparirebbe manifestamente assurda se non fosse convalidata dall’autorità di uno storico degno del massimo rispetto:
E se non fosse la riverenza dello istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione che elli solo ammazzasse Severo e Antonino abitanti in diversi luoghi, perché la è cosa è tanto discosto da il ragionevole che altro che questa autorità non me lo farebbe credere (III vi 131; molto ragionevole l’ipotesi di Martelli 1998, pp. 135-40, secondo il quale questo passo recherebbe tracce di un’aggiunta di M. non adeguatamente innestata).
Si nota per altro qui una lieve ma incisiva manipolazione del testo di Erodiano, perché la traduzione polizianea parla di un’unica aula (ovvero il palazzo imperiale) dentro la quale si trovavano i due cubicula delle vittime predestinate (Politiani Opera quae quidem extitere, 1553, p. 347: Abi modo in aulam principum, quasi aliqua a me mandata habeas arcana et gravia, atque, ut virum fortem decet, senem unum ac puerum intra suum utrumque cubiculum obtrunca, «Va’ dunque al palazzo dei principi, come se recassi ordini miei segreti e gravi e, com’è in grado di fare un uomo forte, uccidi insieme il vecchio e il fanciullo, ciascuno nella sua camera da letto»; il testo originale di Erodiano III xii 1 reca en diaphòrois òikois «in appartamenti separati»), mentre M., per rafforzare l’esempio, parla di «luoghi», con un termine che suggerisce una maggiore distanza tra le due vittime predestinate (tuttavia Ruggiero 2013, p. 362, ritiene «luoghi» una correzione di copista, al posto di un possibile «appartamenti» della redazione originale di M.; implausibile l’idea di Bertrand 1986, p. 8, secondo la quale M. avrebbe gettato almeno «un coup d’oeil» sul testo greco).
La «riverenza» provata nei confronti di uno storico ritenuto autorevole si aggiungeva però ad alcune più profonde e precise consonanze. La maggiore considerazione assegnata all’autenticità dei fatti rispetto all’eleganza dello stile si ritrova sia nel preambolo di Erodiano sia nella ‘lettera dedicatoria’ del Principe, ma si tratta di un elemento topico che non deve essere sopravvalutato. Rilevante è, invece, l’analogia tra l’esperienza dei due autori. Erodiano rivendicò, come abbiamo visto, il merito di essere stato testimone degli avvenimenti. Il requisito dell’autopsia derivante dall’esperienza amministrativa compare con uguale enfasi nella dedica del Principe:
confido assai che per sua umanità gli debba essere accetta, considerato come da me non gli possa esser fatto maggiore dono che darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi ho conosciuto e inteso (dedica 3).
L’interesse di M. per Erodiano può essere derivato anche da altre caratteristiche peculiari, quale la tendenza di quest’ultimo allo «psicologismo» (Mazzarino 1966, pp. 207-08), evidente nella trattazione del modo astuto ed energico («lione» e «golpe») con il quale Settimio Severo prima riuscì accortamente a contenere le ambizioni di Clodio Albino e poi lo annientò in battaglia (poco significativo invece il caso di Marziale, l’uccisore di Caracalla, e dei suoi moventi, richiamato sempre da Santo Mazzarino, 1966, p. 208).
Un motivo rilevante e non adeguatamente apprezzato, tra quelli che spinsero M. verso Erodiano più che verso altri autori e altri periodi della storia imperiale, consiste nelle caratteristiche del periodo trattato dallo storico antico. In apertura della sua opera, Erodiano sottolinea con forza il particolare interesse dell’epoca da lui trattata, mettendo in luce che allora si verificarono accadimenti importanti e numerosi in un breve arco temporale. Egli si dichiarava testimone di un’accelerazione della storia, caratterizzata da cambiamenti ripetuti e improvvisi, che offrivano allo storico uno straordinario laboratorio per analizzare il rapporto drammatico tra singolare e plurale, tra i grandi personaggi e movimenti di massa, il tutto accompagnato da catastrofi naturali ed epidemie:
Chi volesse confrontare l’intero periodo di circa duecento anni compreso tra l’epoca di Augusto, quando il dominio romano divenne una monarchia, con l’epoca di Marco, non troverebbe né così frequenti successioni di sovrani né così frequenti capovolgimenti di fortune in guerre civili ed esterne, né tante agitazioni di popoli, né tante città espugnate sia nel nostro territorio sia in molti paesi barbari, né tanti terremoti e pestilenze, per non parlare delle vite straordinarie di imperatori e usurpatori, vicende che prima erano ricordate raramente o per nulla affatto (I i 4).
