Shintoismo
Il termine 'shintoismo' è stato diffuso nel secolo scorso dai primi interpreti moderni della cultura giapponese che lo utilizzarono per indicare il complesso delle attività rituali rivolte ai kami. Kami viene tradotto, non senza accese controversie, come 'dio' o 'divinità' e denota una pluralità di esseri, concepiti anche antropomorficamente nella mitologia e poi nell'iconografia, il cui potere si manifesta nel mondo umano. 'Shintoismo', peraltro, deriva dalla parola giapponese shintō, ora di uso assai più comune tra gli studiosi. Il concetto è stato sottoposto a una profonda ridefinizione a partire dalla seconda metà del secolo scorso sulla base dell'idea di 'religione' elaborata in Europa. Nell'accezione moderna shintō viene inteso come 'la via dei kami', cioè l'insieme di credenze, pratiche, istituzioni sviluppatosi come tradizione ininterrotta dal culto delle divinità 'indigene' precedente l'introduzione del buddhismo (VI secolo d.C.).
La definizione di 'divinità' spesso citata come la più puntuale è quella del grande studioso Motoori Norinaga (1730-1801), per il quale kami sarebbe l'attributo di qualsiasi cosa "possieda un potere superiore fuori dall'ordinario e ispiri timore reverenziale". La manifestazione di tale qualità assume forme tanto svariate da rendere complicata qualsiasi classificazione tipologica. Accanto alle divinità del mondo naturale, localizzate nei cieli (il sole, gli astri, i fenomeni atmosferici) oppure sulla terra (monti, fiumi, rocce, alberi, animali), vi sono quelle legate alla cultura umana, innanzitutto gli dei tutelari della comunità (casa, villaggio, gruppo di parentela). Tra questi spiccano per importanza nell'antichità le divinità dei clan (uji), identificate spesso con il nume che nella società locale presiedeva al ciclo agricolo. Ruolo non meno centrale hanno le divinità legate alle attività dell'uomo, siano esse le tappe della vita dei singoli (nascita, malattia, vincolo matrimoniale, morte) o le funzioni produttive che interessano il gruppo (agricoltura, caccia, pesca). La venerazione di esseri umani come kami, sia in vita che dopo la morte, insieme alla nascita di figure divine dalle caratteristiche sincretiche ha enormemente arricchito nel corso dei secoli il pantheon shintō.Il culto dei kami è stato per molti secoli sostanzialmente un'ortoprassi rituale legata ai centri locali. È mancata un'organizzazione centrale che sanzionasse l'ortodossia dottrinaria, anche se il governo e la corte imperiale hanno avuto a varie riprese funzioni di controllo e coordinamento. In effetti, a livello centrale la tradizione religiosa è definita assai più rigorosamente di quanto non lo sia alla periferia, dove le esigenze comunitarie hanno il sopravvento. Prima del secolo scorso, quindi, le forme della religione 'popolare' appaiono difficilmente analizzabili nei termini di tradizioni monolitiche etichettate in modo univoco come shintoismo o buddhismo. Piuttosto, il panorama cultuale presentava un arcipelago di formazioni composite, cui davano supporto teorico, con l'aiuto della terminologia buddhista, le grandi istituzioni monastiche vicine alla capitale da cui dipendeva il clero locale.
Tra il mondo dei kami e quello degli uomini non viene concepita soluzione di continuità e al loro rapporto dà espressione concreta il matsuri, cioè l'occasione festiva durante la quale si rende omaggio alle divinità ringraziandole per la protezione accordata. I dettagli dei riti officiati differiscono a seconda delle località, ma in essi è possibile individuare elementi strutturali comuni. La festa, innanzitutto, prescrive una condizione di purità rituale da parte dei partecipanti, ottenuta nel periodo di preparazione che precede l'evento. Il rito vero e proprio ha inizio nel tempo sacro della notte con la discesa del kami nel supporto temporaneo (yorishiro) dove esso albergherà nel corso della cerimonia: un oggetto naturale, come un albero, una roccia, ecc., un oggetto liturgico predisposto ad hoc (una colonna, delle strisce di carta, e così via), oppure la persona fisica di un individuo che lo rappresenta (in questo caso chiamato yorimashi). Alla divinità vengono quindi presentate offerte di cibo (mike, ora normalmente chiamate shinsen) e saké (miki) ed essa viene intrattenuta con canti e danze. A volte il kami esprime il suo volere per il tramite di un oracolo. Alla fine i partecipanti consumano il cibo in un banchetto comune con il quale termina il periodo in cui vigono le proibizioni volte ad assicurare la purità dell'assemblea.
