share economy
Sistema economico in cui il salario del dipendente è in parte determinato dai profitti o dai ricavi dell’impresa per cui egli lavora (➔ anche sharing). La remunerazione del lavoratore è costituita da un ammontare fisso e da una quota variabile correlata all’andamento di alcuni indicatori della situazione economica dell’azienda.
Secondo M.L. Weitzman (The share economy, 1984), questa formula retributiva, che ipotizza una minore propensione al rischio dei dipendenti rispetto all’imprenditore, comporta una quota di partecipazione al profitto (o alle perdite) a favore (o a carico) dei primi, assicurando loro un livello di occupazione, in presenza di contrazioni della domanda, superiore a quello ottenibile, coeteris paribus, in presenza di salari rigidi. Weitzman propose tale sistema per combattere il fenomeno della stagflazione, ossia un periodo di stagnazione dell’attività economica e quindi di elevata disoccupazione e, contemporaneamente, di crescita dei prezzi. In questa situazione, interventi di politica economica espansiva sono difficilmente attuabili, perché tendono a creare ulteriore inflazione. Al contrario, un sistema di s. e. agisce da stabilizzatore automatico: le imprese hanno un minore incentivo a licenziare i dipendenti quando la domanda cala, perché a inferiori ricavi o profitti sono associati salari più bassi. Lo stesso meccanismo può valere in condizioni normali, perché generalmente un incremento occupazionale riduce i margini di profitto aziendale e dunque anche la remunerazione dei lavoratori. Nella terminologia di Weitzman, si crea così un eccesso di domanda di lavoro, perché il costo marginale di un’unità aggiuntiva di tale fattore diminuisce all’aumentare dell’occupazione, mentre esso è costante nel caso di un salario fisso; di conseguenza, le imprese scelgono di impiegare una maggiore quantità di lavoro, finché la sua produttività marginale non si abbassa al costo marginale. In questo modo, il sistema di s. e. può anche contrarre la disoccupazione naturale di lungo periodo. Weitzman cita l’economia giapponese come un esempio di applicazione della share economy.
Varie critiche sono state mosse all’indirizzo di tale teoria. In particolare, l’effetto della s. e. sulla disoccupazione di lungo periodo dipende in modo cruciale dalla sue stesse cause. Se, per es., essa è dovuta al fatto che le aziende preferiscono pagare retribuzioni più alte di quelle di equilibrio, come nella teoria dei salari di efficienza (efficiency wage; ➔ salario), allora l’effetto di renderle più flessibili verso il basso potrebbe essere negativo: le imprese avrebbero un incentivo a occupare meno lavoro per mantenere elevate le remunerazioni. Inoltre, la variabilità del salario impone ai lavoratori di sopportare una maggiore volatilità dei redditi, e di conseguenza il sistema incontrerebbe la resistenza degli occupati, che operano come insider (➔ insider-outsider). Più in generale, non è chiaro il motivo per cui l’equilibrio di mercato non tenda automaticamente verso quello della s. e., se esso è più efficiente, rendendo invece necessaria un’azione pubblica. Rimangono comunque vari argomenti a favore dell’introduzione di una forma di retribuzione legata alla performance di impresa. Tale sistema rende i salari più flessibili e l’occupazione più stabile. Inoltre, la partecipazione ai profitti può accrescere l’incentivo dei lavoratori a essere più produttivi, sebbene la relazione tra impegno del singolo dipendente e profitti aziendali sia di norma tenue.