M. dovette constatare che questa affermazione trovava una stringente analogia con la situazione dell’Italia dei suoi tempi, e in particolare con lo scenario politico che più di altri aveva sollecitato da molti anni la sua azione e il suo pensiero. Un motivo di speciale interesse per l’opera di Erodiano – forse il principale – dovette essere suscitato dal fatto che il periodo da lui narrato era stato caratterizzato, come afferma esplicitamente lo storico antico, da un parossistico avvicendarsi di sovrani:
Molti usurpatori e sovrani ebbero vite fuori del comune: cosa che prima avveniva molto di rado, o per nulla affatto. Tra costoro, alcuni governarono abbastanza a lungo, altri ebbero un potere passeggero; ve ne furono altri che appena ottennero il titolo e un’effimera autorità furono subito deposti. Infatti l’impero romano, governato per un periodo di sessant’anni da sovrani più numerosi di quanto il tempo richiedesse, subì molte e varie vicissitudini, degne di meraviglia (I i 4-5).
Questa fragilità del potere imperiale si prestava a riflessioni che toccavano l’argomento centrale del Principe, ovvero i modi attraverso i quali un principe nuovo insediato al governo di un principato nuovo potesse stabilizzare il proprio potere evitando di essere rapidamente abbattuto.
M. si mantiene aderente al testo polizianeo di Erodiano ma talvolta, per fare combaciare meglio l’esempio storico con la propria argomentazione, aggiunge o modifica particolari che nella fonte sono assenti. I suoi ragionamenti nel cap. xix, come accade spesso nel suo rapporto con gli autori antichi, travalicano non di rado i contenuti del racconto originario.
M. mette a frutto la materia esposta da Erodiano, ma non necessariamente le sue riflessioni, quando esse ci siano: Erodiano racconta i vari modi in cui avvennero le successioni al trono imperiale nel periodo da lui trattato, ma non si sofferma sul rapporto tra principi ereditari e principi nuovi, mentre per M. il problema di come rendere stabile un principato nuovo era, come si è appena detto, di primaria importanza. M. coglie nell’opera di Erodiano il grande fenomeno della trasformazione dell’impero romano in Stato militare, ma Erodiano su questo punto fornisce unicamente informazioni (Inglese 2006).
Erodiano fu tradotto in latino da Angelo Poliziano, per volontà di Innocenzo VIII, al quale il manoscritto fu consegnato nel 1487. La prima edizione a stampa vide la luce a Bologna nel 1493, e lo stesso anno fu ristampata a Bologna e a Roma; la quarta edizione fu pubblicata nel 1513 a Strasburgo e la quinta a Firenze nel 1517 per i tipi di Filippo Giunta. L’opera incontrò dunque una notevole fortuna in quegli anni e
M. può aver conosciuto il suo Erodiano nell’elegante traduzione polizianea (alla quale attinge puntualmente) tramite una delle prime quattro edizioni, senza che si possa escludere a priori, anche se meno probabile, una lettura da uno dei manoscritti che circolarono dal 1487 in poi.
Non c’è alcun valido motivo per ritenere che M. abbia conosciuto Erodiano soltanto tramite l’edizione fiorentina del 1517, e che di conseguenza la parte del cap. xix dove entra in gioco la storia romana sia stata scritta quell’anno, diventando parte di una seconda redazione complessiva dell’opera (Martelli ha ribadito più volte questa opinione, ma cfr. soprattutto l’ed. Martelli 2006, pp. 462-68).