Nella maggior parte dei casi il culto si articola in riti agricoli, legati alla coltivazione del riso, che scandiscono i momenti di trapasso stagionale: la richiesta di messi abbondanti all'inizio dell'anno, il lavoro dei campi in primavera, la preoccupazione per i danni provocati dai parassiti in estate, il ringraziamento per il raccolto in autunno. Tutte queste ricorrenze, che sono osservate tuttora nei santuari rurali, si trovano già codificate nel calendario rituale di corte delle Procedure dell'era Engi (Engishiki), entrate in vigore nel 967 ma compilate a partire dal 905. Il sistema prevedeva, inoltre, due occasioni di rinnovamento periodico, alla fine del sesto e del dodicesimo mese, e cerimonie di purificazione che dovevano liberare dalle impurità (kegare) derivate inconsapevolmente dal contatto con agenti contaminanti o da comportamenti impropri. Lo stretto collegamento tra attività di governo e pratica cultuale è dimostrato, infine, dai riti che consacravano religiosamente l'autorità dei sovrani. Il più rappresentativo è quello dell'ascesa al trono (daijōsai), che conferma all'inizio del regno il rapporto personale del sovrano con la divinità solare Amaterasu.
I siti in cui si tenevano questi riti di comunione con le divinità furono ben presto provvisti di strutture stabili. Nelle lingue europee li si chiama 'santuari' (jinja), per distinguerli in modo sistematico dai 'templi' o 'monasteri' (tera o jiin) buddhisti, anche se prima della metà del secolo scorso la norma era di vedere accoppiate le due istituzioni in un unico complesso di culto. Il santuario dei kami comprende di regola due padiglioni principali con destinazione funzionale diversa. L'uno, ora chiamato honden, serve a offrire alloggio alla divinità e viene aperto nelle occasioni rituali. L'altro, chiamato invece haiden, è il luogo dove hanno luogo tutte le pratiche cultuali. L'ingresso all'intero recinto sacro, che racchiude anche edifici minori (il padiglione dove vengono preparate le offerte di cibo o mikeden, la vasca con l'acqua per il lavacro purificatore dei visitatori, ecc.), viene segnalato da un semplice portale in legno detto torii, più simbolico che funzionale. I santuari conservano il caratteristico tetto di paglia dell'architettura indigena, tramandandone i tratti arcaici riconducibili al prototipo del magazzino, nel caso del tempio di Ise, e a quello della casa di abitazione nel caso di quello di Izumo.
Le funzioni sacerdotali nell'antichità erano accoppiate ai più alti livelli a quelle di governo della comunità. Non solo il sovrano aveva tra i suoi compiti quello di stabilire un rapporto favorevole con i kami dell'universo o con un kami che, nella gerarchia divina codificata mitologicamente, corrispondesse alla sua funzione nel regno, ma anche i governatori provinciali nell'assumere il loro incarico facevano innanzitutto visita ai santuari locali e officiavano i riti in onore dei kami. Nei grandi centri di culto tuttavia si sono costituite famiglie sacerdotali che si trasmettevano ereditariamente la carica insieme alle prescrizioni per l'ufficio dei riti, finché, in epoca moderna, è stato definito lo status di sacerdote shintō (shinshoku), che però conserva nomi diversi a seconda della tradizione locale.
Nello shintoismo, in generale, la parola scritta ha una funzione irrilevante ai fini della partecipazione del singolo alla vita religiosa. Anche il culto non prevede l'uso di testi, ma dalla fine del XV secolo è stato riconosciuto un posto nella liturgia, a imitazione delle scritture buddhiste, al Kojiki e al Nihon shoki (o Nihongi), due opere compilate nell'VIII secolo per decreto imperiale. Completate rispettivamente nel 712 e nel 720, contengono in forma mitica la storia delle origini del cosmo e della nazione giapponese. Il Kojiki, in particolare, riflette la volontà di fondere insieme le tradizioni orali sulle origini divine delle famiglie principesche in un affresco globale in cui il sovrano trova la sua legittimità nel vantare discendenza dalla dea Amaterasu, considerata l'entità divina suprema. Alle vicende mitologiche si è fatto ricorso per spiegare le origini di culti e pratiche rituali, pur se una minima parte delle divinità venerate nei santuari deriva dal pantheon che compare in questi due testi. Essi rimangono comunque fonti preziose per ricostruire la concezione dell'uomo, del cosmo, della sovranità e della divinità nel Giappone antico.
