sharia (propr. sari'a)
(propr. šarī‛a) Traslitt. del termine arabo che, usato in origine per indicare la strada (per es., quella che conduce all’acqua), significa nel lessico islamico (e già nel Corano) la «strada rivelata», e quindi la Legge, non elaborata dagli uomini, ma posta da Dio. È il diritto (fiqh, letteral. «comprensione») che «comprende» la sh., cioè la interpreta e la sviluppa. In tale operazione le sue fonti sono: il Corano; la sunna (la via o condotta del Profeta, registrata dai ḥadīth, tradizioni canoniche di detti o fatti di Maometto, a cui il musulmano è chiamato a ispirarsi); il consenso della comunità degli interpreti; e il ragionamento o sforzo razionale, il cui metodo fondamentale è il qiyās, cioè l’analogia che, come poi nel kalām (➔), regola il procedimento argomentativo, permettendo di interpretare il dato coranico per applicarlo ai singoli casi. Attraverso un processo graduale, conclusosi nel 10° sec., si sono formate nell’islam quattro diverse scuole giuridiche: hanafita, malikita, shafiita, hanbalita (il nome rinvia ogni volta all’imām che ne sarebbe stato il fondatore). Ciascuna delle scuole o vie (madhāhib) è riconosciuta valida (si parla così di una comprensione plurale della sh.), anche se le differenze tra l’una e l’altra scuola, a seconda della tendenza più o meno razionalista che le caratterizza, sono talvolta importanti. Del resto, l’interpretazione giuridica, riguardando solo ciò che nel Corano non è esplicitamente definito, è concepita come un’approssimazione, tutta umana, al dettato di Dio, ed è come tale (almeno teoricamente) passibile di errore, sviluppo o mutamento. Pur riguardando teoricamente le intenzioni (niyyāt), senza la sincerità delle quali nessun atto può essere valido, il diritto, che non può indagare il profondo dei cuori, finisce per regolamentare l’esteriorità degli atti, i quali però (secondo l’interpretazione maggioritaria) ricadono tutti nell’ambito di interesse della sh.: all’obbligo (farḍ) che può essere individuale o collettivo, segue la sfera di ciò che è lodevole; poi quella di ciò che è lecito o permesso; quindi ciò che è riprovevole; e infine quello che è proibito (ḥaram), in un continuum in cui nessun atto umano pare sottrarsi alla legge di Dio. Secondo la teoria oggi più diffusa, principio della sh. sarebbe la maṣlaḥa, cioè l’interesse o il vantaggio dell’uomo e della sua comunità; i precetti islamici sarebbero quindi razionali e fondamentalmente ‘miti’ (Corano, II, 185). Un’altra teoria, ormai abbandonata ma più coerente con l’apparato teologico islamico (asharita), pone il principio della sh. nella volontà assolutamente libera di Dio.