Si è ritenuto di poter riscontrare prove di questa seconda redazione nel cap. xix a causa della sua scrittura per accumulo («progressivo accumularsi per successive complicazioni» è il giudizio di Martelli 1985-1986, p. 314) e della presenza di tre espressioni conclusive seminate in vari punti (§§ 18, 24, 61). Tuttavia, una scrittura per accumulo – o per meglio dire una composizione dalla struttura poco rifinita e poco rielaborata – non è la prova ineluttabile di due redazioni distanziate nel tempo: corrisponde più probabilmente a un flusso scrittorio rapido cui non hanno fatto sempre seguito né una puntuale redistribuzione della materia né la disposizione in elegante simmetria del discorso letterario e del discorso mentale. Una simile caratteristica emerge con maggiore evidenza nel cap. xix, per la sua lunghezza e per la complessità degli argomenti, ma farla dipendere da un uso tardivo di Erodiano per trarne deduzioni sull’esistenza di due redazioni del Principe è un procedimento arbitrario. I vari «concludo» non sono un valido soccorso alla teoria delle due redazioni distanziate nel tempo (ed. Martelli 2006, pp. 463-66) perché – a differenza di simili espressioni esplicitamente conclusive poste a fine di un capitolo (per es., xiii 26, xvii 23, xxiii 14, xxv 25) – la loro funzione è quella di fissare i successivi passaggi del ragionamento dell’autore, di stabilire punti fermi dell’analisi prima di procedere oltre. Di questo uso M. era perfettamente conscio, tanto è vero che il secondo «concludo» del cap. xix è per l’esattezza un «E di nuovo concludo», dove l’avverbio indica la consapevolezza, da parte dell’autore, del ricorso al verbo per ragioni stilistiche, e non per una disattenzione derivante da una ripresa compositiva poco accurata. Se così fosse stato, M. – proprio in virtù della consapevolezza dimostrata dall’avverbio – avrebbe semplicemente sostituito il verbo concludere con un sinonimo. Identico valore ha anche la terza espressione conclusiva (§ 61: «ma verrò alla conclusione di questo discorso»), la quale non esaurisce la materia dell’intero capitolo ma la riflessione riguardante i limiti dell’analogia con l’impero romano, mentre l’autentica conclusione generale, riguardante i modi in cui i procedimenti utili a evitare l’odio e il disprezzo agiscano in modo diverso se si tratti di un principato iure hereditario o di un principato nuovo, si snoda nella parte effettivamente finale del capitolo, non enfatizzata da alcuna espressione conclusiva. Un «concludo» identico a quelli del cap. xix si trova a iii 17, collocato prima della metà del capitolo e senza che nella parte seguente si notino tracce di aggiunte posticce o di ripensamenti. Lo stesso può dirsi per il «concludo» di xix 18, cui segue un discorso che riguarda esempi storici e una nuova riflessione di carattere complessivo, che svolgono il discorso precedente. Un altro argomento, mai evidenziato, che porta a escludere che la seconda parte del cap. xix sia un’aggiunta seriore e specifica consiste tuttavia nel fatto che l’inizio del cap. xx (An arces et multa alia, que quotidie a principibus fiunt, utilia an inutilia sint) riprende un argomento centrale del confronto tra principati contemporanei e impero romano che troviamo proprio nella seconda parte del cap. xix. In quest’ultima M. aveva osservato quel differente rapporto tra principe e soldati che rendeva improponibile l’analogia tra la storia romana e la storia contemporanea; in tutto il capitolo successivo, e fin dal suo inizio, M. analizza il rapporto tra i principati contemporanei e le forze armate, in stretta continuità con quanto detto in precedenza. In altre parole, il cap. xx si connette perfettamente alla seconda parte del cap. xix (dal § 25 in poi) mentre risulterebbe un brusco passaggio se lo collegassimo direttamente alla fine del § 24, qualora la ritenessimo come parte conclusiva della prima redazione (di tutt’altro genere l’ipotesi di una prima stesura estesa fino al cap. xi e ampliata in stretta contiguità temporale: cfr. G. Sasso, Il Principe ebbe due redazioni?, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., 1988, pp. 197-276).
La questione cronologica, basata su considerazioni di ordine stilistico, ha inevitabili ripercussioni sull’interpretazione machiavelliana del tema de contemptu et odio fugiendo, aprendo la strada ad affermazioni come questa:
Abnorme [...] è il fatto che le due successive regole – conservarsi benevolo il popolo, intrattenere i grandi senza disperare il popolo – siano messe in crisi dall’esame dei casi relativi ai dieci imperatori romani di cui si era occupato Erodiano. Ed io penso che non un ripensamento su quanto aveva fin lì scritto suscitasse la scelta delle storie di Erodiano come testo sommamente atto a discorrere quel ripensamento, ma fosse, al contrario, la lettura di Erodiano a provocare il ripensamento e la necessità di affrontare e di svilupparne le conseguenze (ed. Martelli 2006, pp. 466-67).
È tuttavia indimostrabile, come si è visto, che l’irruzione delle Storie di Erodiano nel cap. xix sia dipesa da una modalità di conoscenza dell’opera tale da provocare un ampliamento disordinato del capitolo ad anni di distanza dalla prima redazione. Inoltre essa non mise affatto «in crisi» il ragionamento originario, ma, come si vedrà (§ 4), lo sottopose al vaglio della casistica romana per evitare che essa suscitasse critiche alla regola generale.