Nei santuari shintō non si notano raffigurazioni delle divinità. Ciò è dovuto al movimento di restaurazione della cultura religiosa antica riflesso nella politica governativa che, a partire dal 1868, ha voluto eliminare qualsiasi influenza buddhista nel culto dei kami. Infatti la tradizione iconografica shintō nacque verso la fine dell'VIII secolo dietro lo stimolo della varietà multiforme della sua controparte buddhista. Si trattava di statue che dovevano evocare, nascoste nei sacelli dei santuari, la presenza numinosa del dio. Quando non adottavano fogge riconducibili direttamente al buddhismo, gli scultori immaginavano i kami come nobili principi o principesse abbigliati con i costumi di corte. Sempre nell'ambito di questa cultura sincretica, a partire dall'epoca tardo-medievale si sono diffuse rappresentazioni pittoriche delle divinità e dei maggiori luoghi di culto (sankei mandara), usate anche dai predicatori itineranti che in quell'epoca ne diffondevano la devozione al di là dei confini dell'ambiente locale.
Le caratteristiche di fede individuale, di adesione volontaristica, tipiche di alcune tradizioni settarie di ispirazione buddhista sono deboli o inesistenti nella religione shintoista. La partecipazione al culto è un mandato obbligatorio derivato dall'appartenenza alla comunità in cui l'individuo è nato. L'unità territoriale è l'ujiko, composta di famiglie che hanno diritti e obblighi cultuali nei confronti della divinità tutelare del luogo (ujigami). La componente laica nella gestione del ciclo rituale è, in questo senso, molto forte, dato che esso è in mano alla comunità più che ai sacerdoti. Soprattutto nel Giappone occidentale, il culto era organizzato da associazioni esclusive chiamate miyaza, composte dalle famiglie di maggior prestigio, ma il diritto alla conduzione dei riti è andato man mano allargandosi nel corso del tempo all'intero villaggio o quartiere.
Dal secolo scorso, tuttavia, il rapporto che lega l'individuo alle istituzioni religiose è in parte mutato coinvolgendo anche i santuari shintō. L'affiliazione religiosa è diventata in molti casi motivata in senso 'clientelare', per usare l'efficace espressione di W. Davis, il quale definisce 'clienti' di un santuario coloro che intrattengono con esso un rapporto del tutto transitorio e occasionale. Un esempio di associazione clientelare sono le visite compiute il giorno di capodanno da moltitudini di persone a santuari particolarmente conosciuti, come il Meiji di Tokyo. In quanto clienti, a questi individui manca il legame devozionale con l'istituzione che hanno gli ujiko con lo ujigami. Sono, in sostanza, pellegrini instabili. Anche se il pellegrinaggio e il tipo di associazione momentanea che esso comporta hanno in Giappone radici antiche, la nascita di queste masse instabili è un fenomeno dovuto all'atomizzazione della popolazione urbana e alla conseguente secolarizzazione della comunità tradizionale.
Le notevoli trasformazioni delle figure divine, delle forme di devozione, dei contesti istituzionali e dei modi di aggregazione religiosa impediscono di guardare allo shintō come a una realtà identica nel corso del tempo. Una breve panoramica del suo sviluppo storico è quindi necessaria al fine di individuare linee di continuità e punti di rottura nei paradigmi dominanti.
Gli scavi archeologici ci hanno restituito tracce di siti cultuali risalenti già al IV secolo d.C. nei luoghi in cui sorgevano santuari in epoca storica. D'altronde la nascita delle prime formazioni statali tra il III e il V secolo è strettamente legata ad aree sacre, come si può vedere dalla distribuzione dei sepolcri monumentali (kofun). Le divinità via via venerate sono anche in questo caso quelle di centri di culto la cui importanza continua ancora oggi: il santuario dedicato al kami del Monte Miwa, nel periodo più antico; quello di Isonokami, dagli stretti legami con clan di guerrieri; quello di Sumiyoshi, collegato probabilmente alle divinità del mare e del ferro, proveniente, per via d'acqua, dal continente. Nei sepolcri dei grandi capitani già da quest'epoca troviamo gli strumenti liturgici propri del culto officiato dal sovrano-sacerdote: la spada, lo specchio, la gemma ricurva detta magatama. Gli stessi oggetti sono rimasti nei secoli gli emblemi regali del sovrano giapponese.
La povertà di fonti impedisce di ricostruire nel dettaglio la mappa delle forme cultuali indigene dei primi secoli, anche se appare chiaro che l'apporto esterno non deve essere stato trascurabile. A partire dal VII secolo esse subirono un processo di sistematizzazione parallelo all'organizzazione amministrativa sul modello burocratico cinese, cui fu sottoposta l'intera società. L'esempio cinese, in effetti, ebbe un forte valore normativo nella riformulazione della religione tradizionale. A questo contesto risale la più antica testimonianza del termine shintō nel Nihon shoki (720). Il culto dei kami viene qui contrapposto a quello buddhista, con un vocabolo preso a prestito in modo occasionale dalla terminologia religiosa cinese, spesso sbrigativamente definita 'taoista'.
Dal punto di vista istituzionale il governo dei riti religiosi assume una forma definitiva durante i regni dei sovrani Tenmu e Jitō (672-697) e la devozione verso le divinità indigene viene indicata in modo sempre più cosciente contrapponendola a quella per i buddha, che in quegli anni penetrava sempre più profondamente in tutti gli strati della società giapponese. Tenmu emerge vittorioso dalle battaglie che lo porteranno sul trono grazie all'assistenza della dea Amaterasu. Al suo regno la tradizione fa risalire la raccolta del materiale mitico relativo ai kami, 'corretto' e fatto memorizzare per sfociare qualche decennio più tardi nel Kojiki. La codificazione dei riti riceve grande attenzione. Tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo gli affari religiosi erano affidati a un 'Ufficio per le Divinità del Cielo e della Terra' (Jingikan), di cui abbiamo una descrizione puntuale nel codice legale dell'era Yōrō (757), il quale ricalcava codici in vigore a partire dal 689. La funzione 'liturgica' dell'attività di governo è ben chiara nelle prescrizioni relative all'esecuzione dei riti stagionali a corte e di altri connessi a eventi eccezionali, come le carestie o l'ascesa al trono di un sovrano. Sono previste anche le proibizioni da osservare per assicurare a chi officia il rito la purità necessaria, individuando come agenti contaminanti, tra gli altri, la morte, la malattia, il sangue. Da esse deriva la tendenziale estraneità dei sacerdoti shintō ai riti funebri, che presto divennero il dominio, nella religione giapponese, dei monaci buddhisti. I riti dovevano essere celebrati, al centro come alla periferia, con la distribuzione delle sacre offerte (hakuhei) da parte della corte imperiale ai sacerdoti di una lunga serie di santuari disseminati nelle provincie, di cui, già per quest'epoca, possediamo un elenco dettagliato. La sua complessità assicurò a tale sistema centralizzato una vita assai breve e già nel IX secolo divenne sempre più difficile far compiere il viaggio fino alla capitale ai sacerdoti che risiedevano nelle aree più lontane.
Il trapasso verso uno shintō medievale coincide con il X secolo. Nuove forme di devozione, innanzitutto, attribuiscono alle divinità caratteristiche diverse. Dall'incontro dei monaci buddhisti con i culti locali, ad esempio, nasce l'idea, d'ora in poi corrente, che i kami siano 'tracce visibili' di un"essenza originaria' (honji) di buddha o bodhisattva. Quelli considerati più potenti hanno una decisa mobilità e travalicano l'ambito locale grazie al popolare concetto di 'invito' (kanjō). Santuari dedicati allo stesso culto, di conseguenza, si trovano in più luoghi. A quest'epoca risalgono molti di quelli tuttora più diffusi su scala nazionale, in special modo i quattro filoni di Inari, Tenjin (o Kitano), Ise e Hachiman, a cui appartengono ben due terzi dei santuari attuali. Il culto di Inari, dal santuario omonimo alla periferia di Kyoto, è incentrato su un sistema divino dedicato in origine alla fecondità, ma che presto assume funzioni onnicomprensive. L'origine di Tenjin, invece, affonda le radici nel timore degli spiriti dei morti, una vera e propria fobia che attraversò la società del X secolo a tutti i livelli. Nella fattispecie si tentò di pacificare, divinizzandolo, il terribile spirito del ministro-letterato Sugawara no Michizane, morto in disgrazia nel 903. Dal santuario di Kitano Tenmangu, sempre a Kyoto, il culto passò in quasi tutte le provincie, con funzioni anche qui polivalenti, che vanno dal controllo dei fenomeni atmosferici a una generica protezione della comunità, all'ispirazione delle arti e delle lettere. Anche il culto di Amaterasu, nell'antichità riservato al solo sovrano, da Ise si diffonde altrove. In questo caso, però, ciò non fu dovuto al trasferimento di 'succursali' del santuario, ma avvenne grazie ai cosiddetti oshi (maestri), sacerdoti che giravano per ogni dove incoraggiando visite al santuario, facendo da guida ai pellegrini e fornendo loro alloggio. Ben più evidente, infine, è la commistione di elementi di origine buddhista nella devozione per Hachiman, una divinità dalle origini incerte, originaria dell'isola meridionale di Kyushu e trasferita a Nara e quindi a Kyoto. Il suo culto viene messo quasi subito in relazione con l'emergente ceto guerriero, anche per essere stata scelta come nume tutelare del clan dei Minamoto.