L’esame dei rapporti tra M. ed Erodiano nel capitolo xix del Principe conferma dunque, insieme con argomenti tratti da altri capitoli del trattato e dalla documentazione parallela, la ragionevolezza dell’opinione prevalente, secondo la quale il Principe sarebbe stato concluso in un periodo variamente ipotizzato tra il giugno-luglio del 1513 e il maggio del 1514 (cfr. soprattutto Sasso 1988; Sasso, in Il Principe. Testo e saggi, nuova ed. critica a cura di G. Inglese, 2013, pp. 6-12; Inglese 1987, pp. 384-86; ed. Inglese 2013; Inglese 2014; per una sintesi della questione e altri riferimenti bibliografici, cfr. ora Tarantino, in Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, a cura di A. Campi, 2013).
M. spiega in modo chiaro e sintetico il motivo per cui la storia dei dieci imperatori raccontata da Erodiano non compromettesse la validità del ragionamento svolto nella prima parte del capitolo. Egli afferma immediatamente che la situazione dell’impero romano era più complessa di quella degli «altri principati»:
E è prima da notare che, dove nelli altri principati si ha solo a contendere con la ambizione de’ grandi e insolenzia de’ populi, gli imperadori romani avevano una terza difficultà di avere a sopportare la crudeltà e avarizia de’ soldati. La quale cosa era sì difficile che la fu cagione della ruina di molti, sendo dificile satisfare a’ soldati e a’ populi; perché e’ populi amavano la quiete, e per questo amavono e’ principi modesti, e e’ soldati amavano el principe di animo militare e che fussi crudele, insolente e rapace: le quali cose volevano che lui essercitassi ne’ populi per potere avere duplicato stipendio e sfogare la loro avarizia e crudeltà (Principe xix 28-29).
Gli imperatori romani non dovevano preoccuparsi soltanto di ottenere il favore del popolo e dei grandi e di evitare che la rivalità di questi due elementi esplodesse in conflitto. Dovevano tenere in grande considerazione un terzo elemento ben più difficile da governare, l’esercito. Come mai da questa complicazione derivasse l’infondatezza dell’eventuale obiezione (che qualcuno avrebbe potuto sollevare riflettendo sulla casistica romana) rivolta alla regola che la stabilità del potere derivasse necessariamente dalla bontà e dalla virtù del principe, M. avrebbe potuto precisarlo subito, e invece aspettò la parte finale del capitolo:
ma verrò alla conclusione di questo discorso; e dico che e’ principi de’ nostri tempi hanno meno questa difficultà di satisfare estraordinariamente a’ soldati ne’ governi loro: perché, non ostante ch’e’ si abbia a avere a quegli qualche considerazione, tamen si resolve presto per non avere alcuno di questi principi esserciti insieme che sieno inveterati con e’ governi e amministrazione delle province, come erano gli esserciti dello imperio romano (§ 61).
I principati contemporanei non disponevano dunque di eserciti stabilmente stanziati nelle province, che i governatori avrebbero potuto utilizzare per sovvertire il potere centrale (non si fa alcun riferimento al problema dei mercenari che M. presuppone come idealmente risolto dopo l’ampia trattazione dei capp. x, xii, xiii e xiv; è degno di nota il fatto che M. non prenda in considerazione il ruolo dei pretoriani: ed. Martelli 2006, p. 257 nota 84).
Il fatto di non aver subito precisato i limiti dell’analogia romana complica l’esposizione e sottopone i lettori a un impegno notevole, soprattutto quando M. formula considerazioni di carattere generale. L’esempio che segue è eloquente. M. osserva che gli imperatori che non avevano autorità sufficiente a tenere a freno contemporaneamente i popoli e i soldati cadevano regolarmente in rovina. Il problema si poneva in modo particolare per i principi nuovi:
Le quali cose feciono che quelli imperadori che per natura o per arte non avevano una gran reputazione, tale che con quella e’ tenessino l’uno e l’altro in freno, sempre ruinavono. E e’ più di loro, maxime quegli che come uomini nuovi venivono al principato, conosciuta questa difficultà di questi dua diversi umori si volgevano a satisfare a’ soldati, stimando poco lo iniurare el populo. Il quale partito era necessario, perché, non potendo e’ principi mancare di non essere odiati da qualcuno, si debbono sforzare prima di non essere odiati da le università [ovvero i differenti gruppi sociali]: e, quando non possono conseguire questo, debbono fuggire con ogni industria l’odio di quelle università che sono più potenti. E però quelli imperadori che per novità avevano bisogno di favori estraordinari si aderivano a’ soldati più tosto che a’ populi: il che tornava nondimeno loro utile o no secondo che quel principe si sapeva mantenere reputato con esso loro (Principe xix 30-33; per il testo cfr. Inglese 2014, pp. 64-65).