Le nuove forme religiose trovarono un loro modo d'essere anche nella celebrazione di riti propiziatori strettamente legati alla prosperità del regno, indirizzati non solo ai kami ma anche ai buddha e bodhisattva presenti all'interno del complesso sacro. Tra il X e l'XI secolo, epoca del dominio incontrastato del clan dei Fujiwara, la corte imperiale individuò infatti una serie di ventidue santuari, con annesso tempio buddhista (Ise, Iwashimizu, Kamo, Matsunoo, Hirano, Inari, Kasuga, Ōharano, Ōmiwa, Isonokami, Ōyamato, Hirose, Tatsuta, Sumiyoshi, Hie, Umenomiya, Yoshida, Hirota, Gion, Kitano, Niukawakami, Kifune), a cui fu trasferito il compito di osservare il ciclo rituale annuale, una volta di competenza esclusiva dei ritualisti di corte. Si venne così a creare una nuova gerarchia di siti cultuali che, insieme a santuari di antica tradizione, comprendeva centri religiosi di recente popolarità collegati alla devozione personale dei sovrani.
Verso la fine del periodo medievale appare una speculazione dottrinaria che a poco a poco fornisce le basi teoriche per considerare lo shintō una tradizione autonoma rispetto al buddhismo. A tal fine fu importante il ruolo svolto dalla famiglia sacerdotale del santuario di Ise, i Watarai (da qui il nome di Watarai shintō) e dai cosiddetti Cinque scritti sullo shintō (Shintō gobusho) da essi prodotti. Nella concettualizzazione questi scritti tradiscono ancora un forte debito intellettuale nei confronti della Cina e del buddhismo, e in particolare si nota un'attenzione più articolata e cosciente alla condizione di purità individuale di chi celebra o partecipa al rito in onore dei kami. Il loro culto, peraltro, trova rinnovata autorità grazie all'idea, diffusa proprio in questo periodo, del Giappone come regno dei kami (shinkoku), cui infonde vigore la sconfitta delle armate mongole (1274 e 1281) attribuita proprio all'intervento delle potenze divine in forma di tempesta. Successivamente la speculazione dottrinaria si lega alla popolarizzazione dei culti nella figura di Yoshida Kanetomo (1435-1511), della famiglia sacerdotale dell'omonimo santuario di Kyoto. Dei riti ancestrali, abbandonati dalla corte a causa delle rovinose guerre che infiammano la capitale verso la fine del XV secolo, egli si appropria come leader di un movimento religioso che reclama la trasmissione esclusiva e segreta di dottrina e rituali. Nel trapasso verso l'epoca moderna lo shintō adotta forme che in effetti devono molto alla predicazione individuale di Kanetomo. A lui si fa risalire, tra le altre cose, l'inizio della divinizzazione come kami dei governanti defunti (Toyotomi Hideyoshi, Tokugawa Yeyasu), un culto post mortem che prevede la costruzione di santuari-mausoleo in contrasto con la tradizione che vedeva la morte come agente contaminante.