Questo passaggio importante del ragionamento di M. è anche molto delicato, perché la scrittura poco limpida rischia di provocare fraintendimenti. Si è sostenuto che l’affermazione secondo la quale il principe può mantenere il potere soltanto se è capace di ottenere e conservare il favore dei soldati, sarebbe in contraddizione con quanto affermato in precedenza («la cosa viene ad annullare quanto costituisce l’assunto stesso del capitolo»), vale a dire che al principe basti astenersi dall’essere rapace e dal recare offesa alle donne dei sudditi (ed. Martelli 2006, p. 255 nota 76). La contraddizione sarebbe davvero macroscopica e sconcertante. Ma un lettore paziente noterà come M. – che normalmente usa imperatore come specificazione storica di principe e applica il termine principato alla forma istituzionale dell’impero romano – in un passaggio cruciale del ragionamento svolto in questo paragrafo colleghi «imperadori» a verbi all’imperfetto, mentre «principi» è connesso con il presente. La frase «non potendo e’ principi [...] potenti» segnala una virata verso la contemporaneità, e le «università», di conseguenza, sono i popoli e i potenti, senza considerazione dei soldati. La contraddizione non sussiste a causa dei limiti dell’analogia, evidenziati dalla diversa organizzazione militare dei Romani.
L’analisi istituzionale, ovvero la specificità del sistema romano di governo, avrebbe dunque consentito di ribattere efficacemente e rapidamente alle eventuali obiezioni, ma M. non ritenne di potersi limitare a questo. Gli aspetti istituzionali (ovvero la natura dell’organizzazione militare) spegnevano l’analogia, ma restava viva la lezione derivante dalla considerazione dei caratteri individuali e della loro attitudine all’acquisizione del potere e alla sua conservazione. E così, tra l’enunciazione e la soluzione del problema, M. inserì il racconto delle vicende degli imperatori romani, accompagnate da riflessioni generali, per mostrare come quelle vicende fossero condizionate dalla difficoltà di conciliare gli interessi del popolo e quelli dei soldati:
Volendo pertanto rispondere a queste obiezioni, discorrerò le qualità di alcuni imperadori, mostrando le cagioni della loro ruina non disforme da quello che da me si è addutto; e parte metterò in considerazione quelle cose che sono notabili a chi legge le azioni di quelli tempi» (§ 26; seguo l’interpretazione sintattica dell’ed. Martelli 2006, p. 253 nota 61).
In questa sezione, come altrove nel Principe, i problemi affrontati da ciascun imperatore nell’esercizio del potere emergono largamente come problemi di personalità, di vizi e di virtù. Il singolare dialoga con il plurale e il dramma del potere si configura come titanica fatica nella conciliazione degli opposti.
Si ha l’impressione che i giudizi negativi espressi sulla qualità compositiva di questa parte del Principe siano stati molto influenzati dal fatto che la critica moderna, condizionata dalla narrativa sequenziale della Kaisergeschichte, non abbia percepito che il presunto disordine di M. altro non è che una narrativa di tipo diverso, non più sequenziale ma tematica. Il valore di questa narrativa potrà pur essere valutato difettoso (e i motivi non mancano, poiché l’affanno compositivo è evidente) ma sarebbe errato non apprezzarne il carattere innovativo.
La galleria dei dieci imperatori romani che M. preleva da Erodiano è analizzata caso per caso ma non in stretto ordine cronologico. L’autore ricompone la sequenza in due gruppi maggiori e uno minore, seguendo il criterio dei vizi e delle virtù. Egli inserisce nel primo gruppo Marco Aurelio, Pertinace e Alessandro Severo. Pur essendo dotati di alcune qualità importanti – «sendo tutti di modesta vita, amatori della iustizia, inimici della crudeltà, umani, benigni» – ebbero tutti, tranne Marco, «tristo fine» (§ 34). L’eccezione di Marco si spiega con due argomenti: egli, a differenza degli altri che erano principi nuovi, salì al trono iure hereditario, godendo in tal modo di una maggiore autorevolezza; inoltre aveva «molte virtù che lo facevano venerando» (§ 35). M. non dice di quali virtù si trattasse, ma dobbiamo immaginare che intendesse la sua forza d’animo, la sua tempra guerriera, la sua moderazione. Essere «di modesta vita, amatori della iustizia, inimici della crudeltà, umani, benigni», non giovò a Pertinace e ad Alessandro Severo perché, oltre a non essere principi iure hereditario, furono odiati e disprezzati: il primo, troppo amante della pace, apparve come un vecchio infiacchito e inerte. M. non critica la vecchiezza in sé ma quella di un principe che oltre a non avere il requisito del lignaggio fu privo di energia (diversamente nell’ed. Martelli 2006, p. 256 nota 83). Alessandro Severo fu odiato e disprezzato perché appariva effeminato e succube della madre (§§ 36-39).
Il secondo gruppo comprende quattro imperatori, accomunati dal fatto di essere stati «crudelissimi e rapacissimi»: nella sequenza di M., che non corrisponde a quella cronologica, Settimio Severo, Caracalla, Commodo e Massimino il Trace.
Settimio Severo fu l’unico dei quattro a non avere «tristo fine». La circostanza si spiega con il fatto che quell’imperatore da un lato favorì i soldati e si fece ammirare da loro, e dall’altro ebbe un così grande valore bellico da lasciare il popolo stupefatto, anche se sottoposto a vessazioni:
in Severo fu tanta virtù che, mantenendosi e’ soldati amici, ancora che e’ populi fussino da lui gravati, possé sempre regnare felicemente: perché quelle sua virtù lo facevano nel conspetto de’ soldati e de’ populi sì mirabile che questi rimanevano quodammodo stupidi e attoniti, e quelli altri reverenti e satisfatti (§ 41).
In più egli «seppe bene usare la persona del lione e della golpe», come dimostra il comportamento da lui seguito nei confronti di Clodio Albino. Erodiano (II xv 1-5, III v-vii) ricorda come, dovendo procedere a una campagna militare contro Pescennio Nigro in Oriente, Settimio Severo temesse che il nobile e ambizioso senatore Clodio Albino, comandante delle agguerrite truppe stanziate in Britannia, approfittasse della situazione per occupare Roma e impadronirsi del trono. Severo agì quindi nei suoi confronti con «simulata deferenza»: gli concesse il cesarato, premessa alla successione al trono; gli manifestò la propria stanchezza e i propri malanni e la necessità di poter contare sul suo aiuto, essendo i propri figli ancora in tenera età; lo ricoprì di onori. In questo modo, scongiurò «con la sua abilità politica» il problema immediato. Al ritorno dalla vittoriosa campagna d’Oriente, Severo cercò subito di sbarazzarsi di Albino «con la sorpresa e con l’inganno» ma non essendoci riuscito lo affrontò militarmente nei pressi di Lione e lo sconfisse. Egli usò quindi, nella soluzione di questo delicato problema, sia l’arte dell’astuzia sia l’energia della forza. Dopo aver riassunto brevemente ma con precisione questi avvenimenti, M. ne trae spunto per una conferma fondamentale, ricorrendo alle allegorie della volpe e del leone: «Chi essaminerà tritamente le azioni di costui, lo troverrà uno ferocissimo lione e una astutissima golpe, e vedrà quello temuto e reverito da ciascuno, e dalli esserciti non odiato» (§ 49).
Caracalla aveva una tempra bellica eccezionale che, come il padre, lo rendeva ammirato dal popolo e gradito ai soldati, con i quali si atteggiava a commilitone. A perderlo fu la sua inaudita crudeltà, che lo rese «odiosissimo a tutto il mondo». Fece inoltre il grave errore di tenere al proprio servizio un «centurione» che aveva motivi personali di risentimento perché Caracalla gli aveva ucciso il fratello. Alla prima occasione costui divenne il suo assassino.
Commodo aveva il requisito del lignaggio (aveva avuto il principato iure hereditario in quanto figlio di Marco), ma riuscì a rendersi inviso sia ai popoli (odio) sia ai soldati (disprezzo): «per potere usare la sua rapacità ne’ populi si volse a intrattenere li esserciti e farli licenziosi», e tuttavia «non tenendo la sua dignità, discendendo spesso ne’ teatri a combattere co’ gladiatori e faccendo altre cose vilissime e poco degne della maestà imperiale, diventò contennendo nel conspetto de’ soldati» (§ 55) e fu per questo abbattuto da una congiura.
A differenza di Commodo, Massimino il Trace era «bellicosissimo», ma come Pertinace, Alessandro Severo e Commodo non riuscì a evitare né il disprezzo, poiché era un trace di umilissime origini, né l’odio, perché i suoi rappresentanti in Roma e nelle province agirono crudelmente suscitando l’indignazione popolare e le rivolte. Alla fine, lo stesso esercito, di fronte alle difficoltà dell’assedio di Aquileia, disgustato per le sue eccessive crudeltà e constatando che i ribelli non lo temevano (ripresa del motivo del disprezzo) lo abbatterono (§§ 57-61).
Il terzo gruppo d’imperatori comprende Eliogabalo, Macrino e Didio Giuliano. M. dichiara di non volere soffermarsi su di essi perché essendo «al tutto contennendi si spensono subito» (§ 61).