Con l'inizio del dominio dei Tokugawa, nel XVII secolo, un nuovo assetto istituzionale emerge dalla ricostruzione della società dopo le distruzioni delle guerre precedenti. Anche dal punto di vista dell'amministrazione religiosa, il governo shogunale (bakufu) fissò in modo autonomo regole generali riguardanti i doveri dei sacerdoti shintō e le proprietà dei santuari. Il controllo di questi fu affidato a un ufficio chiamato Jisha bugyō, che in realtà non si prendeva cura solo delle attività religiose, ma di tutte quelle che avevano luogo all'interno dei centri di culto, compresi svaghi popolari come il gioco del go o i certami poetici detti renga. Tuttavia nella società Tokugawa veniva in qualche modo negato spazio allo shintō dal sistema (terauke) che obbligava i sudditi ad avere un rapporto esclusivo con le istituzioni buddhiste locali, registrando se stessi e i propri familiari in un tempio buddhista (tera). La misura, dettata in un primo momento dalla necessità di individuare eventuali sostenitori nascosti della religione cristiana, finì per demandare alle sole istituzioni buddhiste il controllo sulla popolazione.
Se si pensa che questi secoli sono anche quelli in cui si sviluppano correnti intellettuali volte a riaffermare la tradizione autoctona, è facile intuire come la situazione appena descritta fosse fonte di tensioni durante tutto il periodo. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento il numero dei sacerdoti shintō che vogliono evadere dal sistema si fa sempre maggiore. All'interno dei singoli feudi, d'altronde, la diffusione di un pensiero ostile al buddhismo fa prendere ad alcuni signori misure drastiche, in contrasto con le linee generali della politica religiosa dei Tokugawa. Nei domini di Mito, Aizu e Okayama, ad esempio, si finì per permettere la presenza di un unico santuario per villaggio, imponendo una rigida separazione dei culti dei kami e dei buddha (shinbutsu bunri). Più di tutti è forse caratteristico il caso di Okayama, dove la quasi totalità della popolazione venne forzatamente costretta alla devozione dei kami e ad adottare rituali shintō anche per i funerali. Sono episodi che costituirono precedenti importanti per le analoghe misure prese dal primo governo Meiji nel XIX secolo.
Anche il reclutamento del clero viene sistematizzato in quest'epoca, stabilendo definitivamente l'ereditarietà delle cariche nelle mani delle due grandi famiglie sacerdotali degli Yoshida e degli Shirakawa. Gli Yoshida, in particolare, si sostituirono nella sostanza alla corte per il coordinamento dei santuari sparsi sull'intero territorio. Godendo dell'appoggio ufficiale del bakufu, essi avevano uffici di rappresentanza nei grandi centri urbani di Edo e Ōsaka e una rete di funzionari responsabili per le singole provincie alle loro dipendenze. Gli Yoshida avevano anche il potere di rilasciare l'autorizzazione all'esercizio delle funzioni sacerdotali. A Kyoto essi offrivano alloggio e istruzione nelle loro mansioni ai sacerdoti delle provincie. Se il sostegno dei Tokugawa sanciva l'autorità degli Yoshida, la corte era rappresentata dalla famiglia sacerdotale degli Shirakawa, eredi della tradizione rituale precedente. Essi tentarono di opporsi al potere degli Yoshida allargando l'ambito delle loro competenze, limitate in origine a pochi santuari, girando per i villaggi delle regioni di Nara e Kyoto e compilando repertori dottrinari.
La riflessione intellettuale è una caratteristica di questi secoli di prolungata pace sociale. Alla teorizzazione del sincretismo shinto-buddhista subentrarono innanzitutto interpretazioni dello shintō in chiave confuciana, visto che il neoconfucianesimo, una delle ideologie dominanti, offriva un vocabolario 'filosofico' del quale finirono per servirsi un po' tutti. Nell'interpretazione dello shintō in quest'ottica ebbe un suo ruolo la tradizione confuciana della polemica antibuddhista, insieme alla convinzione che le virtù confuciane di lealtà al sovrano potevano essere lette, nel contesto culturale giapponese, come un invito a seguire il culto religioso autoctono, inestricabilmente legato, almeno nell'antichità, all'autorità dei sovrani. Figure come Fujiwara Seika (1561-1619) e Hayashi Razan (1583-1657), insieme, ma in forma diversa, a Yamazaki Ansai (1618-1682), sono le più rappresentative di tale tendenza. Tuttavia è l'interpretazione dello shintō legata alla cosiddetta corrente degli 'studi nazionali' (kokugaku) a divenire dominante per la ridefinizione totale dell'universo religioso che la restaurazione Meiji del 1868 indurrà. Tale movimento di idee fa capo a Motoori Norinaga e ai suoi predecessori, condotti a riflessioni anche di carattere religioso da un più generale vagheggiamento estetico-letterario di un'epoca delle origini in cui lo spirito giapponese non era contaminato da sensibilità cinesi. Questa corrente rigettava ogni accostamento del culto indigeno dei kami al confucianesimo o al buddhismo. La speculazione di Norinaga si basava, in modo innovativo, sul Kojiki, predicando l'onnipresenza delle divinità e dando importanza alla figura del dio Takamimusubi come generatore del mondo fenomenico. Le sue idee di fondo furono accolte da Hirata Atsutane (1776-1843), colui che più ha contribuito a trasformare gli 'studi nazionali' da movimento estetico in fonte di attivismo sociale. Atsutane arricchisce il panorama elaborato da Norinaga di nuove prospettive cosmologiche ed escatologiche, cui non dovettero essere estranee le sue frequentazioni di testi occidentali.
La restaurazione del potere imperiale del 1868 ebbe un'influenza determinante sul modo in cui venne organizzata la vita religiosa. In molti campi questa coincise con un rinnovamento che finì per tagliare i ponti con il passato più di quanto a prima vista si potrebbe pensare. Per lo shintō ciò avvenne sia nelle istituzioni che nel culto. Anzi, si potrebbe addirittura dire che lo shintoismo, in quanto complesso dottrinario teorizzato e istituzionalizzato, abbia origine dagli editti di 'separazione tra kami e buddha' (shinbutsu bunri) promulgati allora. Per effetto di essi venne a cessare, non senza forzature e opposizioni violente, quella commistione di elementi riconducibili rispettivamente al buddhismo e al culto autoctono dei kami presente a tutti i livelli nei luoghi di devozione.
Accanto a queste misure, la restaurazione in varie riprese dell'istituto del Jingikan (il già citato Ufficio per le Divinità del Cielo e della Terra) significò un ritorno formale all'antico. Insieme alla diffusione di riti funebri shintō, essa era stata vista come un elemento chiave per il recupero delle istituzioni puramente 'giapponesi' predicato con sempre maggiore insistenza dal XVIII secolo in poi, con l'idea di assicurare di nuovo allo Stato la gestione della prassi rituale ortodossa. Tuttavia la mutata situazione culturale, con le prime avvisaglie di un'invasione missionaria cristiana, fece sentire come altrettanto importante l'esigenza di predicare una 'dottrina'. Questa funzione propagandistica, in cui temi religiosi si mischiavano alle parole d'ordine dei grandi miti 'civili' del Giappone di quegli anni, fu in effetti per un breve periodo demandata a un clero composito alle dipendenze dirette dello Stato. Dal 1872 venne rielaborato e sistematizzato il complesso dei riti che dovevano essere compiuti in occasioni periodiche sia alla corte che nei santuari locali. Prese forma in questo modo ciò che gli storici giapponesi chiamano lo 'shintō di Stato' (kokka shintō). A esso, grazie anche alla diffusione di una concezione della religione modellata sulla tradizione monoteistica europea, venne ben presto negata la qualifica stessa di religione, in nome, paradossalmente, della libertà di culto, e fino al 1945 la cura dei riti shintō venne considerata un aspetto dell'amministrazione civile.
Parallelamente, all'insegna della razionalizzazione e dell'efficienza, vennero assestati poderosi colpi all'assetto tradizionale del clero. Si pose fine, tra l'altro, alla gestione ereditaria dei santuari da parte delle famiglie sacerdotali, che appariva in contrasto con la tradizione più antica. Scomparve così, in breve tempo, l'eredità delle conoscenze tecniche dell'ufficio rituale, e ciò causò spesso anche la scomparsa della prassi religiosa tradizionale, sostituita da elaborazioni studiate a tavolino con lo scopo di ricercare antichi rituali o di adattarli alle esigenze moderne. Per altro verso i santuari, dipendendo anche economicamente dallo Stato, furono sottoposti a misure che ne limitarono l'autonomia. Prima tra tutti, nel 1872, la confisca delle terre di cui erano proprietari, tranne il terreno posto all'interno del perimetro sacro. Questi tentativi di razionalizzazione culminarono nella grande campagna che portò all'eliminazione fisica di molti di essi tra il 1906 e il 1912.