Subito dopo la trattazione di Pertinace M. inserisce una riflessione che rappresenta uno dei passi più discussi e citati del Principe:
E qui si debbe notare che l’odio si acquista così mediante le buone opere come le triste, e però – come io dissi di sopra – uno principe volendo mantenere lo stato è spesso forzato a non essere buono. Perché, quando quella università, o populi o soldati o grandi ch’e’ si sieno, della quale tu iudichi avere, per mantenerti, più bisogno, è corrotta, ti conviene seguire l’umore suo per satisfarle: e allora le buone opere ti sono nimiche (§§ 37-38).
Si è ritenuto che queste parole contraddicano l’assunto iniziale del capitolo, secondo il quale conviene al principe astenersi da azioni crudeli per evitare il risentimento popolare e, più in generale, l’intero impianto dell’opera (Martelli 1985-1986, pp. 324-25; ed. Martelli 2006, p. 257 nota 84). In verità M. – che in questo caso non distingue tra imperatori romani e principi moderni – segnala un’eccezione, cioè l’eventualità che il gruppo sociale più utile al principe sia corrotto. Ma poiché il principio di fondo (non farsi odiare) resta sempre valido, se ne deduce che simili esperienze non possano portare a un principato stabile per lungo tempo. Favorire il popolo è fondamentale (cfr. supra § Il principe tra i grandi e il popolo), ma se il popolo è corrotto esso non è più un requisito sufficiente, perché questo altera gravemente gli equilibri sociali. M. non si pone – perché la materia offerta da Erodiano non offre spunti al riguardo – il problema di come rimediare alla corruzione, problema che sempre in riferimento all’antichità avrà invece un ruolo centrale nei Discorsi, con particolare riferimento al rapporto tra res novae e mos maiorum (cfr. Guidi, in «Pigliare la golpe e il lione». Studi rinascimentali in onore di Jean-Jacques Marchand, a cura di A. Roncaccia, 2008). Non c’è a priori nulla di pessimistico nella sua impostazione, ma unicamente la dichiarazione che il modello machiavelliano non concede troppo all’astrazione e si confronta puntualmente con le verifiche offerte dall’analisi storica antica e moderna, a costo di complicare le cose e di rinunciare all’estetica delle geometrie perfette.
Uno dei punti difficili per l’interpretazione del capitolo si trova nelle ultime righe, quando M. afferma che il principe nuovo in un principato nuovo deve ispirarsi sia a Marco Aurelio sia a Settimio Severo (si noti la svista, dettata dalla fretta compositiva, dell’attribuzione a Commodo di un’imitazione di Severo, che regnò in realtà dopo di lui):
Dico che qualunque considerrà el soprascritto discorso vedrà o l’odio o il disprezzo essere suti cagione della ruina di quelli imperadori prenominati, e conoscerà ancora donde nacque che, parte di loro procedendo in uno modo e parte al contrario, in qualunque di quegli uno di loro ebbe felice e gli altri infelice fine. Perché a Pertinace e Alessandro, per essere principi nuovi, fu inutile e dannoso volere imitare Marco, che era nel principato iure hereditario; e similmente a Caracalla, Commodo e Massimino essere stata cosa perniziosa imitare Severo, per non avere avuta tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigie sua. Pertanto uno principe nuovo in uno principato nuovo non può imitare le azioni di Marco, né ancora è necessario seguitare quelle di Severo: ma debba pigliare da Severo quelle parte che per fondare el suo stato sono necessarie, e da Marco quelle che sono convenienti e gloriose a conservare uno stato che sia già stabilito e fermo (§§ 67-69).
L’energia e il valore bellico di Settimio Severo appaiono dunque necessari ad acquisire il regno, ma non a conservarlo: per questa seconda esigenza è d’obbligo ispirarsi a Marco Aurelio. In verità Settimio Severo non riuscì soltanto ad acquisire il potere in quanto principe nuovo, ma anche a mantenerlo, perché morì di morte naturale. La sua evocazione in quanto modello «a metà» potrebbe sembrare dunque incongrua. Si potrebbe immaginare che M. pensasse che il requisito mancante a Severo (e che si trovava in Marco) fosse la capacità di stabilizzare il potere oltre la propria vita, trasmettendolo a un erede. Tuttavia, M. non è affatto sensibile ai diritti dinastici dei principi sugli Stati (Marchand 1986) e l’ipotesi è in ogni caso esclusa dal fatto che lo stesso Marco Aurelio non riuscì in questa impresa, perché Commodo non fu all’altezza del padre e si comportò in modo dissennato. Ma la conclusione di questo capitolo, «singolarmente infelice nella espressione letteraria e nella forza di sintesi», palesa soprattutto una contraddizione con quanto affermato nel cap. vi 2: qui si sostiene che i personaggi eccezionali dell’antichità e dei tempi moderni risultavano il più delle volte inarrivabili, ma che i principi potevano accontentarsi di cogliere almeno qualche «odore» della loro virtù. La contraddizione è evidente se questo giudizio viene accostato a quanto M. afferma a proposito di Commodo, Caracalla e Massimino il Trace, che avevano sbagliato nell’imitare Severo «per non avere avuto tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigia sue» (cfr. ed. Sasso 1963, pp. 176-77). Non è scontato, inoltre, che prendere diverse virtù da due principi fosse operazione più semplice che ispirarsi a uno solo, anche se si trattava soltanto di un’imitazione incompiuta. Il cerchio dunque non si chiude e gli uomini «grandi» ed «eccellentissimi» che nel Principe animano con le loro gesta il rapporto tra il fattore umano e l’analisi del potere ci appaiono, per un attimo intenso, in tutta la loro solitudine.
Bibliografia: Fonti: Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, testo e versione a cura di F. Cassola, Firenze 1967; Herodian, ed. C.R. Whittaker, 2 voll., London-Cambridge (Mass.) 1969-1970; Geschichte des Kaisertums nach Marc Aurel, hrsg. F.L. Müller, Stuttgart 1996; Herodianus, Regnum post Marcum, edidit C.M. Lucarini, Monachii-Lipsiae 2005; Erodiano e Commodo. Traduzione e commento storico al primo libro della Storia dell’Impero dopo Marco, a cura di A. Galimberti, Göttingen 2014. Edizioni del Principe: Il Principe e altri scritti, introduzione e commento di G. Sasso, Firenze 1963; De principatibus, testo critico a cura di G. Inglese, Roma 1994; Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Roma 2006; Il Principe, nuova ed. a cura di G. Inglese, Torino 2013; Il Principe, ed. con traduzione a fronte in italiano di C. Donzelli, introduzione e commento di G. Pedullà, Roma 2013; Il Principe. Testo e saggi, nuova ed. critica a cura di G. Inglese, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2013 (in partic. G. Sasso, Genesi e struttura del Principe, pp. 3-40; G. Inglese, Ragione del testo, pp. 153-74).
Per gli studi critici si vedano: S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2° vol., t. 2, Bari 1966; S. Mazzarino, Machiavelli, Niebuhr e gli annali. La storia agraria tra classicismo e strutturalismo, «De homine», 1972, 41, pp. 23-36; G. Cadoni, Il principe e il popolo, «La cultura», 1985, 1, pp. 124-202; M. Martelli, Schede sulla cultura di Machiavelli, «Interpres», 1985-1986, 6, pp. 283-330; C. Bertrand, Machiavel, l’Histoire Auguste et Hérodien, «Wolfenbütteler Renaissance Mitteilungen», 1986, 10, pp. 1-10; J-J. Marchand, Le juste et l’injuste chez Machiavel: des premiers écrits politiques au Prince, in Le juste et l’injuste à la Renaissance et à l’âge classique, Actes du Colloque international, Saint-Étienne 21-23 avril 1983, éd. C. Lauvergnat-Gagnière, B. Yon, Saint-Étienne 1986, pp. 4148; G. Inglese, Per una discussione sulla cultura di Machiavelli, «La cultura», 1987, 2, pp. 378-87; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 1998; N. Marcelli, Canetoli o Canneschi? Una sciarada machiavelliana (nota a Principe, XIX, 16 e Istorie fiorentine, VI, 9), «Interpres», 2005, 24, pp. 28098; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; «Pigliare la golpe e il lione». Studi rinascimentali in onore di Jean-Jacques Marchand, a cura di A. Roncaccia, Roma 2008 (in partic. A. Guidi, Machiavelli fra tradizione e innovazione, pp. 83-102; M. Martelli, Qualche giunta alla derrata della mia edizione critica del Principe compresa nell’«edizione nazionale» delle opere di Niccolò Machiavelli, pp. 103-09); R. Ruggiero, Machiavelli lettore di Erodiano, «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», 2013, 25, pp. 357-63; Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, a cura di A. Campi, catalogo della mostra, Roma, Complesso del Vittoriano, 25 aprile - 16 giugno 2013, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2013 (in partic. M. Tarantino, Quando è stato scritto Il Principe? Le polemiche sulla data di composizione, pp. 108-13; R. Ruggiero, I Greci e la Grecia classica nel Principe, pp. 132-40); G. Inglese, Sul testo del Principe, «La cultura», 2014, 1, pp. 47-76.