Se nel mondo dei santuari venne confinata una prassi rituale gestita e controllata dallo Stato, la propaganda della dottrina religiosa rimase invece, alla fine, dominio di un gruppo di movimenti settari, anch'essi riconosciuti in modo ufficiale come 'shintō delle sette' (kyōha shintō). Nel 1899 si trattava di 13 organizzazioni che, nella maggior parte dei casi, avevano origine dagli insegnamenti predicati nelle campagne da figure carismatiche vissute verso la fine del periodo dei Tokugawa (Kurozumi-kyō, Tenri-kyō, Konkō-kyō), o dal culto delle montagne, popolare in associazioni laiche dello stesso periodo (Fuji-kyō, Ontake-kyō). L'attribuzione della qualifica di shintō, peraltro, significava in molti casi solo la possibilità di godere di un riconoscimento ufficiale, dato che il rapporto con il culto dei kami di tradizione più antica era a volte effettivamente assai labile. Queste sette rappresentano i primi esempi di quei movimenti religiosi di massa dalle caratteristiche eterogenee che hanno costellato in Giappone la storia di questo secolo, crescendo in modo incontrollabile nel secondo dopoguerra.
La posizione dello shintō come religione di Stato venne meno nel 1945, con un decreto varato dalle autorità di occupazione americane che impose la cessazione del sostegno economico ai santuari e della partecipazione diretta dell'imperatore a riti che avessero un aspetto 'pubblico'. Questo decreto rimase in vigore fino alla stipula del Trattato di pace del 1952 ed ebbe influenza decisiva sulla successiva normativa in materia religiosa. Sulla base del principio della separazione tra Stato e affari religiosi e dell'eguaglianza di tutti i credo religiosi di fronte allo Stato, venivano elencate una serie di proibizioni, peraltro non sempre logicamente coerenti. Si tese soprattutto a estirpare tutte le manifestazioni dello shintō di Stato vietandone la diffusione nell'istruzione a tutti i livelli, vietando le visite ai santuari da parte dei funzionari dello Stato o la presenza dell'altare dei kami (kamidana) negli uffici pubblici. La politica religiosa delle forze di occupazione trovò la sua applicazione, a partire dal 1946, nelle ordinanze emesse dal nuovo governo giapponese. Un occhio di particolare riguardo fu riservato ai riti di corte e ai rituali funebri sulle tombe degli imperatori defunti, che, a parte alterazioni minori, si continuarono a officiare come in passato. Si vollero estirpare, invece, usanze ormai radicate nella società e giudicate ideologicamente pericolose. Così, all'inizio, fu proibito agli scolari delle scuole pubbliche di visitare templi o santuari durante le gite scolastiche, furono vietati la raccolta di fondi per il santuario da parte delle associazioni di quartiere negli ambienti urbani, le cerimonie religiose volte a pacificare le divinità del suolo in occasione della costruzione di edifici pubblici, funerali o commemorazioni pubbliche per i caduti in guerra, monumenti o stele commemorative per i medesimi. La protesta che seguì portò, però, a un'assai maggiore elasticità nell'applicazione di questo genere di provvedimenti a partire grosso modo dal 1949. La separazione tra Stato e religione ha innescato polemiche che hanno costellato la storia del dopoguerra, non ultima quella relativa alla cerimonia per l'ascesa al trono dell'attuale imperatore.
In seguito a questi mutamenti le migliaia di santuari sparsi sul territorio crearono un organismo centralizzato, il Jinja honchō o 'Agenzia Centrale per i Santuari dei Kami', che serve all'amministrazione dei luoghi di culto. L'idea iniziale era di modellare lo shintō sulle altre religioni, in particolare ci si voleva ispirare alla concezione della 'Chiesa' o delle 'Chiese' cristiane. L'agenzia avrebbe quindi dovuto nominare un responsabile dell'ortodossia dottrinale e avrebbe avuto il potere di nominare i sacerdoti oltre un certo grado della gerarchia religiosa. Ciò tuttavia cozzava in modo troppo evidente con la natura tradizionale del culto locale. Perciò si finì per adottare la formula della 'federazione' dei santuari concepiti come organismi indipendenti. Ora lo shintō interviene sempre di più nei momenti privati della vita degli individui, pur se in modo del tutto occasionale. L'evento tipico che richiede la presenza del sacerdote shintō è il matrimonio, una cerimonia nata all'inizio di questo secolo a imitazione dell'analogo sacramento cristiano. Grazie a queste attività le istituzioni shintō hanno raggiunto una prosperità di certo non inferiore a quella che godevano nella prima metà del secolo.
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